Qualora la Casaszione sia investita del ricorso avverso un provvedimento applicativo di misura di prevenzione

Corte di Cassazione, sezione prima penale, Sentenza 21 giugno 2019, n. 27696.

La massima estrapolata:

In materia di misure di prevenzione, la Corte di cassazione, qualora sia investita del ricorso avverso un provvedimento applicativo di misura che, prima della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. a), del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 ad opera della sentenza della Corte cost. n. 24 del 2019, abbia inquadrato la pericolosità sociale del proposto nelle fattispecie di cui alle lett. a) e b) del citato art. 1, è tenuta a disporre l’annullamento con rinvio di tale provvedimento, atteso che l’operazione di riqualificazione totale o parziale delle fattispecie di pericolosità implica un’attività di verifica che involge profili di merito e necessita la riapertura del contraddittorio tra le parti non consentita dalla trattazione camerale del procedimento di prevenzione.

Sentenza 21 giugno 2019, n. 27696

Data udienza 1 aprile 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TARDIO Angela – Presidente

Dott. SIANI Vincenzo – Consigliere

Dott. APRILE Stefano – Consigliere

Dott. MAGI Raffaello – rel. Consigliere

Dott. CAIRO Antonio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS) S.R.L.;
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso il decreto del 27/11/2017 della CORTE APPELLO di VENEZIA;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. MAGI RAFFAELLO;
lette le conclusioni del PG Dr. Zacco Franca, che ha chiesto il rigetto dei ricorsi (con requisitoria antecedente al deposito di Corte Cost.ne 24/2019).

RITENUTO IN FATTO

1. Con decreto emesso in data 27 novembre 2017 la Corte di Appello di Venezia – in procedura di prevenzione – ha confermato il decreto di primo grado, emesso dal Tribunale di Vicenza in data 29 marzo 2017.
1.1 Nel procedimento di prevenzione, promosso nei confronti di (OMISSIS), e’ stata disposta la confisca di cinque fabbricati intestati alla (OMISSIS) srl (si e’ proceduto a confisca cd. disgiunta per pericolosita’ storica di (OMISSIS)).
Occorre evidenziare che in sede di merito si e’ proceduto ad inquadramento soggettivo del (OMISSIS), preliminare alla confisca, sia in riferimento alla categoria tipica di cui al Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 1, comma 1, lettera A) e articolo 1, comma 1, lettera B, posto che tale aspetto risulta condizionante rispetto alle valutazioni che questa Corte di legittimita’ e’ tenuta a compiere (in virtu’ di quanto deciso dalla Corte Costituzionale con sentenza num.24 del 27 febbraio 2019, sentenza allegata dalla societa’ ricorrente con memoria integrativa).
1.2 La decisione richiama, sul tema, gli esiti delle verifiche fiscali che hanno determinato tale inquadramento soggettivo, sia sul fronte della “dedizione abituale a traffici delittuosi” che in rapporto alla, almeno parziale, destinazione del risparmio di imposta a forme di reinvestimento.
Nel valutare il contenuto degli atti di appello proposti sia da (OMISSIS) che dalla (OMISSIS) srl, la Corte di Appello conferma la validita’ dell’inquadramento soggettivo, facendo esplicito riferimento alle due categorie tipiche di pericolosita’ soggettiva (articolo 1 lettera A e lettera B).
2. Gli atti di ricorso proposti da (OMISSIS) e dal terzo intestatario.
2.1 Nei limiti di quanto necessario per la redazione della presente sentenza (ai sensi dell’articolo 173 disp. att. c.p.p., comma 1), va precisato che:
a) (OMISSIS), al primo motivo di ricorso, propone il tema della legittimita’ costituzionale della disciplina di legge oggetto di applicazione, per segnalato contrasto con l’articolo 117 Cost., comma 1, in rapporto a quanto previsto da disposizioni contenute nella Conv. Eur. (articolo 1 primo protocollo addizionale e articolo 2 del proticollo n. 4) – (articoli 25 e 42 Cost.):
b) il terzo (OMISSIS), al primo motivo, prospetta analogo motivo di ricorso, anche in riferimento alla pendenza di giudizio incidentale di legittimita’ costituzionale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La questione posta dai ricorrenti, certamente configurata in termini di ammissibilita’ e rilevanza (data la ricordata qualificazione soggettiva della pericolosita’), ha trovato definizione in sede di giudizio incidentale di legittimita’ costituzionale, con la pronunzia numero 24/2019 Corte Cost..
