Possesso, usucapione e le azioni a tutela

 Possesso, usucapione e le azioni a tutela

Saggio dottrinario e giurisprudenziale sul possesso, l’usucapione e le azioni a tutela costantemente aggiornato con le sentenze recenti della

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Sommario

1) Nozione e natura giuridica del possesso

art. 1140 c.c.    possesso: il possesso   è il potere    sulla cosa   che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale.

Si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa.

Il possesso non si tratta di un diritto, ma di una situazione di fatto giuridicamente rilevante, e la differenza tra il possesso e la proprietà sta nel fatto che il possessore non può essere proprietario e, viceversa, il proprietario può non essere il possessore.

I giuristi romani colsero anche la distinzione tra:

1)              la detenzione (naturalis possessio), intesa quale mera disponibilità della cosa

2)              il possesso (possessio), caratterizzata da due elementi costitutivi:

  • la materiale disponibilità della cosa (Corpus)
  • e la volontà del soggetto di tenerla per sé (animus possidendi)

Per la Corte di legittimità[1] nell’ordinamento giuridico vigente il concetto di possesso corrisponde al potere di fatto su una cosa, che si manifesta non solo in una attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà ma anche di qualsiasi altro diritto reale, riassumendo l’art. 1140 c.c. in unica nozione tanto il possesso quanto il quasi-possesso figura ancora concettualmente distinta nello stesso diritto giustinianeo.

Ne segue che il possesso corrispondente ad un jus in re aliena si distingue dal possesso corrispondente al diritto di proprietà non perché sia diversa la cosa, oggetto tanto di compossesso, modellato sulla contitolarità del diritto cui corrisponde lo stato di fatto, quanto di possessi simultanei con contenuto diverso, perché relativi a situazioni corrispondenti a diritti reali di natura diversa.

La situazione di fatto del possesso è giuridicamente rilevante, considerato che produce effetti giuridici ed è oggetto specifico di tutela giuridica: il possessore, che è portatore di un interesse giuridicamente protetto, è titolare di un diritto, che non è il diritto di possedere la cosa, bensì quello di non subire spoglio o molestie.

Si discute in dottrina se il possesso sia un fatto oppure un diritto; è necessario, però, ribadire, che il diritto è una situazione giuridica di vantaggio che consiste in facoltà, pretese giuridiche, ecc., mentre il possesso è una situazione che consiste in una relazione di fatto con una cosa.

Va poi distinta, rispetto a questa situazione, la posizione giuridica che ne scaturisce, ossia il pacifico godimento del bene.

La dottrina che attribuisce al possessore una posizione giuridica non la qualifica, però, come diritto soggettivo, ravvisandovi o

1)  un diritto (Branca);

2)  un’aspettativa giuridica (Natoli)

3)  un interesse legittimo (Zanobini)

Il possesso non è, inoltre, un diritto reale, poiché al possessore non compete, come tale, un diritto sulla res, ma solo il godimento pacifico della stessa né tanto meno un diritto di credito, dato che non consiste in una pretesa verso determinati soggetti; rientra piuttosto, nell’ambito dei diritti di salvaguardia, che tutelano i beni personali e patrimoniali dalle interferenze altrui[2].

La tutela del possesso ha il suo fondamento nel contenuto della tutela accordata al possessore, che è limitata alla repressione dello spoglio, delle molestie e delle minacce di danno alle cose.

La figura in esame risponde a precise finalità socio-giuridiche tra le quali, per importanza, ricordiamo: quella di rendere più stabile la proprietà (costituendo l’usucapione una ragione giustificatrice della titolarità del bene in aggiunta a quella, generalmente ma non necessariamente, di natura derivativa-traslativa o, all’occorrenza, in sostituzione di essa, ove la medesima sia invalida e/o inefficace e quella, non meno rilevante, di premiare il soggetto che ha dimostrato una maggiore propensione allo sfruttamento e valorizzazione del bene.

Il tutto nell’ottica di una intensificazione della circolazione della ricchezza e dei traffici giuridici.

2) Elementi costitutivi

Il possesso è caratterizzato, secondo comune esegesi, da due componenti fondamentali: il corpus e l’ animus.

Il primo rappresenta il potere di fatto che si estrinseca secondo intensità variabili (in funzione della natura e destinazione della cosa) e che, purché conforme alla destinazione della cosa, può anche assumere carattere periodico (ad es., stagionale).

Oltre che direttamente, esso può altresì esprimersi per mezzo di altra persona che ha la detenzione della cosa (art. 1066 c.c.), ben potendo il possessore costituire, proprio utilizzando le facoltà appartenenti al suo status, diritti personali di godimento in capo ad altri.

A)  Potere sulla cosa

Tale poter non richiede necessariamente un contatto del soggetto con la cosa: è sufficiente che la cosa resti nella sua sfera di controllo.

Si ritiene che, ottenuto il possesso della cosa, prevale sull’elemento materiale l’animus del possessore; in tal modo si spiega il motivo per il quale chi smarrisce una cosa continua ad esserne possessore.

? il possesso diretto

è caratterizzato dalla disponibilità materiale della cosa

? il possesso indiretto

è attuato mediante la detenzione di un terzo che ha la disponibilità di fatto della cosa.

  •  La detenzione

 [3]  [4]  [5]

Carattere distintivo della detenzione è, appunto, la volontà di tenere la cosa per altri (c.d animus tenendi) e quindi dal fatto che il detentore riconosce l’altruità del possesso c.d.  laudatio possessoris).

Per stabilire se, in conseguenza di una convenzione con la quale un soggetto riceve da un altro il godimento di un immobile, si abbia un possesso idoneo all’usucapione, ovvero una mera detenzione, occorre far riferimento all’elemento psicologico del soggetto stesso e, a tal fine, occorre stabilire se la convenzione sia

1)    un contratto ad effetti reali o

2)    un contratto a effetti obbligatori;

solo nel primo caso, infatti, il contratto è idoneo a determinare nel soggetto investito del relativo diritto l’animus possidendi, anche se la convenzione non rivesta la forma scritta richiesta ad substantiam dalla legge o manchi la legittimazione a disporre dell’alienante o del costituente, mentre nel secondo caso, attuandosi unicamente l’attribuzione di un diritto di credito, può giustificarsi solo la sussistenza di un animus detinendi dell’accipiens, irrilevante agli effetti dell’usucapione[6].

La medesima Corte[7] da ultimo ha precisato, ulteriormente, che il principale carattere differenziale della detenzione è la mancanza nel titolare dell’elemento psicologico tipico del possesso, parlandosi, al contrario, di animus detinendi.

Il detentore non ha la volontà di esercitare poteri sulla res a nome proprio, poichè la sua relazione con lai cosa si fonda sempre sulla titolarità di un diritto personale di godimento o su un’obbligazione.

A sua volta, considerate le difficoltà probatorie circa l’accertamento in concreto dell’animus possidendi ovvero detinendi, l’articolo 1141 c.c. ha introdotto una presunzione relativa generale di possesso, attribuendo a chi esercita il potere di fatto sulla cosa la qualifica di possessore, a meno che non si provi che costui abbia iniziato (e/o continua) ad esercitarlo come mero detentore o per ragioni di ospitalità o di servizio.

La detenzione si consegue, dunque, sempre e solo con la consegna collegata ad un contratto non traslativo né costitutivo di diritti reali, ma obbligatorio (locazione[8], comodato[9], deposito e lavoro) per cui chi consegna resta possessore, salvo interversione.

Da ultimo la S.C.

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 3 luglio 2019, n. 17880.

ha avuto modo di precisare che al fine di stabilire se la relazione di fatto con il bene costituisca una situazione di possesso ovvero di semplice detenzione – dovuta a mera tolleranza di chi potrebbe opporvisi, come tale inidonea, ai sensi dell’art. 1144 c.c., a fondare la domanda di usucapione – assume rilievo la circostanza che l’attività svolta sul bene abbia avuto durata non transitoria e sia stata di non modesta entità, circostanza che assume efficacia di valore presuntivo circa l’esclusione dell’esistenza di una mera tolleranza e che non ricorre nel caso in cui la suddetta relazione di fatto si fondi su rapporti caratterizzati da vincoli particolari tra le parti, quali quelli scaturenti da un rapporto societario.

Ad esempio, poi, secondo la S.C.[10] nel contratto preliminare ad effetti anticipati[11] — in base al quale le parti, nell’assumere l’obbligo della prestazione del consenso a contratto definitivo, convengono l’anticipata esecuzione di alcune delle obbligazioni nascenti da questo, quale la consegna immediata della cosa al promissario acquirente, con o senza corrispettivo — la disponibilità del bene conseguita dal promissario acquirente ha luogo con la piena consapevolezza dei contraenti che l’effetto traslativo non s’è ancora verificato, risultando, piuttosto, dal titolo l’altruità della cosa.

Ne consegue che deve ritenersi inesistente nel promissario l’acquirente l’animus possidendi, sicché la sua relazione con la cosa va qualificata come semplice detenzione, con esclusione dell’applicabilità alla fattispecie della disciplina di cui all’art. 1148 c.c., relativa all’obbligo del possessore in buona fede di restituire i frutti percepiti dopo la domanda giudiziale.

Sempre in merito al preliminare, per le S.U.[12] la disponibilità del bene conseguita dal promissario acquirente, in forza di apposita clausola contenuta nel preliminare di vendita immobiliare, dà luogo ad una detenzione qualificata.

Il contratto preliminare di vendita immobiliare ha effetti obbligatori, sicché ove il promissario acquirente acquisti la disponibilità del bene, questa si intende volta al mero godimento della cosa, escludendosi il trasferimento immediato o differito del bene. Ne consegue che colui che si è immesso nel godimento del bene necessariamente stabilisce con la cosa un rapporto di mera detenzione che gli consente di mutare il titolo originario di questo rapporto con la cosa solo attraverso un atto di interversione del possesso, ai sensi dell’articolo 1141 c.c., comma 2.

Inoltre, sempre per la medesima Corte[13], a differenza della detenzione di una cosa conseguita a titolo di comodato che deriva da un contratto che, sebbene essenzialmente gratuito, attribuisce lo ius detentionis fino al termine pattuito o, se trattasi comodato senza determinazione di durata, fino a quando il comodante non chieda la restituzione della cosa, la disponibilità del bene per tolleranza del proprietario o possessore è caratterizzata, oltre che dalla normale, ma non essenziale, brevità della stessa, soprattutto dall’animus, in chi la concede, di conservare tutte le facoltà connesse alla sua qualità di proprietario o di possessore e dalla consapevolezza, in chi la consegue, della inidoneità della concessione o permissio a far sorgere a suo favore un qualsiasi potere in contrasto con quello del permittente.

Ne deriva che, mentre la detenzione di comodato, inquadrabile tra le cosiddette detenzioni autonome o qualificate previste dal combinato disposto degli artt. 1140, secondo comma, e 1168, secondo comma, c.c., è tutelabile, nei confronti di chiunque la leda, con l’azione possessoria di reintegrazione ed è suscettibile di mutamento in possesso in presenza di uno dei presupposti di cui al secondo comma dell’art. 1141 c.c., la disponibilità della cosa per tolleranza dell’avente diritto non comporta alcun effetto giuridico in capo all’utente e non è nemmeno suscettibile di tutela possessoria.

art. 1168 c.c.  azione di reintegrazione: chi è stato violentemente od occultamente spogliato del possesso può, entro l’anno dal sofferto spoglio, chiedere contro l’autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo.

L’azione è concessa altresì a chi ha la detenzione della cosa (Qualificata) (c.c.1140), tranne il caso che l’abbia per ragioni di servizio o di ospitalità (non Qualificata).

La legge presume il possesso (e quindi l’animus possidenti) in colui che ha il potere di fatto sulla cosa, mentre la detenzione deve essere provata (art. 1141 c.c.).

Parte della dottrina[14] nega tuttavia rilevanza all’elemento dell’animus possidendi, osservando che ciò che rileva ai fini delle distinzione tra possessore e detentore non è rappresentato dalla volontà del soggetto di tenere la cosa come propria o come altrui, bensì dal titolo che lo qualifica come detentore.

Qualificata[15]

Si pensi ad esempio al conduttore, il quale detiene bensì la cosa per il possessore – locatore, ma anche per un interesse proprio che è quello al godimento dell’alloggio.

tale detenzione ha una sua specifica rilevanza e, precisamente, il detentore qualificato può avvalersi – come il possessore – dell’azione di spoglio e fa suoi i frutti della cosa; può, inoltre mantenere la sua detenzione tramite l’altrui detenzione non qualificata, che persiste fin quando la res rimanga nella sfera di controllo del detentore.

Non qualificata

quando si detiene nell’interesse esclusivo del possessore quando essa è il frutto di un rapporto di mera ospitalità o di servizio.

  • Interversione

     

1 A ipotesi

art. 1141 c.c.     mutamento della detenzione in possesso: si presume il possesso in colui che esercita il potere di fatto, quando non si prova che ha cominciato a esercitarlo semplicemente come detenzione.

Se alcuno ha cominciato ad avere la detenzione, non può acquistare il possesso finché il titolo non venga ad essere mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore. Ciò vale anche per i successori a titolo universale.

Una interversione del possesso può avvenire mediante la conversione della detenzione in possesso per causa proveniente da un terzo o per atto di opposizione nei confronti del possessore.

La presunzione del possesso

Il possesso, secondo la dizione testuale dell’art. 1141 c.c., si presume in chi esercita il potere di fatto sulla cosa, sia, cioè in relazione di contiguità fisica con la stessa sicché detta presunzione opera a vantaggio di chi è in relazione diretta ed immediata con la res ovvero con l’esercizio di un diritto reale diverso dalla proprietà, ma non anche di chi è in rapporto mediato con il bene ovvero non esercita direttamente il diritto reale su cosa altrui, dovendosi, in tal caso, accertare di volta in volta se effettivamente sussista l’elemento dell’animus possidendi e gravando il relativo onere probatorio sulla parte che invoca il possesso per fruirne gli effetti[16].

La prova contraria alla presunzione iuris tantum stabilita dal primo comma dell’art. 1141 c.c. — che presume il possesso di colui che esercita il potere di fatto, ove non si provi che lo esercizio di questo sia cominciato come mera detenzione — può essere costituita anche da presunzioni semplici e persino da una sola presunzione, purché grave e precisa; né, in materia di prova per presunzioni semplici, occorre che la relazione tra fatto noto e fatto ignoto da provare abbia il carattere dell’assoluta necessità, essendo invece sufficiente quello della prevalente probabilità alla stregua della comune esperienza (id quod plerumque accidit)[17].

L’art. 1141 non consente al detentore di trasformarsi in possessore mediante una sua interna determinazione di volontà, ma richiede, per il mutamento del titolo,

1)     l’intervento di «una causa proveniente da un terzo», per tale dovendosi intendere qualsiasi atto di trasferimento del diritto idoneo a legittimare il possesso, indipendentemente dalla perfezione, validità, efficacia dell’atto medesimo, compresa l’ipotesi di acquisto da parte del titolare solo apparente,

2)     ovvero l’opposizione del detentore contro il possessore, opposizione che può aver luogo sia giudizialmente che stragiudizialmente e che consiste nel rendere noto al possessore, e cioè a colui per conto del quale la cosa era detenuta, in termini inequivoci e contestando il di lui diritto, l’intenzione di tenere la cosa come propria.

Lo stabilire se, in conseguenza di un atto negoziale ancorché invalido, al detentore di un immobile sia stato da un terzo trasferito il possesso del bene, costituisce una indagine di fatto, riservata al giudice di merito, i cui apprezzamenti e valutazioni sono sindacabili in sede di legittimità soltanto per illogicità o inadeguatezza della motivazione[18].

In altre parole[19] la interversione nel possesso — che non può avvenire mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in un fatto esterno, da cui sia consentito desumere che il possessore nomine alieno ha cessato di possedere in nome altrui ed ha iniziato un possesso per conto ed in nome proprio — pur potendo realizzarsi anche mediante il compimento di attività materiali che manifestino inequivocabilmente l’intenzione di esercitare il possesso esclusivamente nomine proprio, richiede sempre, ove il mutamento del titolo in base al quale il soggetto detiene non derivi da causa proveniente da un terzo, che l’opposizione risulti univocamente rivolta contro il possessore, e cioè contro colui per cui conto la cosa era detenuta, in guisa da rendere esteriormente riconoscibile all’avente diritto che il detentore ha cessato di possedere nomine alieno e che intende sostituire alla preesistente intenzione di subordinare il proprio potere a quello altrui l’animus di vantare per sé il diritto esercitato, convertendo così in possesso la detenzione precedentemente esercitata.

Principio ripreso pedissequamente da altra ultima pronuncia

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza n. 18345 del 31 luglio 2013

secondo la quale, appunto, in tema di presunzione di possesso utile ad usucapionem, l’art. 1141 cod. civ., comma 1, opera se e in quanto non si tratti di rapporto obbligatorio e presuppone quindi la mancanza di prova che il potere di fatto sulla cosa sia esercitato inizialmente come detenzione, in conseguenza non di un atto volontario di apprensione, ma di un atto o un fatto del proprietario possessore. In tal caso l’attività del soggetto che dispone della cosa non corrisponde all’esercizio di un diritto reale, occorrendo per la trasformazione della detenzione in possesso utile ad usucapionem il mutamento del titolo ex art. 1141 cod. civ., comma 2, che deve essere provato con il compimento di idonee attività materiali in opposizione al proprietario.

L’interversione nel possesso non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato d’esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente animus detinendi dell’animus rem sibi habendi; tale manifestazione deve essere rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell’avvenuto mutamento, e quindi tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere di una concreta opposizione all’esercizio del possesso da parte sua. A tal fine sono inidonei atti che si traducano nell’inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita, verificandosi in questo caso una ordinaria ipotesi di inadempimento contrattuale, ovvero si traducano in meri atti di esercizio del possesso, verificandosi in tal caso una ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene (Cass., sentt. n. 6237 del 2010, n. 2392 del 2009).

Da ultimo la stessa Cassazione[20] ha avuto modo di affermare, nuovamente, che tale valutazione è riservata al giudice del merito, ed è, pertanto, inibita nel giudizio di legittimità ove questi abbia fornito una motivazione sufficiente e non illogica del proprio convincimento al riguardo.

Nella specie, la Corte capitolina ha correttamente posto in rilievo, quale elemento idoneo ad escludere la interversione, la mancata dimostrazione della avvenuta comunicazione ai proprietari del fondo della realizzazione dell’immobile abusivo sullo stesso, comunicazione che sarebbe stata necessaria ai fini della sussistenza della invocata interversione, che non può sostanziarsi in un atto di volizione interna che non si estrinsechi in una manifestazione esteriore idonea a rivelare che il detentore ha cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui ed ha iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio.

Da ultimo è intervenuta in via generale la Cassazione

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, sentenza 1 marzo 2018, n. 4863.

affermando una serie di principi, ovvero:

Il mutamento della detenzione in possesso puo’ derivare da un negozio posto in essere dal detentore, sia con un terzo sia con lo stesso possessore mediato, purche’ dall’atto posto in essere con costui derivi il trasferimento del diritto corrispondente ovvero la investitura da parte dello stesso possessore mediato a mezzo della c.d. traditio brevi manu, che si ha quando il bene, gia’ nella disponibilita’ di un soggetto a titolo di detenzione, venga lasciato allo stesso a titolo di possesso di modo che, per effetto dell’acquisto del bene, che si trova gia’ presso l’acquirente, il possesso precario si tramuta in possesso uti dominus. Deve, dunque, essere sempre individuata una causa traditionis – vera e reale e non simulata – sia pure riconducibile ad un rapporto tra il detentore non qualificato ed il possessore per conto del quale egli detiene e pur non essendo necessaria la buona fede dell’acquirente circa l’esistenza del diritto del tradens. Nel caso di specie, il comportamento materiale (omissivo, di mancato recupero) dell’avente diritto non poteva, ovviamente, considerarsi idoneo, neppure astrattamente, a trasferire un diritto sul bene, tale da legittimare l’interversio possessionis.
L’interversio possessionis puo’ conseguire ad un’opposizione del detentore. L’opposizione del detentore deve consistere nella comunicazione effettuata al proprietario, in qualunque modo, sia mediante atto giudiziale o stragiudiziale, sia anche con altre modalita’, comunque non equivoche, dell’intento di continuare a tenere la cosa non piu’ quale mero detentore, bensi’ per conto proprio. L’opposizione deve sempre essere ritenuta necessaria: si pensi al caso di decesso del comodante, cio’ che non comporta l’automatico mutamento della detenzione in possesso in capo al comodatario che permanga nella materiale disponibilita’ della cosa nonostante la cessazione del comodato (perche’, ad esempio, abbia omesso di consegnare le chiavi: Cass. Civ. Sez. 2, 5551/05). Piuttosto, occorre che l’intenzione del soggetto che intende sostituire all’animus detinendi l’animus possidendi sia inequivoca e diretta al precedente possessore, in modo da metterlo in condizione di accorgersi del mutamento e di potersi conseguentemente opporre.

a)    Modifica del titolo

Se il titolo è modificato con il consenso del possessore evidentemente  non nasce alcun problema.

Può avvenire una traditio brevi manu se intervenga al riguardo un accordo  o una disposizione mortis casusa (se ad esempio: il possessore proprietario dà in pegno la cosa oppure gliene trasferisce la proprietà a titolo di legato).

Ma il titolo può essere modificato anche da un terzo non possessore.

1)    Innanzitutto dal proprietario che non possiede, il quale disponga della cosa in favore del detentore per atto inter vivos o  mortis causa: in tal modo, acquistando la proprietà ed esercitando il potere sulla cosa, il detentore diverrà possessore (oltre che proprietario).

2)    Si può anche ipotizzare che un terzo, assumendo di essere proprietario del bene pur non essendolo, venda o trasferisca per testamento la cosa al detentore, che potrà anche non essere in buona fede. Egli non acquisterà la proprietà, ma acquisterà il possesso.

In un caso particolare affrontato dalla Corte Capitolina[21] è stato affermato che anche nelle ipotesi in cui il bene espropriato cessi di appartenere al patrimonio indisponibile dell’ente pubblico – non essendo stata realizzata l’opera pubblica a cui l’espropriazione mirava e potendosi esercitare il diritto di retrocessione – affinché sia configurabile un nuovo possesso necessario ad usucapire in capo all’ex proprietario rimasto detentore del bene, è comunque necessario un atto formale di interversione del possesso ex art. 1141, co. II, c.c..Tale atto deve consistere, in particolare, in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui ed abbia iniziato ad esercitarlo in nome proprio. A tal riguardo non costituisce titolo idoneo a mutare la detenzione in possesso la circostanza dell’avvenuto rilascio della concessione in sanatoria, che non comporta di per sé il riconoscimento del diritto di proprietà dei richiedenti e non costituisce di conseguenza atto di per sé indicativo della volontà del Comune di abdicare alla destinazione urbanistica del suolo interessato.

b)   Opposizione del detentore

Quando il detentore contesti il possesso altrui ed inizia a comportarsi egli stesso come proprietario o titolare di altro diritto reale sulla cosa.

 

Tale interversio possessionis si sostanzia nella negazione, da parte del detentore, del possesso del terzo per il quale egli prima deteneva e nell’affermazione del proprio possesso autonomo.

A tal fine, anche se non occorre alcun atto materiale, è necessario che l’atto di opposizione risulti inequivocabilmente diretto contro il possessore, cioè contro colui per conto del quale la cosa era detenuta, in modo da rendere esteriormente riconoscibile all’avente diritto che il detentore intende sostituire alla preesistente intenzione di subordinare il proprio potere a quello altrui, l’animus di vantare per sé il diritto esercitato, convertendo così in possesso la detenzione precedentemente esercitata[22].

L’interversione del possesso, disciplinata dall’art. 1141, comma secondo, c.c., non può consistere in un semplice atto volitivo interno del detentore, ma deve estrinsecarsi in uno o più atti esterni dai quali possa desumersi la modificata relazione di fatto con la cosa detenuta in opposizione al possessore e anche in relazione al suo comportamento. Deve cioè desumersi che il detentore nomine alieno ha cessato di possedere in nome altrui ed ha iniziato un possesso in nome e per conto proprio e tale atteggiamento, pur potendo realizzarsi anche con il compimento di atti materiali che manifestino inequivocabilmente l’intenzione di esercitare il possesso esclusivamente nomine proprio, deve essere inequivocabilmente rivolto contro il possessore e cioè contro colui per conto del quale la cosa era detenuta in guisa da rendere esteriormente riconoscibile allo avente diritto che il detentore ha cessato di possedere nomine alieno e che intende sostituire, alla preesistente intenzione di subordinare il proprio potere a quello altrui, l’animus di vantare per sé il diritto esercitato, convertendo così in possesso la detenzione, anche se precaria, precedentemente esercitata[23]

Si pensi al caso in cui il conduttore non corrisponda più il canone al locatore da cui è stato immesso nel godimento del bene, sia poi questi il proprietario o il mero possessore, come pur è possibile.

Per ultima cassazione[24] la questione dell’interversione del possesso nel caso in cui il potere di fatto sulla cosa fosse iniziato a titolo di detenzione (nella specie locazione), per integrare il possesso utile ad usucapionem occorreva un atto di opposizione con cui fosse chiaramente manifestato nei confronti del proprietario, l’intento di mutare tale detenzione in vero e proprio possesso uti dominus, corrispondente cioè all’esercizio del diritto di proprietà[25].

Anche in questo caso, l’accertamento, in concreto, di tali circostanze si è risolto in un’indagine di fatto, rimessa al giudice di merito, sicchè nel giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di Cassazione di prendere direttamente in esame la condotta della parte, al fine di trarne elementi di convincimento; si può solo censurare, per omissione o difetto di motivazione, la decisione di merito che abbia del tutto trascurato o insufficientemente esaminato la questione di fatto della interversione, ciò che nella fattispecie non è avvenuto, stante la corretta motivazione della sentenza su tale specifico punto[26].

Si badi bene, però, che non sarebbe sufficiente restare inadempienti all’obbligazione di versare il canone,  perché questo comportamento di per sé non varrebbe rifiuto di corresponsione.

È dunque necessaria una inequivoca dichiarazione di opposizione diretta al locatore[27].

Ai fini del mutamento della detenzione in possesso, non è necessaria l’opposizione del detentore nei confronti del possessore, richiesta dal secondo comma dell’art. 1141 c.c., qualora il mutamento del titolo scaturisca da un atto dello stesso possessore a beneficio del detentore.

Nel caso di specie, la S.C.[28] ha, perciò, confermato la sentenza impugnata, che aveva dichiarato l’acquisto di un fondo per usucapione, sul presupposto che il mutamento della detenzione in possesso si era verificato per avere l’ente proprietario, sia pure con atto nullo per difetto di forma, venduto l’immobile al conduttore accettandone la somma versatagli e senza che l’ente succeduto avesse preteso successivi versamenti o pigioni, considerando tale momento, verificatosi oltre venti anni prima dell’introduzione della domanda, utile ai fini del decorso del termine per l’usucapione.

Il detentore che può acquistare il possesso mediante un atto di opposizione da lui compiuto contro il possessore, è il detentore in senso proprio o detentore qualificato, il quale mutando il proprio animus e dichiarando di voler esercitare il potere di fatto animo domini, pone in essere l’elemento spirituale e materiale del possesso. Tale disposizione non può invece applicarsi al detentore non qualificato, per ragioni di servizio o di ospitalità, al quale non è sufficiente invocare un titolo diverso dalla propria qualità di ospite o di dipendente ove continui a comportarsi come tale senza compiere un atto materiale di impossessamento[29].

2 A ipotesi    [30]

art. 1164 c.c.   interversione del possesso: chi ha il possesso corrispondente all’esercizio di un diritto reale su cosa altrui non può usucapire la proprietà della cosa stessa, se il titolo del suo possesso non è mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il diritto del proprietario. Il tempo necessario per l’usucapione decorre dalla data in cui il titolo del possesso è stato mutato.

L’art. 1164, invero, fa riferimento ad un mutamento dell’immagine del possesso, prendendo come punto di riferimento l’immagine della proprietà, ma non si dubita che possa anche trattarsi di un diritto minore.

Sul punto, proprio con ultima pronuncia, le sezioni unite,

Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza 5 marzo 2014, n. 5087

hanno affermato che si esclude la necessità dell’interversione del titolo, ex art. 1164 c.c., nel caso di compossesso, essendo in tal caso sufficiente che la parte abbia posseduto per il tempo necessario a usucapire, animo domini, in modo esclusivo e incompatibile con la possibilità di fatto di un godimento comune (Cass. 28 settembre 1973 n. 2430 e succ. conf.; da ultimo 25 marzo 2009 n. 7221).

3 A ipotesi  [31]

art.  1102 3  co c.c.     uso della cosa comune: ………………………………………

Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso.

È, tuttavia opportuno chiarire che, comunque si rappresenti la comunione, non viene qui in considerazione un mutamento qualitativo del possesso del singolo individuo – che mantiene la sua originaria immagine – ma solo un incremento quantitativo, che permette a quel possesso di estendersi oltre i suoi originari limiti; non sembra pertanto corretto, in tal caso, parlare di interversio.

In tema di comunione ereditaria, ai fini dell’usucapione dei beni prima della divisione, è necessario un atto d’interversione del possesso da parte del coerede contitolare, qualora egli eserciti su quei beni, in forza del consenso degli altri coeredi, un possesso “separato” quale mera realizzazione del godimento della propria quota ereditaria, salvo conguaglio in sede di divisione. A tal fine non sono sufficienti la prova del mero non uso della cosa da parte degli altri condomini, posto che non è configurabile la prescrizione del diritto di comproprietà, né la prova del pagamento delle imposte e della curata manutenzione – ovvero dell’assunzione di tutti gli oneri ordinari e straordinari di miglioria -, o del compimento di atti di gestione della cosa comune consentiti al singolo compartecipante o anche di atti familiarmente tollerati dagli altri, ex art. 1141 c.c., o ancora di atti che, comportando il solo soddisfacimento di obblighi o l’erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dar luogo a un’estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore[32].

