Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|4 novembre 2024| n. 28320.
Prosecuzione attività societaria: non sempre dannosa
Massima: In tema di società di capitali, la prosecuzione dell’attività sociale al verificarsi di una causa di scioglimento non è, di per sé, necessariamente dannosa, ben potendo ipotizzarsi che la condotta non conservativa degli amministratori non abbia apportato danni o addirittura abbia recato un vantaggio alla società, sicchè ogni questione concernente l’affermazione di una loro responsabilità ai sensi dell’art. 2486, comma 2, cod. civ., perde di pregnanza ove non sussista prova alcuna del ricorrere di un pregiudizio al patrimonio sociale determinato da tale condotta.
Ordinanza|4 novembre 2024| n. 28320. Prosecuzione attività societaria: non sempre dannosa
Data udienza 17 maggio 2024
Integrale
Tag/parola chiave: Società di capitali – Scioglimento e liquidazione – Poteri degli amministratori – Causa di scioglimento della società – Prosecuzione dell’attività sociale – Responsabilità degli amministratori – Limiti – Mancanza di ogni pregiudizio al patrimonio sociale – Esclusione
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRISTIANO Magda – Presidente
Dott. PAZZI Alberto – Consigliere Rel.
Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18324/2021 R.G. proposto da:
FALLIMENTO di TE. Srl società unipersonale in liquidazione, in persona del curatore p.t., rappresentato e difeso dall’avvocato Ro.Ma. (c.f. Omissis), giusta procura speciale in calce al ricorso
– ricorrente –
contro
BANCA MO.DE. Spa, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Vi.Di. (c.f. Omissis) e Pa.Le. (c.f. Omissis), giusta procura speciale congiunta al controricorso
– controricorrente –
nonché contro
UN. Spa, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Fr.Ca. (c.f. Omissis) e Fa.Ca. (c.f. Omissis), giusta procura speciale in calce al controricorso
– controricorrente –
nonché contro
BANCO DI.DE. Spa, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’avvocato Pa.Fe. (c.f. Omissis) giusta procura speciale in calce al controricorso
– controricorrente –
nonché contro
Li.Pa., rappresentato e difeso dall’avvocato Fo.Tr. (c.f. Omissis), giusta procura speciale a margine del controricorso
– controricorrente –
nonché contro
BP. BANCA Spa, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avvocato Vi.Ma. (c.f. Omissis) giusta procura speciale in calce al controricorso
– controricorrente –
nonché contro
BANCA CE.CR. SOCIETA’ COOPERATIVA, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati To.De. (c.f. Omissis) e La.Br. (c.f. Omissis) giusta procura speciale allegata al controricorso
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Perugia n. 245/2021 depositata il 27/4/2021;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17/5/2024 dal Consigliere Alberto Pazzi.
Prosecuzione attività societaria: non sempre dannosa
RILEVATO CHE:
1. Il Fallimento di TE. Srl conveniva in giudizio l’ex amministratore della società, Li.Pa., nonché UGF Banca Spa, Banca MO.DE. Spa, UN. Ba.Di. Spa, Cr. Banca di Credito Cooperativo e Banca Po.Di. Spa perché, una volta accertata la responsabilità del primo per aver falsificato i bilanci societari a partire dall’esercizio 2006, proseguito l’attività dopo la perdita del capitale sociale, aver percepito compensi non deliberati ed essersi appropriato di somme di spettanza dell’amministrata, nonché la responsabilità delle seconde per concessione abusiva del credito, fossero condannati, ai sensi degli artt. 146 L.Fall. e/o 2043 cod. civ., al risarcimento dei danni subiti dalla società, che quantificava in misura pari alla differenza fra attivo e passivo (Euro 1.933.511,30).
Il Tribunale di Terni, con sentenza n. 1037/2017, accoglieva in minima parte la sola domanda avanzata contro Li.Pa., condannandolo a pagare all’attore la somma di Euro 58.915, di cui si era indebitamente appropriato, maggiorata di accessori e spese.
