La responsabilità del blogger per i commenti diffamatori

Corte di Cassazione, sezione quinta penale, Sentenza 20 marzo 2019, n. 12546.

La massima estrapolata:

La responsabilità del blogger per i commenti diffamatori postati da utenti della rete e non rimossi nonostante la segnalazione è di natura concorsuale.

Sentenza 20 marzo 2019, n. 12546

Data udienza 8 novembre 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VESSICHELLI Maria – Presidente

Dott. MORELLI Francesca – Consigliere

Dott. MICCOLI Grazia – rel. Consigliere

Dott. SETTEMBRE Antonio – Consigliere

Dott. CAPUTO Angelo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 05/09/2017 della CORTE APPELLO di MESSINA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere GRAZIA MICCOLI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FRANCESCO SALZANO che ha concluso chiedendo;
Il Proc. Gen. conclude per il rigetto del ricorso.
L’avvocato (OMISSIS), in difesa di (OMISSIS), parte civile, dopo breve dibattimento, chiede la conferma del provvedimento impugnato dal ricorrente e deposita conclusioni scritte e nota spese delle quali chiede la liquidazione.
L’avvocato (OMISSIS), in difesa di (OMISSIS), si riporta al ricorso chiedendone l’accoglimento.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza del 5 aprile 2017 la Corte di Appello di Messina ha confermato la pronuncia del Tribunale di Patti, con la quale era stata affermata la responsabilita’ penale di (OMISSIS) per il reato di diffamazione aggravata ai sensi dell’articolo 595 c.p., comma 3.
2. L’aggravante di cui all’articolo 595 c.p., comma 3 era da riferire all’utilizzo, al fine di commettere il delitto, di un blog gestito dall’imputato, in cui venivano pubblicate espressioni di carattere diffamatorio in danno di (OMISSIS), provenienti sia dall’imputato medesimo che da soggetti terzi.
2.1. In particolare, l’imputato, scrivendo l’espressione “non offendere i porci” sul blog da lui gestito, rivolgendosi a tale (OMISSIS) (citata dall’ (OMISSIS) in una lettera aperta da lui redatta e pubblicata dall’ (OMISSIS) sul suo blog) ledeva – secondo l’impostazione accusatoria, confermata dal giudice di primo grado e da quello di appello – la reputazione di (OMISSIS).
In aggiunta l’imputato non provvedeva alla rimozione di commenti altrettanto diffamatori provenienti da utenti anonimi.
2.2. Secondo la Corte territoriale non sussiste alcun dubbio circa la riconducibilita’ di un blog all’interno della categoria “mezzo di pubblicita’” menzionato, alternativamente al mezzo della stampa, nell’articolo 595 c.p., comma 3.
A sostegno del proprio assunto il giudice di appello richiama la recente giurisprudenza di legittimita’, secondo cui rientrano nella suddetta categoria tutti quei sistemi di comunicazione e, quindi, di diffusione che, grazie all’evoluzione tecnologica, rendono possibile la trasmissione di dati e notizie ad un numero ampio o addirittura indeterminato di soggetti.
3. Avverso tale pronunzia l’imputato, per mezzo del proprio difensore, propone ricorso per cassazione, articolato in due motivi.
3.1. Con il primo si deduce violazione di legge e, conseguentemente, nullita’ della sentenza di appello.
Viene menzionata, a tal fine, la disciplina degli “internet provider”, ritenuta dal difensore del ricorrente estensibile agli amministratori di blog, la quale richiede, ai fini della responsabilita’ del provider, una conoscenza del dato illecito non gia’ semplice bensi’ qualificata, proveniente cioe’ da una pubblica amministrazione, dal pubblico ministero o dal giudice, che ne chiedano la rimozione.
Si sostiene nel ricorso che l’imputato, non appena intimato dall’autorita’ giudiziaria, avrebbe provveduto all’immediata cancellazione dei commenti denigratori pubblicati sul blog, sicche’ l’affermazione della penale responsabilita’ del gestore del blog per aver mantenuto i commenti offensivi poggia esclusivamente sulla posizione apicale dallo stesso rivestita, integrando cosi’ un’ipotesi di responsabilita’ di posizione costituzionalmente illegittima, in potenziale conflitto anche con taluni recenti approdi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
3.2. Con il secondo motivo si censura la manifesta illogicita’ e la mancanza di motivazione in ordine all’esclusione dell’elemento psicologico del reato.
Il giudice di appello, anziche’ provvedere concretamente a evidenziare la prova del dolo, lo desume sulla base dell’intrinseca idoneita’ lesiva dei contenuti pubblicati tramite il blog gestito dall’imputato e sul dato oggettivo della stessa pubblicazione, da cui si ricava l’intenzione lesiva dell’ (OMISSIS).