Con tale decisione e’ stata dichiarata:
– l’illegittimita’ costituzionale della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, articolo 1 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralita’), nel testo vigente sino all’entrata in vigore del Decreto Legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonche’ nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma della L. 13 agosto 2010, n. 136, articoli 1 e 2), nella parte in cui consente l’applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, anche ai soggetti indicati nel numero 1);
– l’illegittimita’ costituzionale della L. 22 maggio 1975, n. 152, articolo 19 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico), nel testo vigente sino all’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che il sequestro e la confisca previsti dalla L. 31 maggio 1965, n. 575, articolo 2-ter (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere) si applicano anche alle persone indicate nell’articolo 1, n. 1), della L. n. 1423 del 1956;
– l’illegittimita’ costituzionale del Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 4, comma 1, lettera c), nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applichino anche ai soggetti indicati nell’articolo 1, lettera a);
– l’illegittimita’ costituzionale del Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 16, nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli articoli 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell’articolo 1, comma 1, lettera a).
1.1 L’emissione di tale pronunzia, in rapporto ai temi gia’ posti dai ricorrenti, rende necessario disporre l’annullamento con rinvio della decisione impugnata – in presenza come si e’ detto di un inquadramento soggettivo “misto”, sub lettera A e B dell’articolo 1 operato in sede di merito – per le ragioni gia’ esposte da questa I Sezione Penale nella decisione n. 14629 del 2019, che il Collegio condivide e fa proprie.
2. Va infatti ricordato che, in sintesi, la Corte Cost. ha ritenuto non conforme alla Carta Costituzionale la previsione della categoria di pericolosita’ di cui al Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 1, comma 1, lettera a (coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi) espungendo la disposizione di legge dall’ordinamento vigente in virtu’ di un marcato deficit di tassativita’ descrittiva (radicale imprecisione, per usare l’espressione contenuta in motivazione): (..) la descrizione normativa in questione, anche se considerata alla luce della giurisprudenza che ha tentato sinora di precisarne l’ambito applicativo, non soddisfa le esigenze di precisione imposte tanto dall’articolo 13 Cost., quanto, in riferimento all’articolo 117 Cost., comma 1, dall’articolo 2 del Prot. n. 4 CEDU per cio’ che concerne le misure di prevenzione personali della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno; ne’ quelle imposte dall’articolo 42 Cost. e, in riferimento all’articolo 117 Cost., comma 1, dall’articolo 1 del Prot. addi. CEDU per cio’ che concerne le misure patrimoniali del sequestro e della confisca (..).
Da tale approdo, che realizza un’ampia saldatura sistematica tra i principi espressi in Costituzione – tesi a considerare il particolare settore delle misure di prevenzione come coperto da garanzie costituzionali sue proprie (pur trattandosi di misure non strettamente penali ma aventi finalita’ specialpreventive, incidenti su diritti costituzionalmente protetti) e quelli contenuti nella Convenzione Edu (in punto di qualita’ della legge e prevedibilita’ ove la stessa consenta la limitazione di diritti fondamentali della persona), deriva una prima conseguenza ineludibile, rappresentata dalla inapplicabilita’ della disposizione dichiarata incostituzionale, ai sensi della L. n. 87 del 1953, articolo 30, comma 3 (le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione).
E’ del tutto evidente che cio’ preclude la possibilita’ di un mantenimento in essere della decisione qui impugnata, che di detta disposizione di legge ha fatto applicazione, posto che cio’ determinerebbe il consolidamento di un provvedimento contrario alle disposizioni costituzionali.
2.1 Va altresi’ osservato che la articolata decisione del giudice delle leggi nel sottoporre sulla base dei contenuti delle plurime ordinanze di rimessione – a complessivo scrutinio le disposizioni di cui alla lettera A) e B) del Decreto Legislativo n. 159 del 2011 ha contestualmente ritenuto che la disposizione di cui alla lettera B (coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attivita’ dellituose), per come interpretata negli arresti piu’ recenti di questa Corte di legittimita’ (antecedenti e successivi alla nota decisione GC Corte Edu De Tommaso contro Italia) tesi ad estrarre dalla disposizione contenuti di maggiore tassativita’ descrittiva, non sia in contrasto con i principi costituzionali, mantenendone inalterata la vigenza.