2. L’appello proposto dal Fallimento contro la decisione veniva rigettato dalla Corte d’Appello di Perugia
Quanto agli addebiti rivolti al Li.Pa., la corte del merito – premesso in fatto che nelle more del giudizio di primo grado questi era stato sottoposto a procedimento penale per il delitto di bancarotta fraudolenta documentale e che il processo era stato definito con sentenza di applicazione della pena su richiesta- rilevava: i) che la sentenza di patteggiamento aveva un’efficacia limitata, assumendo valore indiziario e potendo concorrere a un’eventuale affermazione di responsabilità solo unitamente ad altri elementi; ii) che tuttavia gli altri elementi evincibili dagli atti non erano idonei a provare le condotte illecite imputate dal Fallimento all’amministratore, né il nesso causale fra le stesse e il pregiudizio lamentato, né l’esistenza e l’ammontare del danno; iii) che la prova in questione non poteva trarsi dalla relazione del consulente aziendale Pe., contestata dal convenuto e comunque non utilizzabile in giudizio, sia perché priva di riferimenti alla specifica documentazione esaminata dal consulente, sia perché non riscontrabile attraverso la relazione del curatore ex art. 33 L.Fall., non prodotta; iv) che la prosecuzione dell’attività secondo criteri non meramente conservativi, quali necessitati dalla situazione di crisi aziendale, la mancata ricapitalizzazione della società, come pure la percezione di compensi non deliberati, costituivano scelte gestionali non sindacabili; v) che il Tribunale aveva correttamente liquidato il danno nella sommatoria degli importi delle singole appropriazioni ritenute provate, escludendone la determinazione in via equitativa per difetto di prova dell’an debeatur nonché di parametri alternativi rispetto a quello, non condivisibile, della differenza tra l’attivo e il passivo fallimentare.
Prosecuzione attività societaria: non sempre dannosa
Quanto all’azione intentata contro le banche, il giudice d’appello osservava: i) che, come già accertato dal primo giudice, difettava la prova di circostanze rilevanti per affermare la responsabilità delle convenute/appellate nell’ambito dell’unica azione che il curatore era potenzialmente legittimato a proporre nei loro confronti, relativa agli addebiti di mala gestio di cui esse erano state chiamate a rispondere in concorso con gli amministratori; ii) che, in assenza di una dimostrazione specifica di comportamenti delittuosi o comunque compiuti in violazione di legge, la mera circostanza che le banche avessero erogato il credito a una società che poteva presentare alcuni indicatori di una sofferenza finanziaria non comportava alcuna ipotesi di responsabilità a loro carico; iii) che, comunque, era assente ogni prova che gli istituti di credito fossero consapevoli della situazione di difficoltà economica in cui versava la società poi fallita negli anni, successivi al 2006, di presunta manifestazione della crisi.
3. Il Fallimento di TE. Srl ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, pubblicata in data 27 aprile 2021, prospettando cinque motivi di doglianza, ai quali hanno resistito con controricorso Li.Pa., Banca MO.DE. Spa, Banco DI.DE. Spa (in cui è stata fusa per incorporazione Banca Po.Di. Spa), Banca CE.CR. soc. coop. (risultante dalla fusione per incorporazione di Banca Cr.Cr. in BC.Um. Credito Cooperativo, quest’ultima risultante dalla fusione di Cr. Banca di Credito Cooperativo soc. coop. e Cr.Co.), UN. Spa e BP. Banca Spa (incorporante Un. Banca Spa, già UG. Banca).
Il ricorrente, Banca MO.DE. Spa, Banco DI.DE. Spa, UN. Spa e Banca CE.CR. soc. coop. hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.
CONSIDERATO CHE:
4. I primi quattro motivi di ricorso investono la pronuncia di rigetto dell’appello proposto dal Fallimento contro Li.Pa.,
4.1. Il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2482-ter, 2484, comma 1, n. 4, 2485 e 2486 cod. civ.: si contesta che, in una situazione di conclamata crisi aziendale per l’esistenza di perdite che abbiano azzerato il capitale sociale, la percezione da parte dell’amministratore, in assenza di delibera, di compensi non esigui e la prosecuzione dell’attività in modalità non meramente conservativa, cosi come la mancata indizione di un’assemblea per deliberare la ricapitalizzazione della società o la sua messa in liquidazione, costituiscano scelte gestionali non sindacabili in sede di azione di responsabilità.
4.2 Il secondo motivo lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2709 e 2729 cod. civ., in relazione agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., ed assume la nullità della sentenza impugnata, ex art. 360 comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per assenza di motivazione, in violazione e falsa applicazione degli artt. 132 comma 1, n. 4, cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ..
La Corte d’Appello non avrebbe valutato compiutamente e correttamente, in modo unitario e complessivo, tutti gli elementi di prova, soprattutto documentali, forniti dal Fallimento a fondamento della domanda risarcitoria; in particolare, non avrebbe tenuto conto della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, malgrado la stessa costituisse un indizio importante e non trascurabile del riconoscimento da parte di Li.Pa. delle violazioni addebitategli, né della relazione del consulente di parte attrice, erroneamente giudicata inutilizzabile nonostante fosse stata confermata in sede testimoniale e trovasse pieno riscontro nelle scritture contabili e nei dati di bilancio della fallita.
