Prova presuntiva solo presunzioni gravi precise e concordanti

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|21 marzo 2022| n. 9054.

Prova presuntiva solo presunzioni gravi precise e concordanti.

In tema di prova presuntiva, il giudice è tenuto, ai sensi dell’art. 2729 c.c., ad ammettere solo presunzioni “gravi, precise e concordanti”, laddove il requisito della “precisione” è riferito al fatto noto, che deve essere determinato nella realtà storica, quello della “gravità” al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto desumibile da quello noto, mentre quello della “concordanza”, richiamato solo in caso di pluralità di elementi presuntivi, richiede che il fatto ignoto sia – di regola – desunto da una pluralità di indizi gravi, precisi e univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza, e ad articolare il procedimento logico nei due momenti della previa analisi di tutti gli elementi indiziari, onde scartare quelli irrilevanti, e nella successiva valutazione complessiva di quelli così isolati, onde verificare se siano concordanti e se la loro combinazione consenta una valida prova presuntiva (c.d. convergenza del molteplice), non raggiungibile, invece, attraverso un’analisi atomistica degli stessi. Ne consegue che la denuncia, in cassazione, di violazione o falsa applicazione del citato art. 2729 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., può prospettarsi quando il giudice di merito affermi che il ragionamento presuntivo può basarsi su presunzioni non gravi, precise e concordanti ovvero fondi la presunzione su un fatto storico privo di gravità o precisione o concordanza ai fini dell’inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota e non anche quando la critica si concreti nella diversa ricostruzione delle circostanze fattuali o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica diversa da quella ritenuta applicata dal giudice di merito o senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma.

Ordinanza|21 marzo 2022| n. 9054. Prova presuntiva solo presunzioni gravi precise e concordanti

Data udienza 22 febbraio 2022

Integrale

Tag/parola chiave: Contratti di consulenza ed agenzia pubblicitaria – “Lavorazioni extracontratto” – Tribunale – Annullamento – Vizio di extrapetizione – Potere di rappresentanza – Conflitto di interessi – Assenza di una previa deliberazione da parte dell’organo collegiale – Art. 1394 c.c. – Applicazione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 6351/2017 proposto da:
(OMISSIS) SRL, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) SPA, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1379/2016 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 04/08/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 22/02/2022 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie delle parti.

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MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. Il Tribunale di Torino con la sentenza n. 4212/2014, i accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo promossa dalla (OMISSIS) S.p.A., oggi (OMISSIS) S.p.A., nei confronti della (OMISSIS) S.r.l., annullava ex articolo 1394 c.c., i due contratti di consulenza ed agenzia pubblicitaria, posti a fondamento della richiesta monitoria, rigettando le altre domande avanzate dalle parti.
La Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. 1379 del 4 agosto 2016 ha rigettato l’appello principale proposto dal (OMISSIS) e quello incidentale avanzato dalla controparte, condannando la prima al rimborso in favore della seconda dei due terzi delle spese del grado.
Rilevava la Corte d’Appello che i contratti erano stati annullati per effetto del conflitto di interessi esistente tra colui che all’epoca fatti era alla guida della societa’ opponente e la societa’ contraente, che vedeva nella sua compagine societaria, e con una partecipazione rilevante, proprio lo stesso soggetto che aveva concluso i contratti in nome e per conto della (OMISSIS).
I giudici di appello, nell’esaminare l’appello principale della (OMISSIS), osservavano che le censure erano prive di fondamento.
Quanto alla deduzione secondo cui vi sarebbe stata una extrapetizione da parte del Tribunale per avere esteso l’effetto dell’annullamento dei due contratti anche alle cc.dd. “lavorazioni extracontratto”, che pur costituivano oggetto della pretesa monitoria, trattandosi, a detta dell’appellante, di prestazioni frutto di autonomi rapporti contrattuali, sorti per effetto di singoli ordinativi della committente, la sentenza di seconde cure rilevava che dette prestazioni erano si’ escluse da quelle dovute in base al rapporto di agenzia, ma trovavano comunque la loro genesi nel contratto denominato di agenzia pubblicitaria, con la conseguenza che l’annullamento di tale contratto era destinato a riverberarsi anche sulle prestazioni in esame.
In relazione alla diversa critica che invece assumeva la mancata verifica di un pregiudizio subito dalla (OMISSIS) per effetto della conclusione dei contratti, la sentenza ricordava quali erano i presupposti per ravvisare il conflitto di interessi, secondo la stessa giurisprudenza di legittimita’.
Nella specie i contratti furono conclusi dal soggetto apicale della societa’ appellata, che all’epoca cumulava anche la mansione di direttore generale, nel dicembre del 2009 e nel gennaio del 2010, in epoca di poco anteriore alla dismissione di fatto di tali cariche. Infatti, sebbene l’incarico fosse stato formalmente conservato sino ad ottobre del 2010, ed essendo stata conservata la carica di dirigente sino al successivo mese di dicembre, tuttavia a partire da aprile del 2010 aveva fruito di un congedo parentale.
Nello stesso periodo pero’ era titolare di una quota di un quarto del capitale della (OMISSIS), di cui nel 2001 era stato uno dei soci fondatori e della quale era stato amministratore sino al 2002.