B)   Animus possidendi

E’ una particolare forma di atteggiamento psicologico.

Esso non deve essere considerato come qualcosa di perennemente in atto, cioè privo di qualsiasi pausa, e che non richiede la capacità d’agire; infine, esso non deve riferirsi necessariamente ad ogni parte della cosa.

Ciò che conta è l’intenzione di esercitare sulla res un’attività, corrispondente, in concreto, nell’esercizio di un diritto reale.

Questo comporta, chiaramente, delle difficoltà, anche ai fini della prova del possesso, soprattutto nel caso in cui alla base di questo non vi sia un titolo – anche non valido – oppure il titolo ci sia, ma sia intervenuta un’interversione del possesso ex art. 1164.

In ogni caso, fin quando non sia stata data dimostrazione di tale fatto, si deve presumere la persistenza dell’animus iniziale inoltre, in assenza di una diversa prova, deve presumersi che il potere di fatto sia iniziato nel modo più efficace.

Il nostro codice non menziona l’elemento delle volontarietà, ma indica, piuttosto, la corrispondenza del potere sulla cosa all’esercizio della proprietà o di un altro diritto reale, ed è proprio questa corrispondenza che si considera essere elemento oggettivo costitutivo del possesso.

L’animus non è invece espressamente menzionato dall’art. 1140 c.c., ma la sua necessaria presenza si inferisce dalla corrispondenza, istituita dalla disposizione codicistica, tra potere di fatto ed esercizio di un diritto.

È infatti proprio e solo tale corrispondenza a colorare giuridicamente l’esercizio concreto del potere stesso, traendo origine dall’intento di ritenere la cosa quale proprietario o ad altro titolo (ad es., quale usufruttuario, nel qual caso si parla di possessio iuris).

Non è a tal uopo ritenuta necessaria la capacità di agire , essendo sufficiente la capacità naturale di intendere e di volere ravvisabile, ad esempio, anche in capo a minori di età (e il cui accertamento è demandato al giudice di merito)[33].

Neppure è necessaria la buona fede che caratterizza la c.d. possessio ad usucapionem [34].

L’animus possidendi, necessario, come si avrà modo poi di specificare, all’acquisto della proprietà per usucapione da parte di chi esercita il potere di fatto sulla cosa, non consiste nella convinzione di essere proprietario (o titolare di altro diritto reale sulla cosa), bensì nell’intenzione di comportarsi come tale, esercitando corrispondenti facoltà, mentre la buona fede non è requisito del possesso utile ai fini dell’usucapione.

Di conseguenza, la consapevolezza di possedere senza titolo, ed il compimento di attività negoziali o di altra natura, finalizzate a ottenere il trasferimento della proprietà del bene posseduto o la stabilità sul piano formale della situazione giuridica rispetto ad esso non esclude che il possesso sia utile ai fini dell’usucapione[35].

O ancora l’elemento soggettivo del possesso (animus rem sibi habendi) non è necessariamente collegato alla persuasione di esercitare un potere di fatto in corrispondenza dell’esistenza di un diritto, essendo unicamente espressione del potere di fatto esercitato come se si avesse il corrispondente diritto[36].

Secondo un giudizio consolidato[37] il possesso perdura anche per effetto della conservazione del solo animus se il mancato esercizio del godimento sulla cosa non dipenda da fatto estraneo alla volontà del possessore, tale da impedire che l’elemento del corpus possa essere ripristinato quando lo si voglia, salvo che la parte non abbia univocamente manifestato l’animus derelinquendi.

La conservazione del possesso acquisito animo et corpore non richiede l’esplicazione di continui e concreti atti di godimento ed esercizio del possesso, essendo sufficiente che il bene posseduto, in relazione alla sua natura e destinazione economico-sociale possa ritenersi nella virtuale disponibilità del possessore nel senso che questi possa quando lo voglia ripristinare il rapporto materiale con lo stesso. Ne consegue che, permanendo l’animus, il possesso perdura finché persista la possibilità di ripristino del corpus, la quale viene meno sia quando altri si impossessi del bene esercitando sullo stesso un potere di fatto corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale sia quando, in relazione alla natura del bene, l’animus dereliquendi sia inequivocabilmente manifestato[38].

L’animus possidendi, in qualunque suo aspetto, è un elemento intenzionale o psicologico che, tanto sotto l’impero del codice abrogato quanto sotto l’impero del codice vigente, deve iuris tantum presumersiin presenza del corpus possessionis — non mutato nel suo tipo iniziale e sempre iniziato nella specie giuridicamente più efficace, vale a dire come animo di tenere la cosa come propria o di esercitare il diritto come a sé spettante. Sino a prova contraria il mutamento dell’animus domini in animus detinendi non è ravvisabile — salvo diversa ed espressa disposizione della legge — senza un atto di volontà capace di produrlo, vale a dire senza un atto mediante il quale il possessore animo domini acconsenta ad iniziare un nuovo possesso nomine alieno[39].

  • Rinuncia

La rinuncia al possesso da parte del proprietario di un bene, in quanto limitativa dell’ius domini, non può presumersi ma deve risultare da una univoca manifestazione di volontà abdicativa.

Tale carattere non può riconoscersi, potendo il possesso essere conservato «solo animo», al mero fatto dell’abbandono del domicilio coniugale da parte del proprietario di un fondo rustico, ancorché seguito da assoluto disinteresse per la sorte del medesimo lasciato in godimento ai familiari[40].

E’ stato, inoltre, specificato che la rinunzia o la tradizione del possesso relativo a beni immobili non sono soggette alla formalità dell’atto scritto, richiesta soltanto per i contratti costitutivi, modificativi o traslativi di diritti reali immobiliari, ma possono risultare da qualsiasi comportamento degli interessati, purché idoneo a manifestare univocamente la volontà di dismettere il possesso. (In applicazione di tale principio, la C.S. ha rilevato che anche il crocesegno tracciato in calce ad una scrittura privata sia atto a manifestare in modo valido detta volontà, allorché sia accertato che esso sia stato effettivamente apposto dal rinunziante o tradente il possesso)[41].

  • Cessazione

La semplice astensione dall’esercizio del possesso non basta a determinarne la cessazione e la perdita, dovendosi ritenere che permanga l’animus possidendi, quando sia sempre possibile al possessore, ripristinarne l’esercizio. Ciò avviene quando il possesso dell’andito di un portone, da esercitare col passaggio, sia ripristinabile mediante la semplice apertura di una porta su un vano comunicante, ancorché la porta sia sprangata dalla parte dell’andito[42].

  • Modifica

Un provvedimento di aggiudicazione non determina automaticamente, per il solo fatto che esso venga pronunciato ed a prescindere dalla sua esecuzione, il mutamento dell’animus rem sibi habendi del proprietario espropriato, trasformandolo in animus detinendi alieno nomine. L’art. 2919 c.c., il quale disciplina gli effetti della vendita forzata, dispone infatti, che questa trasferisce all’acquirente i diritti che sulla cosa spettavano a colui che ha subito l’espropriazione, ma non dispone che l’espropriato perda ipso iure il possesso della cosa, mutandolo in detenzione in nome dell’espropriante. Analoga disposizione era contenuta nel codice di procedura civile abrogato[43].

  • Esclusione

Non si può escludere l’esistenza dell’animus domini in chi, pur raccogliendo regolarmente i frutti di un fondo rustico, trascuri invece (oppure non lo ritenga opportuno o conveniente) di esercitare altre facoltà tipiche del diritto di proprietà, come recingere il fondo, attuare difese contro le piene dei corsi d’acqua e modificare le colture. Né si può escludere tale animus in chi non impedisca atti di terzi, come lo scarico di rifiuti o lo scavo di ghiaia, quando un siffatto comportamento possa dipendere da mera tolleranza, giustificata dal fatto che si tratti di atti che non pregiudicano l’unico uso del bene posseduto esercitato attualmente dal possessore[44].

3) Tipi di possesso minori

  [45]

Il tipo principale di possesso è quello corrispondente al contenuto della proprietà, cioè il possesso di colui che dispone della cosa come  proprietario.

È possibile, poi, distinguere altri tipi di possesso, c.d. possessi non proprietari o minori che corrispondono al contenuto del diritto della superficie, di enfiteusi, di usufrutto, di servitù, di pegno.

Al possesso minore si applica la disciplina del possesso, salve le deroghe giustificate dalla mancanza dei presupposti dell’azione di spoglio e dell’usucapione.

Per autorevole dottrina[46] dubbi nascono per la servitù negativa – la nuda proprietà – il diritto di superficie – il pegno.

Il problema è quello dell’assenza di una relazione immediata con la cosa.

E infatti si tratta, quanto al corpus, di un possesso indiretto.

Quanto poi all’esercizio, in assenza di comportamenti materiali, si ritiene che il possesso sussista ogniqualvolta il soggetto manifesti l’animus rem sibi habendi relativamente ad un certo diritto reale, interdicendo a chi a sua volta possiede a titolo di proprietà piena, l’esercizio del diritto stesso.

Così accade se l’astensione da parte del proprietario del fondo che si assume servente, consegua all’interdizione ad opera del possessore del fondo che si assume dominante o se egli nulla obietti ed anzi faccia acquiescenza all’esercizio in fatto da parte di un terzo di poteri di controllo che spettano al nudo proprietario o alla pretesa di un terzo di impedire la costruzione sul fondo, con l’animo di possedere il diritto di superficie.

Quanto all’ipoteca si ritiene possibile l’azione di manutenzione contro le molestie di diritto.

1 –  il possesso di superficie[47] Il possesso della superficie si realizza edificando e mantenendo una costruzione su suolo altrui. In tema la Corte di Cassazione[48] ha affermato che il diritto di fare una costruzione su suolo altrui, ai sensi dell’art. 952 c.c., non è suscettibile di possesso, configurabile soltanto in relazione alla proprietà superficiaria, e cioè al diritto (ex art. 952 citato) di «mantenere» una costruzione già realizzata nell’esercizio del suindicato diritto di costruire. 2 –  il possesso di enfiteusi La situazione del possesso che corrisponde al diritto di enfiteusi si ritrova nell’apprensione della cosa e nel suo godimento esercitata a titolo di diritto reale limitato cui si applicano interamente le norme sul possesso. 3 –  il possesso di usufrutto[49] La situazione del possesso che corrisponde al diritto di usufrutto si ritrova, si ripete nuovamente, nell’apprensione della cosa e nel suo godimento esercitata a titolo di diritto reale limitato cui si applicano interamente le norme sul possesso. 4 –  il possesso di servitù[50]  Tale possesso si caratterizza per le specifiche ingerenze sulla res  corrispondenti ai vari contenuti del diritto.

Poiché, a norma degli artt. 1140 e 1066 c.c., il possesso delle servitù prediali consiste nell’esercizio effettivo di tali diritti, in tanto può configurarsi il possesso di una servitù positiva, tutelabile con l’azione di reintegrazione, in quanto sia stato posto in essere, da parte del titolare del fondo dominante, un atto iniziale di esercizio della servitù medesima. Il possesso delle servitù negative, tutelabile con l’azione anzidetta, si esplica, invece, mediante il godimento dell’utilità derivante al fondo dominante dal comportamento di astensione cui e tenuto il titolare del fondo servente[51].

Anche una servitù altius non tollendi[52] è suscettibile di possesso o di manutenzione dal momento che l’art. 1140 c.c., definendo il possesso come il potere di fatto corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale, si richiama alla situazione dei titolari di tali diritti e che l’espressione attività corrispondente all’esercizio è riferibile ad una situazione corrispondente in fatto a quella che è in diritto la situazione di un titolare di un diritto reale, per cui in tema di servitù non costituisce una componente necessaria del possesso il requisito di un comportamento materiale che si esplichi sul fondo servente.

Il possesso di servitù negativa altius non tollendi si esercita, invero, mediante il godimento dell’utilità derivante al fondo del possessore dal contegno di astensione del possessore dell’altro fondo limitrofo, ossia mediante un’attività del fondo, che gode del vantaggio, che riveli che l’astensione del proprietario del fondo apparentemente gravato di fatto da tale servitù, costituisca un comportamento determinato dalla volontà di rispettare detta situazione, corrispondente a quella che, in diritto, e la situazione determinata dalla valida costituzione della servitù[53].

 5 –  il possesso di pegno

Il possessore esercita sul pegno un potere di custodia, tipico della funzione di garanzia.

4)  Soggetti

  • Il c.d. nudo possessore  [54]

Il possesso corrispondente al contenuto di un diritto reale limitato non esclude il possesso corrispondente al contenuto del diritto di proprietà.

In tal caso sorge il problema di come sia possibile ravvisare il possesso in capo al proprietario se l’esercizio di un diritto reale limitato da parte di un terzo lo abbia privato della disponibilità di fatto della res.

Il nudo proprietario non possiede tramite gli altri titolari di diritti reali, ed è possibile consideralo quale possessore se esercita un diritto corrispondente al diritto di proprietà, poi, così è ridotto il possesso del nudo proprietario, definito come nudo possesso.

In giurisprudenza si è riconosciuto al nudo possessore il diritto di proporre l’azione di spoglio contro chi abbia sottratto la res, volta ad ottenere la restituzione della  cosa a favore di chi abbia subito lo spoglio, nell’interesse, dunque, del possessore diretto ma anche del nudo possessore.

  • Il compossesso  [55]  [56]  [57]

Si ha compossesso quando più soggetti esercitano congiuntamente il possesso sulla cosa.

Il compossessore può esercitare nei confronti dei terzi l’azione di reintegrazione e l’azione di manutenzione quale che sia la sua quota di partecipazione. A sua volta il compossessore può esercitare queste stesse azioni anche nei confronti degli altri compossessori tutte le volte in cui uno di questi sopprima o turbi il possesso degli altri a meno che questi atti non vengono tollerati e non costituiscono atti univocamente idonei a rivelare un mutamento del titolo del proprio possesso.

Principio estratto da ultima sentenza della S.C.[58]

Poi, per ultima sentenza della medesima Corte[59], che di qui a presso si avrà modo di riportare estensivamente nelle motivazioni, il compossesso non consiste nell’esercizio, solidaristico e comunitario, di un’unica signoria, ma e’ il fenomeno della confluenza su di una stessa res di poteri plurimi, corrispondenti nella loro estrinsecazione ad altrettanti diritti tra loro distinti, di identico o di differente tipo

E’ il possesso esercitato contemporaneamente e ad egual titolo da più persone sul medesimo bene.

In realtà la disponibilità di fatto della cosa non richiede necessariamente un contatto fisico né continuato con la res; è allora ammissibile una situazione in cui un soggetto abbia un potere di fatto sulla cosa condivisa con altri soggetti.

Per la S.C.[60] sebbene il vigente diritto positivo non disciplini espressamente il compossesso pro indiviso, nulla impedisce la possibilità di un esercizio di fatto dell’attività corrispondente alla comunione del diritto di proprietà e, quindi, neppure la possibilità di pervenire, in presenza degli altri requisiti previsti dalla legge, all’acquisto della comproprietà a titolo di usucapione.

Mentre diverso dal compossesso è quando sulla medesima cosa possono coesistere più situazioni possessorie, nei confronti di più soggetti, in relazione ad attività corrispondenti all’esercizio di diritti diversi[61].

Infatti, anche ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 28 gennaio 2015, n. 1584

ha riaffermato che in sede possessoria è possibile la coesistenza simultanea di più situazioni possessorie, anche di diverso contenuto, in relazione alla medesima cosa, in capo a differenti soggetti, esprimentesi per ognuno di essi in attività corrispondenti all’esercizio di diritti reali diversi, e, perciò, il fatto che si accerti l’esistenza di un possesso di terreno corrispondente all’esercizio di una servitù di passaggio, non esclude, di per sè, che il medesimo bene possa essere posseduto da altro soggetto, che eserciti sullo stesso un possesso corrispondente alla estrinsecazione dei poteri propri del proprietario di un bene, sia pure gravato di servitù in favore di altri, giacchè ciò che rileva è la situazione di fatto e non la titolarità del diritto corrispondente (Cass. 18 settembre 1965; Cass. 7 giugno 1973 n. 1648).

Su di un immobile di proprietà esclusiva di un soggetto può ben crearsi una situazione di con possesso «pro indiviso» tra lo stesso soggetto proprietario ed un terzo, con il conseguente possibile acquisto, da parte di quest’ultimo, della comproprietà «pro indiviso» dello stesso bene, una volta trascorso il tempo per l’usucapione, nella misura corrispondente al possesso esercitato.

Né tale situazione di compossesso, che consiste nell’esercizio del comune potere di fatto sulla cosa, «in tota et in qualibet parte» della stessa, da parte di due soggetti, esige la esclusione del possesso del proprietario (ché in tal caso si tratterebbe di possesso esclusivo); né richiede che il compossessore effettivo ignori l’esistenza del diritto altrui, non valendo la contraria eventualità ad escludere l’«animus possidendi» che sorregge i comportamenti effettivamente tenuti dal possessore il quale abbia usato della cosa uti condominus[62].

Il compossesso o la detenzione qualificata del convivente more uxorio

Sul tema da ultimo è intervenuta, come già enunciato in precedenza, una pronuncia della S.C.[63] che qui di seguito si riporta l’ampia motivazione, ovvero: dottrina e giurisprudenza, sia di merito, sia di legittimità, si sono occupate del possesso e della detenzione nella famiglia di fatto essenzialmente per due fini, quello della tutela possessoria tra conviventi e verso i terzi, e quello della successione mortis causa del convivente – conduttore nel rapporto di locazione di immobile urbano.

Il progressivo radicamento sociale di situazioni di convivenza al di fuori del matrimonio, che pur vissute sotto il segno della riconferma quotidiana presentino stabilità interna e, soprattutto, riconoscibilità esterna, e il conseguente profilarsi di nuove situazioni giustiziabili, hanno contribuito, o quanto meno occasionato, il superamento di teorie che riguardavano allo stesso modo anche la posizione del coniuge e degli altri familiari conviventi, un tempo considerati quali meri strumenti del potere esercitato dal possessore sulla res, o alla stessa stregua degli ospiti, in quanto tali non legittimati attivamente all’azione possessoria (passaggio intermedio, in dottrina, fu quello di ipotizzare in favore del familiare convivente del possessore un non meglio concettualizzato godimento mero sulle medesime cose).

L’evento che ha segnato il deciso incamminarsi verso una più ampia tutela del c.d. coniuge di fatto, è dato dalla sentenza n. 404/88 con la quale la Corte costituzionale dichiarò  illegittimo l’art. della Legge n. 392 del 1978, nella parte in cui detta norma non prevedeva tra i successibili mortis causa nella titolarità del contratto di locazione il convivente more uxorio del conduttore.

Equiparate, sia pure al limitato fine di consentire una continuità di protezione rispetto ad un bene di primaria rilevanza costituzionale, le figure del coniuge e del convivente che si comporta come tale, resta tuttavia inalterato il problema qualificatorio dei poteri di fatto esercitati, nel senso che la posizione dell’uno e dell’altro verso il detentore o il possessore si atteggia in termini affatto analoghi, non potendosi ipotizzare che al convivente more uxorio sia riconoscibile una tutela poziore rispetto a quella che compete al coniuge.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare che il solo fatto della convivenza, anche se determinata da rapporti intimi, non pone di per sè in essere nelle persone che convivono con chi possiede il bene un potere sulla cosa che possa essere configurato come possesso autonomo sullo stesso bene o come una sorta di compossesso[64].

Quanto alla posizione del coniuge, si è definita detenzione qualificata, ai fini dell’esercizio dell’azione di spoglio, la situazione di potere di fatto del coniuge convivente sui beni che arredano la casa coniugale, sia quelli necessari per il normale godimento di essa, sia quelli che vi si trovano per rendere più gradevole il soggiorno nella stessa, escludendo solo i beni non destinati all’arredamento della casa, ma portativi con una diversa e ben distinta destinazione.

Sempre in tema di tutela possessoria, è stato ritenuto che la stipulazione di un contratto di locazione di un alloggio, da parte del marito, non esclude, una volta intervenuta la separazione personale fra i coniugi, la sussistenza di un titolo di detenzione autonoma da parte della moglie, tutelabile con l’azione di reintegrazione nel possesso nei confronti del marito, ove si accerti, per effetto di tale separazione, l’esistenza di eventuali ragioni di credito della moglie per mantenimento proprio e dei figli alla stessa affidati che costituiscano titolo per tale detenzione[65].

La dipendenza della posizione dell’un coniuge rispetto a quella dell’altro avente diritto ad occupare l’immobile adibito a luogo di residenza familiare, si coglie in una sentenza che, in tema di rapporto di portierato estinto per la morte del portiere, considera senza titolo la detenzione del coniuge superstite[66].

Anche in tema di locazione di immobile, i precedenti di questa Corte risolvono in termini di detenzione qualificata la successione del coniuge del conduttore nel rapporto di locazione[67], non potendo il primo, che in base alla Legge n. 392 del 1978, articolo 6 è titolare soltanto di una mera aspettativa alla successione nel contratto di locazione, vantare nei confronti del proprietario dell’abitazione una situazione soggettiva più forte della detenzione qualificata spettante al conduttore stesso[68].

Secondo una pronuncia resa in materia di IRPEF, ai fini delle detrazioni Legge n. 449 del 1997, ex articolo 1, comma 1, invece, il rapporto di coniugio non determina una situazione di compossesso di tutti gli immobili di proprietà di ciascun coniuge, ma solo di quello (o quelli) concretamente utilizzato anche dal coniuge non proprietario, alla data di inizio lavori, a nulla rilevando la circostanza che le spese di ristrutturazione siano eventualmente sostenuto dal coniuge non proprietario; con la conseguenza che anche nel caso di convivenza more uxorio può dirsi sussistente il possesso o la detenzione dell’immobile solo nel caso in cui il contribuente vi abiti stabilmente con il convivente proprietario, fermo l’onere di dimostrarne il possesso o la detenzione sin da epoca anteriore all’inizio dei lavori[69].

Escluso che a quest’ultimo precedente, data la specificità della materia tributaria, possa attribuirsi una potenzialità espansiva, deve negarsi che il rapporto di coniugio o il menage di fatto siano idonei a configurare a favore dei coniugi o dei conviventi un compossesso della casa di residenza familiare, con l’effetto che la morte dell’un possessore consolidi il possesso nelle mani del solo superstite (e il discorso deve ritenersi valido per ogni altro familiare che conviva stabilmente col possessore).

Oltre all’articolo 1146 c.c., comma 1, che regola la successione nel possesso come continuazione nell’erede del potere già esercitato dal de cuius, e all’assenza di norme che autorizzino a ipotizzare fenomeni di consolidamento o accrescimento in materia possessoria, depone ed è decisiva la circostanza che il compossesso non è l’esercizio, solidaristico e comunitario, di un’unica signoria (ipotesi che, del resto, rimanderebbe ad una nozione di comunione diversa da quella, per quote ideali, accolta nel nostro ordinamento e derivata dal diritto romano), nè esso può atteggiarsi a contitolarità del potere di fatto (il che costituirebbe una contraddizione in termini, la titolarità inerendo al diritto, lì dove il possesso attiene alle situazioni di fatto), ma è il fenomeno della confluenza su di una stessa res di poteri plurimi, corrispondenti nella loro estrinsecazione ad altrettanti diritti tra loro distinti, di identico o di differente tipo, fra loro variamente coordinabili (si pensi al possesso iure proprietatis e iure servitutis avente ad oggetto il medesimo fondo, o al possesso esercitato dai comproprietari di uno stesso bene).

L’esclusione di un compossesso famigliare appare vieppiù manifesta nelle unioni di fatto, in cui la relazione del convivente con le res possedute dal partner è ancor più necessariamente mediata – assente il carisma del vincolo matrimoniale e con esso ogni astratta possibilità di derivarne poteri di fatto muniti di una propria autonomia perfetta – dal titolo da cui dipende detto possesso, il cui venir meno travolge le basi della tutela accordabile al convivente more uxorio.

Se dunque non vi può essere solidarietà nel medesimo possesso, è evidente che, posto un possessore iure proprietatis, al convivente more uxorio che con lui goda dei medesimi beni debba riconoscersi una posizione dipendente e recessiva, riconducibile alla detenzione autonoma, (qualificata dalla stabilità della relazione familiare e protetta dal rilievo che l’ordinamento a questa riconosce).

Pertanto alla stregua di tali motivazioni è stato espresso il principio di diritto secondo cui il compossesso non consiste nell’esercizio, solidaristico e comunitario, di un’unica signoria, ma è il fenomeno della confluenza su di una stessa res di poteri plurimi, corrispondenti nella loro estrinsecazione ad altrettanti diritti tra loro distinti, di identico o di differente tipo.

Pertanto, il convivente more uxorio del soggetto possessore iure proprietatis dell’immobile in cui risiede la famiglia di fatto, non è, in ragione di tale sola convivenza, compossessore con lui dell’immobile stesso, che dunque non può usucapire, ma detentore autonomo.

Tutela

In una situazione di compossesso il godimento del bene da parte dei singoli compossessori assurge ad oggetto di tutela possessoria quando uno di essi abbia alterato e violato senza il consenso e in pregiudizio degli altri partecipanti lo stato di fatto o la destinazione della cosa oggetto del comune possesso, in modo da impedire o restringere il godimento spettante a ciascun compossessore sulla cosa medesima, o che in modo apprezzabile ne modifichi o turbi le modalità di esercizio[70].

Principio ripreso anche da ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 4 agosto 2015, n. 16369

secondo la quale, appunto, nel godimento della cosa comune e’ configurabile una posizione possessoria tutelabile con le azioni di reintegrazione e di manutenzione contro l’attivita’ del compossessore comproprietario che sopprima il godimento medesimo, ovvero ne turbi o ne renda piu’ gravose le modalita’ di esercizio. Piu’ precisamente, in una situazione di compossesso, il godimento del bene da parte dei singoli possessori assurge ad oggetto di tutela possessoria, quando uno di essi abbia alterato o violato, in pregiudizio degli altri partecipanti, lo stato di fatto o la destinazione della cosa oggetto del comune possesso, in modo da impedire o restringere il godimento spettante a ciascun compossessore sulla cosa medesima. Le concrete modalita’ di godimento della cosa comune – desumibili dagli articoli 1102, 1120, 1139 e 1121 c.c. – assurgono a possibile contenuto di una posizione possessoria tutelabile contro tutte le attivita’ con le quali uno dei compossessori comproprietari introduca unilateralmente una modificazione che sopprima o turbi il compossesso degli altri. Del pari, la violazione dei limiti alle modalita’ di esercizio del compossesso puo’ concretare una molestia possessoria tutelabile con l’azione di manutenzione contro l’attivita’ del compossessore che turbi o modifichi le dette i modalita’ di esercizio.

Interversione [71]

Il singolo comunista, ove intenda espandere in via esclusiva il possesso sul bene, pur non dovendo necessariamente compiere gli atti di interversio possessionis previsti dagli artt. 1141 e 1164 c.c., rispettivamente per il mutamento della detenzione in possesso e di un diritto reale su cosa altrui in possesso corrispondente all’esercizio della proprietà, deve tuttavia porre in essere atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed animo domini della cosa, incompatibili con il permanere di quello altrui sulla stessa, né tale comportamento può consistere soltanto in atti di gestione della cosa comune consentiti al singolo compartecipante o anche in atti familiarmente tollerati dagli altri o ancora in atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o erogazioni di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dar luogo ad una estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore[72].

Usucapione [73] [74]

In tema di compossesso, il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi, funzionale all’esercizio del possesso ad usucapionem, e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell’altro compossessore, risultando, per converso, necessario, a fini di usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla res da parte dell’interessato attraverso un’attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che invochi l’avvenuta usucapione del bene[75].

Accessione

Vedi par.fo 5, lettera A  –  acquisto ipso jure – Accessione  –  pag. 41

5)  L’oggetto

A)  Generalità

In linea generale possono essere oggetto di possesso soltanto le cose, ossia i beni materiali, così come  indicato dall’art. 810 c.c., idonei a formare oggetto di tutti i diritti reali che prestano al possesso il loro contenuto.

Per la S.C.[76] quando si manifesta in una attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà sulla cosa unitariamente considerata, il possesso si estende all’intero bene ed in tal modo si conserva anche se si esprime in forme di godimento limitate solo ad una sua parte. Ne consegue che perché si riconosca l’esercizio del possesso sull’intero fondo non è necessario che il soggetto compia atti di potere su ogni singola zona di terreno essendo sufficiente che mantenga come propria la cosa nella sua individualità.

B)  Cose di cui non si può acquistare la proprietà

art. 1145 c.c.     possesso di cose fuori commercio: il possesso delle cose di cui non si può acquistare la proprietà è senza effetto.

Tuttavia nei rapporti tra privati è concessa l’azione di spoglio rispetto ai beni appartenenti al pubblico demanio e ai beni delle province e dei comuni soggetti al regime proprio del demanio pubblico (c.c.822, 824).

Se trattasi di esercizio di facoltà, le quali possono formare oggetto di concessione da parte della pubblica amministrazione, e data altresì l’azione di manutenzione (c.c.1170).

 

Si fa in tal modo generale riferimento alle cose extra commercium, e più specificamente alle cose di proprietà pubblica, appartenenti, in particolare, al pubblico demanio, alle province ed ai comuni, soggetti al regime del demanio pubblico, come stabilito dall’art. 823 c.c.

art. 823 c.c.   condizione giuridica del demanio pubblico: i beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano (C. Nav. 30 ss., 694 e ss.).

Spetta all’autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico. Essa ha facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà (948 e seguenti) e del possesso (1168 e seguenti) regolati dal presente codice.

Tali beni sembrano essere considerati come insuscettibili di possesso o meglio, più precisamente, il potere di fatto su quei beni non dà luogo al possesso.

Una siffatta affermazione può non sembrare valida nel sistema del codice vigente, considerato che l’art. 1145 c.c., con riferimento ai beni demaniali, sembra porre, nei due commi successivi, notevoli limitazioni a quanto esposto nel 1 comma.