Prosecuzione attività societaria: non sempre dannosa
4.3 Il terzo motivo di ricorso assume, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2392, 2393, 2486 cod. civ. e 146 L.Fall., perché la Corte d’Appello ha erroneamente ritenuto inapplicabile, per la quantificazione del danno, il principio della differenza tra i netti patrimoniali di periodo, malgrado questo criterio consenta di apprezzare il pregiudizio derivato dalle condotte di mala gestio e il compimento di operazioni non conservative non solo con riferimento ai singoli atti, ma anche nella sua proiezione dinamica.
4.4 Il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ, la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 132, comma 2, n. 4, cod. proc. civ., perché la Corte d’Appello non ha motivato adeguatamente la decisione di non ammettere la C.T.U. richiesta dal Fallimento, sia in primo grado che in appello, in relazione a una domanda che richiedeva necessariamente un accertamento tecnico sulle violazioni contestate all’ex amministratore e sul criterio da utilizzare per la quantificazione del danno dalle stesse arrecato al patrimonio sociale.
5. Il secondo motivo, che riveste priorità logica, è inammissibile.
5.1 Secondo il giudice distrettuale “gli ulteriori elementi in atti non sono tali da provare le ulteriori violazioni, ipotizzate dal fallimento nei confronti dell’amministratore in rapporto ai doveri, incombenti su di lui per l’esercizio della carica, violazioni che dovevano essere specificamente provate, unitamente al pregiudizio da esse determinato al patrimonio sociale e al nesso causale, che fosse eventualmente configurabile tra le condotte addebitate all’amministratore e il danno, lamentato dal fallimento” (pag. 5 della decisione impugnata).
In altri termini, la Corte d’Appello ha ritenuto che non solo non risultavano dimostrate le ulteriori condotte illecite ascritte all’amministratore e non ravvisate dal primo giudice, ma che non v’era prova del nesso causale fra tali condotte e il preteso pregiudizio da esse derivato alla fallita (neppure provato, perché non riconducibile semplicisticamente alla differenza fra attività e passività).
Su questo secondo punto nessuna censura è stata svolta dalla procedura ricorrente, che, con il mezzo in esame, si limita a contestare (peraltro in via del tutto generica, senza indicare i fatti decisivi di cui la corte del merito non avrebbe tenuto conto e che se considerati avrebbero determinato un diverso esito del gravame) di non aver fornito prova delle violazioni compiute da Li.Pa.
Risulta perciò definitivamente accertata la mancata dimostrazione del pregiudizio provocato dalle condotte ipotizzate e del nesso causale fra le violazioni ascritte e il danno lamentato.
Prosecuzione attività societaria: non sempre dannosa
5.2. Ne consegue, in primo luogo, l’inammissibilità per difetto di interesse (se non l’assorbimento) del primo motivo del ricorso, in entrambe le sue articolazioni.
Il motivo muove in effetti da giusti rilievi, posto che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’Appello (la cui motivazione sul punto va corretta ai sensi dell’art. 384, comma 4, cod. proc. civ.), sia la prosecuzione dell’attività dopo la perdita del capitale sociale, sia la percezione di compensi non deliberati dall’assemblea, lungi dal costituire scelte dell’organo di gestione non sindacabili ai sensi dell’art. 146 L.Fall., integrano violazioni di specifiche norme di legge, ovvero, rispettivamente, degli artt. 2482 ter e 2486 c.c. che, in caso di riduzione del capitale al di sotto del minimo legale, impongono agli amministratori di convocare senza indugio l’assemblea per provvedere alla ricapitalizzazione o alla messa in liquidazione della società e di provvedere, nel frattempo, a una gestione meramente conservativa, e dell’art. 2389, comma 1, cod. civ., il quale prevede che per la determinazione della misura del compenso degli amministratori di una società di capitali, in mancanza di un’indicazione statutaria, è necessaria un’esplicita delibera assembleare, che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio (cfr. Cass., Sez. U., 21933/2008; nello stesso senso Cass. 17673/2013, Cass. 20265/2013, Cass. 5763/2021, Cass. 10308/2021).