 

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Emergeva poi che di fatto aveva continuato ad ingerirsi nell’amministrazione e gestione della (OMISSIS).
Accanto a tale situazione, emergeva poi che la durata dei contratti, fissata in tre anni, accompagnata dalla previsione di un corrispettivo notevolmente superiore a quello di norma praticato da societa’ per analoghi servizi, aveva assicurato alla (OMISSIS) un significativo vantaggio economico, e cio’ tramite contratti posti in essere allorche’ era ragionevole ritenere che il direttore generale della opponente avesse gia’ preordinato la sua fuoriuscita dalla societa’ committente per avere gia’ ricominciato ad occuparsi della gestione della (OMISSIS).
Era altresi’ disatteso il motivo di appello a mente del quale i contratti in oggetto sarebbero stati convalidati dalla committente in maniera tacita, e precisamente continuando ad avvalersi delle prestazioni della (OMISSIS), sebbene fosse gia’ venuta a conoscenza della situazione di conflitto di interessi in cui versava il suo ex amministratore.
Secondo i giudici di appello, tuttavia, non poteva farsi richiamo alla figura della convalida tacita. In primo luogo, la convalida avrebbe potuto essere compiuta solo da parte di colui che aveva il potere di rappresentanza della societa’, e nella specie emergeva che colui che era anche socio della (OMISSIS) si era formalmente dimesso, perdendo il relativo potere di rappresentanza, solo nel mese di ottobre del 2010, laddove la quasi totalita’ delle condotte che dovrebbero valere come convalida tacita risultavano poste in essere in epoca quasi coeva a quella delle dimissioni. Non era causale che gia’ nel mese di novembre la societa’ opponente si fosse lamentata della eccessivita’ del prezzi praticati dalla controparte.
Inoltre, la fruizione delle prestazioni tra (OMISSIS) si giustificava, lungi che per la volonta’ di convalidare il contratto, per la necessita’ di dover fruire di prestazioni necessarie per lo svolgimento dell’attivita’ societaria, e senza che vi fosse la possibilita’ di provvedere ad un’immediata sostituzione.

 

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Una volta quindi confermata la pronuncia di annullamento dei contratti, l’effetto retroattivo della pronuncia imponeva di esaminare le reciproche domande restitutorie.
Secondo l’appellante principale la somma che le era stata riconosciuta quale compenso per le attivita’ gia’ svolte era esigua, mentre la controparte riteneva fosse necessario disporre la restituzione di tutto quanto gia’ versato.
I giudici di appello, ribadita la differenza tra azione di arricchimento senza causa e di ripetizione dell’indebito, qui applicabile, escludevano che l’equivalente pecuniario spettante alla parte che avesse gia’ eseguito delle prestazioni sulla base di un contratto venuto meno, nella specie perche’ annullato, potesse farsi coincidere con il compenso dovuto in base al contratto, competendo solo il rimborso dei costi effettivamente sostenuti per rendere le prestazioni.
Nella specie la somma era stata determinata in via equitativa dal giudice e l’appellante non aveva dimostrato l’erroneita’ della quantificazione operata dal Tribunale, cosi’ che l’appello andava disatteso. Analogamente era da rigettare l’appello incidentale in quanto la (OMISSIS) non aveva dimostrato che i costi fossero stati inferiori rispetto alla somma accordata alla controparte.
Era infine disatteso il motivo di appello incidentale con il quale si sosteneva che spettasse anche il diritto al risarcimento del danno. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la (OMISSIS) S.r.l. sulla base di tre motivi, illustrati da memorie.
La (OMISSIS) S.p.A. ha resistito con controricorso a sua volta illustrato da memorie
2. Il primo motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione delle norme codicistiche in materia di annullamento dei contratti per conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato.

