Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|26 settembre 2024| n. 25805.
Responsabilità per attività sanitaria ed più probabile che non
In tema di responsabilità per attività sanitaria, l’accertamento del nesso causale è improntato al criterio giuridico del “più probabile che non”, il quale impone al giudice di dare prevalenza alla spiegazione causale che si presenta come più probabile, tenuto conto della comparazione tra le diverse spiegazioni alternative, attenendosi nella valutazione ad un concetto di probabilità non necessariamente statistico, ma altresì logico, tale per cui, nella comparazione tra due o più possibili spiegazioni di un evento, una di esse prevale sulle altre in ragione dei suoi riscontri probatori o della sua coerenza intrinseca o di altro criterio di giudizio valido a sorreggere la decisione. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, che aveva escluso che l’accertamento del CTU corrispondesse al concetto di “causa più probabile”, avendo il consulente usato il termine “grado medio sul piano statistico”, senza considerare che tale giudizio era di comparazione delle cause, avendo escluso categoricamente che le altre spiegazioni causali fossero plausibili).
Ordinanza|26 settembre 2024| n. 25805. Responsabilità per attività sanitaria ed più probabile che non
Data udienza 15 marzo 2024
Integrale
Tag/parola chiave: Responsabilita’ civile – Causalita’ (nesso di) nesso causale – Accertamento – Criterio del ‘più probabile che non’ – Probabilità statistica e logica – Portata – Spiegazioni causali alternative – Comparazione – Necessità – Fattispecie.
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCRIMA Antonietta – Presidente
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere
Dott. AMBROSI Irene – Consigliere
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere Rel.
Dott. PORRECA Paolo – Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18072/2021 R.G. proposto da:
Ga.Su., Ga.Al., Ri.Ra., elettivamente domiciliati in R PIAZZA (Omissis), presso lo studio dell’avvocato RI.NI. (Omissis) che li rappresenta e difende, domiciliazione telematica come in atti
– ricorrenti –
contro
DO.NO. Spa, elettivamente domiciliata in R VIA (Omissis), presso lo studio dell’avvocato AL.FA. (Omissis) che lo rappresenta e difende, domiciliazione telematica come in atti
– controricorrente –
nonché contro
AUSL DELLA ROMAGNA, domiciliata ex lege in R, PIAZZA (Omissis) presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati MU.RA. (Omissis), De.Lo. (Omissis), domiciliazione telematica come in atti
– controricorrente –
nonché contro
REGIONE EMILIA ROMAGNA
– intimata –
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO BOLOGNA n. 3295/2020 depositata il 23/12/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15/03/2024 dal Consigliere GIUSEPPE CRICENTI.
Responsabilità per attività sanitaria ed più probabile che non
FATTI DI CAUSA
1. – Lu.Ga., che all’epoca aveva 81 anni, si è sottoposto ad un intervento di biopsia diagnostica prostatica, eseguito il 6 Febbraio 2001 presso l’ospedale di Ravenna, durante il quale ha subìto una lesione emorragica, causata, secondo la prospettazione dei ricorrenti, da un’errata manovra chirurgica, alla quale i medici intervenuti hanno poi cercato di porre rimedio aggravandone tuttavia le conseguenze, attraverso una esuberante trasfusione eseguita quello stesso giorno, che ha costretto il paziente ad un ricovero di 30 giorni presso quel medesimo ospedale, da dove poi è stato trasferito presso il centro di lunga degenza Casa di cura Do.No., e dove le sue condizioni sono peggiorate fino al decesso avvenuto il 19 marzo 2001.
1.1. – I suoi eredi, e cioè Ga.Su., Ga.Al. e Raffaella Richetti, hanno dunque citato in giudizio la Regione Emilia Romagna, la Ausl di Ravenna e la DO.NO. Spa, ravvisando nella condotta di ciascuna di tali parti la causa del decesso del loro congiunto: hanno chiesto di conseguenza il risarcimento sia del danno iure proprio che di quello iure hereditatis.
Nel giudizio di primo grado davanti al Tribunale di Bologna si sono costituite le convenute ed hanno chiesto il rigetto della domanda.
1.2. – Il Tribunale di Bologna, espletata una CTU, ha ritenuto che ciascuna delle convenute, con condotta propria, sia pure diversa l’una dall’altra, ha contribuito all’evento finale e dunque ha riconosciuto sia il danno iure proprio per la perdita del rapporto parentale che il danno iure hereditatis. Tuttavia, questa sentenza è stata oggetto sia di appello principale da parte degli eredi del paziente, che hanno lamentato un risarcimento inferiore a quello inizialmente preteso, sia con appello incidentale dalla Ausl e dalla clinica DO.NO. Spa.