Per di piu’, nella sentenza appellata non compare alcun riferimento ad una responsabilita’ per culpa in vigilando di cui all’articolo 57 c.p., e neppure si e’ tentato di ricostruire la vicenda processuale secondo lo schema del concorso omissivo nel reato commissivo degli utenti terzi o di una responsabilita’ omissiva di carattere improprio. Anche una tale ricostruzione – ad avviso della parte ricorrente – sarebbe preclusa, non essendo previsto dal nostro ordinamento giuridico un obbligo giuridico di impedire l’evento e, dunque, una posizione di garanzia in capo all’amministratore di un blog.
Pur volendo ritenere sussistente una responsabilita’ per culpa in vigilando del blogger, essa dovrebbe essere espressamente prevista dalla legge, pena la violazione del divieto di analogia in malam partem.
Dalla sentenza in relazione alla quale e’ stato proposto il presente ricorso neppure si evince alcun richiamo al concorso morale commissivo, in astratto ipotizzabile attraverso la dimostrazione della volizione della pubblicazione, coscienza della relativa lesivita’ e, pertanto, della aggressione all’altrui reputazione. Requisiti, questi, del tutto ignorati dal giudice di appello.
Inoltre, la motivazione non risulta adeguata neppure per quanto concerne il dolo in relazione all’espressione “non offendere i porci”, utilizzata dall’odierno ricorrente per placare l’animo della (OMISSIS) e non per offendere l’ (OMISSIS).
4. La parte civile (OMISSIS), tramite il suo difensore – procuratore speciale, ha depositato in data 25 ottobre 2018 una memoria, con la quale e’ stato richiesto il rigetto del ricorso e la condanna al pagamento delle spese sostenute.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso e’ infondato.
1. E’ necessario, prima di passare all’esame dei motivi di ricorso, fare delle puntualizzazioni in ordine alla vicenda in relazione alla quale e’ stata formulata l’accusa di diffamazione e, quindi, ai fatti come ricostruiti dai giudici di merito.
L’imputato ha pubblicato sul suo blog in data 8 agosto 2011 una copia di una lettera “aperta” a firma di (OMISSIS) ed indirizzata al sindaco, agli assessori e agli esponenti del consiglio comunale di (OMISSIS), intitolando la pubblicazione con la seguente espressione: “L’intrigante (OMISSIS)”.
Nella lettera l’ (OMISSIS) aveva dato atto anche di un suo contrasto con tale (OMISSIS); durante tale contrasto la (OMISSIS) lo aveva offeso, appellandolo come “PORCO”.
Dopo la lettera l’ (OMISSIS) ha postato un suo commento nei seguenti termini: “Complimenti a (OMISSIS). Dalla sua lettera aperta si deduce ogni aspetto della sua vasta cultura e del suo inesauribile totale impegno a vantaggio di (OMISSIS). A (OMISSIS) un ammonimento: NON OFFENDERE I PORCI.”.
Di seguito a tale nota dell’ (OMISSIS) sono stati scritti da utenti anonimi una serie di commenti (come specificamente indicati nel capo di imputazione) pesantemente offensivi all’indirizzo dell’ (OMISSIS), che – cosi’ come asserito anche dallo stesso ricorrente – sono stati rimossi in seguito a intimazione della autorita’ giudiziaria.
Dalla memoria della parte civile si evince che tale rimozione e’ avvenuta nel maggio del 2014 e, peraltro, solo in seguito all’intervento del provider Google, che ha oscurato la pagina web.
2. Fatte queste necessarie precisazioni sull’oggetto dell’imputazione, va confutato l’assunto difensivo secondo il quale la disciplina degli “internet providers” sia estensibile tout court agli amministratori di blog.
2.1. Va premesso che con la diffusione di internet e quindi con l’aumento esponenziale delle occasioni di connessione e condivisione in rete, si e’ posto il problema della previsione normativa di fattispecie che prevedano un sistema sanzionatorio finalizzato ad arginare il fenomeno della graduale crescita degli illeciti commessi dagli internauti. La casistica di illeciti e’ variegata e, in ragione della iperbolica amplificazione del sistema, crea forti problematiche di tipizzazione: domain grabbing, furti di identita’, cyberbullismo, diffamazione a mezzo internet, accesso abusivo a reti informatiche, pedopornografia, crypto-Locker e numerosi altri fenomeni ancora caratterizzano l’uso illecito del web.