 

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Si lamenta che i giudici di merito abbiano incentrato la loro decisione sull’applicazione dell’articolo 1394 c.c. e si sostiene che invece occorreva far riferimento alla disciplina di cui agli articoli 2381 e 2391 c.c., che concernono i poteri dell’amministratore delegato, quale era nella fattispecie il Dott. (OMISSIS), anche socio della societa’ ricorrente all’epoca dei fatti.
Nella specie non vi era alcun conflitto tra il detto (OMISSIS) e la (OMISSIS), il che esclude che possa farsi applicazione dell’articolo 1394 c.c.. L’articolo 2391 c.c., invece impone, per evidenti ragioni di trasparenza, che l’amministratore debba segnalare alla societa’ il proprio conflitto di interessi.
Nella specie si verteva in una fattispecie di amministratore delegato, che giustificava quindi la necessita’ che questi, oltre che dare notizia del potenziale conflitto, dovesse astenersi dal porre in essere l’operazione, investendo il competente organo collegiale.
Solo nel caso di amministratore unico, non essendovi separazione tra potere deliberativo e potere rappresentativo, possono venire in gioco le previsioni di cui agli articoli 1394 e 1395 c.c..
Poiche’ il Dott. (OMISSIS) era amministratore delegato di una societa’ dotata di consiglio di amministrazione e di collegio sindacale, non poteva nella specie dubitarsi che questi ultimi fossero a conoscenza dell’operato del proprio amministratore, atteso l’obbligo incombente sull’amministratore di periodicamente riferire al CDA.
Ne consegue che si palesa del tutto tardiva la deduzione circa l’esistenza di un conflitto di interessi, la cui conoscenza doveva reputarsi ben nota alla societa’.
Il motivo e’ manifestamente infondato.

 

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La giurisprudenza di questa Corte, con il conforto della assolutamente prevalente dottrina, ha reiteratamente affermato che nella fattispecie prevista dall’articolo 1394 c.c., il conflitto di interessi si manifesta al momento dell’esercizio del potere rappresentativo, mentre nel caso previsto dagli articoli 2373 e 2391 c.c., il conflitto di interessi (rispettivamente, in sede di assemblea e di consiglio di amministrazione) si manifesta al momento dell’esercizio del potere deliberativo, di modo che, in assenza di una previa deliberazione, la disciplina del conflitto deve essere ricondotta a quella dettata dall’articolo 1394 c.c., anziche’ alle norme degli articoli 2373 e 2391 c.c. (Cass. n. 23089/2013).
Ne consegue che, ove sia mancato del tutto, come nella specie, il riferimento al momento deliberativo nell’ambito delle determinazioni di un organo collegiale, la riconduzione del conflitto di interessi alla disciplina dettata dall’articolo 1394 c.c., e’ l’unica possibile.
Si veda altresi’ Cass. n. 3501/2013, che ha ribadito che in tema di societa’ per azioni, quando il singolo amministratore ponga in essere, in mancanza di una Delibera del consiglio di amministrazione, un atto con il terzo che rientri, invece, nella competenza di tale organo, l’incidenza del conflitto di interessi sulla validita’ del negozio deve essere regolata sulla base, non gia’ dell’articolo 2391 c.c. (il quale, riferendosi al conflitto che emerge in sede deliberativa, concerne l’esercizio del potere di gestione, in un momento, quindi, anteriore a quello in cui l’atto viene posto in essere, in nome della societa’, nei confronti del terzo), ma della disciplina generale di cui all’articolo 1394 c.c. (conf., in tema di negozio concluso in conflitto di interessi dall’amministratore unico di societa’ a responsabilita’ limitata, Cass. n. 27783/2008, non senza rilevare che per le societa’ a responsabilita’ limitata, in relazione alla modifica del diritto societario operata nel 2003 ed operante a far data dal 1 gennaio 2004, la prevalenza dell’articolo 1394 c.c., trova la sua testuale conferma nella novellata previsione di cui all’articolo 2475 ter c.c.).