Giova riportare alcuni stralci della citata decisione n. 24, in particolare li’ dove si afferma che (..) occorre ancora rammentare che, gia’ in epoca immediatamente precedente alla sentenza de Tommaso, la giurisprudenza di legittimita’ aveva compiuto un commendevole sforzo di conferire, in via ermeneutica, maggiore precisione alle due fattispecie di “pericolosita’ generica” qui all’esame. Tale sforzo interpretativo e’ stato ripreso e potenziato successivamente alla pronuncia della Corte EDU, al dichiarato fine di porre rimedio al deficit di precisione in quella sede rilevato. Questa lettura convenzionalmente orientata, talora indicata come “tassativizzante”, muove dal presupposto metodologico secondo cui la fase prognostica relativa alla probabilita’ che il soggetto delinqua in futuro e’ necessariamente preceduta da una fase diagnostico-constatativa, nella quale vengono accertati (con giudizio retrospettivo) gli elementi costitutivi delle cosiddette “fattispecie di pericolosita’ generica”, attraverso un apprezzamento di “fatti”, costituenti a loro volta “indicatori” della possibilita’ di iscrivere il soggetto proposto in una delle categorie criminologiche previste dalla legge (Corte di cassazione, sezione prima, sentenza 1 febbraio 2018-31 maggio 2018, n. 24707; sezione seconda, sentenza 4 giugno 2015-22 giugno 2015, n. 26235; sezione prima, sentenza 24 marzo 2015-17 luglio 2015, n. 31209; sezione prima, sentenza 11 febbraio 2014-5 giugno 2014, n. 23641). Con riferimento, in particolare, alle “fattispecie di pericolosita’ generica” disciplinate dalla L. n. 1423 del 1956, articolo 1, nn. 1) e 2), e – oggi – dal Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 1, lettera a) e b), (disposizione, quest’ultima, alla quale per comodita’ si fara’ prevalentemente riferimento nel prosieguo), i loro elementi costitutivi sono stati dalla Corte di cassazione precisati nei termini seguenti. L’aggettivo “delittuoso”, che compare sia nella lettera a) che nella lettera b) della disposizione, viene letto nel senso che l’attivita’ del proposto debba caratterizzarsi in termini di “delitto” e non di un qualsiasi illecito (Corte di cassazione, sezione prima, sentenza 19 aprile 20183 ottobre 2018, n. 43826; sezione seconda, sentenza 23 marzo 2012-3 maggio 2012, n. 16348), si’ da escludere, ad esempio, che “il mero status di evasore fiscale” sia sufficiente a fondare la misura, ben potendo l’evasione tributaria consistere anche in meri illeciti amministrativi (Corte di cassazione, sezione quinta, sentenza 6 dicembre 2016-9 febbraio 2017, n. 6067; sezione sesta, sentenza 21 settembre 2017-21 novembre 2017, n. 53003). L’avverbio “abitualmente”, che pure compare sia nella lettera a) che nella lettera b) della disposizione, viene letto nel senso di richiedere una “realizzazione di attivita’ delittuose (…) non episodica, ma almeno caratterizzante un significativo intervallo temporale della vita del proposto” (Cass., n. 31209 del 2015), in modo che si possa “attribuire al soggetto proposto una pluralita’ di condotte passate” (Corte di cassazione, sezione prima, sentenza 15 giugno 2017-9 gennaio 2018, n. 349), talora richiedendosi che esse connotino “in modo significativo lo stile di vita del soggetto, che quindi si deve caratterizzare quale individuo che abbia consapevolmente scelto il crimine come pratica comune di vita per periodi adeguati o comunque significativi” (Corte di cassazione, sezione seconda, sentenza 19 gennaio 2018-15 marzo 2018, n. 11846) (…).. Il riferimento ai “proventi” di attivita’ delittuose, di cui alla lettera b) della disposizione censurata, viene poi interpretato nel senso di richiedere la “realizzazione di attivita’ delittuose che (…) siano produttive di reddito illecito” e dalle quale sia scaturita un’effettiva derivazione di profitti illeciti (Cass., n. 31209 del 2015). Nell’ambito di questa interpretazione “tassativizzante”, la Corte di cassazione – in sede di interpretazione del requisito normativo, che compare tanto nella lettera a) quanto nella lettera b) del Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 1, degli “elementi di fatto” su cui l’applicazione della misura deve basarsi – fa infine confluire anche considerazioni attinenti alle modalita’ di accertamento in giudizio di tali elementi della fattispecie. Pur muovendo dal presupposto che “il giudice della misura di prevenzione puo’ ricostruire in via totalmente autonoma gli episodi storici in questione – anche in assenza di procedimento penale correlato – in virtu’ della assenza di pregiudizialita’ e della possibilita’ di azione autonoma di prevenzione” (Cass., n. 43826 del 2018), si e’ precisato: che non sono sufficienti meri indizi, perche’ la locuzione utilizzata va considerata volutamente diversa e piu’ rigorosa di quella utilizzata dal Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 4 per l’individuazione delle categorie di cosiddetta pericolosita’ qualificata, dove si parla di “indiziati” (Cass., n. 43826 del 2018 e n. 53003 del 2017); che l’esistenza di una sentenza di proscioglimento nel merito per un determinato fatto impedisce, alla luce anche del disposto dell’articolo 28, comma 1, lettera b), che esso possa essere assunto a fondamento della misura, salvo alcune ipotesi eccezionali (Cass., n. 43826 del 2018); che occorre un pregresso accertamento in sede penale, che puo’ discendere da una sentenza di condanna oppure da una sentenza di proscioglimento per prescrizione, amnistia o indulto che contenga in motivazione un accertamento della sussistenza del fatto e della sua commissione da parte di quel soggetto (Cass., n. 11846 del 2018, n. 53003 del 2017 e n. 31209 del 2015) (..).