In particolare, le condotte di diffamazione sono state facilitate dalla possibilita’ di un numero esponenziale degli utenti della rete internet di esprimere giudizi su tutti gli argomenti trattati, per cui alla schiera di “opinionisti social” spesso si associano i cosiddetti “odiatori sul web”, che non esitano – spesso dietro l’anonimato- ad esprimere giudizi con eloquio volgare ed offensivo. Questa Corte e’ intervenuta quindi frequentemente in materia, precisando, per esempio, che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’articolo 595 c.p., comma 3, sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicita’” diverso dalla stampa, poiche’ la condotta in tal modo realizzata e’ potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non puo’ dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attivita’ di informazione professionale diretta al pubblico (Sez. 5, n. 4873 del 14/11/2016, P.M. in proc. Manduca, Rv. 26909001).
2.2. Incontroversa dunque la configurabilita’ in capo al soggetto che immette il commento diffamatorio in rete ai sensi dell’articolo 595 c.p., piu’ problematico e’ il tema della responsabilita’ dei fornitori di servizi informatici ovvero degli Internet Provider Service.
Va ovviamente chiarito che anche i providers rispondono degli illeciti posti in essere in prima persona; cosi’, il c.d. content provider, ossia il provider che fornisce contenuti, risponde direttamente per eventuali illeciti perpetrati con la diffusione dei medesimi. Il vero problema della responsabilita’ del provider riguarda invece il caso in cui questo debba rispondere del fatto illecito altrui, posto in essere avvalendosi delle infrastrutture di comunicazione del network provider, del server dell’access provider, del sito creato sul server dell’host provider, dei servizi dei service provider o delle pagine memorizzate temporaneamente dai cache-providers.
La normativa di riferimento e’ contenuta nel decreto legislativo del 9 aprile 2003 n. 70, emanato in attuazione della Direttiva Europea sul commercio elettronico 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici della societa’ dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico. L’articolo 7 di tale direttiva definisce gli “internet service providers” quali “fornitori di servizi in internet”.
Inoltre, l’articolo 2 del citato decreto legislativo chiarisce che per “servizi della societa’ dell’informazione” si intendono le attivita’ economiche svolte in linea – on line – nonche’ i servizi indicati dalla L. n. 317 del 1986, articolo 1, comma 1, lettera b, cioe’ qualunque servizio di regola retribuito, a distanza, in via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi. Tra queste prestazioni rientrano, a titolo esemplificativo, la fornitura dell’accesso ad internet e a caselle di posta elettronica.
E’ stata quindi sancita l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza ex ante per i providers. Infatti, l’articolo 15 della citata direttiva 2000/31/CE (recepito dal Decreto Legislativo n. 70 del 2003, articolo 17), prevede quanto segue: ” 1. Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 12, 13 e 14, gli Stati membri non impongono ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano ne’ un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attivita’ illecite. – 2. Gli stati membri possono stabilire che i prestatori di servizi della societa’ dell’informazione siano tenuti ad informare senza indugio la pubblica autorita’ competente di presunte attivita’ o informazioni illecite dei destinatari dei loro servizi o comunicare alle autorita’ competenti, a loro richiesta, informazioni che consentano l’identificazione dei destinatari dei loro servizi con cui hanno accordi di memorizzazione dei dati”.
In particolare, i providers non sono responsabili, in linea generale, quando svolgono servizi di c.d. mere conduit (articolo 12), caching (articolo 13) e hosting (articolo 14).
Per quanto si dira’ piu’ avanti, nel sottolineare la diversa posizione dei blogger, va evidenziato che il considerando n. 42 della Direttiva in esame puntualizza che “le deroghe alla responsabilita’ stabilita nella presente direttiva riguardano esclusivamente il caso in cui l’attivita’ di prestatore di servizi della societa’ dell’informazione si limiti al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di rendere piu’ efficiente la trasmissione. Siffatta attivita’ e’ di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, il che implica che il prestatore di servizi della societa’ dell’informazione non conosce ne’ controlla le informazioni trasmesse o memorizzate”.
In particolare, l’attivita’ di mere conduit, cioe’ di semplice trasporto, concerne sia la trasmissione di informazioni fornite da un destinatario del servizio (a titolo d’esempio, una mail inviata da un utente), sia il fornire un accesso ad internet. Si tratta, in pratica, del ruolo svolto dall’access provider, irresponsabile per il contenuto delle informazioni trasmesse telematicamente qualora ricorrano tre condizioni, tutte negative: non dia origine alla trasmissione; non selezioni il destinatario della trasmissione; non selezioni ne’ modifichi le informazioni trasmesse. In altri termini, fin quando il provider si limita ad un ruolo passivo di mera trasmissione tecnica, senza restare coinvolto nel contenuto delle informazioni che transitano tramite il servizio offerto, non puo’ essere ritenuto responsabile del contenuto medesimo. Purtuttavia, cio’ non esclude la possibilita’, secondo gli ordinamenti degli Stati membri – come quello italiano, ex articolo (Decreto Legislativo n. 70 del 2003, articolo 14, comma 3) – che un organo giurisdizionale o un’autorita’ amministrativa pretendano che il fornitore impedisca o ponga fine alla violazione perpetrata tramite il servizio prestato.