 

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Ne’ puo’ incidere sulla soluzione del problema, la circostanza che nella fattispecie si verte in un’ipotesi di amministratore delegato, anziche’ di amministratore unico, avendo questa Corte affermato il principio per cui, in tema di societa’ per azioni, quando il singolo amministratore ponga in essere, in mancanza di una Delibera del consiglio di amministrazione, un atto con il terzo che rientri, invece, nella competenza di tale organo, l’incidenza del conflitto di interessi sulla validita’ del negozio deve essere regolata sulla base, non gia’ dell’articolo 2391 c.c. (il quale, riferendosi al conflitto che emerge in sede deliberativa, concerne l’esercizio del potere di gestione, in un momento, quindi, anteriore a quello in cui l’atto viene posto in essere, in nome della societa’, nei confronti del terzo), ma della disciplina generale di cui all’articolo 1394 c.c.. Al riguardo, costituendo il divieto di agire in conflitto di interessi con la societa’ rappresentata un limite derivante da una norma di legge, la sua rilevanza esterna non e’ subordinata ai presupposti stabiliti dell’articolo 2384 c.c., comma 2, il cui ambito di applicazione e’ riferito alle limitazioni del potere di rappresentanza derivanti dall’atto costitutivo o dallo statuto, che abbiano, cioe’, la propria fonte (non nella legge, ma) nell’autonomia privata (Cass. n. 1525/2006; Cass. n. 1089/1992; conf. Cass. n. 18792/2005, che ritiene irrilevante, in assenza di una deliberazione del consiglio di amministrazione con la determinazione del contenuto del contratto, che il contratto se sia stato concluso dall’amministratore unico o dall’amministratore munito di potere di rappresentanza, delegato o meno che sia, e cio’ in quanto l’articolo 2391 c.c., presuppone una preventiva deliberazione, in presenza della quale, l’annullamento del contratto e’ possibile solo se sia prima annullata la deliberazione che ne ha deciso la conclusione, previa dimostrazione della malafede del terzo).
Risulta quindi del tutto priva di fondamento la tesi posta a sostegno del motivo in esame, avendo la Corte d’Appello correttamente tratto la disciplina della fattispecie dalle norme codicistiche in tema di conflitto di interessi del rappresentante con il rappresentato, essendo peraltro frutto di una mera illazione, senza alcuna prova offerta da parte della ricorrente, che della situazione di potenziale conflitto di interesse la societa’ committente fosse gia’ stata resa edotta, sol perche’ la legge prevede che l’amministratore delegato debba periodicamente riferire al CDA sui fatti relativi alla propria gestione.
3. Il secondo motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione delle disposizioni in tema di presunzioni semplici, dalle quali far discendere la declaratoria di annullamento dei contratti per conflitto di interesse tra rappresentato e rappresentante.
Si assume che per pervenire all’annullamento del contratto e’ necessario che il confitto di interessi sia in concreto idoneo a determinare un pregiudizio per il rappresentato, occorrendo anche salvaguardare gli eventuali diritti dei terzi di buona fede.
Nella vicenda il Dott. (OMISSIS) era solo socio della societa’ ricorrente alle data di conclusione dei contratti, ma la sentenza impugnata non ha chiarito quale sia stato il vantaggio economico personalmente ritratto dall’ex amministratore della (OMISSIS).
La sentenza gravata ha posto a fondamento della propria decisione degli elementi presuntivi privi dei caratteri imposti dalla legge per assurgere al livello di prova dei fatti ignoti.
Il motivo deve del pari essere disatteso.

 

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I giudici di appello hanno correttamente identificato la nozione di conflitto di interesse rilevante ai fini dell’articolo 1394 c.c., sottolineando come la norma abbia riguardo alla potenzialita’ del pregiudizio per la parte rappresentata, non essendo altresi’ necessario provare che l’atto sia poi effettivamente vantaggioso o svantaggiosi per la parte.
In tal senso e’ stato affermato che il conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato costituisce causa di annullabilita’ del contratto concluso dal rappresentante quando quest’ultimo, anziche’ tendere alla tutela degli interessi del rappresentato, persegua interessi propri, suoi personali, o anche di terzi, inconciliabili con quelli del rappresentato, di modo che all’utilita’ conseguita o conseguibile dal rappresentante, per se’ medesimo o per il terzo, segua o possa seguire il danno del rappresentato (Cass. n. 3836 del 25/06/1985; Cass. n. 15981/2007; Cass. n. 18792/2005; Cass. n. 4505/2000).
In particolare i vincoli di solidarieta’ e la comunanza d’interessi fra rappresentante e terzo sono indizi che consentono al giudice del merito di ritenere, secondo l'”id quod plerumque accidit” ed in concorso con altri elementi (come l’inesistenza di qualsiasi interesse al contratto ovvero la sussistenza di un pregiudizio non correlato al alcun vantaggio), sia il proposito del rappresentante di favorire il terzo, sia la conoscenza effettiva o quanto meno la conoscibilita’ di tale situazione da parte del terzo, occorrendo altresi’ ribadire che l’accertamento dell’esistenza del conflitto che coinvolge un’indagine di fatto riservata al giudice di merito ed e’ sindacabile dal giudice di legittimita’ per vizi di motivazione ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5 – deve essere, peraltro, condotto sulla base del contenuto e delle modalita’ dell’operazione, prescindendo da una contestazione di formale contrapposizione di posizioni, che puo’ valere come semplice elemento presuntivo di conflitto (conf. Cass. n. 1214/1972; Cass. n. 3/1962.
E’ stato poi ritenuto che il giudice di merito puo’ argomentare l’esistenza di un tale conflitto e la sua conoscenza o conoscibilita’ da parte del terzo da elementi indiziari, quali il divario fra il valore di mercato del bene venduto dal rappresentante e il prezzo pagato dall’acquirente e la comunanza di interessi fra rappresentante e terzo (Cass. n. 7698/1996).