2.2 Ora, tali parametri interpretativi – ripresi dal giudice delle leggi nell’ambito della ricognizione del “diritto vivente” – orientano la decisione n. 24/2019 verso l’accertamento di conformita’ della stringa normativa di cui all’articolo 1, comma 1, lettera B ai valori imposti dalle superiori norme regolatrici: (..) allorche’ si versi – come nelle questioni ora all’esame – al di fuori della materia penale, non puo’ del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali puo’ legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione. Essenziale – nell’ottica costituzionale cosi’ come in quella convenzionale.. e’, infatti, che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa. (..) Nell’esaminare, dunque, se la giurisprudenza della Corte di cassazione della quale si e’ poc’anzi dato conto sia riuscita nell’intento di conferire un grado di sufficiente precisione, imposta da tutti i parametri costituzionali e convenzionali invocati, alle fattispecie normative in parola, occorre subito eliminare ogni equivoca sovrapposizione tra il concetto di tassativita’ sostanziale, relativa al thema probandum, e quello di cosiddetta tassativita’ processuale, concernente il quomodo della prova. Mentre il primo attiene al rispetto del principio di legalita’ al metro dei parametri gia’ sopra richiamati, inteso quale garanzia di precisione, determinatezza e prevedibilita’ degli elementi costitutivi della fattispecie legale che costituisce oggetto di prova, il secondo attiene invece alle modalita’ di accertamento probatorio in giudizio, ed e’ quindi riconducibile a differenti parametri costituzionali e convenzionali – tra cui, in particolare, il diritto di difesa di cui all’articolo 24 Cost. e il diritto a un “giusto processo” ai sensi, assieme, dell’articolo 111 Cost. e dall’articolo 6 CEDU – i quali, seppur di fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimita’ costituzionale del sistema delle misure di prevenzione, non vengono in rilievo ai fini delle questioni di costituzionalita’ ora in esame. Non sono, dunque, conferenti in questa sede i pur significativi sforzi della giurisprudenza – nella perdurante e totale assenza, nella legislazione vigente, di indicazioni vincolanti in proposito per il giudice della prevenzione – di selezionare le tipologie di evidenze (genericamente indicate nelle disposizioni in questione quali “elementi di fatto”) suscettibili di essere utilizzate come fonti di prova dei requisiti sostanziali delle “fattispecie di pericolosita’ generica” descritte dalle disposizioni in questa sede censurate: requisiti consistenti con riferimento alle ipotesi di cui al Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 1, lettera a) – nell’essere i soggetti proposti “abitualmente dediti a traffici delittuosi” e – con riferimento alla lettera b) – nel vivere essi “abitualmente, anche in parte, con i proventi di attivita’ delittuose”. (..) Questa Corte ritiene che, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale successiva alla sentenza de Tommaso, risulti oggi possibile assicurare in via interpretativa contorni sufficientemente precisi alla fattispecie descritta della L. n. 1423 del 1956, articolo 1, n. 2), poi confluita nel Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 1, lettera b), si’ da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente in anticipo in quali “casi” – oltre che in quali “modi” – essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nonche’ alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca. La locuzione “coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attivita’ delittuose” e’ oggi suscettibile, infatti, di essere interpretata come espressiva della necessita’ di predeterminazione non tanto di singoli “titoli” di reato, quanto di specifiche “categorie” di reato. Tale interpretazione della fattispecie permette di ritenere soddisfatta l’esigenza – sulla quale ha da ultimo giustamente insistito la Corte Europea, ma sulla quale aveva gia’ richiamato l’attenzione la sentenza n. 177 del 1980 di questa Corte – di individuazione dei “tipi di comportamento” (“types of behaviour”) assunti a presupposto della misura. Le “categorie di delitto” che possono essere assunte a presupposto della misura sono in effetti suscettibili di trovare concretizzazione nel caso di specie esaminato dal giudice in virtu’ del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi “elementi di fatto”, di cui il tribunale dovra’ dare conto puntualmente nella motivazione (articolo 13 Cost., comma 2) – per cui deve trattarsi dii a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto, b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui, c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito. Ai fini dell’applicazione della misura personale della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, al riscontro processuale di tali requisiti dovra’ naturalmente aggiungersi la valutazione dell’effettiva pericolosita’ del soggetto per la sicurezza pubblica, ai sensi del Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 6, comma 1. Quanto, invece, alle misure patrimoniali del sequestro e della confisca, i requisiti poc’anzi enucleati dovranno – in conformita’ all’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di cui si e’ poc’anzi dato conto (al punto 10.3) – essere accertati in relazione al lasso temporale nel quale si e’ verificato, nel passato, l’illecito incremento patrimoniale che la confisca intende neutralizzare. Dal momento che, secondo quanto autorevolmente affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione, la necessita’ della correlazione temporale in parola “discende dall’apprezzamento dello stesso presupposto giustificativo della confisca di prevenzione, ossia dalla ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attivita’ illecita” (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 26 giugno 2014-2 febbraio 2015, n. 4880), l’ablazione patrimoniale si giustifichera’ se, e nei soli limiti in cui, le condotte criminose compiute in passato dal soggetto risultino essere state effettivamente fonte di profitti illeciti, in quantita’ ragionevolmente congruente rispetto al valore dei beni che s’intendono confiscare, e la cui origine lecita egli non sia in grado di giustificare (..).