Con riferimento a tali  beni il principio va ampliato, precisando che il potere di fatto esercitato sugli stessi non può farsi valere solo nei confronti della P.A., alla quale appartengono; rileva, invece, nei rapporti tra privati, laddove è prevista una tutela con l’azione di spoglio e, in alcuni casi, con l’azione di manutenzione, indipendentemente dall’esistenza di un regolare atto di concessione.

Ci si domanda, allora, se l’attuazione di quel potere di fatto dia luogo ad una situazione possessoria o, se, invece, il 2 e 3 co dell’art. 1145 c.c. estenda semplicemente la tutela degli artt. 1168 – 1170 c.c. a situazioni anomale.

La situazione  deve essere valutata in base ai normali criteri privatistici – dato che la questione si pone esclusivamente nei rapporti fra privati – e non con riferimento al possibile uso privato di beni pubblici.

Ciò sta a significare che è necessario in capo a questi beni si presenti una situazione che si qualificherebbe come possesso se avesse ad oggetto beni di proprietà privata.

Questo solo fatto dà luogo a tutela contro lo spoglio, ammessa per un evidente motivo di ordine pubblico, tenuto conto del fatto che l’azione tra privati è generalmente ammessa non solo a difesa del possesso, ma anche a situazioni minori quali la detenzione.

Per la Sezioni Unite[77] per il disposto dell’art. 1145 c.c. nei rapporti tra privati è esperibile l’azione di spoglio anche rispetto ai beni appartenenti al pubblico demanio ed ai beni degli enti pubblici territoriali ad essi equiparati, senza che occorra che l’esercizio del possesso corrisponda ad un uso speciale od eccezionale del bene demaniale.

Sempre per le Sezioni Unite[78] l’esperibilità davanti al giudice ordinario, nei rapporti fra privati, di azione di reintegrazione[79] nel possesso di un immobile non resta esclusa dall’eventuale assoggettamento del bene al regime del demanio pubblico (nella specie, sotto il profilo della sua appartenenza a cimitero comunale), atteso che l’art. 1145 secondo comma c.c. espressamente accorda la tutela contro atti di spoglio, nell’ambito dei suddetti rapporti, anche per i beni demaniali.

Per la medesima Cassazione[80], inoltre, a norma dell’art. 1145 c.c. l’azione di manutenzione[81] del possesso è consentita nei rapporti fra privati non solo a colui che abbia già conseguito in concessione il godimento di un bene demaniale, ma anche a chi eserciti sul bene stesso poteri di fatto tali da giustificare il godimento della concessione, in quanto nei rapporti fra privati per l’esperimento dell’azione di manutenzione è sufficiente che il possesso corrisponda all’esercizio di facoltà possano formare oggetto di concessione amministrativa, e non è necessario che trattisi di facoltà correlate a concessioni già emanate. Pertanto il privato che eserciti di fatto una signoria sul bene demaniale suscettibile di essergli attribuito in concessione è possessore ad ogni effetto ed è, in quanto tale, legittimato ad esperire l’azione di manutenzione contro altro privato che rechi turbativa al suo possesso.

Infine, in merito all’usucapione, un bene demaniale non è, per sua natura, suscettibile di usucapione[82], salva la sdemanializzazione del medesimo, la quale può essere anche tacita e risultare cioè, nonostante la mancanza di un formale atto pubblico di sclassificazione, da atti univoci e concludenti, incompatibili con la volontà di conservarne la destinazione all’uso pubblico, e da circostanze così significative da rendere inconcepibile un’ipotesi diversa da quella che la pubblica amministrazione abbia definitivamente rinunciato al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo. La relativa indagine è rimessa al giudice del merito, il cui accertamento è insindacabile in sede di legittimità, se immune da vizi logici e giuridici[83].

C)  I beni del patrimonio indisponibile 

[84]

Al riguardo la dottrina prevalente sostiene che tali beni siano suscettibili di possesso a qualunque titolo e, dunque, pienamente usucapibili, in considerazione del fatto che essi, in base all’art. 828 c.c., sarebbero relativamente inalienabili, con la conseguenza che una loro eventuale alienazione contra legem non sarebbe nulla, ma annullabile e, pertanto, produttiva di effetti.

Una tesi intermedia è stata poi sostenuta in giurisprudenza, laddove si è negata l’alienabilità totale dei beni indisponibili finché dura la loro destinazione pubblica, ammettendo, però, un’alienazione od usucapione parziale, quando non interferiscono sulla destinazione del bene.

D)  Acque fluenti – gas – energie –  spazio aereo – Ius sepulcri

  • Acque fluenti – una volta ammessa, in giurisprudenza, la possibilità del possesso anche in caso di somministrazione di acqua fornita in forza di un rapporto obbligatorio, per mezzo di pompa situata al di fuori della sfera del detentore, si è affermato che tale possesso ha per oggetto la massa indistinta dell’acqua, e non la sua singola quantità, ma concerne solo quella che scorre perennemente e naturalmente, e trova applicazione, ad es., in materia  di servitù d’acqua, e non in materia di somministrazione in forza di un rapporto obbligatorio.
  • Gas ed Energie – – le medesime conclusioni valgono con riferimento ai rapporti di somministrazione inerenti al gas o energia elettrica, laddove si è escluso che il possesso dell’utente si estenda al di fuori del suo ambito di azioni, esaurendosi ogni interruzione sul piano dell’azione contrattuale di eventuale inadempimento.
  • Spazio aereo – ci si domanda se possa essere oggetto di possesso, la questione trova fondamento nell’art. 840 c.c., che riguarda l’estensione della proprietà al sottosuolo ed allo spazio sovrastante nei limiti in cui possa riscontrare un apprezzabile interesse del proprietario. È indubbio, dunque, che non possa formare oggetto di proprietà o di possesso, ma si ammette che possa assumere il carattere di bene tutelabile in modo possessorio quando sia sovrastante ad una superficie posseduta dallo stesso soggetto che l’abbia invocata.

Per la S.C.[85] l’interesse che segna il limite all’espansione del diritto di proprietà (e del corrispondente possesso) di un fondo sullo spazio aereo sovrastante deve essere valutato alla stregua della ipotizzabile possibilità di utilizzare tale spazio come ambito di esplicazione effettiva o virtuale di un potere legittimo (o di fatto) sulla sottostante superficie, compatibilmente con le caratteristiche e con la normale destinazione del suolo.

Inoltre[86], il possesso di un immobile si estende, di norma, allo spazio aereo compreso nella proiezione ideale, in altezza, dell’immobile stesso, fin dove, però, tale spazio non presenti una soluzione di continuità per la frapposizione di altro immobile, soggetto ad altrui possesso. Oltre tali limiti, infatti, non è normalmente concepibile la esplicazione, effettiva o virtuale, di una signoria di fatto del possessore dell’immobile posto a livello inferiore.

  • Ius sepulcri

Lo ius sepulchri ha natura di diritto reale patrimoniale. Ne discende che l’esercizio del potere di fatto, corrispondente al contenuto di tale diritto, concreta «possesso», ai sensi dell’art. 1140 c.c., ed è quindi tutelabile anche con l’azione di manutenzione[87].

Il diritto al sepolcro, inteso come diritto alla tumulazione, ha natura di diritto reale patrimoniale ed è suscettibile di tutela possessoria[88].

E)   Universalità di beni mobili – Azienda

[89]

Vedi par.fo 8, lettera B) oggetto

art. 1160 c.c.   usucapione delle universalità di mobili: l’usucapione di un’universalità di mobili (c.c.816) o di diritti reali di godimento sopra la medesima si compie in virtù del possesso continuato per venti anni.

Nel caso di acquisto in buona fede (c.c.1147) da chi non e proprietario, in forza di titolo idoneo, l’usucapione si compie con il decorso di dieci anni.

art. 1170 c.c.    azione di manutenzione: chi è stato molestato nel possesso di un immobile, di un diritto reale sopra un immobile o di un’universalità di mobili può, entro l’anno dalla turbativa, chiedere la manutenzione del possesso medesimo (C.p.c. 703 s.s.).

 

F)   Beni immateriali

[90]

Il problema dell’ammissibilità o meno del possesso dei suddetti beni non deve comunque essere confuso con quello concernente il possesso di un qualsiasi oggetto in cui materialmente l’opera dell’ingegno od il segno distintivo trovi espressione in concreto.

Il problema stesso avrebbe ragione di essere soltanto se si ammettesse la categoria dei beni immateriali quale categoria autonoma di entità suscettibili di divenire oggetto di diritti, e più precisamente, di diritti reali, considerato che è ad immagine di quest’ultimi che va costituito il possesso.

Orbene per la Corte di Cassazione[91] se «il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale» (art. 1140 c.c.), e se i diritti di utilizzazione economica dell’opera intellettuale hanno tutte le caratteristiche dei diritti reali, è configurabile come possesso la posizione di chi di fatto si trovi, rispetto alle possibilità di sfruttamento economico dell’opera, nello stesso rapporto in cui si troverebbe se fosse titolare dei relativi diritti. Pertanto, va individuato nella norma dell’art. 1155 c.c. il criterio risolutivo del conflitto tra più acquirenti dei medesimi diritti di utilizzazione economica di un’opera dell’ingegno.

In tale ambito rientra la tutela al diritto di diffusione radio televisiva.

Difatti – poiché il diritto di diffusione radiotelevisiva via etere é riconosciuto dall’ordinamento quale espressione della libertà di manifestazione del pensiero – la tutela possessoria (in aggiunta a quella petitoria) a favore del privato esercente trasmissioni radiofoniche in ambito locale che subisca interferenze da parte di altra emittente, può configurarsi, quale necessario completamento del diritto in questione — con riguardo al possesso delle onde elettromagnetiche considerate come bene mobile — anche nella fase di attuazione del potere di fatto, normalmente preordinata alla necessaria sperimentazione degli impianti, sempreché non si tratti di mera occupazione della frequenza attuata al solo scopo di precludere ad altri l’accesso al medesimo spazio, trattandosi di attività non riconducibile ad una libera manifestazione del pensiero [92].

In tema di trasmissioni televisive private in ambito locale, il «preuso» di un determinato canale o frequenza, quale situazione di fatto tutelabile anche in via possessoria nel conflitto fra più emittenti, va individuato prendendo in considerazione non soltanto il dato temporale dell’inizio di dette trasmissioni, ma anche l’ambito spaziale nel quale le medesime possono essere ricevute[93].

Mentre per altra sentenza della S.C.[94] le onde elettromagnetiche utilizzate come veicolo, su una determinata banda di frequenza, delle immagini e suoni prodotti da una emittente, non possono formare oggetto di diritti e di possesso separatamente ed indipendentemente dal complesso degli impianti e delle attrezzature dell’azienda televisiva emittente, nel cui ambito di possesso rientrano.

Ne consegue che il proprietario di un apparecchio televisivo che si ritenga danneggiato da interferenze nella ricezione dei programmi irradiati da una emittente televisiva, provocate dall’occupazione da parte di altra stazione emittente della banda di frequenza da sempre utilizzata dalla prima emittente, non può invocare la tutela possessoria delle onde predette, sulla quale non ha alcun potere di fatto, corrispondente a quella di un diritto reale, a tanto essendo legittimata soltanto l’azienda di diffusione dei programmi radiotelevisivi che lamenti lo spoglio o la turbativa da parte dell’altra emittente.

Con riguardo alle utilizzazioni economiche di un’opera dell’ingegno, non sono configurabili situazioni possessorie idonee a comportare l’acquisizione per usucapione[95] dei relativi diritti[96].

6) Acquisto, modificazione e perdita del possesso

A)  Il c.d. acquisto  Ipso iure

Per l’acquisto del possesso è indispensabile che si concretizzino gli elementi essenziali della sua struttura, e, più precisamente, il corpus e l’animus, con riferimento ad una  res  suscettibile di possesso.

Tuttavia non è raro sentire parlare di acquisto del possesso di diritto, cioè senza bisogno di materiale apprensione, ovvero di conservazione del possesso solo animo.

Il mezzo mediante il quale si realizza tale potere è la c.d. adprehensio  o materiale apprensione (art. 460, 1 co); si ritiene che si possa fare a meno di quest’ultimo, ma non sempre nello stesso senso.

I casi che danno luogo a questa automatica situazione di possesso sono rappresentati dall’acquisto della qualità di chiamato alla successione e, quindi, dall’acquisto della qualità di erede.

art. 1146 c.c.    successione nel possesso. Accessione del possesso: il possesso continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione.

Il successore a titolo particolare può unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli effetti.

 

Tale articolo sta a significare che la situazione possessoria creata dal de cuius o, comunque, instauratasi in capo a quest’ultimo, non viene meno a seguito della sua morte, ma viene imputata al soggetto che prenderà il posto del defunto nella sua complessiva sfera giuridica e patrimoniale.

Ciò spiega anche il motivo per il quale il possesso imputato all’erede mantiene gli stessi caratteri che aveva quello del defunto, mentre lo stesso non accade per il successore a titolo particolare, per il quale è previsto un semplice beneficium, rappresentato dalla c.d. accessione, che gli permette di unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli effetti, sempre ché tale unione gli si prospetti conveniente.

Per la S.C.[97] in tema di accessione nel possesso, mentre il primo comma dell’art. 1146 c.c. stabilisce la continuazione del possesso del de cuius in capo all’erede senza alcuna interruzione per effetto dell’apertura della successione, il secondo comma della norma citata prevede, per il successore a titolo particolare (tanto inter vivos quanto mortis causa), la facoltà di unire il proprio possesso a quello del suo autore, con la conseguenza che tale successore non subentra ipso facto nel possesso della cosa per effetto dell’acquisto del diritto, occorrendo, all’uopo, che si stabilisca un ulteriore rapporto di fatto tra detto acquisto e la cosa, analogo, se pur distinto, a quello fra la cosa stessa ed il suo dante causa, non essendo sufficiente, ai fini dell’accessio possessionis, il semplice diritto a possedere.

  • La successione

[98]

La successione nel possesso, prevista del primo comma dell’art. 1146 c.c., è un fatto necessario, che non può essere escluso dall’erede che desideri dar vita ad un possesso ex novo  e che abbia, dunque, caratteristiche diverse da quelle che aveva il possesso del de cuius; l’erede non può, dunque, separare il suo possesso da quello del suo dante causa, a meno che non lo perda in ogni caso e lo riacquisti a diverso titolo ed in uno dei modi c.d. normali.

In realtà per effetto di una fictio iuris[99], il possesso del de cuius si trasferisce agli eredi i quali subentrano nel possesso del bene senza necessità di una materiale apprensione, occorrendo solo la prova della qualità di eredi.

Così anche secondo ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 7 aprile 2014, n. 8119

Il principio della continuità nel possesso tra il de cuius e l’erede consente a quest’ultimo, pur in assenza della materiale apprensione dei beni ereditari, il legittimo esercizio delle azioni possessorie.

Il chiamato all’eredità, che possegga i beni ereditari, può invocare la propria successione nel possesso del de cuius, anche ai fini dell’usucapione[100], ai sensi dell’art. 1146 c.c., a condizione che abbia assunto la qualità di erede, accettando la eredità, ferma restando la configurabilità di un’accettazione implicita o tacita, ove il suo comportamento evidenzi la volontà di continuare il possesso esercitato dal dante causa[101].

Inoltre[102], soltanto l’erede, quale successore a titolo universale e continuatore della persona del defunto, subentra ipso jure nel possesso dei beni ereditari, senza bisogno di materiale apprensione e può, quindi, esperimentare tutte le azioni a tutela del possesso.

Nelle successioni a titolo particolare l’avente causa acquista il solo potere giuridico sulla cosa costituito dal diritto a possedere, ma, se tale diritto non venga realizzato mediante la concreta immissione in possesso, ed il conseguente effettivo esercizio del potere di fatto sulla cosa, non è concessa dalla legge la tutela possessoria. Pertanto, solo a seguito della immissione in possesso, il possessore a titolo particolare può unire il proprio possesso a quello del suo autore, a sensi dell’art. 1146, comma secondo, c.c., sommando i due periodi agli effetti che derivino dalla durata complessiva di essi e sempre che i caratteri dei due possessi coincidano.

Un discorso a parte deve essere fatto per quelle particolari ipotesi in cui il possesso sia vincolato attraverso il titolo alla persona del possessore, destinate, pertanto, ad estinguersi con la sua morte.

È questo il caso del possesso a titolo di usufrutto, uso e abitazione che, nonostante quanto rilevato, si è ritenuto continuare ai sensi dell’art. 1146 c.c.

È stato opportunamente rilevato al riguardo, che se il possesso rappresenta l’immagine di un diritto che viene a cessare con la morte del possessore, è assurdo pensare che tale rilevanza vada oltre questo evento, investendo la posizione di un nuovo soggetto (l’erede), che non solo acquisterà ipso iure il possesso, ma, con la eventuale apprensione materiale del bene, potrà dare vita ad una nuova ed autonoma situazione possessoria.

Da ultimo per la S.C.[103] il coerede che dopo la morte del de cuius sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, egli, che già possiede “animo proprio” ed a titolo di comproprietà, e’ tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, non essendo sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall’uso della cosa comune.

  • Accessione

L’art. 1146, secondo comma, c.c. — nel disporre che «il successore a titolo particolare può unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli effetti» — si riferisce non solo al successore a titolo particolare mortis causa (legatario), bensì pure a quello per atto inter vivos [104].

In tema di accessione nel possesso, di cui all’art. 1146, secondo comma, c.c., affinché operi il trapasso del possesso dall’uno all’altro dei successivi possessori e il successore a titolo particolare possa unire al proprio il possesso del dante causa, è necessario che il trasferimento trovi la propria giustificazione in un titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà o altro diritto reale sul bene; ne consegue, stante la tipicità dei negozi traslativi reali, che l’oggetto del trasferimento non può essere costituito dal mero potere di fatto sulla cosa. (Nella specie la S.C.[105] ha confermato la sentenza impugnata la quale aveva ritenuto che gli acquirenti di un immobile oggetto di locazione non potessero invocare a proprio favore il compossesso del conduttore sul piazzale antistante).

Principio confermato da altra recente Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 30 gennaio 2017, n.2295

in tema di accessione nel possesso, di cui all’art. 1146 c.c., comma 2, affinché operi il trapasso del possesso dall’uno all’altro dei successivi possessori e il successore a titolo particolare possa unire al proprio, il possesso del dante causa, è necessario che il trasferimento trovi la propria giustificazione in un titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà o altro diritto reale sul bene; dal che consegue, stante la tipicità dei negozi traslativi reali, che l’oggetto del trasferimento non può essere costituito dal trasferimento del mero potere di fatto sulla cosa (Cass. 16-3-2010 n. 6353; Cass. 22-4-2005 n. 8502).

L’accessione del possesso, di cui all’art. 1146 c.c., comma 2, pertanto, opera con riferimento e nei limiti del titolo traslativo (e non oltre lo stesso), e in tali limiti può avvenire la ‘traditio’: all’acquisto deve, infatti, seguire l’immissione di fatto nel possesso del bene con il passaggio del potere di agire liberamente sullo stesso, e da tale momento si verificano gli effetti dell’accessione (Cass. 12-9-2000 n. 12034; Cass. 23-6-1999 n.6382; Cass. 3-7-1998 n.6489; Cass. 12-11-1996 n.9884).

Questa Corte ha, altresì, avuto modo di chiarire che, nell’azione di regolamento di confini, qualora il convenuto eccepisca l’intervenuta usucapione invocando l’accessione del possesso, deve fornire la prova dell’avvenuta ‘traditio’ in virtù di un contratto, comunque, volto (pur se invalido e proveniente ‘a non domino’) a trasferire la proprietà del bene oggetto del possesso (Cass. 12-9-2000 n. 12034).

In definitiva, nella sentenza in commento del 2017 è stato, poi, enunciato il seguente principio: nell’azione di regolamento di confini, qualora il convenuto eccepisca l’intervenuta usucapione invocando l’accessione del possesso, deve fornire la prova dell’avvenuta ‘traditio’ in virtù di un contratto, comunque, volto (pur se invalido e proveniente ‘a non domino’) a trasferire la proprietà del bene oggetto del possesso.

I negozi traslativi della proprietà o di altro diritto reale limitato non possono avere ad oggetto il trasferimento del solo possesso, attraverso un (non consentito) procedimento di adattamento funzionale della relativa causa negotii, con la conseguenza che l’acquirente di un immobile, nell’invocare giudizialmente la tutela possessoria, è tenuto a fornire la prova del concreto esercizio del proprio possesso (risultando, a tal fine, la mera esibizione del titolo di acquisto un elemento idoneo soltanto a rafforzare, ad colorandam possessionis, la prova stessa), ovvero della immissione di fatto nel possesso del bene da parte del precedente possessore (onde invocare l’istituto di cui all’art. 1146, secondo comma, c.c.), potendo lo ius possidendi di fatto non coincidere con lo ius possessionis. (Nella specie, il proprietario di un fondo ricevuto in donazione dal padre aveva evocato il giudizio del proprietario di un terreno finitimo sostenendo che, per molti anni, il padre aveva esercitato il passaggio su di una stradina — sita nel fondo confinante —, cui il proprietario aveva, in seguito, impedito ogni accesso arando il relativo sentiero. La S.C.[106], rilevato che l’impedimento al passaggio era avvenuto in epoca antecedente al contratto di donazione tra padre e figlio, ha enunciato il principio di diritto di cui in massima, rilevando come lo ius possessionis vantato dall’attore non trovasse alcun fondamento giuridico per esserne stato il suo dante causa già spogliato in epoca antecedente al trasferimento del bene).

Il principio dell’accessio possessionis stabilito dall’art. 1146, secondo comma, c.c.. spiega i suoi effetti, oltre che nel computo del termine utile per l’usucapione[107], anche in ordine ai requisiti temporali delle azioni possessorie[108] e, pertanto, l’estremo della proposizione di una siffatta azione entro l’anno (dallo spoglio o dalla turbativa) va accertato, non compiendo il relativo calcolo dalla data del trasferimento della cosa, bensì tenendo presente pure il possesso del dante causa[109].

Il principio dell’accessione del possesso, essendo enunciato per il possesso in generale, è applicabile non solo all’usucapione ordinaria di cui all’art. 1158 c.c., ma anche a quella decennale[110] di cui all’art. 1159 c.c.[111]

Anche il compossessore[112] pro indiviso di un immobile, che poi consegua il possesso esclusivo di una porzione di esso in esito a divisione, può invocare, ai fini dell’usucapione di tale porzione, anche il precedente compossesso, in virtù della sopravvenuta qualità di successore nel compossesso degli altri condividenti e della possibilità, prevista dall’art. 1146, comma secondo, c.c., di accessione del proprio possesso a quello esercitato dai condividenti medesimi[113].

L’accessione del possesso della servitù a favore del successore a titolo particolare della proprietà del fondo dominante, ferma la necessità di un titolo astrattamente idoneo a trasferire quest’ultimo, non richiede, ai sensi dell’art. 1146, comma secondo, c.c., l’espressa menzione della servitù nel titolo di acquisto[114].

Sul tema per altra sentenza di merito[115] in materia di servitù, il successore a titolo particolare può unire il proprio possesso al dante causa, nonostante nell’atto traslativo non sia stata fatta menzione della servitù e non vi sia alcun diritto di servitù intavolato. L’accessione del possesso della servitù, ai sensi dell’art. 1146, comma secondo, c.c. si verifica a favore del successore a titolo particolare nella proprietà del fondo dominante, anche in difetto di espressa menzione della servitù nel titolo traslativo della proprietà del fondo dominante e anche in mancanza di un diritto di servitù già costituito a favore del dante causa. Nella specie, pertanto, deve rilevarsi che l’attuale proprietaria del bene può sempre unire il suo possesso attuale a quello esercitato in precedenza dalla sua dante causa al fine di raggiungere il termine ventennale necessario per l’usucapione del diritto.

Infine, chi intende avvalersi dell’accessione del possesso di cui all’art. 1146, secondo comma, c.c., per unire il proprio possesso a quello del dante causa ai fini dell’usucapione, deve fornire la prova di aver acquisito un titolo astrattamente idoneo (ancorché invalido o proveniente a non domino) a giustificare la traditio del bene oggetto della signoria di fatto, operando detta accessione con riferimento e nei limiti del titolo traslativo e non oltre lo stesso[116].

Ne consegue che il convenuto in azione di regolamento di confini[117] che eccepisca l’intervenuta usucapione invocando l’accessione del possesso, deve fornire la prova dell’avvenuta traditio in virtù di un contratto comunque volto a trasferire la proprietà del bene in questione.

B)  Acquisto del possesso con la collaborazione di terzi

L’acquisto del possesso si può verificare con la cooperazione del precedente proprietario; tale cooperazione si realizza con la consegna della cosa che per la lettera del codice, dovrebbe servire a “trasferire il possesso” (art. 1263, secondo comma, c.c.).

Si avrebbe, in questo caso un acquisto a titolo derivativo.

I modi nei quali la consegna  o  traditio può essere effettuata sono vari.

Nella sua più semplice accezione indica un’operazione materiale che si esaurisce con la sostituzione di un soggetto (tradens) con un altro (accipiens) nel rapporto fisico con la cosa; essa si verificherà in maniera differente a seconda della natura e delle caratteristiche della res.

La consegna può essere

Ficta  o simbolica

Consensuale

In tale ipotesi l’acquirente acquista immediatamente il possesso – come nel caso della consegna reale – in virtù di un processo di spiritualizzazione del  corpus che si presenterà non più come potere effettivo sulla cosa, bensì quale semplice potenzialità di un tale potere.

Tale ipotesi si presenta in due differenti versioni:

  1. la traditio brevi manu – comporta l’evoluzione della situazione di un soggetto da detenzione in possesso (vendita al conduttore dell’immobile da lui già detenuto)e , di conseguenza la cessione del possesso mediato ad altro soggetto –
  2. la costituto possessorio – dà luogo al procedimento opposto, ossia alla degradazione della situazione di un soggetto da possesso a detenzione e alla nascita di una nuova situazione di possesso mediato a favore di altro soggetto.

caratteristica di entrambi è che non provocano un’apparente modificazione del corpus, ma soltanto del titolo e, di conseguenza dell’animus.

È opportuno, poi, ricordare che il possesso può essere acquistato con l’ausilio di altre persone; l’acquisto del possesso a mezzo di rappresentante dipende dalla volontà dell’interessato che può servirsi di questo mezzo ex art. 1372 e seg. nella fattispecie, il rappresentante assume la veste di detentore, spettando al rappresentato quella di possessore mediato, per lo meno fino al momento della consegna della cosa.

C)  Perdita del possesso

  • Per fatto del possessore

A causa di diversi comportamenti del possessore, tutti caratterizzati dall’essere incompatibili con l’animus possidenti.

Fra di essi, innanzitutto vi è la rinunzia, che potrebbe realizzarsi in una manifestazione espressa o in un comportamento concludente, come l’abbandono della res o la semplice inerzia, ossia la non esplicazione dell’attività in cui si esprime il potere di fatto che, se prolungata, può far presupporre il venir meno anche della volontà del possessore di continuare nella situazione di possesso.

Sembra allora ovvio che per far venire meno il possesso basti il venir meno dell’animus.

Secondo un giudizio consolidato[118] il possesso perdura anche per effetto della conservazione del solo animus se il mancato esercizio del godimento sulla cosa non dipenda da fatto estraneo alla volontà del possessore, tale da impedire che l’elemento del corpus possa essere ripristinato quando lo si voglia, salvo che la parte non abbia univocamente manifestato l’animus derelinquendi.

  • Per fatto dei terzi

Il possesso si perde per fatto del terzo in tutti i casi in cui vi è lo spoglio;

1)              sia che quest’ultimo si attui ai danni del possessore;

2)              sia che colpisca il detentore;

in entrambi i casi si realizza il venir meno del corpus, dato che la res viene sottratta alla materiale disponibilità dei soggetti.

La privazione totale o parziale di questo potere deve essere consapevolmente compiuta da un soggetto che dovrà, inoltre, agire contro la volontà del possessore o del detentore.

Ciò può accadere in modo violento e clandestino o in maniera differente.

art. 1168 c.c.  azione di reintegrazione: chi è stato violentemente od occultamente spogliato del possesso può, entro l’anno dal sofferto spoglio, chiedere contro l’autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo.

L’azione è concessa altresì a chi ha la detenzione (qualificata) della cosa (c.c.1140), tranne il caso che l’abbia per ragioni di servizio o di ospitalità.

Se lo spoglio è clandestino, il termine per chiedere la reintegrazione decorre dal giorno della scoperta dello spoglio.

Inoltre è preferibile l’opinione[119] di chi ritiene che, pur se il codice riconosce al soggetto spogliato del suo diritto la legittimazione all’azione di reintegrazione per tutto l’anno successivo, ciò non sta a significare che gli sia riconosciuta anche la qualità di possessore, che spetta a colui che al momento attuale ha il potere di fatto sulla res, cioè allo spoliator o a chi l’ha acquistato da quest’ultimo.

  • Per cause oggettive

Si suole distinguere a seconda che esse diano luogo:

1)              ad impedimenti temporanei – in tale ipotesi il possesso non si perde –

  •  lo smarrimento –
  • sopravvenuta incapacità temporanea – per dar vita all’animus, infatti, è sufficiente la capacità d’intendere e di volere, anche in assenza di capacità legale.

2)              ad impedimenti definitivi –  in tale ipotesi il possesso cessa

  • perimento del bene (distruzione del bene)
  •  sopravvenuta incapacità definitiva

D)  Gli atti di tolleranza

art. 1144 c.c.     atti di tolleranza: gli atti compiuti con l’altrui tolleranza non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso .

1)   Definizione

Gli atti di tolleranza, che secondo l’art. 1144 c.c. non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso, sono quelli che implicando un elemento di transitorietà e saltuarietà comportano un godimento di modesta portata, incidente molto debolmente sull’esercizio del diritto da parte dell’effettivo titolare o possessore e soprattutto traggono la loro origine da rapporti di amicizia o familiarità (o da rapporti di buon vicinato sanzionati dalla consuetudine), i quali mentre a priori ingenerano e giustificano la permissio, conducono per converso ad escludere nella valutazione a posteriori la presenza di una pretesa possessoria sottostante al godimento derivatone. Pertanto nell’indagine diretta a stabilire, alla stregua di ogni circostanza del caso concreto, se un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l’altrui tolleranza e quindi sia inidonea all’acquisto del possesso, la lunga durata dell’attività medesima può integrare un elemento presuntivo, nel senso dell’esclusione di detta situazione di tolleranza, qualora si verta in tema di rapporti non di parentela, ma di mera amicizia o buon vicinato, tenuto conto che nei secondi, di per sé labili e mutevoli, è più difficile il mantenimento di quella tolleranza per un lungo arco di tempo[120].

In altre parole gli atti compiuti con l’altrui tolleranza ex art. 1144 c.c. sono quelli che hanno origine nei rapporti di amicizia, familiarità, buon vicinato sanzionati dalla consuetudine e nello spirito di condiscendenza del proprietario possessore che si manifesta nella cosiddetta permissio domini, espressa o tacita, consistente in un atto unilaterale.

Deve escludersi, pertanto, la ricorrenza di un atto di tolleranza allorquando l’esercizio di un determinato potere di fatto sulla cosa altrui sia il frutto di un accordo che ne precisi modalità, condizioni e contenuto, ponendo fine ad un contrasto tra le parti[121].

Ancora, da ultimo la S.C.[122] ha affermato che l’uso prolungato nel tempo di un bene di norma non è compatibile con la mera tolleranza, essendo questa normalmente configurabile nei casi di transitorietà ed occasionalità degli atti compiuti, sicchè, in cospetto dell’esercizio sistematico e reiterato del potere di fatto sulla cosa, spetta a che lo abbia subito l’onere di provare che lo stesso sia stato dovuto a mera tolleranza .

Al fine di stabilire se la relazione di fatto con il bene costituisca una situazione di possesso ovvero di semplice detenzione dovuta a mera tolleranza di chi potrebbe opporvisi, come tale inidonea, ai sensi dell’art. 1144 c.c., a fondare la domanda di usucapione[123], la circostanza che l’attività svolta sul bene abbia avuto durata non transitoria e sia stata di non modesta entità, cui normalmente può attribuirsi il valore di elemento presuntivo per escludere che vi sia stata tolleranza, è destinata a perdere tale efficacia nel caso in cui i rapporti tra le parti siano caratterizzati da vincoli particolari, quali quelli di parentela o di società, in forza di un apprezzamento di fatto demandato al giudice di merito (nel caso di specie, la S.C.[124], in applicazione di tale principio, ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso ogni efficacia presuntiva alla suddetta circostanza, con riferimento alla domanda di usucapione di un terreno che, durante il periodo interessato, era stato di proprietà di una società per azioni di cui l’attore era uno dei due soci).

Per altra pronuncia[125] meno recente gli atti di tolleranza, di cui all’art. 1144 c.c., sono quelli che, implicando un elemento di transitorietà e saltuarietà, comportano un godimento di modesta portata, incidente molto debolmente sull’esercizio del diritto da parte dell’effettivo titolare o possessore, e, soprattutto, traggono la loro origine da rapporti di amicizia o familiarità (o da rapporti di buon vicinato sanzionati dalla consuetudine), i quali, mentre a priori ingenerano e giustificano la permissio, conducono per converso ad escludere, nella valutazione a posteriori, la presenza di una pretesa possessoria sottostante al godimento comportato.

2)   Gli indici rilevatori

La tolleranza è caratterizzata, in rapporto al godimento consentito di un bene, dalla accondiscendenza del dominus dello stesso (derivante da rapporti di buon vicinato, di parentela, di amicizia, di cortesia o di opportunità) manifestata in modo da essere nota al destinatario, tal ché quest’ultimo, nell’usufruire del bene altrui, abbia sempre presente la eventualità e la legittimità di un sopravveniente divieto. Tale situazione, peraltro, non può essere desunta esclusivamente dalla frequenza con cui venga utilizzata la cosa altrui, e ciò in particolare nel caso di passaggio attraverso fondi altrui, trattandosi dell’esercizio di una servitù discontinua costituita per sua stessa natura da attività saltuaria e sporadica[126].

Come già sottolineato in precedenza in tema di acquisto del possesso ad usucapionem, al fine di valutare se un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale sia compiuta con l’altrui tolleranza, e sia quindi inidonea all’acquisto del possesso, la lunga durata di tale attività può integrare un elemento presuntivo in favore dell’esclusione di una semplice tolleranza qualora si verta in rapporti di mera amicizia o di buon vicinato e non di parentela, tenuto conto che in relazione ai primi, di per sé labile e mutevoli, è più improbabile il mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo.

Massima, quest’ultima, fatta propria anche in un’ultima pronuncia della Cassazione,

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 4 agosto 2015, n. 16371

secondo cui in tema di acquisto del possesso ad usucapionem al fine di valutare se un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale sia compiuta con l’altrui tolleranza, e sia quindi inidonea all’acquisto del possesso, la lunga durata di tale attività può integrare un elemento presuntivo in favore dell’esclusione di una semplice tolleranza quando si verta in rapporti di mera amicizia o di buon vicinato e non di parentela, tenuto conto che in relazione ai primi di per sé mutevoli, è più improbabile il mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo.

Nel caso specie, la S.C[127]. ha confermato il rigetto della domanda di acquisto per usucapione della proprietà di un maso chiuso, giudicando insufficiente ai fini della prova del possesso la disponibilità delle chiavi di esso da parte dell’attore, fratello della proprietaria, e il suo utilizzo di uno dei locali di cui era composto il maso quale ricovero di slittini e piante.

In un altro caso  concreto, il Tribunale di Ivrea[128], accertata la inesistenza di una servitù di passaggio in capo agli odierni attori, in quanto riconducibili le attività dai medesimi svolte ad un mero atto di tolleranza giustificato dagli ottimi rapporti di vicinato un tempo esistenti tra le parti in causa, non ha accolto la proposta domanda di reintegrazione nel possesso della invocata servitù di passaggio.

Di recente la S.C.[129] ha confermato che in materia di possesso, non è configurabile un atteggiamento di tolleranza del proprietario, che – come tale – esclude una situazione possessoria a favore del terzo, allorché l’uso del bene da parte di quest’ultimo sia prolungato nel tempo o, avvenendo contro la volontà del proprietario, non possa fondarsi sull’altrui compiacenza.

Sul medesimo tema con ultima pronuncia[130], già indicata in precedenza, è stato sottolineato l’orientamento assolutamente consolidato,  che ha distinto l’ipotesi nella quale la tolleranza si verifichi per rapporti di amicizia o di buon vicinato, rispetto all’ipotesi in cui si verifichi per rapporti di parentela (ritenuti di carattere più stabile e duraturo nel tempo); in questi ultimi casi, il silenzio o l’inerzia, benché protratti per molti anni, non potrebbero di per sé denotare rinuncia, ancorché tacita, al possesso, se non accompagnati da atti o fatti che in modo certo rivelassero la volontà di cessare la relazione di carattere possessorio (ancorché solo animo) con i locali contestati da parte della titolare del relativo diritto e, per contro, la tolleranza del godimento da parte del parente è presumibile proprio in considerazione del rapporto di parentela; infatti, secondo i richiamati principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, i rapporti in concreto esistenti tra le parti, se caratterizzati da vincoli particolari, quali quelli di parentela possono elidere l’anzidetto valore di presunzione e anzi nei vincoli di stretta parentela è ben plausibile il mantenimento di un atteggiamento tollerante anche per un lungo arco di tempo.

In merito sempre ai rapporti parentali, secondo il Tribunale della lanterna[131] è fondata la domanda giudiziale con la quale gli istanti chiedano disporsi la condanna del convenuto al rilascio dell’immobile e dei relativi annessi, di proprietà dei primi, abitati dal convenuto suo parente, a titolo di cortesia. Alcun fondamento assume la tesi difensiva con cui quest’ultimo assuma di non aver abitato l’immobile a titolo di cortesia ma di averlo posseduto per oltre venti anni con conseguente acquisto del bene per maturata usucapione. Invero, il vincolo di stretta parentela intercorrente tra le parti in causa consente di ritenere la sussistenza di atti di tolleranza che ai sensi dell’art. 1144 c.c., non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso anche nell’ipotesi in cui non ricorrono le caratteristiche della breve durata e della limitata incidenza del godimento assentito.

Infine, come anche da una massima di merito del Tribunale Felsineo[132], gli atti di tolleranza, che traggono origine dall’altrui spirito di condiscendenza o da rapporti di amicizia e di buon vicinato e che implicano un elemento di transitorietà e di saltuarietà, consistono in un godimento di portata modesta e tale da incidere molto debolmente sull’esercizio del diritto da parte dell’effettivo titolare o possessore. Al fine di escludere la configurabilità del possesso, gli indici che identificano la condizione di tolleranza devono essere tuttavia percepiti dal terzo, cosicché in assenza di tale percezione non vi è motivo per escludere l’animus possidendi. Spetta a colui che contesta l’altrui esercizio del potere di fatto sulla cosa l’onere di provare che esso deriva da atti di tolleranza.

3)   Prova

Inizialmente la S.C.[133] nell’affermare che l’animus possidendi è normalmente insito nel potere di fatto attraverso il quale si manifesta, ove si assuma che l’esercizio del possesso avvenga per tolleranza, spetta a chi ciò adduce darne la prova.

Principio, poi ripreso, da altra pronuncia[134] secondo la quale poiché è da presumere il possesso da parte di colui che eserciti un potere di fatto sulla cosa, spetta a chi contesti il possesso medesimo l’onere di provare che esso derivi da atti di tolleranza, i quali hanno fondamento nello spirito di condiscendenza, nei rapporti di amicizia o di buon vicinato e implicano una previsione di saltuarietà o transitorietà.

In pratica gli atti di tolleranza vanno eccepiti e provati dal dominus convenuto con azione di reintegra, che li invochi per contestare il possesso dedotto dall’attore[135]

7) Effetti del possesso

Libro III della proprietà – Titolo VIII del possesso  – capo II degli effetti del possesso –  artt. 1148 – 1167

Il possesso rileva quale oggetto di tutela  contro le altrui aggressioni, poiché esso è fonte legale del diritto al pacifico godimento della res.

Il possesso rileva, poi, come per il titolo

1)              per l’acquisto dei  frutti –

2)              il rimborso delle spese –

3)              l’acquisto in proprietà della cosa.

 

A)  La buona fede

[136]

art. 1147 c.c.    possesso di buona fede: è possessore di buona fede chi possiede ignorando di ledere l’altrui diritto .

La buona fede non giova se l’ignoranza dipende da colpa grave.

La buona fede è presunta e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto.

La nozione del codice identifica la buona fede in termini negativi, ossia nei termini della non consapevolezza di possedere illegittimamente.

La buona fede così individuata non richiede un valido titolo di acquisto del possesso e non è esclusa dalla conoscenza che il bene appartiene ad altri, poiché il possessore può credere di possedere con il consenso e l’autorizzazione del proprietario; quel che conta è che il possessore non abbia la consapevolezza di arrecare danno al proprietario.

L’art. 1147 c.c., nel presumere la buona fede con disposizione di carattere generale e assegnando rilievo al ragionevole convincimento di poter esercitare sulla cosa posseduta il diritto di proprietà o altro diritto reale senza ledere la sfera giuridica altrui (da valutare con riferimento alla data dell’acquisto), imprime al concetto di buona fede un carattere eminentemente psicologico e soggettivo[137]. Tale presunzione non è vinta dall’allegazione del semplice sospetto di una situazione illegittima, essendo necessario dedurre l’esistenza di un dubbio fondato su circostanze serie, concrete e non meramente ipotetiche, la cui prova deve essere fornita da chi intende contrastare la suddetta presunzione legale di buona fede.

Se è vero che ad integrare il possesso di buona fede è sufficiente l’ignoranza di ledere il diritto altrui (ignoranza determinata da errore scusabile non essendo necessario, per l’art. 1147 c.c., l’esistenza di un titolo (che era, invece, previsto, come elemento costitutivo del possesso di buona fede, dall’abrogato codice del 1865), e che, per gli effetti propri di tale possesso (art. 1148 e segg. c.c.), basta la buona fede nel momento iniziale, la coscienza cioè, nel momento in cui il possesso ha inizio, di goderne legittimamente, senza danno di alcuno, è però anche vero che il titolo è necessario affinché il possesso di buona fede sia suscettibile di ulteriori effetti, tra cui quello di fare acquistare la proprietà della cosa alienata a non domino[138].

In ipotesi di acquisto a non domino la presunzione di buona fede, che l’art. 1147 c.c. pone a vantaggio dell’acquirente nel possesso del bene, è una presunzione semplice, e come tale può essere superata in tutti i casi in cui l’acquirente sia stato posto in grado di accertare, o comunque di dubitare, che l’alienante non fosse proprietario del bene, a mezzo della verifica catastale o a mezzo della verifica dei registri nei quali è effettuata la trascrizione di determinate alienazioni o delle domande giudiziali relative al trasferimento della proprietà dello stesso bene[139].

Essendo la buona fede presunta, è onere di chi la contesta dare la prova che il possessore in buona fede conosceva la illegittimità del suo possesso o che, con un mino di diligenza, avrebbe dovuto conoscerla.

Il codice stabilisce un principio generale in base al quale è possessore di buona fede colui che ha acquistato il possesso in buona fede: la buona fede iniziale, dunque, continua a caratterizzare il possesso anche se il possessore abbia, in un secondo momento, riconosciuto l’illegittimità del suo possesso.

Gli effetti della buona fede terminano a seguito della domanda giudiziale di rivendicazione della cosa; da quel momento la posizione del possessore è equiparata a quella del possessore di mala fede; tale equiparazione prescinde dall’accertamento della mala fede del convenuto.

B)  La regola sull’acquisto dei frutti

nell’acquisto dei frutti vanno distinti 2 elementi costitutivi:

  • il possesso – che legittima l’acquisto dei frutti può essere diretto o indiretto, ma a quest’ultimo tutta via compete solo i frutti civili.
  • la buona fede

art. 1148 c.c.  acquisto dei frutti: il possessore di buona fede fa suoi i frutti naturali separati fino al giorno della domanda giudiziale e i frutti civili maturati fino allo stesso giorno (c.c.820 e seguente). Egli, fino alla restituzione della cosa risponde verso il rivendicante (948) dei frutti percepiti dopo la domanda giudiziale e di quelli che avrebbe potuto percepire dopo tale data, usando la diligenza di un buon padre di famiglia (c.c.1176).

 

  • Il fondamento

La regola sull’acquisto dei frutti è stato indicato dalle fonti romane nella naturali ratio, ossia in un principio che giustifica la spettanza dei frutti raccolti a chi abbia curato o coltivato il fondo.

Il proprietario ha il diritto di fare suoi i frutti, ma se tale diritto non viene esercitato, sembra essere più meritevole di tutela il possessore di buona fede che mostra interesse per la cosa sfruttandone la produttività, senza volere, in tal modo, ledere il diritto d’altri.

  • Ambito applicativo

La buona fede che qualifica il possesso idoneo ex art. 1148 c.c. a determinare l’acquisto dei frutti della cosa (posseduta) fino al giorno della domanda giudiziale di restituzione si presume (ex art. 1147, terzo comma, c.c.) e prescinde dall’esistenza di un titolo, rilevando (ex art. 1147, primo comma, citato) la cosiddetta opinio domini, ossia il ragionevole convincimento di poter esercitare sulla cosa posseduta il diritto di proprietà (od altro diritto reale) senza ledere la sfera altrui.

Pertanto, i principi generali fissati dalle norme predette sono applicabili anche al possesso di un bene acquistato a domino in forza di un contratto poi dichiarato nullo[140].

Nel caso di retratto agrario il coltivatore ha diritto di conseguire dal retrattato la restituzione dei frutti a far tempo dal momento della vendita, alla cui data retroattivamente spiega effetti il riscatto medesimo, restando esclusa per detto retrattato la possibilità di invocare le norme che regolano l’acquisto dei frutti da parte del possessore in buona fede[141].

Anche nell’occupazione sine titulo, il giudice di merito, che condanna l’occupante abusivo di un immobile al risarcimento dei danni a favore del proprietario, ha il dovere di esaminare quale specie di possesso — se di buona o di mala fede — esercitava l’occupante, diversi essendo gli effetti che discendono dall’una o l’altra specie di possesso in relazione al limite temporale dettato dall’art. 1148 c.c.[142]

Per ultima Cassazione[143] riguardo la buona fede degli eredi immessi nella successione, poiché il principio della presunzione di buona fede di cui all’art. 1147 c.c. ha portata generale e non limitata all’istituto del possesso in relazione al quale è enunciato e poiché il possessore di buona fede è tenuto alla restituzione dei frutti a far tempo dalla domanda giudiziale con la quale il titolare del diritto ha chiesto la restituzione della cosa, il mutamento della condizione del possessore da buona fede a mala fede presuppone la proposizione nei suoi confronti di una domanda volta ad ottenere la restituzione del bene posseduto. Ne consegue che, con riferimento ad azione di petizione ereditaria[144] proposta da figlio naturale successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di riconoscimento del proprio status, gli eredi che erano stati immessi nel possesso dei beni ereditari in buona fede permangono nella condizione di buona fede sino al momento della notificazione della domanda di restituzione dei beni ereditari.

  • La restituzione

L’obbligo del possessore di restituire i frutti, ai sensi dell’art. 1148 c.c., riguarda anche con riferimento ai frutti «civili», sia quelli percepiti che quelli percepibili con la diligenza del buon padre di famiglia, e si traduce, per entrambe le ipotesi, in un debito di valuta (non di valore, come quello inerente ai frutti «naturali»), come tale produttivo di interessi legali «giorno per giorno», secondo il criterio fissato dall’art. 821 terzo comma c.c.[145].

L’obbligo di restituire i frutti dal giorno della proposizione della domanda giudiziale di cui all’art. 1148 c.c. è conseguenza del carattere dichiarativo della sentenza e del suo effetto retroattivo, nel caso di estinzione del processo la restituzione dei frutti deve prendere necessariamente data dalla successiva domanda che debitamente coltivata, ha condotto alla sentenza di condanna[146].

Indipendentemente dalla buona fede o meno, ha carattere di debito di valore l’obbligo relativo ai frutti naturali, mentre realizza debito di valuta — soggetto al principio nominalistico — l’obbligo relativo ai frutti civili, costituenti il corrispettivo del godimento della cosa (quali le somme riscosse a titolo di pigione)[147].

La malafede rende non meritevole di tutela l’interesse del possessore per l’acquisto dei frutti; se il possesso deriva da illecito, il possessore risponderà secondo le regole dell’illecito civile, e, pertanto, la restituzione della res e dei frutti avrà funzione risarcitoria.

Per la S.C.[148] la qualifica di possessore di mala fede non può essere ritenuta implicita nella circostanza che il possessore sia stato dichiarato occupante abusivo dei terreni rivendicati con sentenza passata in giudicato, poiché l’esclusione di un titolo legittimante la occupazione, essendo riferita al momento dell’inizio della controversia e non al tempo dell’acquisto del possesso, non può riguardare la buona o mala fede al tempo di detto acquisto.

 

art. 1149 c.c.   rimborso delle spese per la produzione e il raccolto dei frutti: il possessore che è tenuto a restituire i frutti indebitamente percepiti  ha diritto al rimborso delle spese a norma del secondo comma dell’art. 821).

 

Tali spese vanno rimborsate perché, altrimenti, chi ha diritto alla restituzione dei frutti, conseguirebbe dal possessore un ingiusto vantaggio, superiore a quello che gli avrebbe procurato il godimento diretto della res.

C)  Riparazioni, miglioramenti e addizioni

art. 1150  c.c.  riparazioni, miglioramenti e addizioni: il possessore, anche se di mala fede ha diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie.

Ha anche diritto a indennità per i miglioramenti recati alla cosa, purché sussistano al tempo della restituzione.

L’indennità si deve corrispondere nella misura dell’aumento di valore conseguito dalla cosa per effetto dei miglioramenti, se il possessore è di buona fede; se il possessore è di mala fede, nella minor somma tra l’importo della spesa e l’aumento di valore.

Se il possessore è tenuto alla restituzione dei frutti, gli spetta anche il rimborso delle spese fatte per le riparazioni ordinarie, limitatamente al tempo per il quale la restituzione è dovuta.

Per le addizioni fatte dal possessore sulla cosa si applica il disposto dell’art. 936. Tuttavia, se le addizioni costituiscono miglioramento e il possessore è di buona fede, e dovuta una indennità nella misura dell’aumento di valore conseguito dalla cosa (disp. di att.al c.c. 157).

 

La previsione normativa di cui all’art. 1150, comma primo, c.c. accomuna, senza distinzioni di sorta, il possessore di mala fede a quello di buona fede quanto al riconoscimento del diritto al rimborso delle spese per le riparazioni straordinarie, al pari di quella di cui al successivo comma quarto, per effetto della quale al rimborso delle spese per le riparazioni ordinarie ha diritto «il possessore (non meglio qualificato sotto il profilo dello status soggettivo) tenuto alla restituzione dei frutti». La distinzione tra possessore di buona e di mala fede rileva, pertanto, in quest’ultima ipotesi, al solo, limitato fine di individuare il dies a quo del dovuto rimborso, che coincide con il (diverso) momento a partire dal quale ciascuno di essi risulti, rispettivamente, obbligato alla restituzione dei frutti (art. 1148 e 1150 comma quarto c.c.)[149].

Per ultima Cassazione[150] ai sensi dell’art. 1150 c.c., il possessore ha diritto all’indennità per i miglioramenti, purché l’incremento di valore sussista al tempo della restituzione della cosa, in quanto il diritto medesimo prescinde dall’esistenza di un rapporto contrattuale fra le parti e si correla al dato obiettivo dell’incremento di valore secondo criteri di effettività e attualità, traendo il proprietario vantaggio dalla miglioria solo dal momento della reintegrazione nel godimento del bene. (Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che aveva valutato quali opere indennizzabili una tettoia e un pozzo, nonostante l’una fosse stata costruita con materiali in fibrocemento di amianto, la cui utilizzabilità è stata vietata dalla legge 27 marzo 1992, n. 257, e l’altra realizzata senza autorizzazione del Genio civile, ciò che escludeva, per entrambe, la sussistenza, effettiva e attuale, dell’incremento di valore).

Il principio secondo il quale la domanda giudiziale fa cessare gli effetti del possesso di buona fede che non siano divenuti irrevocabili ed impedisce quelli ulteriori non attiene soltanto all’acquisto dei frutti, ma si riferisce a tutti i possibili effetti del possesso di buona fede, tra i quali è quello che attribuisce al possessore il diritto di essere indennizzato dal proprietario dell’incremento di valore arrecato alla cosa, che resta, dunque, irrilevante, ove dipenda da opere eseguite dopo la notificazione della domanda. (Fattispecie relativa a migliorie eseguite dal promissario acquirente, in possesso del bene, dopo la proposizione della domanda di risoluzione del contratto introdotta dal promittente venditore)[151].

  • Ambito di applicazione

L’indennità di cui all’art. 1150 c.c. compete solo al possessore, e non al mero detentore[152] della cosa, che possiede alieno nomine[153].

In altre parole in materia possessoria, la normativa che prevede il rimborso delle spese sostenute per la manutenzione o la ristrutturazione ovvero la corresponsione di un indennizzo per l’apporto di migliorie, con il conseguente diritto alla ritenzione del bene sino al soddisfacimento del relativo credito, si applica soltanto in caso di possesso e non anche di detenzione e, essendo una norma eccezionale, non è suscettibile di applicazione in via analogica[154].

Principio, poi, ripreso da successiva giurisprudenza[155] secondo la quale la norma dell’art. 1150 c.c., che attribuisce al possessore, all’atto della restituzione della cosa, il diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie ed all’indennità per i miglioramenti recati alla cosa stessa, è di natura eccezionale e non può, dunque, essere applicata in via analogica al detentore; ne consegue che, qualora nella promessa di vendita venga concordata la consegna del bene prima della stipulazione del contratto definitivo, la relazione del promissorio acquirente con il bene si definisce in termini di detenzione qualificata, sicché l’art. 1150 c.c. non si applica a tale ipotesi.

Al comodatario non sono rimborsabili le spese straordinarie non necessarie ed urgenti, anche se comportino miglioramenti, tenendo conto della non invocabilità da parte del comodatario stesso, che non è né possessore né terzo, dei principi di cui agli artt. 1150 e 936 c.c., ed altresì della carenza, anche nel similare rapporto di locazione, di un diritto ad indennizzo per le migliorie[156].

Da ultimo la Corte di Legittimità

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 6 giugno 2013, n.14262

riaffermando il principio secondo cui la qualificazione del rapporto di godimento che si instauri, su di un bene oggetto di contratto preliminare di compravendita e di consegna anticipata al promissario acquirente non è quella di possessore, ma di detentore qualificato, che esercita il relativo potere di fatto sulla cosa per conto del possessore, promittente venditore, va escluso che al suddetto detentore possa spettare il diritto di ritenzione (istituto che si avrà modo di approfondire successiamente), opponibile alla domanda di restituzione, in funzione della domanda riconvenzionale di rimborso delle spese per le indennità ed i miglioramenti apportati alla cosa, che l’art. 1150 c.c. attribuisce soltanto al possessore in buona fede. Tenuto conto della particolare natura, in quanto costituente una eccezionale forma di autotutela, della disposizione che tale diritto prevede, quello di ritenzione non può applicarsi analogicamente anche nei casi di detenzione, ancorché qualificata, quale che sia la componente psicologica che la connoti.

Principio affermato da altra sentenza[157] più recente secondo cui in tema di comodato, al comodatario non sono rimborsabili le spese straordinarie non necessarie ed urgenti, anche se comportano miglioramenti, né sotto il profilo dell’art. 1150 c.c. perché egli non è possessore, né sotto quello art. 936 c.c. perché non è terzo anche quando agisce oltre i limiti del contratto, né, infine, sotto quello dell’art. 1595 c.c. in via di richiamo analogico, perché un’indennità per i miglioramenti è negata anche al locatario la cui posizione è molto simile a quella comodatario. Deve riconoscersi al comodatario soltanto il ius tollendi per le addizioni.

Per una sentenza di merito[158], invece, la parte che, dopo aver stipulato un contratto di comodato, occupi abusivamente un’unità immobiliare nella erronea convinzione che si tratti proprio del bene oggetto del contratto, deve essere considerato possessore in buona fede ed ha pertanto diritto, in caso di esercizio dell’azione di rilascio da parte dell’effettivo proprietario del bene, ad un’indennità per i miglioramenti apportati all’immobile.

In favore del coniuge, che, in costanza di matrimonio, abbia provveduto a proprie spese a migliorie od ampliamenti di immobile in godimento del nucleo familiare e di proprietà dell’altro coniuge, deve riconoscersi il diritto ai rimborsi ed alle indennità contemplate dall’art. 1150 c.c. per il possessore in buona fede, trattandosi di norma applicabile anche al compossessore, mentre va esclusa l’invocabilità dell’art. 936 c.c., in tema di opere fatte da un terzo con materiali propri, difettando nel compossessore il requisito della terzietà[159].

Il coerede, il quale abbia migliorato i beni comuni da lui posseduti, pur non potendo invocare l’applicazione dell’art. 1150 c.c., che riconosce il diritto ad una indennità pari all’aumento di valore della cosa determinato dai miglioramenti, tuttavia, quale mandatario o utile gestore degli altri compartecipi alla comunione ereditaria, può pretendere il rimborso delle spese eseguite per la cosa comune, le quali si ripartiscono al momento della attribuzione delle quote, secondo il principio nominalistico, dato che lo stato di indivisione riconduce all’intera massa i miglioramenti stessi[160].

Al comproprietario e compossessore[161] di buona fede di un immobile, che vi abbia eseguito addizioni costituenti miglioramenti (nella specie, costruendo un fabbricato sul terreno acquistato pro indiviso), non si applica la normativa dell’art. 936 c.c.,nel richiamo fattone all’art. 1150, quinto comma, c.c., in quanto tale disciplina postula che autore delle opere realizzate su suolo altrui sia un terzo, non potendo qualificarsi come tale il titolare di un diritto di natura reale, avente ad oggetto il fondo su cui le opere sono state eseguite; a tale comproprietario, per i predetti miglioramenti, non è pertanto dovuta un’indennità nella misura dell’aumento di valore conseguito dal bene ma, dovendo egli essere considerato, secondo i casi, un mandatario degli altri partecipi alla comunione, ai sensi dell’art. 1720 c.c. o un utile gestore nel loro interesse, ai sensi dell’art. 2031 c.c. spetta soltanto il rimborso degli oneri sostenuti[162].

Mentre nessun indennizzo può essere preteso, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1150 e 936 c.c., dal terzo possessore che, sul fondo altrui, abbia costruito un’opera in violazione della normativa edilizia, commettendo i reati previsti e puniti dagli artt. 31 e 41 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e 10 e 13 della legge 6 agosto 1967, n. 765, essenzialmente perché quell’indennizzo sarebbe in contrasto con i principi generali dell’ordinamento ed in particolare con la funzione dell’amministrazione della giustizia, in quanto l’agente verrebbe a conseguire indirettamente, ma pur sempre per via giudiziaria, quel vantaggio che si era ripromesso di ottenere nel porre in essere l’attività penalmente illecita e che, in via diretta, gli è precluso dagli artt. 1346 e 1418 c.c.[163].