Responsabilità per attività sanitaria ed più probabile che non
1.3. – La Corte di appello ha parzialmente riformato la decisione di primo grado, accogliendo gli appelli incidentali e rigettando l’appello principale.
Questa decisione è oggetto di ricorso per cassazione da parte degli eredi Ga. con quattro motivi di ricorso illustrati da memoria. Si sono costituite con controricorso sia la DO.NO. Spa che la Ausl della Romagna.
MOTIVI DELLA DECISIONE
2. – I ricorrenti avevano fatto questione, in primo luogo, in relazione alla mancanza di adeguata informazione al loro dante causa circa i rischi e gli esiti che avrebbe potuto avere l’intervento cui il paziente veniva sottoposto. La Corte d’appello ha ritenuto che, pur essendo carente l’informazione fornita, tuttavia il danneggiato avrebbe dovuto provare quale danno ne era derivato, ossia cosa avrebbe fatto se l’informazione fosse stata completa e corretta ed hanno ipotizzato che, poiché l’intervento era necessario per accertarsi di una probabile patologia oncologica, egli non lo avrebbe comunque rifiutato data l’importanza che quell’esame rivestiva.
Nel merito, hanno osservato che non si può attribuire responsabilità ai sanitari per la scelta di eseguire la biopsia, nel corso della quale si è poi verificato il danno iatrogeno, in quanto, come risultava dalla stessa consulenza, si trattava di un esame diagnostico assolutamente necessario, attese le condizioni del paziente, onde verificare lo sviluppo di una neoplasia prostatica.
Tuttavia, i giudici di appello hanno ritenuto la colpa dei sanitari della Ausl intervenuti nella biopsia e successivamente dopo, sia nel non aver tenuto conto della cardiopatia di cui soffriva il paziente, sia nell’avergli procurato l’emorragia durante l’intervento, sia infine per avere praticato due emotrasfusioni successive che si sono dimostrate invece pregiudizievoli. Hanno tuttavia escluso, ed è questo il punto decisivo, che le condotte dei sanitari, sia pure censurabili nei termini che si sono detti, possano aver contribuito a causare la morte del paziente ed hanno invece sostenuto che quelle condotte sono state causa soltanto di una invalidità temporanea risarcibile in circa 4.000 Euro.
Quanto invece alla condotta dei sanitari della DO.NO. Spa che, come si è detto, è la clinica dove il paziente era stato ricoverato a seguito dell’intervento, dopo che era insorta l’emorragia, e dunque al fine di porre rimedio a quest’ultima, i giudici hanno altresì negato che l’atteggiamento, per così dire attendista dei sanitari di quella clinica, possa aver inciso sulla morte del paziente, avendo il CTU stimato che, se costoro avessero tenuto un approccio più attento ed attivo, avrebbero evitato l’evento con un grado di probabilità medio alto: secondo i giudici d’appello la probabilità medio alta non è sufficiente ad un giudizio di maggiore probabilità rispetto all’ipotesi alternativa, ossia non soddisfa il criterio del “più probabile che non”.
Responsabilità per attività sanitaria ed più probabile che non
La Corte di appello tuttavia ha riconosciuto una responsabilità per perdita di chance, posto che “l’inadeguata gestione del paziente ha comportato la perdita della possibilità di una sopravvivenza incerta, perché è gravata da quello scompenso cardiaco preesistente di cui soffriva il paziente”.
Questa ratio è censurata con quattro motivi di ricorso.
3. – Il primo motivo di ricorso prospetta una nullità della sentenza per violazione sia dell’articolo 132 del codice di procedura civile, e dunque per difetto assoluto di motivazione, sia per violazione degli articoli 1218 ss., 2727 e ss. e 2697 del codice civile.
I ricorrenti osservano come il CTU aveva chiaramente ritenuto la condotta dei medici quale causa del decesso, sia per effetto dell’erroneo intervento che aveva provocato la emorragia, sia per effetto della condotta successiva che non era valsa a rimediare a tale danno.
Osservano i ricorrenti che il CTU ha indicato come causa della morte la condotta dei sanitari intervenuti nella prima e nella seconda fase, e che, con ciò, deve ritenersi assolto l’onere della prova in capo al danneggiato, spettando invece alla controparte di provare la causa ignota, ossia di dimostrare che la morte è avvenuta per altre e diverse ragioni.