Il servizio di caching consiste nella memorizzazione automatica, intermedia e temporanea dei dati, sotto forma di file “cache”, effettuata al solo scopo di rendere piu’ efficace la sua successiva trasmissione ad altri destinatari del servizio. In relazione a tale successivo inoltro il fornitore e’ responsabile esclusivamente ove interferisca con le informazioni memorizzate ovvero non proceda alla rimozione dei dati memorizzati non appena venga effettivamente a conoscenza della circostanza che queste sono state rimosse dal luogo di origine o che verranno presto da questo rimosse.
2.3. La Direttiva Europea non impone dunque al provider ne’ l’obbligo generale di sorveglianza ex ante, ne’ tanto meno l’obbligo di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attivita’ illecite.
La stessa normativa, tuttavia, impone ai providers di informare prontamente degli illeciti rilevati le autorita’ competenti e a condividere con le stesse ogni informazione che possa aiutare a identificare l’autore della violazione. Ed e’ significativa la circostanza per cui la mancata collaborazione con le autorita’ fa si’ che gli stessi providers vengano ritenuti civilmente responsabili dei danni provocati.
Questa ipotesi di responsabilita’ ex post dell’ISP si fonda su quanto e’ previsto nell’articolo 14, comma 1, lettera b) della Direttiva citata, il quale stabilisce una responsabilita’ in particolare per i c.d. hosting provider, dall’inglese “to host”, che significa “ospitare”, dal momento che il provider fornisce all’utente, ospitandolo, uno spazio telematico da gestire. La scelta delle informazioni da fornire sara’ pero’ del soggetto che stipula il contratto di hosting con i provider, i quali sono responsabili nel caso in cui, effettivamente a conoscenza della presenza di un contenuto illecito sui propri server, omettano di rimuoverlo. Dal punto di vista del diritto penale, si parlerebbe in tali fattispecie, laddove non si ritengano applicabili le esenzioni previste dalla Direttiva 31/2000, di una responsabilita’ dell’ISP per concorso omissivo nel reato commissivo dell’utente, se detto contenuto sia penalmente illecito.
La seconda forma di responsabilita’ sopra descritta e’ stata oggetto di alcune recenti pronunce giurisprudenziali, in materia penale e civile, le quali hanno individuato nella previsione dell’articolo 14 della Direttiva Europea (cui corrisponde quella del Decreto Legislativo n. 70 del 2003, articolo 16) la fonte di un obbligo d’impedimento a carico degli ISP, legittimante un’imputazione di responsabilita’ degli stessi a titolo concorsuale (Cass. Pen., Sez. 5, n. 54946 del 12/07/2016, Maffeis, di cui si parlera’ piu’ avanti).
Lo sviluppo giurisprudenziale sul tema, pero’, non e’ stato accompagnato da modifiche del testo normativo di riferimento, dimostratosi ormai inadeguato alla materia che si prefigge di regolare, e’ avanzato parallelamente ai cambiamenti tecnologici di Internet.
Invero, la frammentarieta’ delle fonti e degli interventi in materia non rendono semplice un’analisi sistematica delle fattispecie che vedono coinvolte le diverse tipologie di provider e l’atipicita’ delle loro attivita’, che – come sopra si e’ detto- presentano dinamiche e problematiche differenti.
La piu’ evidente distinzione puo’ essere riscontrata tra i cc.dd. Serch Engine Results Page ovvero i motori di ricerca come -ad esempio- Google, Bing o Qwant e i gestori dei siti sorgente ovvero piattaforme online, come ad esempio Facebook o YouTube, che ospitano o trasmettono i contenuti organizzati e messi a disposizione dal motore di ricerca.
2.4. Proprio quanto appena evidenziato rende palese l’intrinseca diversita’ tra gli internet providers e gli amministratori di blog, dal momento che questi ultimi non forniscono alcun servizio nel senso precisato, bensi’ si limitano a mettere a disposizione degli utenti una piattaforma sulla quale poter interagire attraverso la pubblicazione di contenuti e commenti su temi nella maggior parte dei casi proposti dallo stesso blogger, in quanto caratterizzati dalla linea, che si potrebbe definire (anche se impropriamente) “editoriale”, impressa proprio dal gestore della suddetta piattaforma.
Insomma, il blog (termine che deriva dalla contrazione di web-log, ovvero “diario di rete”) gestito quale sito personale e’ concepito principalmente come contenitore di testo (ovvero come diario o come organo di informazione indipendente), aggiornabile in tempo reale grazie ad apposito software.