Tuttavia, con riferimento al primo profilo di doglianza va rilevato che la prosecuzione dell’attività sociale al verificarsi di una causa di scioglimento non è, di per sé necessariamente dannosa, ben potendo ipotizzarsi che la condotta non conservativa degli amministratori non abbia apportato danni (o addirittura abbia recato un vantaggio) alla società, con la conseguenza che ogni questione concernente la loro responsabilità ai sensi del 2 comma dell’art. 2486 cit. perde di pregnanza quando, come nel caso di specie, non via sia prova del ricorrere di un pregiudizio al patrimonio sociale determinato da detta condotta.
Quanto al secondo profilo è invece sufficiente osservare che il ricorrente dà per scontato che Li.Pa. si sia attribuito compensi in assenza di delibera ma non spiega, nonostante fosse gravato del relativo onere probatorio, come e dove questa circostanza, che non ha formato oggetto di specifico accertamento da parte del giudice del merito, sia stata acquisita al giudizio.
Inoltre, l’assunto secondo cui la percezione sarebbe avvenuta in una situazione di conclamata crisi aziendale finisce per contrastare con
la valutazione della congerie istruttoria compiuta dalla corte distrettuale, la quale, da una parte, ha correttamente rilevato che la sentenza di patteggiamento ha un’efficacia probatoria limitata e non piena (dato che non ha efficacia di vincolo né di giudicato e neppure inverte l’onere della prova, potendo esserle riconosciuta la natura di elemento di prova di cui il giudice civile può tener conto; Cass. 31010/2023, Cass. 2897/2024), dall’altra ha ritenuto, con un accertamento di merito non sindacabile in questa sede di legittimità, che la relazione Pe. costituisse un elaborato non suscettibile di essere utilizzato ai fini del decidere, a motivo della genericità del suo contenuto.
Prosecuzione attività societaria: non sempre dannosa
5.3 Fermo l’accertamento della corte del merito in ordine all’assenza di prova del pregiudizio arrecato dalle violazioni ascritte all’amministratore e di un nesso causale fra la condotta da questi tenuta e il danno lamentato, restano assorbiti il terzo e il quarto motivo di censura.
6. Il quinto motivo, che investe il capo della decisione impugnata col quale è stato respinto l’appello proposto contro le banche, prospetta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 146 L.Fall., in relazione agli artt. 2055 e 2393 cod. civ., dell’art. 218 L.Fall., anche in relazione all’art. 185 cod. pen., degli artt. 2697, 2727 e 2729 cod. civ., in relazione agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., nonché, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 111, comma 6, Cost. e 132, comma 2, n. 4, cod. proc. civ.: il Fallimento, riepilogate le violazioni addebitate all’amministratore, di cui si è già detto, lamenta che la corte del merito non abbia tenuto conto di una serie di indizi fattuali (la mancata predisposizione da parte della società di un adeguato piano di risanamento; i dati rilevabili dai bilanci, rappresentativi di un costante incremento dei debiti verso il ceto bancario e degli oneri relativi; la struttura finanziaria squilibrata e la forte sottocapitalizzazione della società, che aveva un capitale versato di soli Euro 10.200, che rendeva insussistente il merito creditizio; il fatto che Li.Pa. fosse segnalato presso la Centrale Rischi della Banca d’Italia) ritenuti decisivi per provare che gli istituti di credito, operatori qualificati perfettamente in grado di rilevare i sintomi della crisi, erano a conoscenza della situazione deficitaria in cui versava TE. e, ciò nonostante, avevano continuato a finanziarla, aggravandone il dissesto.
Secondo il ricorrente il giudice distrettuale non avrebbe proceduto a un apprezzamento complessivo di questi elementi, incorrendo così nella violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. e fornendo sul punto una motivazione totalmente apparente ed inesistente.
7. Anche questo motivo è inammissibile.
7.1 È opportuno ricordare che costituisce reato, ai sensi dell’art. 218 L.Fall., e nel contempo integra un illecito civile il fatto degli amministratori, dei direttori generali, dei liquidatori e in genere degli imprenditori esercenti un’attività commerciale che, anche al di fuori dei casi di bancarotta, “ricorrono o continuano a ricorrere al credito… dissimulando il dissesto o lo stato d’insolvenza”.
Il curatore fallimentare è legittimato ad agire, ai sensi dell’art. 146 L.Fall. e in correlazione con l’art. 2393 cod. civ., nei confronti della banca ove la posizione a questa ascritta sia di terzo responsabile solidale del danno cagionato alla società fallita per effetto dell’abusivo ricorso al credito da parte dell’amministratore di tale società (v. Cass. 9983/2017, Cass. 13413/2010).