In precedenza, però, la medesima Corte[164] aveva stabilito che con riferimento alle indennità dovute al possessore ai sensi dell’art. 1150 c.c., l’esecuzione di una costruzione senza autorizzazione (e perciò esposta, in mancanza di condono o di sanatoria, al pericolo di demolizione per ordine della competente autorità amministrativa) non realizza un miglioramento indennizzabile, essendo al riguardo necessario un incremento non precario, ma stabile ed effettivo, nel patrimonio del proprietario. Né assume rilievo l’eventualità di una successiva sanatoria dell’abuso, essendo in tal caso esperibile, ai sensi dell’art. 2041 c.c., l’azione di arricchimento senza causa, nei limiti della differenza fra la somma dovuta ai sensi dell’art. 1150 c.c. e gli oneri economici derivanti dalla sanatoria.

  • La buona fede

Il diritto a ottenere l’indennità per i miglioramenti e a ritenere la cosa, a norma degli artt. 1150 comma terzo e 1152 c.c., non spetta al convenuto in giudizio con l’azione personale di restituzione per difetto del requisito del possesso di buona fede[165].

Il requisito della buona fede del possessore, che ai sensi dell’articolo 1150 comma 5, del c.c., per il richiamo alla disciplina dell’articolo 936 dello stesso codice, non solo impedisce al proprietario di chiedere la rimozione delle addizioni, ma lo obbliga a corrispondere l’indennità per i miglioramenti derivati al fondo, è quello definito e regolato in via generale dall’articolo 1147 del c.c.

Spetta, pertanto, al proprietario, che agisce per il rilascio del bene, provare la malafede del possesso e il suo carattere originario, dato che la buona fede deve presumersi[166].

Ai fini della liquidazione dell’indennità per miglioramenti apportati dal possessore, la buona fede richiesta dall’art. 1150 c.c. non si identifica con la consapevolezza di essere proprietario del fondo sul quale si eseguano le migliorie, ma consiste nella consapevolezza di non ledere l’altrui diritto[167].

La buona fede del possessore, che ai sensi del quinto comma dell’art. 1150 c.c., per il richiamo alla disciplina dell’art. 936 c.c.., non solo impedisce al proprietario del suolo di chiedere la rimozione delle addizioni, ma lo obbliga a corrispondere l’aumento di valore, se esse lo hanno migliorato, è quella definita in via generale dall’art. 1147 c.c., che prescinde dall’esistenza di un titolo e dà rilievo al convincimento, di valore etico, di non ledere l’altrui diritto[168].

  • Natura del credito

L’art. 1150 c.c. distingue, agli effetti dei diritti del possessore, le riparazioni dai miglioramenti e dalle addizioni, in quanto,mentre per le prime gli riconosce il diritto al rimborso delle spese incorse, costituente un debito di valuta, sottoposto alla disciplina dell’art. 1277 c.c., per quanto concerne i miglioramenti e le addizioni gli attribuisce il diritto ad una indennità che, avendo funzione di reintegrazione patrimoniale, va considerata debito di valore e, pertanto, deve essere determinata tenendo conto della svalutazione monetaria verificatasi fino alla data della liquidazione[169].

Principio successivamente confermato con altra pronuncia[170] a mente della quale ai fini dell’applicazione del comma terzo dell’art. 1150 c.c. — in base al quale l’indennità per i miglioramenti recati alla cosa deve essere corrisposta, al possessore di mala fede, nella minor somma tra l’importo della spesa e l’aumento di valore — l’importo della spesa dei miglioramenti, in quanto diretto ad una reintegrazione patrimoniale, è debito non di valuta, ma di valore, per cui esso deve essere determinato dal giudice, tenendo conto della svalutazione monetaria verificatasi sino al momento della liquidazione, anche d’ufficio e quindi indipendentemente da qualsiasi prova da parte del danneggiato.

Infine, in tema di retratto agrario, nel caso di positivo esercizio, da parte del prelazionario pretermesso, dell’azione di riscatto prevista dal quinto comma dell’art. 8 della legge 26 maggio 1965 n. 590, l’omessa verifica, da parte dell’acquirente (retratto) del fondo agricolo, della sussistenza, in capo ai terzi, di un diritto di prelazione[171] agraria sul fondo compravenduto costituisce colpa grave, escludente il possesso di buona fede, dovendosi escludere che questo possa farsi dipendere dalla circostanza che il contratto di compravendita sia stato stipulato con l’intervento di un notaio; all’acquirente assoggettato alla azione di riscatto spetta, quindi, ai sensi dell’art. 1150 c.c., una indennità per i miglioramenti commisurata al minor importo tra lo speso ed il migliorato e tale indennità, costituendo debito di valuta, resta sottratta agli effetti della svalutazione monetaria[172].

 

art. 1151 c.c.   pagamento delle indennità: l’autorità giudiziaria, avuto riguardo alle circostanze, può disporre che il pagamento delle indennità previste dall’articolo precedente sia fatto ratealmente, ordinando, in questo caso, le opportune garanzie (c.c.1179).

 

 

D)  Ritenzione a favore del possessore di buona fede

art. 1152 c.c.    ritenzione a favore del possessore di buona fede:  il possessore di buona fede può ritenere la cosa finché non gli siano corrisposte le indennità dovute, purché queste siano state domandate nel corso del giudizio di rivendicazione (c.c.948) e sia stata fornita una prova generica della sussistenza delle riparazioni e dei miglioramenti (c.c.2756).

Egli ha lo stesso diritto finché non siano prestate le garanzie ordinate dall’autorità giudiziaria nel caso previsto dall’articolo precedente.

 

 

Lo ius retentionis — che, attuando una forma di autotutela, in deroga al principio per cui nessuno può farsi giustizia da sé, costituisce un istituto di carattere eccezionale, insuscettibile di applicazione analogica e limitato ai casi previsti dalla legge.

E’ sorto nel corso degli anni una problematica riguardante l’applicabilità o meno della forma di autotutela anche per l’affittuario del fondo rustico.

Secondo una prima risalente pronuncia, non spettava al conduttore di fondo rustico (mezzadro, affittuario o colono) che, obbligato al rilascio, intendeva garantirsi attraverso la ritenzione del pagamento di somme che gli siano dovute dal concedente per migliorie o per qualsiasi altro titolo attinente al cessato rapporto di conduzione agraria. Né era invocabile al riguardo l’art. 1152 c.c., che riconosce il diritto di ritenzione al possessore di buona fede, perché il conduttore agrario non ha il possesso, ma solo la detenzione dell’immobile e perché — comunque — non viene in considerazione la regolamentazione degli effetti del possesso come fatto giuridico indipendente dalla sussistenza di un diritto[173].

Successivamente la medesima Corte[174] ha stabilito che, soprattutto in forza di una successiva integrazione legislativa, il diritto di ritenzione, che è riconosciuto in via generale nell’art. 1152 c.c. e si configura come situazione non autonoma ma strumentale all’autotutela di altra situazione attiva generalmente costituita da un diritto di credito, è contemplato in favore dell’affittuario di fondo rustico nell’art. 20 della legge 3 maggio 1982, n. 203 (così come lo era, già, nell’art. 15 della precedente legge n. 11 del 1971) in stretta correlazione al diritto di credito per le indennità spettanti al coltivatore diretto per i miglioramenti, le addizioni e le trasformazioni da lui apportati al fondo condotto, sicché, presupponendo l’esistenza di un credito derivante dalle opere indicate e realizzate dal coltivatore diretto, non è scindibile dall’esistenza di detto credito o dall’accertamento di questo. Pertanto, eccepito dall’affittuario che si opponga all’esecuzione del rilascio di un fondo rustico il diritto di ritenzione a garanzia del proprio credito per i miglioramenti apportati al fondo, il giudice non può limitarsi ad accertare l’esistenza delle opere realizzate dall’affittuario, ma deve verificarne anche l’indennizzabilità, rigettando l’eccezione ove tale verifica dia esito negativo.

Inoltre la ritenzione è prevista a favore del possessore di buona fede convenuto nel giudizio di rivendicazione e non del detentore[175], convenuto in un’azione personale restitutoria[176].

Non può, ulteriormente, essere invocato dal detentore nomine alieno dell’immobile nei confronti del proprietario rivendicante.

Ne consegue, ad esempio, che l’assegnatario di un alloggio di cooperativa edilizia sottoposta a liquidazione coatta amministrativa, autorizzato al mero ed eccezionale deposito di mobili nell’alloggio stesso, una volta convenuto in giudizio dal commissario per lo scioglimento del rapporto, non può essere considerato possessore in buona fede e, quindi, non ha diritto alla ritenzione dell’immobile fino al pagamento di miglioramenti ed addizioni[177].

Per una pronuncia di merito del Tribunale meneghino[178], in virtù dell’eccezionalità dell’art. 1152 c.c., è  illegittimo il comportamento del venditore che si rifiuti di riconsegnare all’acquirente il bene venduto (nella specie una tenda con meccanismo elettrico), ritirato per una verifica di funzionamento, interamente pagato dall’acquirente e, quindi, di sua stretta proprietà. L’attività di verifica posta in essere, resa dal venditore, inoltre, deve essere qualificata come doverosa, in quanto compresa ed eseguita nel periodo di tempo di vigenza della garanzia con conseguente inconfigurabilità di qualsiasi diritto tanto al compenso per il lavoro svolto, quanto alla citata ritenzione della merce.

  • Questioni processuali

Al fine di esercitare il diritto di ritenzione previsto dall’art. 1152 c.c. a favore del possessore di buona fede finché non siano corrisposte le indennità dovute ai sensi dell’art. 1150 c.c., la relativa domanda deve essere proposta dal possessore convenuto nel giudizio di rivendicazione, ma trattandosi non di mera eccezione conseguente alla condanna alla restituzione ma di vera e propria domanda, non può essere proposta per la prima volta in appello, stante il divieto dell’art. 345 c.p.c.[179]

La richiesta di rilascio di un immobile, e quella, sollevata riconvenzionalmente dal convenuto, di pagamento delle indennità di cui agli artt. 1151 e 1152 c.c.., integrano domande distinte e suscettibili di separazione[180]. Pertanto, deve ritenersi consentito al collegio, in applicazione dell’art. 277 secondo comma c.p.c., di limitare la decisione alla prima di dette richieste, ove ravvisi la necessità di ulteriore istruttoria per la statuizione sulla altra.

Principio già espresso con altra pronuncia[181] secondo la quale il diritto di ritenzione spettante al possessore di buona fede a norma dell`art. 1152 c.c. mira a tutelare la pretesa creditoria al pagamento della indennità e, come tale, è ad essa intimamente connesso, per cui allo stesso modo di questa deve essere fatto valere in via riconvenzionale nel corso del giudizio di rilascio, soggiacendo alle stesse regole processuali stabilite per il credito di cui garantisce l’esecuzione, con la conseguenza che la domanda per il riconoscimento del diritto di ritenzione, se non proposta in primo grado è domanda nuova, come tale inammissibile in grado di appello

 

 

E)   Acquisto a non domino su beni mobili

per gli acquisti su beni mobili altrui vale l’art. 1153 c.c.

 

art. 1153 c.c.    effetti dell’acquisto del possesso: colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non ne è proprietario, ne acquista la proprietà mediante  (1o requisito) il possesso, purché sia (2o requisito) in buona fede al momento della (3o requisito) consegna e sussista un (4o requisito) titolo idoneo al trasferimento della proprietà.

La proprietà si acquista libera da diritti altrui sulla cosa, se questi non risultano dal titolo e vi è la buona fede dell’acquirente.

Nello stesso modo si acquistano diritti di usufrutto, di uso   e di pegno  (c.c.981, 1021, 2784).

 

1)   I presupposti

 

È necessaria la consegna, che deve essere effettiva, cioè operata mediante spossessamento, ad iniziativa dell’alienante non dominus o suo delegato (non si può acquistare da chi si presenta, ma non è rappresentante, perché una cosa è l’acquisto dal falsusu procurator altra cosa è l’acquisto a non domino), in favore dell’acquirente o di un suo adiectus solutionis causa.

Infatti per la S.C.[182] qualora la cosa mobile sia stata alienata dal rappresentante senza potere del proprietario, non si verifica l’acquisto in base al possesso di buona fede.

Non sarebbe, dunque, ammissibile una trasmissione simbolica, né una costituto possessorio, mentre nulla osterebbe ad un traditio brevi manu, essendo la cosa già stata consegnata.

Ai sensi dell’art. 1153 c.c., la validità del trasferimento di beni mobili non postula che l’alienante ne sia il legittimo possessore, essendo invece sufficiente che esista un titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà e che lo acquirente consegua il possesso di detti beni in buona fede, requisito, quest’ultimo, il cui accertamento involge un apprezzamento di fatto, come tale incensurabile in cassazione se immune da errori di diritto[183].

2)   La buona fede

 

La buona fede nel possesso dell’acquirente a non domino di bene mobile va presunta, ai sensi dell’art. 1147 c.c., con la conseguenza che spetta a chi [184]rivendichi il bene, al fine di escludere in favore del possessore gli effetti di cui all’art. 1153 c.c., di fornire la prova della mala fede o della colpa grave del possessore medesimo, al momento della consegna. Tale prova può essere data anche mediante presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, e tali da prevalere sull’indicata presunzione legale[185].

La presunzione di buona fede dell’acquirente a non domino può esser vinta anche mediante presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti; tanto più che, trattandosi di accertare uno stato psicologico, e normale che la prova sia fornita indirettamente attraverso illazioni desumibili da circostanze esteriori. La buona fede, ancorché intesa in senso meramente psicologico, è esclusa anche dal semplice dubbio dell’esistenza di un diritto altrui in contrasto con il proprio diritto[186].

Il concetto di buona fede, di cui all’art. 1153 c.c., che rileva in base a tale norma — ai fini dell’acquisto della proprietà di beni mobili a non domino, corrisponde a quello dell’art. 1147 c.c. e, pertanto, ai sensi del secondo comma di questa norma, la buona fede non giova a chi compie l’acquisto ignorando di ledere l’altrui diritto per colpa grave, la quale è configurabile quando quell’ignoranza sia dipesa dall’omesso impiego, da parte dell’acquirente, di quel minimo di diligenza, proprio anche delle persone scarsamente avvedute, che gli avrebbe permesso di percepire l’idoneità dell’acquisto a determinare la lesione dell’altrui diritto, poiché non intelligere quod omnes intellegunt costituisce un errore inescusabile, incompatibile con il concetto stesso di buona fede.

Per il tribunale[187] Capitolino colui al quale viene alienato un bene mobile da parte di chi non ne è il proprietario ne diviene proprietario in virtù del possesso, purché sia in buona fede al momento dell’acquisto e sussista un titolo idoneo al trasferimento della proprietà del bene. La sussistenza della buona fede, ai sensi dell’art. 1147 c.c., è presunta e, pertanto, spetta a chi rivendica il bene l’onere di fornire la prova della mala fede o della colpa grave dell’acquirente al momento della consegna del bene, prova che può essere fornita anche mediante presunzioni semplici, purché gravi, precise, concordanti e tali comunque da prevalere sulla presunzione legale.

3)   Il titolo

Il modo di acquisto della proprietà dei beni mobili previsto dall’art. 1153 c.c. richiede, oltre al possesso di buona fede, la esistenza di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento del diritto, requisito, questo, che deve essere provato da chi lo allega a proprio favore, non potendo presumersi in base alla semplice consegna della cosa, che può derivare anche da rapporti non traslativi del diritto di proprietà[188].

4)   La consegna

ll particolare modo di acquisto della proprietà di beni mobili regolato dall’art. 1153, primo comma, c.c. richiede, per la sua operatività, il requisito della consegna materiale della cosa stessa, la quale deve realizzare, oltre che il venir meno nell’alienante dell’animus possidendi e del corpus possessionis, la corrispondente situazione di possesso reale da parte dell’acquirente, il quale ultimo deve ottenere una disponibilità di fatto del bene non condizionata dalla volontà del tradens. Tuttavia la consegna materiale, se deve provenire dall’alienante, non comporta anche la necessità del contatto fisico e diretto dell’acquirente con la cosa mobile, poiché ciò che viene in rilievo è il fatto che l’acquirente, ad esclusione di altri, sia posto in grado di esercitare sul bene i poteri di controllo e vigilanza, che costituiscono il contenuto proprio del possesso uti dominus trasmessogli dal suo dante causa a titolo particolare, per cui la consegna ben può essere effettuata ad un rappresentante, ad un incaricato ovvero ad un adiectus solutionis causa del compratore[189].

La proprietà se vi sono i presupposti generali ovvero buona fede e titolo idoneo si acquista libera da diritti altrui sulla cosa tale concetto è riportato anche all’art.111 del c.p.c.

art. 111 c.p.c.  successione a titolo particolare nel diritto controverso: se nel corso del processo si trasferisce il diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti originarie. Se il trasferimento a titolo particolare avviene a causa di morte, il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto. In ogni caso il successore a titolo particolare può intervenire o essere chiamato nel processo e, se le altre parti vi consentono, l’alienante o il successore universale può esserne estromesso. La sentenza pronunciata contro questi ultimi spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui, salve le norme sull’acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione

5)   Casistica

  • Beni immateriali[190]

Non è configurabile l’acquisto a titolo originario di un’opera immateriale dell’ingegno, nella specie opera cinematografica, in base a titolo astrattamente idoneo per effetto del possesso di buona fede, ai sensi dell’art. 1153 c.c., a ciò ostando il carattere particolare del diritto d’autore, che trova fondamento unicamente nell’atto creativo e realizzativo dell’idea, per il trasferimento del quale non si richiede una consegna, perché questa, anche ove ricorra, si riferisce all’oggetto materiale in cui l’opera si estrinseca, senza però mai immedesimarsi in essa; inoltre, seppure l’art. 167 della legge 22 aprile 1941, n. 633 abbia voluto assicurare, a chi si trovi in una posizione corrispondente a quella del possessore di buona fede, la possibilità di far valere i suoi diritti nei confronti di eventuali contraffattori, non ha tuttavia inteso innovare i principi che attengono alla natura immateriale dell’opera dell’ingegno ed ai modi di acquisto dei diritti ad essa inerenti[191].

Ancora, secondo altra pronuncia di merito[192], in caso di controversia riguardante la sussistenza della titolarità dei diritti di utilizzazione economica di un film, considerata la natura proprietaria del diritto di autore, la regola applicabile ben può essere rinvenuta nell’art. 1153 c.c., che dirime i conflitti proprietari sui beni mobili nell’acquisto anche a non domino, sempre che il possesso sia stato acquistato in buona fede ed in forza di un titolo idoneo al trasferimento. (Nel caso di specie non si ritenuta sufficiente l’iscrizione del film nel Pubblico Registro Cinematografico a provare la mala fede dell’utilizzatore in ordine alla titolarità altrui dei diritti sul film, a fronte di contratto di noleggio stipulato con un terzo).

  • Beni indisponibili [193]

La disposizione dell’art. 1153 c.c. — sull’acquisto della proprietà in forza di possesso di buona fede di beni mobili, conseguito in esecuzione di atto astrattamente idoneo all’effetto traslativo — non opera con riguardo a cose di interesse artistico e storico appartenenti ad enti o istituti legalmente riconosciuti diversi dallo Stato o da altri enti o istituti pubblici (nella specie, la Diocesi di San Sepolcro) e soggette a norma del combinato disposto degli artt. 26 e 28 della legge 1 giugno 1939 n. 1089 al regime dell’ inalienabilità senza previa autorizzazione del Ministero della Pubblica Istruzione e della prelazione statale nell’acquisto di esse, in quanto si tratta di beni per i quali è espressamente vietata (art. 32) all’alienante la traditio in pendenza del termine per i detti adempimenti, mentre la consegna della cosa, per potere produrre gli effetti di cui al citato art. 1153, deve essere non vietata dalla legge per motivi d’interesse generale[194].

Res Furtiva

Il terzo acquirente di res furtiva, che questa rivendichi presso lo stesso derubato al quale l’ha riconsegnata per ordine dell’autorità di polizia, non è tenuto a provare la buona fede che l’ha assistito nel procedere all’acquisto, incombendo invece alla parte avversaria che la res detiene l’obbligo di dimostrare la mala fede che ha presidiato all’acquisto stesso, in forza del quale viene spiegata l’azione di rivendica. La norma dell’art. 948 c.c., secondo la quale ogni proprietario, non escluso quello della cosa rubata, può rivendicare la cosa da chiunque la possiede o detiene, presuppone che il possesso altrui non abbia prodotto in terzi l’acquisto della proprietà, con la perdita di questa da parte dell’originario titolare del diritto; perduta la qualità di proprietario, non c’è legittimazione attiva per la rivendica o diritto di preferenza di fronte al nuovo acquisto del possessore di buona fede, munito di titolo idoneo[195].

Il patto di riservato dominio

Non è condivisibile la tesi secondo la quale il patto di riservato dominio può trovare tutela esclusivamente in presenza dei requisiti prescritti dall’art. 1524, c. 2, c.c.; qualora, infatti, il patto abbia ad oggetto beni mobili e non sia stata effettuata la trascrizione, dovrà farsi applicazione della disciplina generale relativa al trasferimento di detti beni dettata dall’art. 1153 c.c., del quale la norma contenuta nell’art. 1524 costituisce eccezione[196].

Qualora l’acquirente di un’azienda con patto di riservato dominio ne effettui a sua volta la vendita, tale vendita non è nulla ma integra una ipotesi di acquisto “a non domino” (e pertanto deve qualificarsi come vendita di cosa altrui) anche se l’acquirente non sia stato a conoscenza dell’esistenza del patto di riservato dominio, giacchè il complesso di beni costituito in azienda costituisce una tipica universalità di beni ai sensi dell’art. 816 c.c., per la quale non può trovare applicazione il principio dell’acquisto immediato in virtù del possesso, ai sensi dell’art. 1153 c.c., in virtù dell’esplicita esclusione sancita dall’art. 1156 c.c.[197]

In caso di acquisto a non domino di cosa mobile non registrata, dalla presunzione, derivante dal principio posto dall’art. 1147 c.c., che l’acquirente sia stato in buona fede, deriva, per colui che intenda contrastare tale presunzione, l’onere di fornire elementi idonei alla formulazione non del mero sospetto di una situazione illegittima, ma di un dubbio derivante da circostanze serie, concrete e non ipotetiche[198].

Leasing

Nel caso di acquisto a non domino, da parte del concedente in leasing finanziario, di un bene mobile consegnato dal fornitore direttamente all’utilizzatore, lo stato di buona fede al momento della consegna, rilevate ai fini dell’acquisto della proprietà ai sensi dell’art. 1153 c.c., deve essere valutato con riferimento al soggetto acquirente concedente in leasing, e non dell’utilizzatore, atteso che, nel contratto di leasing finanziario, la consegna del bene, che il fornitore effettua, in adempimento dell’obbligazione assunta direttamente con il concedente, all’utilizzatore, deve intendersi eseguita ad un adiectus solutionis causa dell’acquirente della cosa, e non ad un suo rappresentante[199].

art. 1154 c.c.   conoscenza dell’illegittima provenienza della cosa: a  colui che ha acquistato conoscendo l’illegittima provenienza della cosa, non giova l’erronea credenza che il suo autore o un precedente possessore ne sia divenuto proprietario.

 

art. 1155 c.c.    acquisto di buona fede e precedente alienazione ad altri: se taluno con successivi contratti aliena a più persone un bene mobile, quella tra esse che ne ha acquistato in buona fede il possesso è preferita alle altre, anche se il suo titolo è di data posteriore.

 

Per autorevole dottrina[200] in verità per il primo avente causa la buona fede non rileva, perché egli ha acquistato dal proprietario ex art. 1376 c.c., cosicché prevarrà anche se consegue il possesso pur sapendo che, nel frattempo, il dante causa ha alienato ad un terzo, così come potrà agire in rivendica contro il secondo avente causa possessore di mala fede.

Solo per il secondo avente causa il possesso di buona fede è, dunque, essenziale, perché per il primo esso ha la sola funzione di impedire la possibile perdita della proprietà in caso di successiva alienazione.

La regola di cui all’art. 1155 c.c. si applica anche in caso di doppio usufrutto o di uso (non di pegno, che senza la consegna non nasce), estendendo analogicamente non già l’art. 1153 terzo comma, c.c., perché il costituente deve essere proprietario, ma, a seconda che si propenda per l’acquisto a titolo derivativo o originario, l’art. 1265 secondo comma, c.c. o l’art. 1153 primo comma, c.c., se si ritiene che il nudo proprietario, costituendo di nuovo un usufrutto o uso si comporti come un non dominus.

In entrambi i casi previsti dagli artt. 1153 e 1155 c.c. chi ha conseguito il possesso in mala fede può usucapire trascorsi 20 anni; se, invece c’è buona fede, ma il titolo è inidoneo, invalido o inefficace, sono sufficienti 10 anni.

 

art. 1156 c.c.    universalità di mobili e mobili iscritti in pubblici registri: le disposizioni degli articoli precedenti non si applicano alle universalità di mobili  e ai beni mobili iscritti in pubblici registri (c.c.815 e seguente, 2683 e seguenti; Cod. Nav. 146 e seguenti,753 e seguenti).

Ai beni mobili soggetti ad iscrizione nei pubblici registri (nella specie, autovettura), ma di fatto non iscritti, non si applica la norma di cui all’art. 1156 c.c., con la conseguenza che la loro proprietà può acquistarsi in attuazione del principio del possesso di buona fede, quando ricorrono le condizioni stabilite dall’art. 1153 c.c.[201]

Ai beni mobili soggetti ad iscrizione nei pubblici registri, ma di fatto non iscritti o non validamente iscritti come nel caso del veicolo registrato con il numero di telaio contraffatto, non si applica la norma di cui all’art. 1156 c.c., con la conseguenza che la loro proprietà può acquistarsi in attuazione del principio del possesso di buona fede, quando ricorrono le condizioni stabilite dall’art. 1153 c.c.[202]

Per una sentenza di merito[203] ai beni mobili soggetti ad iscrizione nei pubblici registri (nella specie autovettura), ma di fatto non registrati, non si applica la norma di cui all’art. 1156 c.c., con la conseguenza che la loro proprietà può acquistarsi, in attuazione del principio «il possesso di buona fede vale titolo», secondo le modalità di cui all’art. 1153 c.c., senza che la mancanza dei documenti necessari alla sua utilizzazione possa influire sulla buonafede dell’acquirente

 

 

art. 1157 c.c.     possesso di titoli di credito: gli effetti del possesso di buona fede dei titoli di credito sono regolati dal titolo V del libro IV (c.c.1944)

 

 

 

 

8) L’usucapione

 

 

A)  Nozione ed elementi costitutivi dell’usucapione 

[204]

art. 1158 c.c.   usucapione dei beni immobili e dei diritti reali immobiliari: la proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso (1o elemento) continuato [(quindi non deve essere saltuario od occasionale) e non interrotto ] per venti (20) anni (2o elemento).

 

L’usucapione è il modo di acquisto della proprietà e di altri diritti reali di godimento, che si concretizza attraverso il possesso continuato del bene per il tempo stabilito dalla legge ex art. 1158.

Secondo la definizione della S.C.[205] l’usucapione è un modo di acquisto della proprietà e dei diritti reali di godimento, fondato essenzialmente sul possesso continuato per un tempo determinato; e, come tale, è riconosciuta e disciplinata dal codice civile vigente.

In altri termini, per la stessa Cassazione[206], l’acquisto della proprietà per usucapione dei beni immobili ha per fondamento una situazione di fatto caratterizzata dal mancato esercizio del diritto da parte del proprietario e dalla prolungata signoria di fatto sulla cosa da parte di chi si sostituisce a lui nell’utilizzazione di essa. La pienezza e l’esclusività di questo potere che soddisfano il requisito dell’univocità del possesso e lo rendono idoneo a determinare il compiersi della prescrizione acquisitiva vanno dal giudice di merito apprezzate e valutate non in astratto ma con riferimento alla specifica natura del bene, alla sua destinazione economica e produttiva, alle utilità che esso secondo un criterio di normalità è capace di procurare al proprietario ed il cui conseguimento costituisce secondo un analogo criterio il precipuo contenuto delle sue facoltà di godimento.

Tale modo di acquisto è esplicazione dell’esigenza di attribuire certezza giuridica alla pacifica utilizzazione del bene che si protrae nel tempo.

I due requisiti indispensabili perché si compia l’usucapione sono

1)           il possesso in senso tecnico da parte di chi non è titolare del diritto corrispondente, e

2)           la durata dello stesso per un certo tempo stabilita dalla legge, entrambi accompagnati dall’ animus rem sibi habendi, la cui sussistenza non è esclusa dalla consapevolezza del possessore di non essere il titolare del diritto che si vuole usucapire[207].

Per possesso deve intendersi, come qualificato dall’art. 1140 c.c., il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente  all’esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale.

Giurisprudenza e dottrina  sono concordi ormai a ritenere che, ai fini del compimento dell’usucapione,  questo potere deve estrinsecarsi in un comportamento continuo, ininterrotto, pacifico, pubblico ed inequivoco .

Sulla non clandestinità è intervenuta da ultimo la S.C.

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|30 aprile 2021| n. 11465

ai fini dell’usucapione, il requisito della non clandestinità va riferito non agli espedienti che il possessore potrebbe attuare per apparire proprietario, ma al fatto che il possesso sia stato acquistato ed esercitato pubblicamente, cioè in modo visibile a tutti o almeno ad un’apprezzabile ed indistinta generalità di soggetti e non solo dal precedente possessore o da una limitata cerchia di persone che abbiano la possibilità di conoscere la situazione di fatto soltanto grazie al proprio particolare rapporto con quest’ultimo. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di appello che aveva accertato l’avvenuto acquisto per usucapione della proprietà di un dipinto oggetto di furto, che il possessore aveva ricevuto in donazione e tenuto per circa quaranta anni appeso alla parete del salotto della sua abitazione, sul rilievo che il bene, pur collocato in modo conforme alla sua destinazione tipica, non era stato oggetto di possesso pubblico e non clandestino, perché destinato ad essere visibile solo dalla ristretta cerchia di persone che frequentavano la casa).

1)   L’animus possidendi

Per quanto riguarda l’animus possidendi, invece, che è ritenuto elemento indispensabile del possesso ad usucapionem dalla costante giurisprudenza della S.C.[208], può essere desunto dalle concrete circostanze di fatto che caratterizzano la relazione di fatto con la cosa.