I contenuti del diario vengono visualizzati in forma anti-cronologica (dal piu’ recente al piu’ lontano nel tempo) e il sito e’ in genere gestito da uno o piu’ blogger, che pubblicano, piu’ o meno periodicamente, contenuti multimediali, in forma testuale o in forma di post, concetto assimilabile o avvicinabile a un articolo di giornale.
Quindi, il singolo intervento (pensiero, contenuto multimediale, ecc.) inserito dal blogger viene in genere definito post e l’applicazione utilizzata permette di creare i nuovi post identificandoli con un titolo, la data di pubblicazione e alcune parole chiave (tag).
Qualora l’autore del blog lo permetta, ovvero abbia configurato in questa maniera il blog, al post possono seguire i commenti dei lettori del blog.
Sempre piu’ persone si avvicinano al mondo del blogging e indubbiamente il problema si pone perche’ – come si e’ detto- il blog consente l’interazione anche con soggetti terzi, che possono rimanere anonimi.
Orbene, qualora il blogger dovesse esser ritenuto responsabile per tutto quanto scritto sul proprio sito anche da altri soggetti, sarebbe ampliato a dismisura il suo dovere di vigilanza, ingenerando un eccessivo onere a carico dello stesso.
Certamente, pero’, quando il blog sia stato implementato di alcuni filtri nella pubblicazione dei contenuti, per evitare conseguenze penali il gestore e’ tenuto a vigilare ed approvare i commenti prima che questi siano pubblicati.
2.5. Va quindi esclusa una responsabilita’ personale del blogger quando questi, reso edotto dell’offensivita’ della pubblicazione, decide di intervenire prontamente a rimuovere il post offensivo.
In tal senso si e’ espressa la sentenza del 9 marzo 2017 (sul caso Pihl vs. Svezia) della Corte Europea dei Diritti Umani, cosi’ chiarendo i limiti della responsabilita’ dei gestori di siti e blog per i commenti degli utenti che abbiano contenuto diffamatorio.
Nel caso esaminato dalla citata sentenza, risalente al 2011, su un blog gestito da un’associazione senza scopo di lucro, mediante un commento in relazione ad un post in cui si attribuiva ad un cittadino svedese, Phil, l’appartenenza ad un partito nazista, un soggetto anonimo accusava il medesimo di essere un consumatore abituale di sostanze stupefacenti. Pochi giorni piu’ tardi, il soggetto leso chiedeva la rimozione di entrambi i contenuti, poiche’ veicolavano informazioni mendaci. L’associazione provvedeva secondo le richieste del soggetto danneggiato, aggiungendo altresi’ uno scritto di scuse. Nondimeno, la persona offesa citava in giudizio il gestore del blog, dal momento che questi non aveva preventivamente controllato il contenuto del post e del commento. La domanda di risarcimento veniva respinta dai giudici nazionali, posto che la mancata rimozione di un contenuto diffamatorio pubblicato da terzi prima della segnalazione dell’interessato integrava una condotta non sanzionabile secondo il diritto svedese. La persona offesa, esauriti i rimedi nazionali, adiva la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, lamentando che la legislazione domestica, nel non prevedere una responsabilita’ del gestore di blog in casi di tale genere, violava l’articolo 8 della Convenzione, ovvero il diritto a vedere tutelata la propria vita privata nonche’ la propria reputazione.
La Corte Europea, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha rilevato come lo scritto in questione, sebbene presentasse profili offensivi, non conteneva affermazioni che incitavano all’odio o alla violenza, evenienza che consente, secondo la tradizionale giurisprudenza della Cedu, una maggiore limitazione della liberta’ di espressione.
Cio’ posto, nella sentenza in esame si e’ fatto riferimento ad alcune decisioni precedenti (Delfi AS vs. Estonia, Magyar vs. Ungheria), specificando che il bilanciamento operato dalle Corti nazionali sull’applicazione degli articoli 8 e 10 della CEDU, rispettivamente sul diritto alla privacy e sulla liberta’ di espressione, puo’ essere superato dalla Corte EDU solo se vi sono motivi gravi.
In particolare, nel valutare tale possibilita’ la Corte Europea deve tenere conto del contesto, delle misure applicate dal gestore per prevenire o rimuovere i commenti lesivi dei diritti altrui e della responsabilita’ degli autori dei commenti.
Nel caso esaminato, secondo la Corte, il fatto che il gestore avesse tempestivamente rimosso sia il post sia il commento offensivo, per di piu’ scrivendo un nuovo post contenente la spiegazione di quanto accaduto e le scuse, era da ritenersi un comportamento idoneo a escluderne la responsabilita’ per concorso in diffamazione.