 

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Nella specie deve ritenersi che l’accertamento del conflitto di interessi esistente tra la societa’ opponente ed il proprio amministratore sia incensurabile, in quanto logicamente argomentato e tale da evidenziare l’esistenza di un rapporto d’incompatibilita’ tra gli interessi del rappresentato e quelli del rappresentante, da dimostrare non in modo astratto od ipotetico ma con riferimento al singolo atto o negozio che, per le sue intrinseche caratteristiche, consenta la creazione dell’utile di un soggetto mediante il sacrificio dell’altro (cfr. Cass. n. 2529/2017). Ne’ coglie nel segno la critica volta a contestare il concreto utilizzo delle presunzioni nella fattispecie occorre ricordare che l’articolo 2729 c.c., nel prescrivere che le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla “prudenza del giudice” (secondo una formula analoga a quella che si rinviene nell’articolo 116 c.p.c., a proposito della valutazione delle prove dirette), impone al giudice di compiere l’inferenza logica dal fatto secondario (fatto noto) al fatto principale (fatto ignoto) sulla base di una regola d’esperienza che egli deve ricavare dal sensus communis, dalla conoscenza dell’uomo medio, dal sapere collettivo della comunita’ sociale in quel dato momento storico. Grazie alla regola d’esperienza adottata, e’ possibile per il giudice concludere che l’esistenza del fatto secondario (indizio) deponga, con un grado di probabilita’ piu’ o meno alto, per l’esistenza del fatto principale. Lo stesso articolo 2729 c.c. si cura di precisare come debba manifestarsi la “prudenza” del giudice, stabilendo che il decidente deve ammettere solo presunzioni che siano “gravi, precise e concordanti”; laddove il requisito della “precisione” va riferito al fatto noto (indizio) che costituisce il punto di partenza dell’inferenza e postula che esso non sia vago ma ben determinato nella sua realta’ storica; il requisito della “gravita’” va riferito al grado di probabilita’ della sussistenza del fatto ignoto che, sulla base della regola d’esperienza adottata, e’ possibile desumere dal fatto noto; mentre il requisito della “concordanza” richiede che il fatto ignoto sia – di regola – desunto da una pluralita’ di indizi gravi e precisi, univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza (cfr. Cass. n. 11906/2003), anche se il requisito della “concordanza” deve ritenersi menzionato dalla legge solo per il caso di un eventuale ma non necessario concorso di piu’ elementi presuntivi (Cass. n. 17574/2009).
Dal modello di prova per presunzioni configurato dalla legge, risulta che il giudice deve seguire un procedimento logico che si articola in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre che il giudice valuti in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravita’, presentino cioe’ una positivita’ parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, egli deve procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta considerando atomisticamente uno o alcuni indizi (Cass. n. 19894/2005). In questo secondo momento valutativo, percio’, gli indizi devono essere presi in esame e valutati dal giudice tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri allo scopo di verificare la concordanza delle presunzioni che da essi possono desumersi (c.d. convergenza del molteplice); dovendosi considerare erroneo l’operato del giudice di merito il quale, al cospetto di plurimi indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignita’ di prova (Cass. n. 3703/2012).
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio, per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida ai sensi degli articoli 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessita’ causale, ma e’ sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto – in forza di una regola d’esperienza come conseguenza meramente probabile, secondo un criterio di normalita’ (Cass. n. 22656/2011); in altre parole, e’ sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilita’ basato sull’id quod plerumque accidit (in virtu’ di una inferenza di natura probabilistica), sicche’ il giudice puo’ trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purche’ dotati dei requisiti legali della gravita’, precisione e concordanza, mentre e’ da escludere che possa attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici (Cass. n. 2632/2014).
Essendo la presunzione semplice affidata alla “prudente” valutazione del decidente (articolo 2729 c.c.), spetta al giudice di merito valutare la possibilita’ di fare ricorso a tale tipo di prova, scegliere i fatti noti da porre a base della presunzione e le regole d’esperienza – tra quelle realmente esistenti nel sapere collettivo della societa’ – tramite le quali dedurre il fatto ignoto, valutare la ricorrenza dei requisiti di precisione, gravita’ e concordanza richiesti dalla legge; trattandosi di apprezzamento affidato alla valutazione discrezionale del giudice di merito, esso e’ sottratto al sindacato di legittimita’ se congruamente motivato (Cass. n. 8023/2009, n. 15737/2003, n. 11906/2003; da ultimo, Cass. n. 101/2015).
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno poi precisato che (Cass. S.U. n. 1785/2018) la denuncia di violazione o di falsa applicazione della norma di diritto di cui all’articolo 2729 c.c., si puo’ prospettare sotto i seguenti aspetti:
aa) il giudice di merito (ma e’ caso scolastico) contraddice il disposto dell’articolo 2729 c.c., comma 1, affermando (e, quindi, facendone poi concreta applicazione) che un ragionamento presuntivo puo’ basarsi anche su presunzioni (rectius: fatti), che non siano gravi, precise e concordanti: questo e’ un errore di diretta violazione della norma;
bb) il giudice di merito fonda la presunzione su un fatto storico privo di gravita’ o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, cosi’ sussumendo sotto la norma dell’articolo 2729 c.c., fatti privi di quelle caratteristiche e, quindi, incorrendo in una sua falsa applicazione, giacche’ dichiara di applicarla assumendola esattamente nel suo contenuto astratto, ma lo fa con riguardo ad una fattispecie concreta che non si presta ad essere ricondotta sotto tale contenuto, cioe’ sotto la specie della gravita’, precisione e concordanza.