In altri termini, pur avendo riconosciuto i giudici che c’è stato un errore nell’intervento chirurgico, essi hanno escluso che la morte possa essere sopravvenuta a causa di quell’errore e del successivo trattamento volto a rimediarvi, ma non hanno indicato per quale ragione allora il paziente è comunque deceduto.
Responsabilità per attività sanitaria ed più probabile che non
I ricorrenti ravvisano nella decisione impugnata altresì un evidente difetto di motivazione in quanto i giudici di merito si sono discostati dalla consulenza tecnica senza dare ragione di tale decisione.
Il motivo è fondato.
Intanto, i giudici di merito, dopo aver ammesso che l’emorragia è stata causata dalla manovra chirurgica errata, hanno tuttavia escluso che tale errore possa essere stato causa della morte, e lo hanno invece ritenuto causa di una temporanea invalidità.
Nella motivazione manca del tutto la spiegazione del nesso causale, ossia l’indicazione della ragione per la quale quell’errore (manovra chirurgica errata) non può essere stato causa della morte, avvenuta da lì a pochi giorni, mentre sarebbe stato causa della sola invalidità temporanea: ciò in contrasto con quanto invece ipotizzato dal consulente tecnico (le cui conclusioni sono riportate integralmente in ricorso alle pagine 30 – 31) secondo cui la morte è stata conseguenza delle condotte concorrenti dei diversi sanitari o delle diverse strutture: ed è onere del giudice che intenda discostarsi dalla CTU di illustrarne le ragioni, indicando le diverse prove che invece giustificano una conclusione diversa (Cass. 36638/ 2021).
Ma, soprattutto, la motivazione resa dai giudici di merito viola le regole sul riparto dell’onere della prova: il danneggiato deve dimostrare quale sia stata la causa del danno e resta a suo carico il difetto di tale prova. Ed in questo caso il danneggiato ha allegato e provato con CTU che la causa della morte è nell’errore dei medici (intervento prima e trattamento poco attivo dopo); invece, la causa della morte diventa ignota nella prospettiva dei giudici di merito, secondo la quale non si comprende per quale ragione è intervenuto il decesso del paziente.
Se è vero dunque che la causa ignota resta a carico dell’attore, e che ciò accade quando l’attore non è in stato in grado di dimostrare la causa del danno, è altresì vero che qui la causa diventa ignota non per effetto della carente attività probatoria del danneggiato, ma per effetto della stessa ricostruzione dei giudici di merito, i quali, pur ammettendo che v’è stato errore chirurgico, negano che esso sia stato causa della morte, la cui causa resta dunque ignota come conseguenza di tale ipotesi, non già come conseguenza di quella della parte attrice.
Responsabilità per attività sanitaria ed più probabile che non
2.1. – Il secondo motivo denuncia anch’esso, oltre che un difetto assoluto di motivazione, e dunque violazione dell’articolo 132 del codice di procedura civile, altresì violazione degli articoli 1218 e 2697 del codice civile. In questo caso la censura è rivolta a quella parte della decisione di merito che ha negato un nesso di causalità tra la condotta dei medici della DO.NO. Spa e la morte del paziente: come si è ricordato, il paziente era stato trasferito presso la clinica per rimediare alla emorragia causata dall’intervento chirurgico.
La tesi dei ricorrenti era che in quella occasione, ossia presso la clinica in questione, i medici hanno tenuto un atteggiamento di attesa senza adottare le misure necessarie a scongiurare l’evento: questa tesi era stata accolta dal giudice di primo grado sulla scorta delle stesse indicazioni del consulente tecnico, il quale aveva ritenuto che, se i medici della casa di cura si fossero attivati, il paziente sarebbe sopravvissuto molto probabilmente, ed ha indicato questa probabilità come di grado medio – alto sul piano statistico.
I giudici di appello hanno però interpretato il giudizio del consulente tecnico come un giudizio di insufficiente probabilità di evitare la morte in quanto l’espressione “con grado di probabilità medio alta”, secondo loro, non è tale da soddisfare il requisito del “più probabile che no”.
Sostengono i ricorrenti che illegittimamente i giudici d’appello hanno fatto degradare la probabilità medio alta a qualcosa di meno di un “più probabile che no”, in modo tuttavia oltre che erroneo altresì immotivato.
Anche questo motivo è fondato.