3. L’analisi del complessivo sviluppo delle argomentazioni espresse dalla Corte Costituzionale porta pertanto a ritenere che la tipologi’a di decisione emessa – quanto ai contenuti della previsione di legge superstite, di cui al Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 1, comma 1, lettera B – sia quella di una cd. interpretativa di rigetto, che, nel comporre il denunziato contrasto tra la norma di legge ordinaria e il contenuto delle norme costituzionali,’segna’ il percorso interpretativo idoneo ad evitare la demolizione della norma di legge ordinaria, riconoscendolo – in larga misura – in quello gia’ espresso in numerosi arresti da questa Corte di legittimita’. In particolare, va evidenziato che proprio la ricognizione del contenuto di tali arresti (citati in motivazione) ha consentito alla Corte Costituzionale di superare i dubbi sollevati in sede sovranazionale nella decisione Corte Edu De Tommaso contro Italia, essendosi nel tempo stabilizzata una chiave di lettura della disposizione che attraverso il recupero di connotati di tassativita’ (le attivita’ da censire in parte constatativa sono necessariamente rappresentate da delitti idonei alla produzione di reddito) assicura la predeterminazione legale dei “tipi di comportamento” assunti a presupposto delle misure, sia personali che patrimoniali.
3.1 Cio’ conferisce un particolare valore di orientamento ai contenuti della decisione, nel senso che eventuali “deroghe” dalla suddetta linea di assegnazione di significati alle parole utilizzate dal legislatore porrebbero il caso concreto non solo fuori dall’attuale recinto interpretativo maggioritario ma fuori dal perimetro di legalita’ costituzionale e convenzionale.
3.2 Sul tema del valore ermeneutico delle decisioni interpretative di rigetto – in altre parole – non vi sono ragioni, a parere del Collegio, per discostarsi dall’insegnamento offerto dalle Sezioni Unite di questa Corte nella decisione numero 25 del 16.12.1998, dep. il 18.1.1999, ric. Alagni, circa il dovere del giudice comune di uniformare la interpretazione di una disposizione ai contenuti di simile decisione della Corte Costituzionale, salva l’emersione di validi motivi contrari, di cui occorre fornire una puntuale e rafforzata spiegazione.
Quanto ai limiti e alla natura di tale particolare vincolo, non e’ inutile riportare, anche in tal caso, un’ampio stralcio della motivazione della citata sentenza delle Sezioni Unite ric. Alagni, per il particolare valore dei principi espressi: (..) va a questo punto rilevato che la categoria delle sentenze c.d. “interpretative” emanate dalla Corte costituzionale nel rigettare le impugnative rappresenta un tertium genus tra quelle di accoglimento e di semplice rigetto ed e’ stata introdotta dalla giurisprudenza della predetta Corte a partire dalla decisione n. 8 del 1956, 1 del 26.1.1957 e 11 del 19.2.1965. E’ seguita nel tempo una nutrita giurisprudenza, sempre costituzionale, che ha di volta in volta sviluppato e fissato principi e regole valide per la fissazione di alcuni precetti di carattere generale e si e’ manifestata una vivace attivita’ dottrinaria cui hanno partecipato i maggiori cultori della materia. Circa il significato delle sentenze “interpretative di rigetto”, occorre rifarsi all4 decisioni predette che ne hanno delineato le caratteristiche. Dopo aver premesso la distinzione tra “norma” e “disposizione legislativa” nel senso che la Corte costituzionale sin dall’inizio ha posto in evidenza che la interpretazione delle norme sottoposte al suo giudizio puo’ anche distaccarsi dai termini indicati nei ricorsi e nelle ordinanze, si e’ passato a specificare che possono essere emanate sentenze di rigetto “nel senso di cui in motivazione”, e cioe’ pronunce basate sulla necessaria premessa secondo la quale ogni disposizione legislativa deve essere interpretata “al fine di accertarne la legittimita’ costituzionale nell’attuale sistema nel quale vive”; posto che “lo stabilire quale sia il contenuto delle norme impugnate appartiene al giudizio della Corte non meno della comparazione che ne consegue fra la norma interpretata e la norma costituzionale, l’una e l’altra essendo parti inscindibili di un giudizio che e’ propriamente suo” (v. sentenze Corte costituzionale sopra richiamate n. 8 del 1956 e n. 11 del 1965). In linea generale si e’ quasi sempre ritenuto che non debba trattarsi di risoluzioni che possano contrastare con il c. d. “diritto vivente”, terminologia coniata dalla stessa dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale per significare interpretazioni giurisprudenziali prevalenti o consolidate. In tali ipotesi, infatti, la stessa Corte costituzionale adegua la sua funzione interpretatrice, anche allo scopo di evitare contrasti inopportuni. In tal senso esiste un vasto numero di decisioni costituzionali con le quali la Corte si e’ adeguata ad un “diritto vivente” gia’ affermato. Ma e’ chiaro che questa autolimitazione che la Corte costituzionale si e’ imposta sulla base del principio che “le norme sono non quali appaiono in astratto, ma quali sono applicate nella quotidiana opera del giudice, intesa a renderle concrete ed efficaci”, non puo’ sempre funzionare “avendo la Corte la funzione di porre a confronto la norma, nel significato ad essa attribuito, con le disposizioni della Costituzione, per rilevarne eventuali