 

Prova presuntiva solo presunzioni gravi precise e concordanti

Con riferimento a tale secondo profilo, la gravita’ allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioe’ rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche lex artis), che esprime nient’altro – almeno secondo l’opinione preferibile – che la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui dato un fatto A noto e’ probabile che si sia verificato il fatto B; la precisione esprime l’idea che l’inferenza probabilistica conduca alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilita’ che si indirizzi solo verso il fatto B e non lasci spazio, sempre al livello della probabilita’, ad indirizzarsi in senso diverso, cioe’ anche verso un altro o altri fatti; la concordanza esprime un requisito del ragionamento presuntivo (cioe’ di una applicazione “non falsa” dell’articolo 2729 c.c.), che non lo concerne in modo assoluto, cioe’ di per se’ considerato, come invece gli altri due elementi, bensi’ in modo relativo, cioe’ nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori considerati, volendo esprimere l’idea che, in tanto la presunzione e’ ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi.
Ebbene, quando il giudice di merito sussume erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione fatti concreti accertati che non sono invece rispondenti a quei caratteri, si deve senz’altro ritenere che il suo ragionamento sia censurabile alla stregua dell’articolo 360 c.p.c., n. 3 e compete, dunque, alla Corte di cassazione controllare se la norma dell’articolo 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta dal giudice di merito, lo sia stata anche a livello di applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta. Essa puo’, pertanto, essere investita ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, dell’errore in cui il giudice di merito sia incorso nel considerare grave una presunzione (cioe’ un’inferenza) che non lo sia o sotto un profilo logico generale o sotto il particolare profilo logico (interno ad una certa disciplina) entro il quale essa si collochi. La stessa cosa dicasi per il controllo della precisione e per quello della concordanza.
In base alle considerazioni svolte la deduzione del vizio di falsa applicazione dell’articolo 2729 c.c., comma 1, suppone allora un’attivita’ argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito assunto, pero’, come tale e, quindi, in facto per come e’ stato enunciato – risulti irrispettoso del paradigma della gravita’, o di quello della precisione o di quello della concordanza.
Di contro, la critica al ragionamento presuntivo svolto dal giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando invece si concreta o in un’attivita’ diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali, in relazione alle quali il ragionamento presuntivo e’ stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicche’ il giudice di merito e’ partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell’applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perche’ quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell’articolo 2729, comma 1 (e cio’ tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali su cui si e’ basato il giudice di merito, quanto se basata altresi’ su altre circostanze fattuali). In questi casi la critica si risolve in realta’ in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti, e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio e ci si pone su un terreno che non e’ quello dell’articolo 360 c.p.c., n. 3 (falsa applicazione dell’articolo 2729 c.c., comma 1), ma e’ quello che sollecita un controllo sulla motivazione del giudice relativa alla ricostruzione della quaestio facti. Terreno che, come le Sezioni Unite, (Cass., Sez. Un., nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno avuto modo di precisare, vigente dell’articolo 360 c.p.c., nuovo n. 5, e’ percorribile solo qualora si denunci che il giudice di merito abbia omesso l’esame di un fatto principale o secondario, che avrebbe avuto carattere decisivo per una diversa individuazione del modo di essere della detta quaestio ai fini della decisione, occorrendo, peraltro, che tale fatto venga indicato in modo chiaro e non potendo esso individuarsi solo nell’omessa valutazione di una risultanza istruttoria.