Ed invero i giudici di merito fanno erronea applicazione di un criterio giuridico di valutazione del nesso causale: quello che impone di ritenere provata la causa di un evento quando quella causa è più probabile di una causa diversa o di una causa contraria, criterio che solitamente si esprime nella formula del “più probabile che no”.
Infatti, hanno ritenuto che il giudizio del CTU non consentisse di raggiungere quella probabilità.
Se è vero che l’accertamento della probabilità in concreto è un accertamento di fatto, è altresì vero che il criterio con cui la probabilità si accerta, o meglio il criterio che guida il giudizio sulla probabilità, è invece un criterio logico – giuridico, la cui violazione è censurabile in cassazione: cosa significhi “più probabile che no” è questione giuridica; se, nel caso concreto, quella probabilità si sia verificata, è questione di fatto.
Responsabilità per attività sanitaria ed più probabile che non
E’ compito del giudice di merito stabilire se l’accertamento fatto dal CTU consenta di ritenere come più probabile la causa da lui indicata, rispetto invece a cause alternative, e nel compiere questa valutazione il giudice di merito deve attenersi al concetto di probabilità, non necessariamente statistico, ma altresì logico (Cass. 21530/ 2021; Cass. 2474/ 2021; Cass. 23197/ 2018): probabilità logica vuol dire che nella comparazione tra due o più possibili spiegazioni di un evento, una di esse prevale sulle altre in ragione dei suoi riscontri probatori, o della sua coerenza intrinseca, o di altro criterio di giudizio valido a sorreggere una decisione.
Nel valutare, dunque, quale sia il grado di probabilità di una ipotesi – nella specie quella formulata dal CTU – il giudice di merito deve apprezzare se quella ipotesi spieghi quella causa come più probabile di altre. Nella fattispecie, il CTU (le cui conclusioni sono integralmente riportare alle pagine 30 – 31 del ricorso, in nota) aveva affermato che l’emorragia provocata durante la biopsia era da intendersi causa altamente probabile della morte (se non si fosse procurata l’emorragia, il paziente avrebbe avuto alte probabilità di sopravvivenza); mentre aveva indicato l’altra causa, ossia l’inerzia dei sanitari della causa di cura, come una probabilità di grado medio.
In questo caso i giudici di merito hanno escluso dunque che l’accertamento del CTU corrispondesse al concetto di “causa più probabile” perché egli aveva usato il termine “grado medio sul piano statistico”.
Essi si sono limitati dunque a qualificare la probabilità sulla base della letterale espressione “grado medio sul piano statistico”, senza tenere conto che il giudizio reso dal CTU era di comparazione delle cause: egli aveva chiaramente detto che le altre possibili spiegazioni, ossia la preesistenza di uno stato cardiaco deficitario e la preesistenza della neoplasia, non avevano inciso affatto, data la loro lieve entità.
Conseguentemente, una concezione della probabilità sotto il profilo logico, ossia della causa che spiega l’evento con maggiore probabilità rispetto alle altre cause, impone di tenere conto, per l’appunto, della probabilità di queste ultime e della comparazione tra le diverse ipotesi: comparazione che il CTU aveva fatto escludendo categoricamente che le altre spiegazioni causali fossero plausibili, e dunque che le altre cause (preesistenza di quelle patologie) potessero avere avuto un qualche ruolo causale nella determinazione dell’evento. Il che significa che i giudici di merito non hanno fatto buon uso del concetto, che pure ritengono di avere applicato, del criterio del “più probabile che no”, il quale, si ripete, nel caso di spiegazioni causali alternative, significa dare la prevalenza alla spiegazione che si presenta come più probabile rispetto alle altre disponibili.
2.3. – Con il terzo motivo si prospetta nuovamente difetto di motivazione, dunque violazione dell’articolo 132 del codice di procedura civile, nonché violazione degli articoli 1218 e 2697 del codice civile, oltre che dell’articolo 112 c.p.c.
Responsabilità per attività sanitaria ed più probabile che non
Sostengono i ricorrenti di avere richiesto tra i danni iure proprio non solo quelli derivanti dalla perdita del rapporto parentale e dunque quelli causati dalla morte del paziente, ma altresì quelli derivanti dalla sofferenza patita dal loro congiunto, durante quei 41 giorni di malattia prima della morte: in sostanza, di avere chiesto il risarcimento delle sofferenze che ai parenti sono derivate dalla stessa sofferenza del de cuius.
Il motivo è fondato.
I ricorrenti dimostrano, riportando i passaggi dell’atto di appello, di avere chiesto il risarcimento dei danni personali, non solo come conseguenza della morte, ma altresì come conseguenza della sofferenza del congiunto, e dunque della temporanea invalidità di costui, che, come si è detto, è stata peraltro riconosciuta come dovuta alla colpa dei medici.