La Corte Europea ha quindi escluso la possibilita’ di ritenere automaticamente responsabile il gestore del sito per qualsiasi commento scritto da un utente, sempre che, una volta a conoscenza del contenuto diffamatorio del commento, si sia immediatamente ed efficacemente adoperato per rimuoverlo.
Per quanto si dira’ anche piu’ avanti, quindi, il blogger puo’ rispondere dei contenuti denigratori pubblicati sul suo diario da terzi quando, presa cognizione della lesivita’ di tali contenuti, li mantenga consapevolmente.
2.6. In ragione di cio’ rileva nel caso in esame il fatto che l’odierno ricorrente non si sia attivato tempestivamente per la rimozione dei commenti denigratori scritti da terzi utenti una volta venuto a conoscenza degli stessi.
E’ d’altronde incontroverso che l’ (OMISSIS), sino a quando non e’ intervenuto l’oscuramento intimato dall’autorita’ giudiziaria ed eseguito addirittura dal Provider, ha con sapevolmente mantenuto sul blog le espressioni lesive della reputazione di (OMISSIS), cui peraltro aveva dato corso proprio con la pubblicazione della lettera a firma di quest’ultimo e con il commento sarcastico da lui redatto in calce alla stessa lettera.
3. Quanto al secondo motivo di ricorso, nessuna tra le censure mosse nei confronti dell’impianto motivazionale della sentenza di secondo grado coglie nel segno.
3.1. Privo di fondamento e’ l’assunto secondo il quale il giudice di appello ricava l’esistenza dell’elemento soggettivo del dolo in via meramente presuntiva ovverosia sulla scorta dell’intrinseca attitudine lesiva delle espressioni adoperate nonche’ del dato oggettivo della pubblicazione.
La Corte territoriale ha correttamente sottolineato la rilevanza della mancata tempestiva cancellazione delle frasi diffamatorie, posto che – come si e’ gia’ detto- l’amministratore del blog non puo’ operare un vaglio preventivo sui commenti pubblicati da utenti anonimi, a meno che non abbia posto degli appositi filtri.
In effetti, in linea con i principi della responsabilita’ personale del blogger, e’ necessaria una verifica della consapevole adesione da parte di quest’ultimo al significato dello scritto offensivo dell’altrui reputazione, adesione che puo’ realizzarsi proprio mediante la volontaria mancata tempestiva rimozione dello scritto medesimo.
3.2. A nulla rileva, peraltro, l’assenza nella sentenza di appello di qualunque riferimento alla responsabilita’ per culpa in vigilando, ex articolo 57 c.p., del direttore o vice-direttore di un periodico, stante la non equiparabilita’ di un blog (come si e’ detto, diario di rete relativo a diversi argomenti e aperto al commento di lettori anche anonimi) ad un periodico, neppure telematico, attinente alla sfera dell’informazione di impronta professionale.
Sul punto occorre, invero, evidenziare che, alla luce dei principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 31022 del 29/01/2015, Fazzo e altro, Rv. 26409001), condivisi altresi’ da una recente sentenza di questa Sezione (Sez. 5, n. 16751 del 19/02/2018, Rando), solo la testata giornalistica telematica, funzionalmente assimilabile a quella tradizionale in formato cartaceo, rientra nel concetto di “stampa” di cui alla L. 8 febbraio 1948, n. 47, articolo 1. Infatti, l’interpretazione costituzionalmente orientata ed evolutiva del termine “stampa”, sebbene imponga di ricomprendervi altresi’ i periodici telematici, non puo’ tuttavia estendersi ai nuovi mezzi, informatici e telematici, di manifestazione del pensiero, quali forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list, pagine Facebook o altri social network, dovendo rimanere circoscritto a quei soli casi che, per i profili strutturale e finalistico che li caratterizzano, sono riconducibili alla nozione piu’ estesa di “stampa”, coerente col progresso tecnologico.
Nella medesima pronunzia le Sezioni Unite hanno precisato, in proposito, che l’area dell’informazione professionale, divulgata tramite testate giornalistiche in Internet, non include altresi’ il vasto ed eterogeneo ambito della diffusione spontanea di notizie ed informazioni da parte di singoli soggetti, all’interno del quale rientra il blog e che rappresenta “una sorta di agenda personale aperta e presente in rete, contenente diversi argomenti ordinati cronologicamente” (cosi’ anche la citata Sez. 5, n. 16751 del 19/02/2018, Rando).