Quindi, tale elemento, che consiste unicamente nell’intento di tenere la cosa come propria o di esercitare il diritto come a sé spettante, indipendentemente dalla coscienza che si abbia del diritto altrui e del regime giuridico del bene su cui si esercita il potere di fatto, è da presumere iuris tantum in presenza del corpus possessionis[209].

Per ultima Cassazione [210] l’animus possidendi, necessario all’acquisto della proprietà per usucapione da parte di chi esercita il potere di fatto sulla cosa, non consiste nella convinzione di essere proprietario (o titolare di altro diritto reale sulla cosa), bensì nell’intenzione di comportarsi come tale, esercitando corrispondenti facoltà, mentre la buona fede non è requisito del possesso utile ai fini dell’usucapione.

Di conseguenza, la consapevolezza di possedere senza titolo, ed il compimento di attività negoziali o di altra natura, finalizzate a ottenere il trasferimento della proprietà del bene posseduto o la stabilità sul piano formale della situazione giuridica rispetto ad esso non esclude che il possesso sia utile ai fini dell’usucapione.

Per ultima Cassazione

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|14 maggio 2021| n. 13153

per escludere la sussistenza del possesso utile all’usucapione non è sufficiente il riconoscimento o la consapevolezza del possessore circa l’altrui proprietà del bene, occorrendo, invece, che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza è rivelata o per i fatti in cui essa è implicita, esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare, atteso che l'”animus possidendi” non consiste nella convinzione di essere titolare del diritto reale, bensì nell’intenzione di comportarsi come tale, esercitando le corrispondenti facoltà

Tuttavia, la presenza di tale elemento va esclusa

1)    nel caso di riconoscimento del diritto altrui da parte del possessore, quale atto incompatibile con la volontà di godere del bene uti dominus[211], o

2)    nel caso in cui sia dimostrato che il possessore del bene abbia la consapevolezza di non potere assumere iniziative in ordine alla conservazione e alla disposizione del bene ovvero che l’intestatario del bene non abbia dismesso l’esercizio del suo diritto di proprietà[212]

3)    o nel caso di atti soltanto di gestione consentiti dal proprietario o anche atti tollerati[213] dallo stesso titolare del diritto dominicale perché comportanti solo il soddisfacimento di obblighi o l’erogazione di spese per il miglior godimento della cosa[214].

Ai fini dell’usucapione non è richiesto che il possessore, oltre all’animus rem sibi habendi, abbia anche l’animus usucapiendi, cioè l’intento di pervenire all’acquisto per usucapione della proprietà o di altro diritto reale sulla cosa posseduta[215].

  • Possesso continuato

[216]

 

Il possesso deve essere quindi continuato, stesso concetto si ritrova nell’art. 1170, secondo, c.c., dovendosi considerare equivalenti i termini «continuato» e «continuo» riferendosi il primo ad una fattispecie esaurita e il secondo ad un possesso ancora in atto.

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte[217], ai fini della configurabilità di un possesso ad usucapionem è necessaria la sussistenza di un comportamento continuo e non interrotto che dimostri inequivocabilmente l’intenzione di esercitare il potere corrispondente a quello del proprietario o del titolare di uno jus in re aliena, e quindi una signoria sulla cosa che permanga, senza interruzione, per tutto il tempo indispensabile per usucapirla, sia per quanto riguarda l’animus che il corpus; occorre, pertanto, che il possessore esplichi costantemente il potere di fatto corrispondente al diritto reale posseduto e lo manifesti con il compimento puntuale di atti di possesso conformi alla qualità ed alla destinazione della cosa, e tali da rivelare, anche esternamente, una indiscussa e piena signoria di fatto sulla cosa stessa, contrapposta all’inerzia del titolare del diritto. Ne consegue che non può ritenersi prova sufficiente di un possesso utile ai predetti fini la produzione di un titolo di acquisto del bene[218] .

Nel caso di specie alla luce degli enunciati principi, correttamente, si continua a leggere nell’ultima sentenza richiamata,  il giudice di appello ha ritenuto la mancanza di prova circa il possesso ad usucapionem del muro di fabbrica in questione, avendo rilevato, all’esito di un’attenta disamina delle risultanze processuali, che i testi escussi, pur avendo riferito di un possesso esercitato nel tempo dagli attori e dai loro danti causa sia sulla striscia di terreno che sul muro di fabbrica, con riguardo a tale ultima entità immobiliare hanno reso dichiarazioni del tutto generiche, senza descrivere gli specifici comportamenti attraverso i quali sarebbe stata esercitata la signoria di fatto. E’ evidente, infatti, che il generico riferimento, operato dai testi, ad una situazione di possesso, è inidoneo a legittimare la pretesa degli attori in ordine all’acquisto per usucapione del bene in questione, in mancanza di oggettivi elementi di riscontro circa le modalità di tale possesso, necessari al fine di verificare se la relazione di fatto con la cosa si sia effettivamente estrinsecata, per il tempo necessario all’usucapione, attraverso atti corrispondenti all’esercizio del diritto dominicale.

Il principio di cui sopra è stato nuovamente ribadito da ultimo arresto della Cassazione

Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 4 febbraio 2015, n. 2043

ovvero: per la configurabilità del possesso “ad usucapionem”, è necessaria la sussistenza di un comportamento continuo, e non interrotto, inteso inequivocabili ernte ad esercitare sulla cosa, per tutto il tempo all’uopo previsto dalla legge, un potere corrispondente a quello del proprietario o del titolare di uno “ius in re aliena”, un potere di fatto, corrispondente al diritto reale posseduto, manifestato con il compimento puntuale di atti di possesso conformi alla qualità e alla destinazione della cosa e tali da rilevare, anche esternamente, una indiscussa e piena signoria sulla cosa stessa contrapposta all’inerzia del titolare del diritto.

Ancora, secondo altro recente adagio della Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, 2 settembre 2015, n. 17459

per la configurabilità dei possesso “ad usucapionem”, è necessaria la sussistenza di un comportamento continuo, e non interrotto, inteso inequivocabilmente ad esercitare sulla cosa, per tutto il tempo all’uopo previsto dalla legge, un potere corrispondente a quello del proprietario o del titolare di uno “ius in re aliena”, un potere di fatto, corrispondente al diritto reale posseduto, manifestato con il compimento puntuale di atti di possesso conformi alla qualità e alla destinazione della cosa e tali da rilevare, anche esternamente, una indiscussa e piena signoria sulla cosa stessa contrapposta all’inerzia del titolare del diritto. Nè è denunciabile, in sede di legittimità, l’apprezzamento del giudice di merito in ordine alla validità degli eventi dedotti dalla parte, al fine di accertare se, nella concreta fattispecie, ricorrano o meno gli estremi di un possesso legittimo, idoneo a condurre all’usucapione, ove, come nel caso, sia congruamente logica e giuridicamente corretta. Alla cassazione della sentenza si può giungere solo quando la motivazione sia incompleta, incoerente ed illogica e non quando il giudice del merito abbia valutato i fatti in modo difforme dalle aspettative e dalle deduzione di parte.

Non significa tuttavia che il possesso debba comportare un’assidua ingerenza sul bene, perché, se così fosse il legislatore avrebbe dovuto escludere l’usucapione per quei diritti il cui possesso si esercita in modo saltuario od occasionale. Su questo aspetto parte della dottrina si poneva in posizione contraria, non trovando però sostegno nella giurisprudenza, propensa piuttosto a sostenere che l’eventuale intermittenza, nel caso per esempio delle servitù di prospetto, di atti di godimento della res, non scalfisce la continuità del possesso, la quale persiste fin tanto che permane la possibilità concreta di effettuare l’inspectio e la prospectio[219].

La continuità si riferisce al comportamento tenuto dal possessore, nonché alla relazione intercorrente tra possessore stesso e la res, nè si può parlare di discontinuità nel caso in cui il possessore perda il potere sul bene per fatti naturali o interventi di terzi, in questi casi si parla di interruzione dell’usucapione ai sensi dell’art. 1167 c.c. qualora entro un anno dallo spoglio non sia stata esercitata l’azione per il recupero del possesso.

Quel che rileva è che la signoria sul bene non sia dovuta a mera tolleranza, la quale è da ravvisarsi tutte le volte che il godimento della cosa tragga origine da spirito di condiscendenza o da ragioni di amicizia o di buon vicinato con il titolare effettivo del bene[220].

La continuità è stata talvolta identificata con l’uniformità degli atti di esercizio del possesso, per cui è continuo se rimane uguale a se stesso per tutto il suo decorso, ovviamente il concetto di uniformità non va inteso in senso rigido bensì in modo da permettere al possessore variazioni nell’esercizio del possesso. Su questa strada si è espressa anche la giurisprudenza di merito sostenendo che il requisito di continuità non viene meno per il fatto che il bene oggetto di usucapione sia stato concesso in godimento a terzi[221].

  • Possesso intermedio

La fattispecie, infine, deve essere considerata anche in relazione del principio della presunzione del possesso intermedio, cioè, ai sensi dell’art.1142 c.c., il possessore attuale che ha posseduto in tempo più remoto, si presume che abbia posseduto anche in tempo intermedio.

Questa presunzione, nell’ipotesi di usucapione, comporta l’inversione dell’onere della prova, non essendo il possessore tenuto a dimostrare la continuità del possesso, ma è onere della controparte provare l’intervenuta interruzione[222].

  • Pacifico e palese

Per usucapire il bene il possesso deve essere pacifico e palese

art. 1163 c.c.   vizi del possesso: il possesso acquistato in modo violento o clandestino non giova per l’usucapione se non dal momento in cui la violenza o la clandestinità e cessata.

La violenza, infatti, impedisce l’usucapione, poiché rende socialmente riprovevole il possesso – facendo, in tal modo, venire meno il motivo di preferenza del possessore rispetto al proprietario – e la clandestinità la preclude perché l’utilizzazione celata di un bene non è socialmente rilevante e, pertanto, non rende il possessore più meritevole di tutela rispetto al proprietario.

Il possesso deve altresì essere connotato, secondo l’espressa disposizione dell’art.1163 c.c., dal carattere della pacificità ed essere palese.

Risulta infatti inutile, ai fini del compimento dell’usucapione, quel possesso acquisito mediante violenza e clandestinamente, in tali casi i termini per usucapire decorrono dal momento in cui violenza e clandestinità sono cessate.

Sull’argomento la giurisprudenza[223] ha precisato che è irrilevante che la violenza, morale o fisica, sia stata esercitata in un momento successivo all’acquisto del possesso, e a sua volta la clandestinità va riferita non agli atti che il possessore può compiere per apparire proprietario, bensì al fatto che il possesso è stato acquistato in modo visibile e pubblicamente.

Si osserva che pacifico non significa incontroverso, e ciò permette che un possessore convenuto in azione di rivendica possa eccepire l’avvenuta usucapione, senza che eventuali diffide e messe in mora facciano venir meno la pacificità del possesso.

  • Non equivoco

Ulteriore requisito è la non equivocità, più precisamente il possesso deve consistere, in modo certo e indubbio, nell’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di un altro diritto reale.

Soddisfano il requisito dell’univocità, la pienezza e l’esclusività del potere di fatto su un bene, il giudice dovrà tuttavia valutarle non in astratto ma con riferimento alla specifica natura del bene, alla sua destinazione economica e produttiva.

2)   Interruzione del possesso

a)    naturale –

si verifica qualora il possessore venga messo nell’impossibilità di esercitare il possesso, a seguito di atto illecito oppure di spoglio; quest’ultimo non interrompe il possesso qualora il possessore provveda entro l’anno a proporre l’azione contro chi ha preso il bene e, conseguentemente, ne ottiene la restituzione.

b)   civile –

si realizza a seguito di un atto giuridico che interrompa il decorso dell’usucapione; vale, pertanto, ad interrompere il possesso, una domanda giudiziale (fondata), proposta contro il possessore, ma non gli atti stragiudiziali o la messa in mora del possessore, perché tali atti non fanno venir meno il potere di fatto del possessore, né il titolo in basa al quale possiede.

Sul punto è intervenuta ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 22 dicembre 2015, n. 25764

la quale, facendo propri i precedenti orientamenti, ha riaffermato che si possono distinguere due ipotesi di interruzione del possesso ad usucapionem: interruzione “naturale” e interruzione “civile”; ricorre la prima allorche’ il possessore e’ stato privato del possesso per oltre un anno per fatto di un terzo (ad es. in conseguenza di uno spoglio del bene). Si tratta, invece, di interruzione civile, ogni qual volta, contro il possessore e’ stata esercitata una domanda giudiziale tesa a contestare la legittimita’ del potere esercitato sulla cosa (siano esse azioni di rivendica e/o di restituzione).

A sua volta, è stato osservato – come ha gia’ detto dalla medesima Corte in altra occasione – che poiche’, con il rinvio fatto dall’articolo 1165 c.c., all’articolo 2943 c.c., risultano tassativamente elencati gli atti interruttivi del possesso, non e’ consentito attribuire efficacia interruttiva ad atti diversi da quelli stabiliti dalla legge, per quanto con essi si sia inteso manifestare la volonta’ di conservare il diritto, giacche’ la tipicita’ dei modi di interruzione della prescrizione non ammette equipollenti (v. Cass. 12.9.2000 n. 12024; Cass. 21.5.2001 n. 6910; Cass. 1.4.2003 n. 4892; Cass. 11.6.2009 n. 13625), con la conseguenza che non puo’ riconoscersi efficacia interruttiva del possesso (oltre che ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa) se non ad atti giudiziali diretti ad ottenere “ope iudicis” la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapente.

D’altra parte, per escludere la sussistenza del possesso utile all’usucapione non e’ sufficiente il riconoscimento o la consapevolezza del possessore circa l’altrui proprieta’ del bene, occorrendo, invece, che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza e’ rivelata o per i fatti in cui essa e’ implicita, esprima la volonta’ non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare, atteso che l’”animus possidendi” non consiste nella convinzione di essere titolare del diritto reale, bensi’ nell’intenzione di comportarsi come tale, esercitando le corrispondenti facolta’.

Nuovamente anche nel 2016 la Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 18 ottobre 2016, n. 21015

ha avuto modo di affermare che per escludere la sussistenza del possesso utile all’usucapione non e’ sufficiente il riconoscimento o la consapevolezza del possessore circa l’altrui proprieta’ del bene, occorrendo, invece, che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza e’ rivelata o per i fatti in cui essa e’ implicita, esprima la volonta’ non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare, atteso che l’animus possidendi non consiste nella convinzione di essere titolare del diritto reale, bensi’ nell’intenzione di comportarsi come tale, esercitando le corrispondenti facolta’

Ancora, secondo la sentenza in commento, in tema di possesso ad usucapionem, che il codice vigente assoggetta alle stesse condizioni contemplate dal codice del 1865 (con la formula “possesso legittimo”), inclusa quella della pacificita’ del possesso medesimo, tale requisito non puo’ essere escluso per la sola circostanza che il preteso titolare del diritto manifesti una volonta’ contraria all’altrui possesso, trattandosi di elemento rilevante al diverso fine di evidenziare la mala fede del possessore (con la conseguente applicabilita’ del termine ventennale). Pertanto, anche ai fini della continuita’ del possesso, necessaria per l’acquisto a titolo di usucapione, quel che rileva e’ il comportamento del possessore, non gia’ la volonta’ contraria del proprietario.

Infine, conclude  la pronuncia richiamata del 2016, in tema di possesso ad usucapionem, con il rinvio fatto dall’articolo 1165, all’articolo 2943 c.c., la legge elenca tassativamente gli atti interruttivi, cosicche’ non e’ consentito attribuire tale efficacia ad atti diversi da quelli stabiliti dalla norma, per quanto con essi si sia inteso manifestare la volonta’ di conservare il diritto, giacche’ la tipicita’ dei modi di interruzione della prescrizione non ammette equipollenti.

Ancora sul punto è intervenuta la Cassazione anche nel 2017

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, ordinanza 31 agosto 2017, n. 20611

riaffermando che non e’ consentito attribuire efficacia interruttiva del possesso se non ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa, oppure ad atti giudiziali siccome diretti ad ottenere, “ope iudicis”, la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapente, con la conseguenza che, mentre puo’ legittimamente ritenersi (come nel caso di specie) atto interruttivo del termine della prescrizione acquisitiva la notifica dell’atto di citazione con il quale venga richiesta la materiale consegna di tutti i beni immobili dei quali si vanti un diritto dominicale (nella specie, perche’ assegnati in proprieta’ esclusiva con sentenza passata in giudicato per effetto di divisione in lotti di un compendio ereditario), atti interruttivi non risultano, per converso, ne’ la diffida ne’ la messa in mora, potendosi esercitare il possesso anche in aperto contrasto con la volonta’ del titolare del corrispondente diritto reale

Gli atti di diffida e di messa in mora, come, nella specie, la richiesta per iscritto di rilascio dell’immobile occupato, sono idonei ad interrompere la prescrizione dei diritti di obbligazione, ma non anche il termine per usucapire, potendosi esercitare il possesso anche in aperto e dichiarato contrasto con la volonta’ del titolare del diritto reale.

 

  • Mancata interruzione

È altresì necessario, perché si compia l’usucapione, che il possesso sia ininterrotto, ossia che non vi sia stata una interruzione nell’esercizio del possesso per più di un anno, per effetto dell’intervento di un terzo o di un evento naturale.

Bisogna distinguere tra “discontinuità” e “interruzione”, la prima è una vicenda interna al rapporto possessorio, derivante dalla irregolare attività del possessore che non esercita puntualmente  gli atti del possesso; la seconda ipotesi è invece una vicenda estintiva, determinata da una causa esterna al possessore e indipendente dalla sua volontà.

Da questa distinzione ne derivano due trattamenti giuridici: la discontinuità fa perdere in modo definitivo efficacia al periodo di possesso precedente, l’interruzione invece permette di utilizzare il periodo anteriore se il possessore, entro un anno dalla perdita del possesso, promuove azione diretta al recupero dello stesso.

In termini generali, gli atti idonei ad interrompere il possesso devono comportare per il possessore, destinatario degli stessi, la perdita della res e del potere di fatto su di essa; inoltre molti di tali atti sono previsti dal legislatore mediante rinvio alle norme dettate in tema di prescrizione.

L’interruzione è decretata dalla proposizione di una domanda giudiziale contro il possessore attuale, nel caso di azione possessorie, di quelle cautelari, e l’azione petitoria. L’efficacia interruttiva è invece esclusa, secondo la dottrina, in caso di domanda giudiziale presentata da chi non è legittimato ad agire o non è proprietario del bene, secondo la giurisprudenza, in caso di messa in mora del possessore, oppure di riconoscimento da parte di quest’ultimo del diritto di proprietà. Sono altresì inidonei, quegli atti non diretti al possessore e da questi neppure conoscibili, quindi nel caso di processo di esecuzione promosso dai creditori del proprietario, o in caso di concessione di ipoteca[224] .

Per altra sentenza[225] più recente in tema di usucapione, poiché dal combinato disposto degli artt. 1165 e 2943 c.c. risultano tassativamente elencati gli atti interruttivi del possesso, e tale tipicità non ammette equipollenti, non è consentito attribuire efficacia interruttiva ad atti diversi da quelli stabiliti dalla legge, benché con essi si sia inteso manifestare la volontà di conservare il diritto, a nulla rilevando che tali atti provengano dalla P.A. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva riconosciuto efficacia interruttiva del possesso, rilevante ai fini dell’usucapione, alle ordinanze di sgombero emesse dal sindaco quale ufficiale di governo e dall’intendenza di finanza, nonché alle difese al riguardo sviluppate dalla stessa P.A. nei relativi giudizi amministrativi).

Inoltre a mente dell’art. 2943, primo comma, c.c., richiamato dall’art. 1165 c.c. in tema di usucapione, la domanda giudiziale ha efficacia interruttiva del decorso del termine utile per usucapire, qualora sia diretta a far valere una pretesa incompatibile con gli effetti derivanti dal trascorrere del termine; pertanto, tale effetto non è prodotto dalla domanda con cui il proprietario del suolo chieda, ai sensi dell’art. 938 c.c., il pagamento del doppio del valore del terreno occupato in buona fede dalla costruzione eretta sul fondo attiguo, in quanto è diretta a dismettere il bene, non già a recuperarne il possesso[226].

In tema occorre ricordare la consolidata giurisprudenza di legittimità, suffragata da ultima pronuncia

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 28 novembre 2013, n. 26641

–  elaborata in tema di atti interruttivi del termine per usucapire – che a tal fine non è sufficiente un mero atto o fatto che evidenzi la consapevolezza del possessore circa la spettanza ad altri del diritto da lui esercitato come proprio, ma si richiede che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza è rivelata o per fatti in cui essa è implicita, esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare (Cass. 14564/2006; 18207/2004). D’altra parte, l’”animus possidendi” non consiste nella convinzione di essere proprietario (o titolare di un altro diritto sulla cosa), bensì nell’intenzione di comportarsi come tale, esercitando corrispondenti facoltà. Orbene, nel caso di specie affrontato nella sentenza richiamata, la richiesta da parte del possessore della cessione, anche gratuita, dell’immobile non era elemento di per sé sufficiente a escludere l’animus possidendi, ben potendo essere finalizzata – attraverso il trasferimento della proprietà del bene posseduto – a consacrare in un atto formale produttivi di effetti giuridici l’acquisto del bene (Cass. 10230/2002).

Tale principio è stato anche riproposto nel 2014

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 20 gennaio 2014, n. 1071.

ovvero: ai fini dell’interruzione e sospensione dell’usucapione vige il principio della tassatività degli atti interruttivi, costituiti dalla perdita materiale del potere di fatto sulla cosa o da specifici atti giudiziali, per cui la “mera diffida a riconsegnare la res da altri posseduta, non può ritenersi atto idoneo a sospendere o interrompere il possesso ai fini dell’usucapione ex artt. 2943 e 1165 c.c. cioè la perdita materiale del potere di fatto sul bene. Secondo questa S.C. “in tema di usucapione, poiché, con il rinvio fatto dall’art. 1165 cod. civ. all’art 2943 cod. civ., risultano tassativamente elencati gli atti interruttivi del possesso, non è consentito attribuire efficacia interruttiva ad atti diversi da quelli stabiliti dalla legge, con la conseguenza che non può riconoscersi tale efficacia se non ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa, ovvero ad atti giudiziali diretti ad ottenere “ope iudicis” la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapente

La costituzione in mora ha efficacia interruttiva limitatamente ai diritti di obbligazione[227].

Gli atti interruttivi dell’usucapione eseguiti nei confronti di un compossessore[228] non hanno effetto nei confronti degli altri compossessori, in quanto il principio di cui all’art. 1310 c.c. secondo cui gli atti interruttivi contro uno dei debitori in solido interrompe la prescrizione contro il comune creditore, con effetto verso gli altri debitori, trova applicazione in materia di diritti di obbligazione e non di diritti reali, per i quali non sussiste vincolo di solidarietà dovendosi, invece, fare riferimento ai singoli comportamenti dei compossessori, che giovano o pregiudicano solo coloro che li hanno posti in essere[229].

3)   Applicazione di norme sulla prescrizione

art. 1165 c.c.   applicazione di norme sulla prescrizione: le disposizioni generali sulla prescrizione (c.c.2934 e seguenti), quelle relative alle cause di sospensione e d’interruzione (2941 e seguenti) e al computo dei termini (c.c.2962 e seguenti) si osservano, in quanto applicabili, rispetto all’usucapione.

 

art. 1167 c.c.    interruzione dell’usucapione per perdita di possesso: l’usucapione è interrotta (c.c.2945) quando il possessore è stato privato del possesso per oltre un anno.

L’interruzione si ha come non avvenuta se è stata proposta l’azione (c.c.2953) diretta a ricuperare il possesso e questo è stato ricuperato.

 

 

In tema di usucapione, il rinvio dell’art. 1165 c.c. alle norme sulla prescrizione in generale, ed, in particolare, a quelle relative alle cause di sospensione ed interruzione, incontra il limite della compatibilità di queste con la natura stessa dell’usucapione, con la conseguenza che non è consentito attribuire efficacia interruttiva del possesso se non ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa oppure ad atti giudiziali, siccome diretti ad ottenere ope iudicis la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapiente.

Non sono, invece, idonei come atti interruttivi del termine utile per l’usucapione la diffida o la messa in mora in quanto può esercitarsi il possesso anche in aperto contrasto con la volontà del titolare del diritto reale. (Nella specie[230], vertendosi in tema di usucapione ad opera della P.A., la Corte che escluso che potesse attribuirsi valore interruttivo ad un atto introducente un procedimento amministrativo inteso ad accertare l’intervenuto acquisto dell’area di sedime per accessione ai sensi dell’art. 946 c.c. previgente).

 

  • Norme sulla  prescrizione

art. 2934 c.c.    estinzione dei diritti: ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge.

Non sono soggetti alla prescrizione i diritti indisponibili e gli altri diritti indicati dalla legge (c.c.248 e seguente, 263, 272, 533, 715, 948,1422).

 

art. 2935 c.c.    decorrenza della prescrizionea prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.

art. 2936 c.c.     inderogabilità delle norme sulla prescrizione: è nullo ogni patto diretto a modificare la disciplina legale della prescrizione (c.c.1418 e seguenti).

art. 2937 c.c.    rinunzia alla prescrizione: non può rinunziare alla prescrizione chi non può disporre validamente del diritto.

Si può rinunziare alla prescrizione solo quando questa è compiuta.

La rinunzia può risultare da un fatto incompatibile con la volontà di valersi della prescrizione (c.c.1310).

 

 

art. 2938 c.c.    non rilevabilità d’ufficio: il giudice non può rilevare d’ufficio la prescrizione non opposta.

 

art. 2939 c.c.   opponibilità della prescrizione da parte dei terzi: la prescrizione può essere opposta dai creditori e da chiunque vi ha interesse, qualora la parte non la faccia valere. Può essere opposta anche se la parte vi ha rinunziato (c.c.2900).

 

 

  • Dell’interruzione della prescrizione

 

art. 2943 c.c.   interruzione da parte del titolare: la prescrizione è interrotta (c.c.1310) dalla notificazione dell’atto con il quale si inizia un giudizio, sia questo di cognizione (C.p.c. 163, 638) ovvero conservativo (C.p.c. 670 e seguente, 688, 700, 703) o esecutivo (C.p.c. 474 e seguenti).

E’ pure interrotta dalla domanda proposta nel corso di un giudizio.

L’interruzione si verifica anche se il giudice adito è incompetente.

La prescrizione è inoltre interrotta da ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore e dall’atto notificato con il quale una parte, in presenza di compromesso o clausola compromissoria, dichiara la propria intenzione di promuovere il procedimento arbitrale, propone la domanda e procede per quanto le spetta alla nomina degli arbitri.

 

art. 2944 c.c.   interruzione per effetto di riconoscimento: la prescrizione è interrotta dal riconoscimento del diritto da parte di colui contro il quale il diritto stesso può essere fatto valere.

In tema da ultimo la S.C.

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza n. 18425 dell’1 agosto 2013

ha affermato che mentre il riconoscimento dell’altrui diritto che valga ad interrompere la prescrizione (art. 2944 c.c.), costituisce una dichiarazione di scienza, la rinuncia alla prescrizione, invece, integra un atto negoziale caratterizzato dalla manifestazione della volontà di dismettere definitivamente il proprio diritto alla liberazione di un obbligo (v. Cass. n. 5982 del 15/03/2007: “Il soggetto che riconosca l’altrui diritto compie una dichiarazione di scienza, e non un atto negoziale dagli effetti esclusivamente interruttivi della prescrizione stessa, avente ad oggetto il diritto della controparte; per contro, il diverso istituto della rinuncia alla prescrizione è caratterizzato dalla manifestazione di una volontà negoziale con effetto definitivamente dismissivo e avente ad oggetto il proprio diritto alla liberazione dall’obbligo di adempimento: ne consegue che al riconoscimento non si applicano le regole proprie dei negozi giuridici dettate in tema di volontà e di rappresentanza“).

art. 2945 c.c.   effetti e durata dell’interruzione: per effetto dell’interruzione s’inizia un nuovo periodo di prescrizione.

Se l’interruzione è avvenuta mediante uno degli atti indicati dai primi due commi dell’art. 2943, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio (C.p.c. 324).

Se il processo si estingue (C.p.c. 306), rimane fermo l’effetto interruttivo e il nuovo periodo di prescrizione comincia dalla data dell’atto interruttivo.

Nel caso di arbitrato la prescrizione non corre dal momento della notificazione dell’atto contenente la domanda di arbitrato sino al momento in cui il lodo che definisce il giudizio non è più impugnabile o passa in giudicato la sentenza resa sull’impugnazione.

 

art. 1166 c.c.   inefficacia delle cause di impedimento e di sospensione rispetto al terzo possessore: nell’usucapione ventennale non hanno luogo, riguardo al terzo possessore di un immobile o di un diritto reale sopra un immobile, ne l’ impedimento derivante da condizione o da termine (c.c.2935), ne le cause di sospensione indicate dall’art. 2942.

L’impedimento derivante da condizione o da termine e le cause di sospensione menzionate nel detto articolo non sono nemmeno opponibili al terzo possessore nella prescrizione per non uso dei diritti reali sui beni da lui posseduti (c.c.954, 970, 1014).

 

 

  • Della sospensione della prescrizione applicabile all’usucapione ex art. 1165 c.c.