In questo modo il fallimento adduce a fondamento della sua pretesa la responsabilità del finanziatore verso il soggetto finanziato per il pregiudizio diretto e immediato causato al patrimonio di questo dall’attività di finanziamento, quale presupposto dell’azione che al curatore spetta come successore nei rapporti del fallito.
7.2 Questa Corte, recentemente (Cass. 18610/2021), ha avuto modo di precisare che la condotta illecita di chi, in simmetria con il ricorso abusivo al credito, tale credito accordi, qualificata come “concessione abusiva di credito”, consiste nell’agire del finanziatore che conceda, o continui a concedere, incautamente, credito in favore dell’imprenditore che versi in istato d’insolvenza o comunque di crisi conclamata, in violazione dell’obbligo di valutare con prudenza la concessione del credito ai soggetti finanziati, in particolare ove in difficoltà economica.
Prosecuzione attività societaria: non sempre dannosa
Questa erogazione del credito abusiva, perché effettuata, con dolo o colpa, ad impresa che si palesa in una situazione di difficoltà economico-finanziaria ed in mancanza di concrete prospettive di superamento della crisi, integra un illecito del soggetto finanziatore, per essere egli venuto meno ai suoi doveri primari di una prudente gestione, che obbliga il medesimo al risarcimento del danno, ove ne discenda l’aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell’attività d’impresa.
Non integra, invece, abusiva concessione di credito la condotta della banca che, pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi dell’impresa, abbia assunto un rischio non irragionevole, operando nell’intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un’impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito ai detti scopi.
Sotto il profilo dell’onere della prova, ai fini della configurabilità della responsabilità del soggetto finanziatore per le condotte enunciate, il curatore ha l’onere di dedurre e provare: a) la condotta violativa delle regole che disciplinano l’attività bancaria, caratterizzata da dolo o almeno da colpa, intesa come imprudenza, negligenza, violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline, ai sensi dell’art. 43 cod. pen.; b) il danno-evento, dato dalla prosecuzione dell’attività d’impresa in perdita; c) il danno-conseguenza, rappresentato dall’aumento del dissesto; d) il rapporto di causalità fra tali danni e la condotta tenuta.
7.3 Il mezzo in esame lamenta la mancata valorizzazione di una serie di elementi indiziari della precaria situazione finanziaria in cui versava TE., sostenendo che di essi la Corte d’Appello avrebbe dovuto tenere conto ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ..
Un simile assunto non assume rilievo ai fini di valutare la fondatezza dell’azione in discorso.
Costituivano, infatti, fatti decisivi soltanto quelli idonei a provare il ricorrere di una concessione abusiva di credito, nei termini appena illustrati ed alla luce degli oneri probatori di cui il curatore era gravato ai fini di far valere una simile responsabilità.
Più precisamente, l’odierna ricorrente lamenta la mancata considerazione sia della persistente e sistematica violazione delle regole di corretta redazione dei bilanci e dell’appostazione di crediti inesistenti o inesigibili per coprire le perdite, sia della conseguente mancanza di un merito creditizio di TE., senza però allegare di aver mai dedotto quale condotta, dolosa o colposa, irrispettosa delle regole che disciplinano l’attività bancaria intendeva ascrivere a ciascuno degli istituti di credito convenuti rispetto al mancato riconoscimento degli artifici di bilancio (asseritamente) commessi dalla fallita.
Allo stesso modo la procedura non spiega di aver mai sostenuto che dalla prosecuzione dell’attività di impresa in perdita consentita dalla concessione abusiva di credito da parte di ciascuna banca fosse derivato, secondo uno stretto rapporto causale, un aumento del dissesto.
Prosecuzione attività societaria: non sempre dannosa
In presenza di un simile deficit di allegazione (e prova) gli elementi indiziari di cui il mezzo lamenta la mancata valorizzazione non assumevano rilievo decisivo, essendo di per sé inidonei a dimostrare l’esistenza di un’abusiva erogazione del credito da parte delle banche convenute.
8. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida, in favore di Banca MO.DE. Spa, Banco DI.DE. Spa, UN. Spa e Banca CE.CR. soc. coop., in Euro 9.400 ciascuno, di cui Euro 200 per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%, e in favore degli altri controricorrenti in Euro 7.200 ciascuno, di cui Euro 200 per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.
Ricorrono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 17 maggio 2024.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2024.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Le sentenze sono di pubblico dominio.
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