Ne consegue che i blog non possono godere delle garanzie costituzionali in tema di sequestro della stampa e, quindi, l’autorita’ giudiziaria, ove ricorrano i presupposti del “fumus commissi delicti” e del “periculum in mora”, puo’ disporre, nel rispetto del principio di proporzionalita’, il sequestro preventivo di un intero sito web o di una singola pagina telematica, imponendo al fornitore dei servizi internet, anche in via d’urgenza, di oscurare una risorsa elettronica o di impedirne l’accesso agli utenti ai sensi del Decreto Legislativo 9 aprile 2003, n. 70, articoli 14, 15 e 16, in quanto la equiparazione dei dati informatici alle cose in senso giuridico consente di inibire la disponibilita’ delle informazioni in rete e di impedire la protrazione delle conseguenze dannose del reato (Sez. U, n. 31022 del 29/01/2015, Fazzo e altro, Rv. 26408901).
In applicazione di detti principi, questa Sezione, nella gia’ citata pronuncia attinente ad un caso simile a quello odierno, ha osservato che l’amministratore di un sito internet non puo’ identificarsi con le figure previste dall’articolo 57 c.p., occorrendo quindi individuare a quale titolo l’amministratore del sito possa essere dichiarato colpevole del reato di diffamazione.
In assenza di norme specifiche si e’ ritenuto che tale fattispecie incriminatrice possa essere ascritta all’amministratore di un sito internet in base alle regole comuni, cioe’ o in qualita’ di autore della stessa o perche’ concorrente dell’autore materiale.
Tale ultima ipotesi e’ quella rilevante nel caso oggetto di esame in questa sede.
3.3. Va tuttavia chiarito, per quanto concerne il riferimento nell’atto di ricorso al concorso omissivo nel reato commissivo altrui e al reato omissivo improprio, che entrambe le ipotesi presuppongono l’obbligo giuridico di impedire l’evento collegato ad una posizione di garanzia.
3.3.a. Condizioni necessarie per la ricorrenza di una posizione di garanzia sono: 1. un bene che necessiti di essere protetto, perche’ il titolare da solo non e’ in grado di proteggerlo adeguatamente; 2. una fonte giuridica – anche negoziale – che abbia la finalita’ di tutelarlo; 3. l’individuazione di una o piu’ persone specificamente individuate, dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, ovvero che siano ad esse riservati strumenti adeguati a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che si verifichi l’evento dannoso (Sez. 4, n. 38991 del 10/06/2010, Quaglierini ed altri, Rv. 248849).
Pertanto, ai fini dell’operativita’ della cosiddetta clausola di equivalenza di cui all’articolo 40 capoverso del codice penale, nell’accertamento degli obblighi impeditivi gravanti sul soggetto che versa in posizione di garanzia, l’interprete deve considerare la fonte da cui deriva l’obbligo giuridico protettivo, che puo’ essere la legge, il contratto, la precedente attivita’ svolta o altra fonte obbligante (Sez. 4, n. 9855 del 27/1/2015, Chiappa, Rv. 262440).
3.3.b. Nel caso che ci occupa, invece, non e’ configurabile una posizione di garanzia ed un conseguente obbligo giuridico di garanzia in capo all’amministratore di blog, giacche’ tale figura non e’ investita da alcuna fonte di poteri giuridici impeditivi di eventi offensivi di beni altrui, affidati alla sua tutela per l’incapacita’ dei titolari di adeguatamente proteggerli.
Deve piuttosto affermarsi che la non tempestiva attivazione da parte del ricorrente al fine di rimuovere i commenti offensivi pubblicati da soggetti terzi sul suo blog equivale non al mancato impedimento dell’evento diffamatorio – rilevante ex articolo 40 c.p., comma 2, – ma alla consapevole condivisione del contenuto lesivo dell’altrui reputazione, con ulteriore replica della offensivita’ dei contenuti pubblicati su un diario che e’ gestito dal blogger.
4. Sotto altro profilo, va dato atto che questa Corte (con la citata sentenza n. 54946/2016, udienza 14 luglio 2016, imp. Maffeis) ha avuto modo di confermare la responsabilita’ di un gerente un sito internet, per aver mantenuto consapevolmente un articolo diffamatorio sullo stesso sito, consentendo che lo stesso esercitasse l’efficacia diffamatoria.
4.1. La vicenda esaminata vedeva contrapposti, da un lato, il legale rappresentante di una societa’ gerente il sito (OMISSIS) e, dall’altro, il presidente della Lega Nazionale Dilettanti della Federazione Italiana Gioco Calcio, che si era doluto dell’avvenuta pubblicazione sul sito in questione di un articolo da parte di un soggetto terzo avente carattere diffamatorio nei suoi confronti.
La responsabilita’ del suddetto gestore del sito e’ stata ritenuta a titolo di concorso nel reato di diffamazione; e’ stata quindi valorizzata la circostanza che il provider avesse consapevolmente mantenuto il contenuto diffamatorio sul proprio sito e consentito “che lo stesso esercitasse l’efficacia diffamatoria”, pur avendone avuto conoscenza in un momento anteriore all’ordine di sequestro del sito.