contrasti e trarne le conseguenze sul piano costituzionale” (sentenza n. 129 del 1975). E’ ovvio, quindi, che il vincolo del “diritto vivente” non significa subordinazione della interpretazione del giudice delle leggi alla interpretazione giudiziaria; che,anzi, la consuetudine interpretativa uniforme rappresenta non un limite ma un sostegno alla valutazione effettuata dalla Corte costituzionale, come e’ dimostrato dal fatto che in varie occasioni e’ stata abbandonata dal predetto organo la valutazione divenuta costante dal giudice ordinario per adeguare la stessa ad una visione rispondente ai principi costituzionali. E cio’ perche’, di contro alla separazione dei due sistemi normativi, quello ordinario e quello costituzionale, la Corte costituzionale ha adottato il criterio del collegamento c.d. intersistemico secondo cui in ciascun sistema normativo, ordinario e costituzionale, debbono essere presenti rispettivamente le regole costituzionali ed ordinarie. Con la conseguenza che la norma impugnata puo’ essere dichiarata illegittima anche in conseguenza di una ricostruzione non coincidente con quella prospettata nell’ordinanza di rinvio ovvero la questione essere dichiarata non fondata in base ad una interpretazione non considerata dall’autorita’ denunziante. Dal che deriva, poi, che la Corte delle leggi, in casi consimili, non pronuncia direttamente la dichiarazione di incostituzionalita’, ma preferisce una decisione che salvi la esistenza della norma a condizione che alla stessa venga attribuito un significato che sia non incompatibile con il parametro costituzionale. Ma, ove la giurisprudenza della Corte di Cassazione non si sia ancora consolidata ovvero esista contrasto di decisioni, la Corte costituzionale riacquista la sua completa autonomia interpretativa. Nel primo caso la dottrina parla di decisioni “correttive”, mentre, nella seconda ipotesi, in cui viene disattesa la interpretazione fornita dal giudice a quo remittente, le decisioni vengono definite “adeguatrici”, nel senso che le stesse mirano soprattutto a far valere i principi costituzionali sulla base di un sindacato di legittimita’ rivolto alla norma piu’ che al testo legislativo e tale da rendere appunto il contenuto normativo “non incompatibile” con le norme della Costituzione. L’adozione del criterio della “non incompatibilita’” appare il piu’ idoneo per la adoperata formula del rigetto soprattutto in relazione al principio che la decisione deve intendersi “nel senso di cui in motivazione” e spiega le ragioni quanto agli effetti della stessa decisione nei confronti del giudice remittente ed in qualche misura in ordine a tutti gli altri procedimenti similari… Al riguardo, la giurisprudenza di questa Suprema Corte non e’ vasta. Si ricorda innanzi tutto la decisione delle Sez Un. 13.12.1995, Clarke che, affrontando ex professo il problema, ha affermato che le sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale non sono munite di efficacia erga omnes come quelle dichiarative di incostituzionalita’; che, pertanto, le stesse assumono il valore di mero precedente; che il giudice puo’ discostarsi dalla interpretazione fornita dalla Corte e sollevare anche nuova questione di legittimita’ della stessa disposizione per le medesime ragioni gia’ dalla Corte disattese; che, pero’, la sentenza interpretativa di rigetto determina nel giudizio a quo il sorgere di una preclusione endoprocessuale; che tale vincolo deriva dal carattere incidentale del giudizio di legittimita’ costituzionale e dal nesso di necessaria pregiudizialita’ che lo lega a quello principale; che, in conseguenza, la medesima questione non puo’ essere riproposta nello stesso giudizio e nel medesimo grado, ma neppure in quelli successivi dello stesso processo; che, infine, lo stesso giudice ordinario non puo’ attribuire alla norma di legge denunciata una portata esegetica dalla Corte costituzionale ritenuta non corretta…… Le affermazioni tanto della dottrina che della giurisprudenza, apparentemente semplici, abbisognano, pero’, di alcune precisazioni. Innanzi tutto, poiche’ le sentenze di rigetto (le uniche di cui nella specie occorre occuparsi), sebbene interpretative, non hanno per loro natura efficacia generale e proprio perche’ la, eccezione di illegittimita’ e’ stata respinta sulla base della interpretazione e motivazione adottata con il criterio della “non incompatibilita’ della soluzione con i principi costituzionali”, ne deriva, in aderenza con la dottrina piu’ autorevole, che lo stesso giudice remittente, pur obbligato a quella interpretazione, e’ abilitato a procedere ad una ulteriore soluzione interpretativa con il solo limite, pero’, di non concludere nel senso scartato dalla Corte costituzionale. Ma tutto cio’, comunque, sulla base di una valutazione che, anche se in concreto di difficile attuazione, pur essa non sia incompatibile con le norme della Costituzione. Ma ove, per avventura, dal contesto della motivazione della decisione della Corte costituzionale appaia chiaro che la soluzione adottata sia “l’unica compatibile”, essendo state scartate tutte le altre possibili soluzioni, e’ evidente che la sentenza di rigetto, pur se interpretativa, non consente al giudice remittente alcuna possibilita’ di ulteriormente sollevare eccezioni di illegittimita’ costituzionale, essendo pienamente vincolato alla decisione adottata.