 

Prova presuntiva solo presunzioni gravi precise e concordanti

A tali principi ha poi dato seguito la successiva giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 18611/2021), essendosi appunto affermato che spetta al giudice di merito valutare l’opportunita’ di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimita’, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non puo’ limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicita’ e contraddittorieta’ del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo, e neppure occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessita’ causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalita’, visto che la deduzione logica e’ una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (Cass. n. 22366/2021).
Nella specie, l’illustrazione dei motivi non e’ idonea a prospettare a ben vedere la falsa applicazione dell’articolo 2729, comma 1, nei termini su indicati, ma si risolve, come detto, solo nella prospettazione di pretese inferenze probabilistiche diverse sulla base della evocazione di emergenze istruttorie e talora nella prospettazione di una diversa ricostruzione delle quaestiones facti ripercorse in relazione agli oggetti delle varie circostanze emerse, cosi’ che non presentano le caratteristiche della denuncia di un vizio di falsa applicazione dell’articolo 2729 c.c., comma 1.
La sentenza gravata ha evidenziato come i due contratti annullati fossero stati conclusi tra la societa’, all’epoca rappresentata dal (OMISSIS), e la diversa societa’ di cui lo stesso (OMISSIS) era socio fondatore, avendo conservato una partecipazione rilevante ed a fronte di una compagine societaria numericamente esigua.
E’ stato altresi’ sottolineato come i contratti furono conclusi poco prima che intervenissero le dimissioni del (OMISSIS), dovendosi sottolineare come, sebbene le stesse fossero formalmente intervenute nel mese di ottobre del 2010, gia’ da aprile dello stesso anno questi si era allontanato dalla societa’, ponendosi in congedo parentale.
Con accertamento in fatto, supportato dalle prove raccolte, e’ stato altresi’ sottolineato come, anche durante il periodo in cui era amministratore della controricorrente, aveva continuato di fatto ad occuparsi della gestione della societa’ ricorrente. Inoltre, sono state evidenziate sia la durata del contratto di agenzia pubblicitaria sia l’entita’ del compenso, ritenuto, anche qui con accertamento in fatto, superiore a quello di norma richiesto da altri operatori del settore per prestazioni di analogo contenuto.

 