 

art. 2941 c.c.   sospensione per rapporti tra le parti: la prescrizione rimane sospesa (c.c.1310):

1)              tra i coniugi;

2)              tra chi esercita la potestà di cui all’art. 316 o i poteri a essa inerenti (c.c.260, 409) e le persone che vi sono sottoposte;

3)               tra il tutore e il minore (c.c.346 e seguenti) o l’interdetto (c.c.424) soggetti alla tutela, finché non sia stato reso e approvato il conto finale (c.c.386), salvo quanto e disposto dall’art. 387 per le azioni relative alla tutela;

4)               tra il curatore e il minore emancipato (c.c.390 e seguenti) o l’inabilitato (c.c.424);

5)              tra l’erede e l’eredità accettata con beneficio d’inventario (c.c.484 e seguenti);

6)               tra le persone i cui beni sono sottoposti per legge o per provvedimento del giudice all’amministrazione altrui e quelle da cui l’amministrazione è esercitata, finché non sia stato reso e approvato definitivamente il conto;

7)              tra le persone giuridiche e i loro amministratori, finché sono in carica, per le azioni di responsabilità contro di essi (c.c.18, 2393, 2487);

8)              tra il debitore che ha dolosamente occultato l’esistenza del debito e il creditore, finché il dolo non sia stato scoperto (disp.di att. al c.c. 247 e seguente).

 

art. 2942 c.c.    sospensione per la condizione del titolare: la prescrizione rimane sospesa:

1)              contro i minori non emancipati (c.c.316) e gli interdetti per infermità di mente (c.c.414 e seguenti), per il tempo in cui non hanno rappresentante legale e per sei mesi successivi alla nomina del medesimo o alla cessazione dell’incapacità;

2)              in tempo di guerra, contro i militari in servizio e gli appartenenti alle forze armate dello Stato e contro coloro che si trovano per ragioni di servizio al seguito delle forze stesse, per il tempo indicato dalle disposizioni delle leggi di guerra.

 

 

4)   Rinuncia

Più che rinuncia è una sorta di desistenza del soggetto interessato all’azione di accertamento.

Poiché la parte che rinunci a far valere l’acquisto per usucapione maturatosi per effetto del possesso ininterrotto del fondo protrattosi per un certo periodo di tempo non rinuncia ad un diritto di proprietà già acquisito, bensì solo ad avvalersi della tutela giuridica apprestata dall’ordinamento per garantire la stabilità dei rapporti giuridici, sicché a tale rinunzia — indipendentemente dalla forma, esplicita o tacita, di essa — è inapplicabile l’art. 1350 n. 5 c.c., che impone l’osservanza della forma scritta, a pena di nullità, per gli atti di rinuncia a diritti reali, assoluti o limitati, su beni immobili[231].

La rinuncia tacita a far valere l’acquisto per usucapione di un diritto reale su un bene immobile può risultare da un comportamento della parte contrario all’acquisto e non richiede la necessità della forma scritta ad substantiam[232].

Mentre, per ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 30 maggio 2016, n. 11158

la rinuncia per iscritto all’usucapione della servitu’ di passaggio fatta dal proprietario del fondo dominante – che, dopo avere esercitato il possesso ultraventennale della servitu’, esprima al proprietario del fondo servente la volonta’ di non avvalersi della causa di acquisto del diritto reale minore a titolo originario maturata a favore del proprio fondo – rileva di per se’, non potendo la sua efficacia negoziale essere fatta dipendere ne’ dall’avvenuta comunicazione al successivo acquirente (che, nel caso di specie, ancora non c’era: la rinuncia al diritto di passaggio proveniva infatti dall’allora legittimo proprietario del fondo dominante a vantaggio del quale era maturata l’usucapione per effetto del possesso ultraventennale, prima che questi alienasse il terreno), ne’ dall’osservanza dell’onere della trascrizione (non potendo evidentemente esigersi una trascrizione della rinuncia quando mancava la trascrizione dello stesso atto di acquisto della servitu’, non essendo stata la relativa usucapione ancora giudizialmente accertata)

 

5)        Compossesso e comunione

[233]

 

Occorre un breve accenno alla precisa ipotesi in cui vi sia un compossesso di più soggetti sulla medesima res: in tale ipotesi un compossessore potrà variare il proprio titolo divenendo possessore esclusivo, e sarà a partire da quel momento che inizierà a decorrere il tempo utile per usucapire.

Ovviamente dovranno porsi in essere atti univoci diretti contro gli altri compossessori in modo da rendere loro palese l’intenzione di non possedere più come semplici possessori, bensì come possessori esclusivi. Questa trasformazione in possessore esclusivo sarà a ben vedere irrilevante nei confronti del proprietario e spiegherà i suoi effetti solo verso gli altri compossessori, ma potrà iniziare a decorrere il termine per usucapire la proprietà del bene in capo al possessore esclusivo.

Secondo ultima sentenza della S.C. [234], infatti, su di un immobile di proprietà esclusiva di un soggetto può ben crearsi una situazione di compossesso pro indiviso tra lo stesso soggetto proprietario ed un terzo, con il conseguente possibile acquisto, da parte di quest’ultimo, della comproprietà pro indiviso dello stesso bene, una volta trascorso il tempo per l’usucapione, nella misura corrispondente al possesso esercitato

Né tale situazione di compossesso – prosegue la Corte – che consiste nel comune potere di fatto sulla cosa, in tota et in qualibet parte della stessa, da parte di due soggetti, esige la esclusione del possesso del proprietario (che in tal caso si tratterebbe di possesso esclusivo); né richiede che il compossessore esclusivo ignori l’esistenza del diritto altrui, non valendo la contraria eventualità ad escludere l’animus possidendi  che sorregge i comportamenti effettivamente tenuti dal possessore il quale abbia usato della cosa uti con dominus[235]

Per ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 18 dicembre 2013, n. 28346

nel caso di compossesso non è necessaria una formale interversione del possesso e che l’animus possidendi uti dominus può manifestarsi anche solo con comportamenti che lo rendono evidente.

In particolare, la Corte di merito, si legge in sentenza, ha affermato:

a) che il coerede o il partecipante alla comunione può usucapire l’altrui quota indivisa della cosa comune estendendo la propria signoria di fatto sulla res communis in termini di esclusività dimostrando l’intenzione di possedere non a titolo di compossesso, ma di possesso esclusivo per il tempo prescritto dalla legge senza la necessità di compiere atti di intervesio possessionis;

b) che il coerede che a seguito di messa a disposizione del compendio ereditario, sia stato immesso nel possesso di questo senza un mandato ad amministrare da parte degli altri coeredi, prende per tale via a possedere pubblicamente e a titolo esclusivo (dato che il rapporto materiale con il bene che si è venuto ad instaurare ha reso palese la manifestazione della volontà di non consentire agli altri coeredi di instaurare analogo rapporto con il medesimo bene ereditario) e può, quindi, usucapire il cespite senza che sia necessaria una mutazione negli atti di estrinsecazione del possesso tale da escludere un pari godimento da parte degli altri coeredi. In particolare, l’art. 714 cc. per l’usucapione del coerede non richiede atti di interversione del possesso, ma solo l’esercizio del possesso esclusivo.

Sul punto, proprio con ultima pronuncia, le sezioni unite,

Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza 5 marzo 2014, n. 5087

hanno affermato che si esclude la necessità dell’interversione del titolo, ex art. 1164 c.c., nel caso di compossesso, essendo in tal caso sufficiente che la parte abbia posseduto per il tempo necessario a usucapire, animo domini, in modo esclusivo e incompatibile con la possibilità di fatto di un godimento comune (Cass. 28 settembre 1973 n. 2430 e succ. conf.; da ultimo 25 marzo 2009 n. 7221).

Ancora per recente Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 13 novembre 2014, n. 24214

in tema di compossesso, il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto cosi determinatosi funzionale all’esercizio del possesso ad usucapionem e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell’altro compossessore, risultando necessario, a fini della usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla res communis da parte dell’interessato attraverso un’attività durevole, apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che invochi l’avvenuta usucapione del bene (Cass., Sez. II, 20 settembre 2007, n. 19478). In particolare, il coerede che dopo la morte del de cuius sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, egli, che già possiede animo proprio ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, non essendo sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall’uso della cosa comune (Cass., Sez. II, 25 marzo 2009, n. 7221).

Nel caso di specie a tale principio si è attenuta la Corte d’appello.
Nel confermare il rigetto della domanda di usucapione avanzata dall’attore, i giudici del gravame hanno infatti rilevato, con congruo apprezzamento delle risultanze di causa, che costui non ha esercitato alcun potere di fatto inconciliabile con l’altrui compossesso, giacché, nel ventennio, anche gli altri possessori hanno, seppure saltuariamente ed episodicamente, utilizzato l’immobile liberamente e senza essere in alcun modo ostacolati.
In questo contesto, non ha valore decisivo la circostanza che l’attore si sia occupato della ristrutturazione dell’immobile in cui egli viveva, provvedendo al pagamento dei relativi lavori, giacché allorché un coerede utilizzi ed amministri un bene ereditario provvedendo, tra l’altro, ad eseguirvi lavori od opere, sussiste la presunzione iuris tantum che egli agisca in tale qualità e che anticipi le spese anche relativamente alla quota degli altri coeredi: il coerede che invochi l’usucapione ha l’onere di provare che il rapporto materiale con il bene si è verificato in modo da escludere gli altri coeredi dalla possibilità di instaurare un analogo rapporto con il bene ereditario (Cass., Sez. II, 12 aprile 2002, n. 5226).

Mentre in tema di comunione (condominio), con ultimo intervento la Cassazione,

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 9 giugno 2015, n.11903

ha affermato che, non essendo ipotizzabile un mutamento della detenzione in possesso, né una interversione del possesso nei rapporti tra i comproprietari (invero, alla regola della interversio possessionis, intesa in senso propriamente tecnico, è posta una deroga dall’art. 1102 c.c. nell’ipotesi di compossesso, dato che il compossessore se intende estendere il suo possesso esclusivo sul bene comune, non ha alcuna necessità di fare opposizione al diritto dei condomini, cosi come invece previsto nel caso di vera e propria interversio possessionis, ma è sufficiente solo che compia atti idonei a mutare il titolo del suo possesso), ai fini della decorrenza del termine per l’usucapione è idoneo soltanto un atto (o un comportamento) il cui compimento da parte di uno dei comproprietari realizzi, per un verso, l’impossibilità assoluta per gli altri partecipanti di proseguire un rapporto materiale con il bene e, per altro verso, denoti inequivocamente l’intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva, per cui ove possa sussistere un ragionevole dubbio sul significato dell’atto materiale, il termine per l’usucapione non può cominciare a decorrere, ove agli altri partecipanti non sia stata comunicata, anche con modalità non formali, la volontà di possedere in via esclusiva.

6)        Questioni processuali

  • Onere della prova

Chi agisce in giudizio per essere dichiarato proprietario deve provare sia il corpus possessionis sia l’animus possidenti

Tale situazione di possesso, come relazione di fatto con la cosa, deve essere dimostrata da chi la invochi a un qualunque effetto, ai sensi dell’art. 2697 c.c.[236]

Per la configurabilità del possesso ad usucapionem è necessaria la sussistenza di un comportamento pacifico e non interrotto, inteso inequivocabilmente a esercitare sulla cosa, per tutto il tempo previsto dalla legge, un potere corrispondente a quello del proprietario o del titolare di uno ius in re aliena, cioè un potere di fatto corrispondente al diritto reale posseduto, manifestato con il compimento puntuale di atti di possesso conformi alla qualità e alla destinazione della cosa e tali da rilevare, anche esternamente, una indiscussa e piena signoria sulla cosa stessa contrapposta all’inerzia del titolare del diritto.

A tale proposito occorre rilevare che chi agisce in giudizio per essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e, quindi, non solo del corpus possessionis, ma anche dell’animus possidendi [237].

La prova può essere data da:

1)    Testimonianze; la prova degli estremi integratori di un possesso ad usucapionem, vertendo su una situazione di fatto, non incontra alcuna limitazione nelle norme concernenti gli atti soggetti a forma scritta, ad substantiam o ad probationem, e, pertanto, può essere fornita per testimoni[238]

2)    Presunzioni e fatti notori; la prova del possesso richiesto ai fini dell’usucapione può essere desunta anche in base a presunzioni ed a fatti notori, ancorché la notorietà sia limitata ad un ristretto ambito territoriale[239]. Inoltre, ai fini della prova dell’intervenuta usucapione, la coltivazione di un terreno, in modo pubblico, pacifico, continuo ed ininterrotto per i venti anni richiesti dall’art. 1158 c.c. ben può configurare lo jus possessionis mentre la sussistenza dell’animus possidendi è desumibile in via presuntiva ed implicita dall’esercizio dell’attività materiale corrispondente al diritto di proprietà[240].

La prova del possesso idoneo alla usucapione, per quanto concerne sia il corpus che l’elemento subiettivo dell’animus, deve essere fornita dalla parte che chiede il riconoscimento in suo favore della realizzazione della dedotta fattispecie acquisitiva[241].

In particolare, per quanto concerne il primo requisito, è necessaria la sussistenza di un comportamento possessorio pacifico (cioè acquisito senza violenza che, quale elemento escludente l’esistenza di un possesso utile ai fini dell’usucapione, deve verificarsi al momento dell’acquisto del possesso, per cui la sopravvenienza di tale elemento non incide sull’inizio del termine per usucapire[242] e continuo, inteso inequivocabilmente a esercitare sulla cosa, per tutto il tempo previsto dalla legge, un potere corrispondente a quello del proprietario o del titolare di uno ius in re aliena, manifestato con il compimento puntuale di atti di possesso conformi alla qualità e alla destinazione della cosa e tali da rilevare, anche esternamente, una indiscussa e piena signoria sulla cosa stessa contrapposta all’inerzia del titolare del diritto[243].

In ogni caso, il giudizio in ordine all’esistenza e al contenuto del potere di fatto ai fini dell’acquisto per usucapione del corrispondente diritto per essere adeguato, e come tale incensurabile in Cassazione, deve fondarsi sui reali rapporti con la cosa per la cui identificazione e definizione occorre necessariamente considerare anche il contrastante potere di fatto che altri deduca di aver esercitato e che può emergere anche dalla significativa presenza di idonei elementi oggettivi[244] .

Ad escludere l’esistenza dell’animus possidendi agli effetti dello acquisto per usucapione non è sufficiente la mera indicazione di una fonte documentale remota che consenta di dedurre una tolleranza iniziale del proprietario, ma occorre la prova di fatti e circostanze tali che dimostrino il persistere della situazione di dipendenza del possessore dal titolare di un diritto reale[245].

Ad esempio:

per una recente sentenza della Cassazione[246], la circostanza che la soffitta fosse chiusa e che solo la proprietari  ne detenesse le chiavi non vale a dimostrare che essa utilizzasse in via esclusiva anche il locale adiacente; evidenziando che nessuna prova è stata fornita dall’attrice circa l’uso esclusivo, pacifico, pubblico ed incontrastato, da parte sua, del locale de quo, né, tanto meno, della durata ultraventennale del preteso possesso.

La coltivazione in via esclusiva di un fondo con la messa a dimora di piante configura una attività che non è di per sé sufficiente all’accoglimento della domanda di accertamento dell’avvenuta usucapione dello stesso, allorché non sia accompagnata da comportamenti apertamente e oggettivamente contrastanti e incompatibili con il possesso altrui, tali da rivelare in modo certo e inequivocabile l’intenzione di comportarsi come proprietario esclusivo[247].

La concessione edilizia consente di esercitare il diritto di costruire nei confronti della P.A., ma nei rapporti tra privati non è idonea a far presumere la proprietà del suolo su cui costruire a favore di colui al quale è rilasciata, né può comprimere i diritti dei terzi; né d’altro canto, ai fini dell’invocata usucapione, la data di rilascio di detta concessione è idonea prova dell’inizio dei lavori e della loro ultimazione prima del termine di decadenza di essa, potendo dipendere da un omesso accertamento della P. A. sull’attività materiale autorizzata[248].

Come anche la certificazione catastale rilasciata dall’autorità amministrativa non è idoenea a far presumere il potere di fatto ai fini dell’usucapione.

Difatti per ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 5 dicembre 2013, n. 27296

l’intestazione catastale di un immobile, compiuta dall’autorità amministrativa nell’ambito di accertamenti di carattere fiscale per individuare il titolare della proprietà, non comporta la dimostrazione che l’intestatario, o gli intestatari, abbiano effettivamente esercitato su di esso quel potere di fatto che, unitamente all’indispensabile elemento intenzionale, è idoneo a produrre l’acquisto della proprietà per il decorso del tempo ed il concorso di tutte le altre condizioni a tal fine richieste dalla legge.

Ancora, a titolo di esempio, secondo ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione sesta (seconda) civile, Ordinanza|5 marzo 2020| n. 6123.

ai fini della prova degli elementi costitutivi dell’usucapione – il cui onere grava su chi invoca la fattispecie acquisitiva – la coltivazione del fondo non è sufficiente, perché non esprime in modo inequivocabile l’intento del coltivatore di possedere, occorrendo, invece, che tale attività materiale, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, sia accompagnata da univoci indizi, i quali consentano di presumere che essa è svolta “uti dominus”; costituisce, pertanto, accertamento di fatto, rimesso al giudice del merito, valutare, caso per caso, l’intero complesso dei poteri esercitati su un bene, non limitandosi a considerare l’attività di chi si pretende possessore, ma considerando anche il modo in cui tale attività si correla con il comportamento concretamente esercitato del proprietario.

  • Legittimati attivi

La Pubblica Amministrazione può usucapire il bene privato del quale per oltre un ventennio, nella erronea convinzione che fosse demaniale, abbia disposto la concessione in uso a terzi, atteso che, mentre l’errata supposizione di demanialità del bene non incide sulla volontà di gestirlo uti domina, risolvendosi in un errore sul regime giuridico del bene irrilevante ai fini dell’usucapione, la concessione in uso a terzi e l’esazione del relativo canone, costituisce uno dei modi di disposizione del bene e quindi di possesso dello stesso da parte dalla P.A.[249].

La limitata capacità delle associazioni non riconosciute di essere titolari di un patrimonio, entro l’ambito in cui è positivamente prevista dalla legge e, quindi, in base all’art. 37 c.c., con esclusivo riferimento ai contributi degli associati ed ai beni acquistati con tali contributi (ma senza l’obbligo dell’autorizzazione governativa), riguarda solo gli acquisti a titolo derivativo, e non esclude la possibilità di acquisti a titolo originario, come l’usucapione, in relazione alla quale, in particolare, non può essere disconosciuta l’efficacia, propria del possesso, ove questo con le modalità previste dall’art. 1158 c.c., venga esercitato su di un bene dagli associati non uti singuli bensì come appartenenti all’associazione e con la volontà di riferire a questa gli atti di possesso compiuti[250].

Il partecipante alla comunione[251] può usucapire l’altrui quota indivisa del bene comune senza necessità di interversio possessionis, ma attraverso l’estensione del possesso medesimo in termini di esclusività. A tal fine si richiede, tuttavia, che tale mutamento del titolo (art. 1102, secondo comma, c.c.) si concreti in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed animo domini della cosa incompatibili con il permanere del compossesso altrui sulla stessa e non soltanto in atti di gestione della cosa comune consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri (art. 1141 c.c.) o ancora atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dar luogo a una estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore[252].

Gli acquisti di beni immobili per usucapione effettuati da uno solo dei coniugi, durante il matrimonio, in vigenza del regime patrimoniale della comunione legale, entrano a far parte della comunione stessa, non distinguendo l’art. 177, primo comma, lettera a) del c.c. tra gli acquisti a titolo originario e quelli a titolo derivativo[253].

Ne consegue che il momento determinate l’acquisto del diritto ad usucapionem da parte dell’altro coniuge, attesa la natura meramente dichiarativa della domanda giudiziale, s’identifica con la maturazione del termine legale d’ininterrotto possesso richiesto dalla legge.

Mentre, come da ultima pronuncia di merito, una volta cessato il rapporto di convivenza more uxorio, il convivente che abita nella casa che costituisce residenza familiare, della quale non sia proprietario, deve essere considerato come un detentore qualificato del bene. Questa posizione gli consente di rimanere all’interno dell’abitazione per un certo periodo di tempo, necessario per trovare un’altra sistemazione e, dunque, di non essere estromesso repentinamente, ma non è sufficiente per l’usucapione del diritto di abitazione nella casa. Lo ha ribadito il Tribunale di Roma con la sentenza 8911/2016.

Infine, il proprietario del fondo ceduto in locazione ad un terzo estende il suo possesso anche alla superficie che via via si aggiunge al (suo) fondo per effetto di alluvione, con la conseguenza che il conduttore, il quale estende alla superficie che progressivamente si aggiunge per effetto dell’alluvione solo il possesso materiale di cui gode per effetto del rapporto di locazione, non può iniziare a possedere, animo domini, tale superficie senza un atto che manifesti inequivocamente al possessore il mutamento dell’animus (interversione del possesso) neppure se, nonostante l’incremento, sia rimasto invariato il canone locativo, dato che tale situazione di fatto non può in alcun modo tradursi in un atto di opposizione del detentore contro il possessore — Cass. del 4-3-96, n. 1658

  • Legittimati passivi

 

La legittimazione passiva ad causam, rispetto alla domanda diretta all’accertamento dell’acquisto per usucapione della proprietà di un bene, va riconosciuta a chi contesti detta proprietà, vantando un diritto proprio, mentre ogni questione sul fondamento della relativa pretesa attiene al merito, non a quella legittimazione[254].

La domanda diretta a far accertare l’avvenuta usucapione di un bene richiede la presenza in causa di tutti i comproprietari in danno dei quali l’usucapione si sarebbe verificata, poichè, in tale ipotesi, risulta dedotta una situazione giuridica (usucapione e proprietà esclusiva) confliggente con quella preesistente (comproprietà), della quale il giudice non può conoscere se non in contraddittorio di tutti gli interessati[255].

Principio ripreso da ultima pronuncia della S.C.

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 8 aprile 2013 n. 8497

secondo la quale la domanda diretta all’accertamento dell’usucapione di un bene richiede la presenza in causa di tutti i comproprietari in danno dei quali l’usucapione si sarebbe verificata, perché comporta l’accertamento di una situazione giuridica (usucapione e proprietà esclusiva) confliggente con quella preesistente (comproprietà degli altri) della quale il giudice può solo conoscere in contradditorio di tutti gli interessati (Cass. nn. 5559/94 e 1085/76). Diversamente, la pronuncia resa a contraddittorio non integro nell’ambito di una controversia che importi l’accertamento di una situazione giuridica unica, è da ritenersi inutiliter data, non potendo spiegare effetti nei confronti delle sole parti presenti (Cass. S.U. n. 443/70)

Sempre, in tema di comunione, anche in mancanza di un atto formale di interversione del possesso, può essere usucapita la quota di un comproprietario da parte degli altri, sempre che l’esercizio della signoria di fatto sull’intera proprietà comune non sia dovuto alla mera astensione del titolare della quota ma risulti inconciliabile con la possibilità di godimento di quest’ultimo ed evidenzi, al contrario, in modo del tutto univoco, la volontà di possedere uti dominus e non uti con dominus [256]. (Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto acquistata per usucapione la proprietà di una quota di un edificio in comunione, ricostruito a seguito di perimento totale, da parte dei soli comproprietari che, fin dalla edificazione della nuova costruzione, avevano occupato interamente i tre piani del palazzo, nel totale disinteresse dell’altro comunista).

È proponibile la domanda di acquisto della proprietà immobiliare per usucapione nei confronti della curatela fallimentare[257], atteso il carattere di acquisto a titolo originario che, con essa, si intende far verificare, ed a ciò non risultando di ostacolo gli artt. 42 e 45 della legge fallimentare. La prima delle due disposizioni, infatti, limitandosi a porre il vincolo di indisponibilità sui beni del fallito — con equiparazione del fallimento al pignoramento — non può essere riferita a «fatti» acquisitivi di diritti reali tipici (che si assumono) già compiuti e produttivi di effetti in capo al fallito. La seconda, a sua volta, avendo riguardo espressamente in applicazione della stessa regola posta, per l’esecuzione individuale, dall’art. 2914 c.c. — alle condizioni di opponibilità, al fallimento, di «atti», si rivela del tutto estranea all’ipotesi in esame, non essendo configurabile, a carico di chi agisca per conseguire l’accertamento dell’usucapione, alcun onere di pubblicità, posto che l’art. 2651 c.c. si limita a disporre al riguardo una forma di «trascrizione» (della sentenza e non anche della domanda) la quale è priva di effetti sostanziali e limitata a rendere più efficiente il sistema pubblicitario.

Nel caso di beni vacanti o di eredità giacenti è possibile l’usucapione in danno dello Stato.

Per quanto riguarda i beni vacanti l’art. 827 c.c. stabilisce che i beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato.

Lo Stato acquista la proprietà degli immobili vacanti per il fatto che siano tali e non tramite occupazione.

Lo Stato, ai sensi dell’art. 586 c.c., in mancanza di successibili, acquisisce di diritto, e senza bisogno di accettazione, a titolo di eredità i beni oggetto di successione.

Lo Stato, dunque, assume la veste di vero e proprio successore legittimo. Le eredità sono devolute da ultimo allo Stato, perché questi adempia ad un dovere di interesse generale, impedendo che i beni restino in stato di abbandono o che siano oggetto di occupazione da parte di chi non vanti su di esso alcun diritto.

Il bene entra, dunque, a far parte del patrimonio disponibile dello Stato e, in quanto tale, assoggettati alle comuni regole di diritto privato. Essi, pertanto, potranno essere oggetto di usucapione da parte dei privati.
In tema al comma 260 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2007 (legge finanziaria) è stato previsto che: allo scopo di devolvere allo Stato i beni vacanti o derivanti da eredita’ giacenti, il Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’interno ed il Ministro dell’economia e delle finanze, determina, con decreto da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, i criteri per l’acquisizione dei dati e delle informazioni rilevanti per individuare i beni giacenti o vacanti nel territorio dello Stato.
Al possesso esercitato sugli immobili vacanti o derivanti da eredita’ giacenti si applica la disposizione dell’articolo 1163 del codice civile sino a quando il terzo esercente attivita’ corrispondente al diritto di proprieta’ o ad altro diritto reale non notifichi all’Agenzia del demanio di essere in possesso del bene vacante o derivante da eredita’ giacenti.
Nella comunicazione inoltrata all’Agenzia del demanio gli immobili sui quali e’ esercitato il possesso corrispondente al diritto di proprieta’ o ad altro diritto reale devono essere identificati descrivendone la consistenza mediante la indicazione dei dati catastali.
Tale “novita”, ovvero di ritenere tale possesso in assenza di comunicazione come violento o clandestino, è stata superata, per i possessi anteriori all’entrata in vigore della legge, da una pronucnia della S.C. (Cassazione, Sez. II, 26 gennaio 2010, n. 1549) secondo la quale: in tema di usucapione di beni immobili, nel caso di acquisto di beni pervenuti, allo Stato, ex art. 586 cod. civ., a titolo di eredità, ai sensi dell’art. 1163 cod. civ., nel testo anteriore alla modifica di cui al comma 260 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2007, la mancata conoscenza da parte dell’Amministrazione dell’intervenuto acquisto non impedisce il decorso del termine utile per l’usucapione del diritto da parte del terzo, dovendo escludersi in tal caso la natura clandestina del possesso continuato per venti anni esercitato pubblicamente e pacificamente.
Si legge nella sentenza citata che il Giudice di prime cure, nel ritenere maturato l’acquisto per usucapione del bene oggetto di eredità pervenuta allo Stato ai sensi dell’art. 586 cod. civ., ha correttamente escluso che il possesso esercitato dall’attore in modo pubblico e visibile fosse da considerarsi clandestino, non assumendo al riguardo rilievo le ragioni dell’inerzia del proprietario. Ed invero, i ricorrenti non potevano sostenere l’inidoneità del possesso ad usucapionem, allegando l’impossibilità oggettiva per lo Stato di venire a conoscenza dell’intervenuto acquisto della proprietà del bene oggetto del possesso esercitato da terzi.In primo luogo, deve escludersi che il possessore avesse alcun onere di comunicazione del suo possesso, non trovando applicazione alla specie ratione temporis la disposizione di cui al comma 260 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2007.Innanzitutto la norma non ha carattere retroattivo, non potendo ritenersi meramente interpretativa delle disposizioni di cui all’art. 1163 cod. civ., in quanto ha introdotto nell’ordinamento una nuova disciplina del possesso utile ad usucapionem relativamente ai beni vacanti e alle eredità giacenti di cui lo Stato sia divenuto titolare ex art. 586 cod. civ. allo scopo di consentirgli l’effettivo esercizio dei diritti successori ed impedirne l’estinzione a favore di terzi possessori.

Infatti, la norma non solo ha imposto a carico di colui che esercita il possesso su beni vacanti o derivanti da eredità giacenti l’onere (prima non sussistente) di darne comunicazione all’Agenzia ma, nel subordinare all’effettuazione di tale adempimento il decorso del termine necessario per l’usucapione, ha previsto una nuova ipotesi di vizio del possesso acquistato sui beni in questione, estendendo la previsione di cui all’art. 1163 cod. civ. – secondo cui il possesso acquistato in modo violento o clandestino non giova per l’usucapione se non dal momento in cui sono cessati la violenza o la clandestinità – quando non sia stato effettuato il suddetto adempimento. Pertanto, la stessa ratio ispiratrice dell’intervento del legislatore, volto ad evitare la perdita di diritti acquistati ai sensi dell’art. 586 citato su beni di cui l’Amministrazione neppure sia a conoscenza di avere acquistato, non fa altro che confermare che, in coerenza con i principi che regolano l’istituto dell’usucapione, ai sensi dell’art. 1163 cod. civ. nel testo anteriore alla citata modifica legislativa, le ragioni dell’inerzia dello Stato o la mancata comunicazione dell’altrui possesso ovvero la mancata conoscenza dell’intervenuto acquisto del bene erano circostanze che non potevano assumere alcun rilievo ai fini di impedire il decorso dell’usucapione e tanto meno potevano configurare una situazione di possesso clandestino, atteso che l’acquisto ex art. 1158 cod. civ. postula, da un lato, l’obiettiva inerzia da parte del proprietario o del titolare di un diritto reale e, dall’altro, l’acquisto e l’esercizio del possesso da parte del terzo in modo pubblico e pacifico. Ed invero, l’inerzia dell’Amministrazione non può ritenersi conseguenza di una situazione di oggettiva impossibilità per lo Stato di conoscere l’intervenuto acquisto della proprietà del bene oggetto del possesso esercitato da terzi posto che – indipendentemente da quanto è stato poi pure previsto con la citata legge del 2007 proprio per sopperire a disfunzioni legate alla mancata adozione di idonee misure – lo Stato avrebbe potuto compiere quelle attività, di carattere amministrativo ed organizzativo, dirette all’acquisizione dei dati e delle informazioni rilevanti per individuare i beni giacenti o vacanti nel territorio dello Stato. In particolare, va considerato che proprio il mancato versamento delle imposte relative all’immobile de quo, protrattosi per un periodo evidentemente considerevole, al quale ha fatto cenno il ricorrente, avrebbe dovuto comportare le necessarie verifiche in ordine all’omesso pagamento da parte del soggetto che risultava l’intestatario catastale dell’immobile: il che avrebbe consentito quindi di appurare la situazione di diritto e di fatto del bene medesimo.