Su tale domanda non risulta pronuncia.
2.4. – Con il quarto motivo si prospetta violazione degli articoli 132 del codice di procedura civile e 1218 e seguenti del codice civile.
La censura attiene al rigetto del risarcimento dei danni da mancata informazione e dunque da elusione del consenso informato.
Come si è detto in precedenza, la Corte di merito ha escluso il risarcimento per violazione dell’autodeterminazione in quanto ha ritenuto che, pur essendo stata l’informazione incompleta, il paziente non aveva dimostrato che cosa avrebbe deciso se l’avesse ricevuta in modo completo, ossia non aveva dimostrato che avrebbe agito diversamente o che avrebbe rifiutato l’intervento.
Osservano i ricorrenti che, non solo avevano chiesto una prova testimoniale volta a dimostrare che il de cuius avrebbe evitato l’intervento se gli avessero prospettato correttamente i rischi cui andava incontro, ma aggiungono che, come emergeva dalla stessa CTU, l’intervento non era assolutamente necessario trattandosi di un adenocarcinoma prostatico circoscritto e con basso grado di malignità. Obiettano altresì i ricorrenti che, ai fini della dimostrazione del danno subìto da mancata informazione, il paziente non deve necessariamente dimostrare che avrebbe rifiutato il trattamento in caso di esaustiva informazione. Ma, soprattutto, obiettano che l’ipotesi che il paziente, se correttamente informato, avrebbe comunque accettato l’intervento anziché evitarlo è un’ipotesi frutto di scienza privata del giudice o comunque formulata in assenza di elementi presuntivi significativi.
Responsabilità per attività sanitaria ed più probabile che non
Il motivo è fondato.
Intanto, i ricorrenti avevano chiesto prova testimoniale proprio su questa ipotesi: che il de cuius aveva accettato proprio perché l’intervento era stato prospettato come poco rischioso, e che di conseguenza non avrebbe accettato in caso di informazione diversa ed adeguata. La prova testimoniale è stata rigettata in primo grado, riproposta in conclusionale e riproposta in appello (v. p. 48 del ricorso).
In secondo luogo, se è vero che la volontà del paziente, o meglio, quale sarebbe stata la sua decisione se correttamente informato, può presumersi, è altresì vero che gli elementi su cui basare la presunzione, come di regola, devono essere gravi precisi e concordanti: i giudici di merito hanno cercato loro di presumere quale sarebbe stata la volontà del paziente se lo avessero informato dei veri rischi che correva ed hanno ritenuto che, poiché l’intervento serviva a monitorare una neoplasia, di certo egli avrebbe acconsentito.
Il che è cattivo uso delle presunzioni, posto che i fatti noti da cui la corte di merito ha ricavato il fatto ignoto, non sono né precisi (che fosse urgente la diagnosi della neoplasia, quando invece il CTU l’aveva ritenuta iniziale e non grave); né gravi, ossia che un paziente, pur di fare una biopsia, accetti il rischio di morire: e non è grave tale indizio poiché non è giustificato da alcuna massima di esperienza.
3. Il ricorso va dunque accolto e la decisione cassata con rinvio anche per le spese di legittimità.
4. Ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003, deve disporsi che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi dei ricorrenti e del loro dante causa.
Responsabilità per attività sanitaria ed più probabile che non
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa la decisione impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Bologna, in diversa composizione anche per le spese del giudizio di cassazione.
Ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003, dispone che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi dei ricorrenti e del loro dante causa.
Così deciso in Roma il 15 marzo 2024.
Depositata in Cancelleria il 26 settembre 2024.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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Le sentenze sono di pubblico dominio.
La diffusione dei provvedimenti giurisdizionali “costituisce fonte preziosa per lo studio e l’accrescimento della cultura giuridica e strumento indispensabile di controllo da parte dei cittadini dell’esercizio del potere giurisdizionale”.
Benchè le linee guida in materia di trattamento di dati personali nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica non richiedano espressamente l’anonimizzazione sistematica di tutti i provvedimenti, e solo quando espressamente le sentenze lo prevedono, si possono segnalare anomalie, richiedere oscuramenti e rimozioni, suggerire nuove funzionalità tramite l’indirizzo e-mail info@studiodisa.it, e, si provvederà immediatamente alla rimozione dei dati sensibili se per mero errore non sono stati automaticamente oscurati.
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