Le considerazioni innanzi esposte consentono di affermare, pertanto, che esistono vincoli positivi della sentenza di rigetto interpretativa in relazione al procedimento che ha dato luogo al giudizio di costituzionalita’, nel senso che il giudice a quo puo’ essere tenuto a fare applicazione della disposizione nei termini posti a base della decisione costituzionale senza altra facolta’. In caso contrario, una eventuale nuova eccezione di illegittimita’ costituzionale non potrebbe avere altro esito se non la dichiarazione di incostituzionalita’ della norma. In relazione a tutti gli altri giudizi si afferma che non esiste alcun effetto vincolante della decisione di rigetto interpretativa della Corte delle leggi. Tale conclusione, esatta nella sua premessa generale, trova dei correttivi e necessita di chiarimenti ricavabili dalla giurisdizione della stessa Corte e dalla elaborazione dottrinale. Innanzi tutto va ricordata la distinzione tra disposizione e norma siccome evidenziata in premessa per affermare che le sentenze interpretative di rigetto, nel dichiarare non fondata la questione di legittimita’ costituzionale, non fanno riferimento alla sola disposizione indicata nella ordinanza o nel ricorso siccome sospettati di illegittimita’, ma si riferiscono anche a norme diverse ma ugualmente, a giudizio della Corte, deducibili dalle predette elencate disposizioni in quanto sia possibile da quest’ultime ricavare norme diverse ma costituzionalmente legittime secondo una valutazione che compete a tale organo il quale deve operare non solo una interpretazione delle regole della legislazione ordinaria, ma soprattutto una valutazione dei precetti costituzionali ritenuti come valido criterio di paragone. Una siffatta attivita’ che la Corte costituzionale deve effettuare nell’esercizio del suo compito di sindacato di costituzionalita’ degli atti legislativi pone evidentemente tale organo in posizione di vertice; onde non puo’ il giudice ordinario sbrigativamente andare in contrario avviso, ma ha l’obbligo, anche giuridico, di spiegare adeguatamente le ragioni per le quali dissente da quella soluzione. Tale principio, peraltro non scritto, e’ ricavabile dalla prassi secondo la quale il giudice ordinario, ove ritenga di non aderire alla decisione costituzionale, e’ tenuto a sollevare ancora nuova questione di legittimita’. Dal canto suo, la Corte costituzionale, ove non vengano addotte questioni nuove o prospettazioni originali, usa decidere con ordinanza dichiarativa di inammissibilita’ per manifesta infondatezza. A cio’ va, poi, aggiunto, che in concreto, ove i giudici ordinari non abbiano ritenuto di uniformarsi alla precedente soluzione adottata dalla Corte costituzionale, quest’ultima, proprio allo scopo di impedire che nell’ordinamento sopravvivano norm,A ritenute contrarie alla Costituzione, ha in seguito adottato una decisione dichiarativa di illegittimita’ costituzionale, eliminando cosi’ ogni futura possibilita’ di equivoci e contrasti…. Pertanto, non puo’ disconoscersi l’efficacia di “precedente” che deve essere riconosciuto allat decisioni di rigetto in genere, ed in particolar modo a quelle interpretative, e l’influenza che siffatta pronuncia determina nei confronti dei giudici comuni e degli operatori del diritto i quali, in mancanza di validi motivi, sono tenuti ad uniformarsi alla sentenza, la quale, secondo la dottrina prevalente, viene ad assumere la figura di una “doppia pronuncia”, nel senso che contiene una duplice affermazione: che cioe’ l’atto, proprio perche’ espressione di un principio proveniente dalla Corte costituzionale, e’ costituzionalmente legittimo e che, al contrario, nella diversa interpretazione del giudice a quo, lo stesso non e’ conforme a Costituzione. E’ pur vero che non si tratta di vincolo giuridico, del resto inesistente nel nostro ordinamento; pur tuttavia e’ innegabile il valore persuasivo di siffatta pronuncia costituendo un precedente autorevole nonche’ il risultato di una interpretazione sistematica in funzione adeguatrice proveniente dall’organo piu’ qualificato in tema di interpretazione costituzionale. Senza contare, poi, che, in tali sentenze, la motivazione non rappresenta semplicemente il motivo della decisione, ma svolge un ruolo piu’ importante e decisivo in quanto diviene elemento costitutivo della decisione stessa che, con diversa motivazione, avrebbe avuto esito diverso. E che un tale vincolo sia in effetti esistente e non gia’ puramente teorico, deriva, poi, dalla considerazione che, secondo la prevalente dottrina e la piu’ recente giurisprudenza, tutti i giudici sono tenuti a non fare applicazione delle disposizioni in un senso diverso da quello affermato dalla Corte costituzionale senza aver prima sollevato questione di legittimita’ costituzionale (..).