4.2. Indubbiamente perplessita’ in ordine a tale impostazione scaturiscono dal fatto che l’obbligo d’impedimento, sul quale si fonda il giudizio di responsabilita’ concorsuale, e’ stato collocato in un momento successivo a quello della consumazione del reato che e’ diretto ad impedire, facendo cosi’ breccia nella possibilita’ di configurare la fattispecie omissiva impropria di cui al combinato disposto degli articoli 40 e 110 c.p..
Invero, e’ incontroverso che il delitto di diffamazione abbia natura di reato istantaneo (Sez. 5, n. 1763 del 19/10/2010, Antonini e altro, Rv. 24950701; Sez. 1, ordinanza n. 1524 del 15/05/1979) in quanto si consuma nel momento della divulgazione della manifestazione lesiva dell’altrui reputazione.
Proprio in tema di diffamazione tramite “internet” (e ai fini della tempestivita’ della querela) questa Corte ha avuto modo di considerare che la diffamazione, avente natura di reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione ingiuriosa e, dunque, nel caso in cui frasi o immagini lesive siano immesse sul “web”, nel momento in cui il collegamento sia attivato, di guisa che l’interessato, normalmente, ha notizia della immissione in internet del messaggio offensivo o accedendo direttamente in rete o mediante altri soggetti che, in tal modo, ne siano venuti a conoscenza (Sez. 5, n. 23624 del 27/04/2012, P.C. in proc. Ayroldi, Rv. 25296401)
Ne deriva che nei casi come quello in esame il reato di diffamazione si perfeziona nel momento della pubblicazione in rete del contenuto offensivo, per cui un obbligo di rimozione di quello stesso contenuto sarebbe possibile solo dopo la consumazione del reato.
4.3. Per superare tali perplessita’ sulla configurabilita’ di una responsabilita’ in concorso ex articoli 40 e 110 c.p. del blogger, si puo’ fare ricorso alla figura della pluralita’ di reati, integrati dalla ripetuta trasmissione del dato denigratorio.
In altri termini, se -come e’ accaduto nella specie- il gestore del sito apprende che sono stati pubblicati da terzi contenuti obiettivamente denigratori e non si attiva tempestivamente a rimuovere tali contenuti, finisce per farli propri e quindi per porre in essere ulteriori condotte di diffamazione, che si sostanziano nell’aver consentito, proprio utilizzando il suo web-log, l’ulteriore divulgazione delle stesse notizie diffamatorie.
Non va in proposito dimenticato che e’ sempre il gestore del blog a permettere, avendolo in tal senso configurato il suo diario virtuale, che ai suoi post possano seguire i commenti dei lettori. D’altronde, come si e’ gia’ detto, nel caso in esame e’ stato proprio l’ (OMISSIS) a dare l’imput, con il suo commento denigratorio alla lettera pubblicata sul suo blog, all’intervento da parte di terzi sul contenuto di tale lettera, utilizzando espressioni pesantemente denigratorie del suo autore. E’ del tutto evidente, allora, che l’ (OMISSIS) e’ venuto tempestivamente a conoscenza di quei contenuti offensivi pubblicati sul suo diario e, non rimuovendoli, li ha ulteriormente divulgati, cosi’ come peraltro correttamente ascrittogli nella seconda parte della imputazione ascrittagli, addebitandogli l’inserimento nel proprio blog dei commenti dei terzi.
5. Quanto sopra evidenziato consente pure di ritenere priva di fondamento la censura del ricorrente avente ad oggetto l’adeguatezza della motivazione per quanto riguarda l’elemento psicologico in relazione all’espressione “non offendere i porci”, la quale – ad avviso del difensore del ricorrente – sarebbe stata usata in una conversazione con una terza persona al solo fine di calmarne l’animo.
Sul punto, in realta’, sebbene l’apparato motivazionale avrebbe potuto essere maggiormente articolato, esso e’ in ogni caso congruo e logico, posto che dallo stesso emerge come l’espressione diffamatoria fosse certamente riferita in modo gratuitamente sarcastico all’ (OMISSIS), con la consapevolezza di offendere la di lui reputazione, derivata dal fatto che – come raccontato dalla stessa persona offesa- la (OMISSIS) lo aveva apostrofato con il termine “porco”; e’ evidente, quindi, che scrivere “A (OMISSIS) un ammonimento: NON OFFENDERE I PORCI” e’ stato intenzionalmente finalizzato ad offendere l’onore e il decoro dell’ (OMISSIS).
6. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dell’ (OMISSIS) al pagamento delle spese processuali, nonche’ alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, nella misura qui di seguito liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonche’ alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate in Euro 2800 oltre agli accessori di legge.

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