Prova presuntiva solo presunzioni gravi precise e concordanti

Alla luce di tali elementi, con ragionamento di tipo presuntivo ma tenendo conto di elementi che indubbiamente hanno le caratteristiche imposte dall’articolo 2729 c.c., la sentenza ha tratto il convincimento che il conflitto di interessi fosse alla data di conclusione dei contratti, non solo potenziale, ma addirittura attuale, e cio’ alla luce del fatto che era imminente (e ragionevolmente prevista se non anche preordinata), la decisione di allontanarsi dalla gestione della societa’ committente, onde assicurare un vantaggio alla (OMISSIS), che avrebbe fruito di una sorta di rendita correlata alla conclusione di contratti di durata triennale e per un corrispettivo sicuramente maggiore di quello che si sarebbe potuto ricavare secondo le regole della concorrenza tra gli operatori del settore.
La sentenza, inoltre, ed in risposta ad una specifica critica reiterata nel motivo di ricorso, ha tratto dalla consistenza della compagine societaria della ricorrente, anche la presunzione che quest’ultima fosse a conoscenza del conflitto di interessi (o che comunque fosse percepibile), e cio’ in quanto i suoi vertici dell’epoca non potevano non ignorare che il (OMISSIS) fosse al contempo sia loro consocio che amministratore della societa’ committente, palesandosi quindi del tutto priva di fondamento la pretesa secondo cui sarebbe stato necessario dimostrare la mala fede della ricorrente ai fini dell’annullamento.
4. Il terzo motivo di ricorso deduce la violazione o falsa applicazione delle norme in materia di convalida del negozio giuridico annullabile.
Si deduce che il CDA di (OMISSIS) non poteva non essere a conoscenza dell’operato del (OMISSIS) e quindi avrebbe potuto immediatamente agire a tutela del proprio interesse, dovendosi quindi accreditare la condotta esecutiva del contratto come idonea a porre in essere la convalida del contratto.
Il motivo va rigettato.
La premessa erronea da cui muove la deduzione della ricorrente e’ che, in contrasto con quanto gia’ evidenziato in occasione della disamina del primo motivo, alla fattispecie trovi applicazione il disposto di cui all’articolo 2391 c.c..
Inoltre, si ribadisce, e senza che sul punto sia stata offerta prova alcuna, che solo perche’ l’amministratore ha un obbligo legale di riferire al CDA della propria gestione, quest’ultimo fosse stato effettivamente informato anche della conclusione dei contratti oggetto di causa.
L’evidente insussistenza delle premesse in fatto ed in diritto da cui muove la critica della ricorrente, conferma la correttezza della decisione di appello che ha escluso che potesse ravvisarsi una convalida da parte della societa’.
Infatti, oltre a doversi ricordare che in tema di societa’ di capitali, anche l’approvazione del bilancio non costituisce ratifica tacita dell’operato dell’amministratore in conflitto d’interessi, in quanto sia la disciplina del bilancio che quella dell’assemblea hanno natura imperativa e rispondono all’interesse pubblico ad un regolare svolgimento dell’attivita’ economica (Cass. n. 6220/2013), essendo in ogni caso necessario che, sempre ai fini della convalida degli atti posti in essere in conflitto di interessi da parte dell’amministratore della societa’, deve risultare accertata univocamente, al di la’ della mera approvazione degli atti gestori, la volonta’ specifica di far proprio l’atto posto in essere dal rappresentante (Cass. n. 21517/2016), nella vicenda la sentenza ha sottolineato come in realta’ le condotte che a detta della ricorrente deporrebbero per la convalida tacita, siano state poste in essere in epoca anteriore o coeva alla formalizzazione delle dimissioni del (OMISSIS), ed allorche’ questi ancora rivestiva la qualita’ di amministratore delegato, persistendo quindi in capo al soggetto formalmente abilitato a porre in essere una convalida tacita quella situazione di conflitto di interessi che in via genetica ha inficiato la validita’ dei contratti, argomento questo che non risulta in alcun modo attinto dal mezzo di gravame in esame.
D’altronde la stessa ipoteticita’ della conoscenza della causa di invalidita’ del contratto (cfr. pag. 23, ove tra parentesi la ricorrente evidenza come la (OMISSIS) “poteva essere” a conoscenza del conflitto di interessi) esclude l’applicazione dell’articolo 1444 c.c., che presuppone invece l’effettiva conoscenza della causa di annullamento (cfr. al riguardo Cass. n. 13296/2012 secondo cui solo un obbligo di conoscenza potrebbe essere equiparato alla effettiva conoscenza del vizio).

 

Prova presuntiva solo presunzioni gravi precise e concordanti

L’infondatezza della deduzione in punto di ammissibilita’ della convalida tacita implica poi che debbano essere disattese anche le censure, mosse espressamente in via conseguenziale all’accoglimento della denuncia della violazione dell’articolo 1444 c.c., in merito alle pretese di pagamento delle maggiori somme richieste in via monitoria, non senza osservare che anche la critica al ragionamento svolto dai giudici di appello per individuare la somma effettivamente spettante alla ricorrente, per effetto dell’annullamento dei contratti, risulta del tutto generica e come tale inammissibile.
5. Il ricorso e’ pertanto rigettato, dovendosi regolare le spese in base al principio della soccombenza.
6. Poiche’ il ricorso e’ stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed e’ rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilita’ 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimita’ che liquida in complessivi Euro 7.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.

 

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In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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