3.3 Dunque, a conferma ulteriore del fatto che l’interpretazione recepita dalla Corte Costituzionale nella decisione n. 24 del 2018 e’ da ritenersi – nel suo complesso – l’unica compatibile con i principi costituzionali, va detto, al di la’ delle perentorie affermazioni contenute nella stessa sentenza, che la necessaria considerazione di esistenza e peso del “vincolo interpretativo” e’ ulteriormente rafforzata dalla occasio della decisione, che tende a realizzare un delicato equilibrio “di sistema” non soltanto rispetto ai valori costituzionali ma anche in rapporto ai contenuti della giurisprudenza di Strasburgo, in tema di accessibilita’ e prevedibilita’ della legge, come si e’ ricordato.
Da cio’ deriva che, sul fronte interpretativo, le coordinate espresse nei recenti arresti di questa Corte sul tema della piena “tassativita’” delle previsioni di legge che descrivono i connotati delle fattispecie di pericolosita’ rappresentano un limite invalicabile nella applicazione concreta degli istituti, il cui superamento e’ motivo di annullamento delle decisioni di merito.
4. Operate tali premesse, appare evidente che nel caso in esame la eventuale rielaborazione dei connotati fattuali posti a base del giudizio di pericolosita’ prevenzionale (di tipo storico), pur da ritenersi possibile – dato che non puo’ del tutto escludersi un inquadramento soggettivo della pericolosita’ in via esclusiva sub Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 1, comma 1, lettera b) – non puo’ essere realizzata nella presente sede di legittimita’.
E cio’ non soltanto perche’ la trattazione camerale del procedimento di prevenzione – ai sensi dell’articolo 611 c.p.p. – non consente la realizzazione del contraddittorio, ingrediente necessario di qualsiasi operazione di – quantomeno parziale – diversa qualificazione giuridica della parte constatativa (ancorata, come si e’ detto, a fatti) del giudizio di pericolosita’ (si veda, tra le molte, quanto affermato da Sez. VI n. 3716 del 24.11.2015, rv 266953; Sez. VI n. 41767 del 20.6.2017, rv 271391), ma anche perche’ l’eventuale inquadramento – in via esclusiva – della pericolosita’ nella fattispecie di cui al cit. Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 1, comma 1, lettera b) esige, per quanto sinora detto, una piena verifica di coerenza logica e di esistenza di tutti i passaggi esplicativi di quella “opzione tassativizzante” elaborata nella presente sede di legittimita’ e recepita dalla Corte Costituzionale.
In altre parole, l’operazione di riqualificazione – totale o parziale – della fattispecie di pericolosita’, pur da ritenersi operazione rispettosa del dictum del giudice delle leggi, risulta possibile – una volta riaperto il contraddittorio – se ed in quanto i materiali istruttori offrano la possibilita’ di ritenere e qualificare le pregresse condotte delittuose (nei sensi da ultimo precisati e riepilogati da Sez. I n. 43826 del 19.4.2018, rv 27397601) non solo temporalmente sequenziali in modo significativo ma anche produttive di reddito illecito utilizzato, almeno in parte, per il soddisfacimento dei bisogni primari del soggetto e il mantenimento del tenore di vita (i profitti da reato devono rappresentare una componente significativa del reddito per stare alle parole utilizzate nella decisione n. 24 del 2019 Corte Cost.).
Si tratta, pertanto, di attivita’ di verifica che involgono profili di merito pieno, da rimettere al vaglio della Corte di Appello di Venezia, in sede di rinvio, con ampiezza di facolta’ difensive correlate all’esercizio del contraddittorio.

P.Q.M.

Annulla il decreto impugnato e rinvia per nuovo esame alla Corte di Appello di Venezia.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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