  • Litisconsorzio

In tema di giudizio diretto all’accertamento dell’usucapione, la fattispecie del litisconsorzio necessario ricorre esclusivamente nel caso in cui la pluralità soggettiva sia rinvenibile dal lato passivo del rapporto, cioè tra coloro in danno dei quali la domanda è diretta, non anche nell’ipotesi in cui essa si riscontri dal lato attivo, atteso che, in tale evenienza, l’azione proposta è diretta a costituire una situazione compatibile con la pretesa che i soggetti non citati in giudizio potranno eventualmente vantare in futuro[258].

Poiché la domanda diretta ad accertare l’avvenuta usucapione di un bene comune richiede la presenza in causa di tutti i comproprietari in danno dei quali l’usucapione si sarebbe verificata, nel caso di tempestiva impugnazione della relativa sentenza di accoglimento proposta da uno solo di essi il giudice di appello deve disporre l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c. nei confronti degli altri comproprietari non appellanti che citati in integrazione sono abilitati anche a proporre impugnazione incidentale tardiva ai sensi dell’art. 334 c.p.c., restando, anche in caso di contumacia, parti nel giudizio di appello ritualmente instaurato dal loro litisconsorte, senza che possa ritenersi passata in giudicato nei loro confronti la sentenza di primo grado[259].

Principio ripreso da ultima pronunica della S.C.

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 8 aprile 2013 n. 8497

secondo la quale la domanda diretta all’accertamento dell’usucapione di un bene richiede la presenza in causa di tutti i comproprietari in danno dei quali l’usucapione si sarebbe verificata, perché comporta l’accertamento di una situazione giuridica (usucapione e proprietà esclusiva) confliggente con quella preesistente (comproprietà degli altri) della quale il giudice può solo conoscere in contradditorio di tutti gli interessati (Cass. nn. 5559/94 e 1085/76). Diversamente, la pronuncia resa a contraddittorio non integro nell’ambito di una controversia che importi l’accertamento di una situazione giuridica unica, è da ritenersi inutiliter data, non potendo spiegare effetti nei confronti delle sole parti presenti (Cass. S.U. n. 443/70)

Da ultimo, per la S.C.[260] non ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario, il caso in cui il giudice d’appello, nel respingere la domanda di usucapione avanzata dall’attore, riconosca che la titolarità del bene (nella specie, un locale posto in un edificio condominiale), in ordine al cui acquisto a titolo di usucapione appunto si controverta, appartenga ad un soggetto (il condominio) diverso da quello (il costruttore dell’intero edificio) evocato in giudizio dall’attore.

Sussiste il litisconsorzio necessario del coniuge in regime di comunione legale dei beni nel caso in cui venga contestato da un terzo l’acquisto per usucapione di una porzione immobiliare da parte dell’altro coniuge, perfezionatasi dopo l’entrata in vigore del nuovo regime giuridico del diritto di famiglia, rilevando ai fini dell’applicabilità del regime della comunione legale soltanto la data di acquisto della proprietà per usucapione e non la precedente perdita del possesso da parte del precedente proprietario[261].

 

  • Eccezioni

Quando il convenuto opponga alla domanda diretta a far valere il diritto di proprietà su un bene determinato l’usucapione del bene stesso possono configurarsi una domanda riconvenzionale o un’eccezione. Ricorre la prima ipotesi quando il convenuto chieda l’accertamento del suo diritto di proprietà, al momento della decisione, sul bene in controversia; si è, invece, in presenza di un’eccezione se il convenuto si limiti ad opporre che, per effetto dell’usucapione, l’attore ha cessato di essere e quindi non è più attualmente titolare del diritto di proprietà di cui si discute[262].

Inoltre, è stato chiarito da un recente intervento della Corte di Piazza Cavour

Corte di Cassazione, sezione sesta (seconda) civile, Ordinanza|4 marzo 2020| n. 6009.

che il giudice di merito, anche quando ritenga che la domanda di usucapione formulata dal convenuto in via riconvenzionale sia per qualsiasi motivo inammissibile , non può esimersi dall’esaminare il relativo tema “sub specie” di eccezione, essendo a tale riguardo sufficiente che quest’ultima sia stata sollevata nei termini previsti dal codice di procedura.

L’eccezione di usucapione, in quanto tenda non alla costituzione del diritto, ma al mero accertamento dello stesso come strumento per paralizzare l’avversa pretesa, è validamente proponibile in grado di appello[263].

Le eccezioni nuove, seppure ammissibili in appello, concretando motivi d’impugnazione, possono essere specificamente formulate dall’appellante soltanto nell’atto di appello, il quale delimita l’ampiezza del dibattito nel giudizio di secondo grado[264].

La proposizione da parte dell’appellante di nuove eccezioni in senso proprio nel giudizio di secondo grado (nella specie, eccezione di usucapione) costituisce esercizio del diritto di impugnazione e si deve attuare attraverso la formulazione dei motivi di gravame. Essa, pertanto, incontra un limite invalicabile nella norma dell’art. 342 c.p.c., nel senso che, diversamente dall’appellato, l’appellante può dedurre le nuove eccezioni soltanto nell’atto di appello e non anche nell’ulteriore corso del giudizio di gravame[265].

Per concludere questo esame sugli elementi necessari ad usucapire, precisiamo che il possesso, così caratterizzato, deve protrarsi per un certo periodo, stabilito per legge. Il legislatore ha previsto una durata minima ventennale per l’usucapione immobiliare ordinaria ex art.1158 c.c., che può ridursi in dieci anni nell’usucapione abbreviata, ex art.1159 c.c., e una durata di quindici anni (o cinque se c’è la buona fede) nell’usucapione speciale per la piccola proprietà rurale ex art. 1159 bis c.c..

 

B)  Oggetto dell’usucapione

 

Sono suscettibili di usucapione soltanto i diritti reali e non anche quelli personali[266].

art. 1159-bis c.c.   usucapione speciale per la piccola proprietà rurale: la proprietà dei fondi rustici con annessi fabbricati situati in comuni classificati montani dalla legge si acquista in virtù del possesso continuato per quindici anni.

Colui che acquista in buona fede da chi non è proprietario, in forza di un titolo che sia idoneo a trasferire la proprietà e che sia debitamente trascritto, un fondo rustico con annessi fabbricati, situati in comuni classificati montani dalla legge, ne compie l’usucapione in suo favore col decorso di cinque anni dalla data di trascrizione.

La legge speciale stabilisce la procedura, le modalità e le agevolazioni per la regolarizzazione del titolo di proprietà.

Le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano anche ai fondi rustici con annessi fabbricati, situati in comuni non classificati montani dalla legge, aventi un reddito non superiore ai limiti fissati dalla legge speciale.

 

 

art. 1160 c.c.   usucapione delle universalità di mobili: l’usucapione di un’universalità di mobili (c.c.816) o di diritti reali di godimento sopra la medesima si compie in virtù del possesso continuato per venti anni.

Nel caso di acquisto in buona fede (c.c.1147) da chi non e proprietario, in forza di titolo idoneo, l’usucapione si compie con il decorso di dieci anni.

 

 

art. 1161 c.c.   usucapione dei beni mobili: in mancanza di titolo idoneo (c.c.922), la proprietà dei beni mobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per dieci anni, qualora il possesso sia stato acquistato in buona fede.

Se il possessore è di mala fede, l’usucapione si compie con il decorso di venti anni.

 

 

art. 1162 c.c.   usucapione di beni mobili iscritti in pubblici registri: colui che acquista in buona fede da chi non è proprietario un bene mobile iscritto in pubblici registri (c.c.815, 2683; Cod. Nav. 146 e seguenti, 753 e seguenti), in forza di un titolo che sia idoneo a trasferire la proprietà (c.c.1321) e che sia stato debitamente trascritto, ne compie in suo favore l’usucapione col decorso di tre anni dalla data della trascrizione.

Se non concorrono le condizioni previste dal comma precedente, l’usucapione si compie col decorso di dieci anni.

Le stesse disposizioni si applicano nel caso di acquisto degli altri diritti reali di godimento (c.c.981, 1021).

In merito ai beni demaniali, vedi par.fo 5, lettera B  – cose di cui non si può acquistare la proprietà – pag. 32 ed ai beni immateriali Vedi par.fo 5, lettera F – beni immateriali – pag. 36

 

  • Diritto di proprietà

 

Il possesso utile per l’usucapione ordinaria della proprietà, consta di un elemento materiale, costituito dall’esercizio, riguardo al bene, dei poteri attribuiti da tale diritto, e di un elemento psicologico, costituito dalla volontà del possessore di comportarsi come proprietario del bene medesimo, la cui sussistenza non è esclusa dalla consapevolezza che egli sappia di non essere proprietario del bene, giacché l’ignoranza di ledere l’altrui diritto è richiesta solo per la configurabilità del possesso di buona fede (art. 1147 c.c.), che, in sede di restituzione, attribuisce particolari benefici rispetto al comune possesso, ma non è richiesto dall’art. 1158 c.c. ai fini dell’usucapione[267].

 In tema di beni immobili, la realizzazione, da parte del possessore di un fondo, di una stabile costruzione sullo stesso, è indicativa dell’animus rem sibi habendi, incompatibile con l’intenzione di esercitare un potere di fatto sul bene corrispondente al contenuto di un diritto diverso da quello di proprietà, quale l’usufrutto, limitato allo ius utendi fruendi, salva rerum substantia[268].

Quota pro indivisa

Per ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 13 novembre 2014, n. 24214

è ammissibile l’usucapione della proprietà soltanto di una quota di un bene indiviso, lasciando impregiudicata la quota di altro comproprietario, non elimina infatti la necessità che una tale pretesa venga esplicitata mediante la formulazione di un’apposita e specifica domanda in giudizio.

Né in contrario, si legge in sentenza in commento, può argomentarsi che tale richiesta sia compresa nella domanda di usucapione di tutte le altre quote, comportando una mera riduzione del petitum originario, una volta considerato che essa comporta anche una modifica del fatto costitutivo, che da una situazione di possesso esclusivo viene trasformato in quella di compossesso. A ciò si aggiunga che il ricorso nemmeno precisa quale sarebbe la quota o le quote degli altri comproprietari nei cui confronti dovrebbe essere dichiarata l’usucapione, sicché la domanda appare indeterminata anche con riguardo al petitum immediato (Cass., Sez. II, 6 dicembre 2011, n. 26241).

 

  • Diritto di servitù

[269]

 

Ad integrare il possesso ad usucapionem di una servitù prediale è necessario che, con l’esercizio continuo ed ininterrotto di una attività a vantaggio di un fondo e a carico di un altro, si accompagni anche l’intento di comportarsi e farsi considerare come titolare di quel diritto reale a cui corrisponde la concreta attuazione del potere di fatto[270].

Il requisito dell’apparenza

Per usucapire una servitù apparente discontinua[271] non basta la sola opera visibile e permanente, se non v’è il concreto svolgimento di un’attività corrispondente al contenuto del diritto reale per tutto il periodo idoneo alla usucapione. Pur non occorrendo a tal fine la continuità materiale dell’uso, poiché il possesso può essere mantenuto anche «solo animo», tuttavia tal modo di conservazione del possesso è condizionato alla reale possibilità del soggetto di ripristinare ad libitum il corpus, mentre se viene meno la possibilità di disporre materialmente della cosa escludendo gli altri tutte le volte che si voglia, il solo elemento soggettivo (animus possidendi) non è più sufficiente alla conservazione del possesso, che si perde nello stesso momento in cui cessa tale possibilità.

Il requisito dell’apparenza della servitù richiesto ai fini dell’acquisto di essa per usucapione o per destinazione del padre di famiglia (art. 1061 c.c.) si configura come presenza di segni visibili di opere di natura permanente, obiettivamente destinate al suo esercizio e che rivelino in maniera non equivoca l’esistenza del peso gravante sul fondo servente, dovendo le opere naturali o artificiali rendere manifesto che non si tratta di attività compiuta in via precaria e senza l’animus utendi iure servitutis, ma di un onere preciso a carattere stabile, corrispondente in via di fatto al contenuto di una determinata servitù. Ne consegue che, ove si tratti di un andito o di un portone siti nel fabbricato del vicino, per definire apparente la servitù di passaggio non basta l’esistenza dell’opera, che può essere anche utilizzata per il passaggio soltanto dal proprietario, ma è necessario che tali opere risultino specificamente destinate all’esercizio della servitù[272].

Il requisito dell’apparenza necessario ai sensi dell’art. 1061 c.c. per l’acquisto della servitù per usucapione o per destinazione del padre di famiglia non può consistere nell’esercizio visibile dello ius in re aliena senza contestazioni da parte altrui, ma richiede l’esistenza di opere visibili e permanenti tali da rivelare ex se l’esistenza del peso gravante sul fondo servente a favore di quello dominante[273].

La servitù di passaggio

Ai fini dell’usucapione di una servitù di passaggio[274], il possesso da considerare è esclusivamente quello che sia stato posto a base dell’usucapione, non potendo essersi usucapito qualcosa di più o di diverso di ciò che si è posseduto (tantum praescriptum quantum possessum).

L’elemento psicologico del possesso ad usucapionem della servitù di passaggio, consistente nella volontà del possessore di comportarsi come titolare del relativo diritto reale[275], va desunto dalle concrete circostanze nelle quali il possesso si è estrinsecato, quali la abitualità del transito, con inizio nel preteso fondo dominante ed esercizio attraverso il preteso fondo servente, nonché il conseguimento di una obiettiva utilità per il primo a danno del secondo, cioè da una serie di elementi, caratterizzati da precise esplicazioni materiali e così suscettibili di controllo.

Con riferimento ad una servitù di passaggio per la sussistenza del requisito dell’apparenza[276], è necessario non solo che esistano in loco segni visibili concretantisi in opere permanenti, ma anche che tali opere costituiscano il mezzo necessario per l’esercizio della servitù e rivelino, in maniera non equivoca, per la loro struttura e consistenza, l’esistenza dell’onere. Allo stesso fine l’elemento psicologico del possesso consistente nella volontà del possessore di comportarsi come titolare del relativo diritto reale, va desunto, oltre che dalla qualità dei soggetti, dalle concrete circostanze nelle quali il possesso medesimo si sia estrinsecato, quali l’abitualità del transito con inizio dal preteso fondo dominante ed esercizio attraverso il preteso fondo servente nonché il conseguimento di una obbiettiva utilità per il primo a danno del secondo senza che possano giovare atti o comportamenti tollerati o permessi per condiscendenza o per mera cortesia.

Ad esempio, la messa a disposizione da parte del vicino — per un breve periodo e a titolo di cortesia — della chiave di un portone apposto nell’androne del fabbricato di sua proprietà, (anche) dal medesimo utilizzato per il passaggio, non assume valore di non ambiguo opus manu factum con efficacia ricognitiva della sussistenza di una servitù di passaggio (nel caso, pedonale e carraio) e del requisito dell’apparenza del relativo possesso ad usucapionem vantati dal proprietario confinante[277].

La sporadicità del relativo esercizio non denota che questo si verifichi per mera tolleranza, allorquando sia accertato che il passaggio corrisponda ad un interesse che non richiede una frequente utilizzazione del transito[278].

 

Servitù di uso pubblico

 

Perché un’area privata possa ritenersi assoggettata per usucapione alla servitù d’uso pubblico, occorre che l’uso risponda alla necessità o utilità di un insieme di persone agenti come esponenti della collettività e che sia esercitato continuativamente per venti anni con l’intenzione di agire non solo uti cives, ma misconoscendo il diritto del proprietario, tal che l’uso non possa essere attribuito a mera tolleranza di quest’ultimo[279].

L’avvenuto acquisto di una servitù di uso pubblico di passaggio su una parte determinata del fondo non ne comporta l’estensione all’intero fondo, ancorché esso costituisca un corpo unico senza soluzione di continuità, ove non trovi giustificazione nel titolo che, come stato di fatto, si identifica nel possesso (perdurato per il periodo necessario all’acquisto) secondo le modalità ed i limiti dell’oggetto su cui sia stato esercitato.

A tal fine non rileva la funzione di predialità attiva connessa all’utilità di un fondo dominante, in rapporto alla quale possa venire spostato il locus servitutis, atteso che la stessa non sussiste ove il diritto spetti ad una collettività di persone in quanto tale[280].

 

 

Servitù di prospetto

 

Per l’usucapione di una servitù di prospetto è necessario il solo requisito dell’apparenza il quale va riferito alle opere (art. 1061 c.c.) destinate all’esercizio della servitù (nella specie una finestra) mentre non è necessaria la continuità degli atti di utilizzazione delle opere, con la conseguenza che l’eventuale intermittenza di tali atti di godimento non scalfisce la continuità del possesso, la quale persiste fin tanto che permane la possibilità concreta di effettuare l’inspectio e la prospectio[281].

 

Servitù di veduta[282]

 

Al fine di stabilire se l’esercizio di attività corrispondenti a servitù poste in essere dall’usufruttuario possa condurre all’usucapione del relativo diritto a favore del nudo proprietario occorre avere riguardo all’animus dell’usufruttuario e alla sua esteriorizzazione. (Nella specie, due fondi confinanti appartenenti a due distinti nudi proprietari erano goduti in usufrutto da una stessa persona. Cessato l’usufrutto, il proprietario di uno dei due fondi assumeva di avere acquistato per usucapione una servitù di presa d’acqua a carico dell’altro fondo di più ampio contenuto di quella preesistente alla costituzione dell’usufrutto, in virtù dell’esercizio della corrispondente attività esercitata dall’usufruttuario. I giudici del merito, dopo aver ritenuto che l’animus dell’usufruttuario era ambiguo data la promiscuità della sua posizione, avevano ritenuto che per la valutazione dell’animus possidendi dovesse aversi riguardo allo stato soggettivo del nudo proprietario, che non poteva dirsi equivoco. La S.C. accogliendo il ricorso ha enunciato il principio sopra riportato)[283].

 

 

Distanze[284]

 

La deroga alla disciplina delle distanze fra le costruzioni, risolvendosi in una menomazione per l’immobile che alla distanza legale avrebbe diritto, integra una servitù che può costituirsi mediante il possesso ad usucapionem per la durata prevista dalla legge[285].

 

Diritto di enfiteusi

 

La proprietà, naturalmente, può essere acquistata da chiunque con il possesso ad usucapionem protratto per il termine di legge, ma l’enfiteuta, proprio perché il suo possesso corrisponde all’esercizio di un diritto reale su cosa altrui, non può — per il preciso disposto dell’art. 1164 c.c.[286] vigente e dell’art. 2116 del c.c. abrogato — usucapire la proprietà[287] se il titolo del suo possesso non è mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il diritto del proprietario: l’omesso pagamento del canone, per qualsiasi tempo protratto, non giova a mutare il titolo del possesso, neppure nel singolare caso che al pagamento sia stata attribuita dalle parti efficacia ricognitiva.

Il possesso di un fondo a titolo enfiteutico è caratterizzato, da un lato, dall’esercizio con l’animo del titolare, dei diritti spettanti sullo stesso fondo all’enfiteuta e, dall’altro, dal riconoscimento del diritto del concedente, attraverso il pagamento a nome proprio del canone.

Pertanto, l’usucapione dell’enfiteusi richiede un possesso di tale diritto riconoscibile sia da parte dell’utilista spossessato, sia da parte del proprietario e non può verificarsi senza che l’usucapiente assuma, in pari tempo, la posizione di obbligato al pagamento del canone, corrispondendolo apertamente in nome proprio[288].

 

Preliminare – cfr. paragrafo sull’interversione del possesso

 

Nella promessa di vendita, quando viene convenuta la consegna del bene prima della stipula del contratto definitivo, non si verifica un’anticipazione degli effetti traslativi, in quanto la disponibilità conseguita dal promissario acquirente si fonda sull’esistenza di un contratto di comodato funzionalmente collegato al contratto preliminare, produttivo di effetti meramente obbligatori; pertanto la relazione con la cosa, da parte del promissario acquirente, è qualificabile esclusivamente come detenzione qualificata e non come possesso utile ad usucapionem, salvo la dimostrazione di una intervenuta interversio possesionis nei modi previsti dall’art. 1141 c.c.[289]

Sul punto si segnala ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 16 marzo 2016, n. 5211

la quale ha ripreso in pieno l’orientamento maggioritario, secondo il quale nella promessa di vendita, quando viene convenuta la consegna del bene prima della stipula del contratto definitivo, non si verifica un’anticipazione degli effetti traslativi, in quanto la disponibilita’ conseguita dal promissario acquirente si fonda sull’esistenza di un contratto di comodato funzionalmente collegato al contratto preliminare, produttivo di effetti meramente obbligatori. Pertanto, la relazione con la cosa, da parte del promissario acquirente, e’ qualificabile esclusivamente come detenzione qualificata e non come possesso utile ad usucapionem, salvo la dimostrazione di un’intervenuta interversio possessionis nei modi previsti dall’articolo 1141 codice civile (Sez. U, Sentenza n. 7930 del 27/03/2008, Rv. 602815; nello stesso senso: Sez. 2, Sentenza n. 9896 del 26/04/2010, Rv. 612577; Sez. 2, Sentenza n. 1296 del 25/01/2010, Rv. 611222; in senso analogo Sez. 1, Sentenza n. 4863 del 01/03/2010, Rv. 612335, secondo cui, nella promessa di vendita, la consegna del bene e l’anticipato pagamento del prezzo, prima del perfezionamento del contratto definitivo, non sono indice della natura definitiva della compravendita, atteso che e’ sempre il contratto definitivo a produrre l’effetto traslativo reale; conseguentemente, la disponibilita’ del bene conseguita dal promissario acquirente, in quanto esercitata nel proprio interesse, ma alieno nomine, in assenza dell’animus possidendi, ha natura di detenzione qualificata e non di possesso utile ad usucapiottem, salvo la dimostrazione di una sopraggiunta interversio possessionis nei modi previsti dall’articolo 1141 codice civile, comma 2).

Nella specie, la Corte territoriale ha dato per scontato che gli attori fossero possessori degli appartamenti oggetto del giudizio, senza previamente esaminare le scrittura private stipulate inter partes e stabilire se le stesse costituissero contratti di compravendita veri e propri, con conseguente effetto traslativo immediato e acquisto del possesso da parte degli acquirenti, ovvero se fossero meri contratti preliminari di compravendita, con conseguente effetto meramente obbligatorio tra le parti e acquisto della sola detenzione da parte dei promissari acquirenti; detenzione, questa, inidonea ex se a fondare le pronunciate statuizioni di acquisto per usucapione, salva la prova di una sopravvenuta interversione del possesso.

Ditta individuale

Il diritto dell’imprenditore sulla ditta può formare oggetto di acquisto per usucapione nel concorso della duplice condizione che si sia verificata la cessazione del suo uso da parte del titolare originario e che si sia instaurato un uso a titolo di possesso ad usucapionem da parte di altro esercente la ditta, e non anche quando il titolare originario si sia limitato a tollerare l’usurpazione altrui pur continuando nel proprio uso legittimo[290].

Azienda

Sul punto, proprio con ultima pronuncia, le sezioni unite,

Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza 5 marzo 2014, n. 5087

hanno così stabilito: ai fini della disciplina del possesso e dell’usucapione, l’azienda, quale complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, deve essere considerata come un bene distinto dai singoli componenti, suscettibile di essere unitariamente posseduto e, nel concorso degli altri elementi indicati dalla legge, usucapito.

Orbene, si legge nella sentenza in commento che il possesso è dunque configurabile sempre che, rispetto allo stesso bene, sia ipotizzabile la proprietà o un altro diritto reale, al cui esercizio corrisponda l’attività del possessore.

Che l’azienda possa essere oggetto di proprietà o di usufrutto è peraltro espressamente sancito dagli artt. 2556, comma primo e 2561 c.c.. È dunque pienamente giustificata l’affermazione che colui il quale esercita sull’azienda un’attività corrispondente a quella di un proprietario o di un usufruttuario la possiede, e, nel concorso degli altri requisiti di legge, la usucapisce.

Il possesso è qui riferibile esclusivamente al “complesso dei beni” unitariamente considerato, e non già ai singoli beni, che come è noto non appartengono necessariamente al titolare dell’azienda, e seguono le regole di circolazione loro proprie.

In definitiva il complesso di questi disposizioni non consente di dubitare – secondo il sommo collegio –  che, nell’intento del legislatore, l’azienda debba essere considerata unitariamente sia sotto il profilo della proprietà (o dell’usufrutto; e con l’ovvia precisazione, anche in questo caso, che la proprietà del “complesso organizzato” non è proprietà dei singoli beni), e sia sotto quello del possesso.

Il possesso dell’azienda, inoltre, è specificamente ed espressamente considerato nell’art. 670 c.p.c., che ammette il sequestro delle aziende – o di “altre universalità di beni” – quando ne sia controversa (la proprietà o) il possesso.

I beni del patrimonio indisponibile

In ordine a tali beni è opportuno riportare recente sentenza della S.C.

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Sentenza 2 ottobre 2020, n. 21137.

che ha fatto chiarezza (si spera) sul punto, ebbene si legge in sentenza quanto segue:

In argomento, occorre prendere le mosse dal principio per cui “In materia di beni immobili, ai sensi del combinato disposto di cui all’articolo 830 c.c. e articolo 828 c.c., comma 2, i beni del patrimonio indisponibile di un ente pubblico non territoriale possono essere sottratti alla pubblica destinazione soltanto nei modi stabiliti dalla legge, e quindi certamente non per effetto di usucapione da parte di terzi, non essendo usucapibili diritti reali incompatibili con la destinazione del bene dell’ente al soddisfacimento del bisogno primario di una casa di abitazione per cittadini non abbienti” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12608 del 28/08/2002, Rv. 557167).
Detto principio generale e’ stato ribadito da questa Corte in relazione alle ricostruzioni post-terremoto. Sul punto, si e’ infatti affermato che “Con riguardo agli alloggi costruiti con il contributo dello Stato in conseguenza di terremoti per far fronte alle esigenze delle popolazioni colpite dagli eventi sismici, la L. 30 marzo 1965, n. 225, articolo 1, che ne prevede la cessione in proprieta’, non declassifica in maniera automatica, ne’ espressamente, ne’ implicitamente, tali beni, ma si limita a disciplinarne l’assegnazione ai privati, la quale soltanto determina, in una con l’effetto traslativo, la perdita della qualita’ pubblica degli alloggi stessi. Ne consegue che questi ultimi, restando soggetti al regime del patrimonio indisponile fino alla conclusione del procedimento di assegnazione, non sono suscettibili di formare oggetto di usucapione della proprieta’ da parte dei soggetti occupanti”. Pertanto “La declassificazione dei beni appartenenti al patrimonio indisponibile, la cui destinazione all’uso pubblico deriva da una determinazione legislativa, deve avvenire in virtu’ di atto di pari rango, e non puo’, dunque, trarsi da una condotta concludente dell’ente proprietario, postulando la cessazione tacita della patrimonialita’ indisponibile, cosi’ come della demanialita’, che il bene abbia subito un’immutazione irreversibile, tale da non essere piu’ idoneo all’uso della collettivita’, senza che a tal fine sia sufficiente la semplice circostanza obiettiva che detto uso sia stato sospeso per lunghissimo tempo. Ne consegue che, con riguardo agli alloggi costruiti a carico dello Stato per far fronte alle esigenze delle popolazioni colpite da eventi sismici, la cui inclusione nell’ambito del patrimonio indisponibile si ricava dagli articoli da 252 a 255 del Testo Unico delle disposizioni sull’edilizia popolare ed economica, deve escludersi la stessa ipotetica configurabilita’ di una declassificazione tacita per effetto dell’attivita’ concludente posta in essere dall’ente proprietario, nonche’ la possibilita’ che questa abbia anche soltanto innescato la sospensione dell’uso pubblico” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2962 del 27/02/2012, Rv. 621582-01 e Rv. 621582-02).
Identico principio e’ stato applicato anche in materia di riforma fondiaria. In proposito “I terreni acquistati dagli enti di riforma fondiaria, essendo destinati all’attuazione della funzione istituzionale dei medesimi, ossia quella della redistribuzione della proprieta’ terriera ai contadini, come stabilito dalla L. n. 230 del 1950, articolo 1, non possono, in quanto destinati a un pubblico servizio, essere sottratti a tale finalita’ se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano, ai sensi degli articoli 830 c.c., comma 2 e articolo 828 c.c., comma 2; ne consegue l’impossibilita’ giuridica di una loro acquisizione da parte di terzi per usucapione, ancorche’ sia venuto a scadenza il termine ordinatorio previsto della medesima L. n. 230 del 1950, articolo 20, per l’assegnazione delle terre acquisite” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4430 del 24/02/2009 Rv. 607041).
Anche in materia di alloggi ex INA-casa, si e’ ritenuto che “Gli assegnatari di alloggi INA-casa fino alla stipulazione del contratto di compravendita sono titolari di un rapporto di locazione, e, come tali, sono dei detentori e non dei possessori dell’immobile. Pertanto, se intendano trasformare la detenzione in possesso, devono necessariamente compiere dei validi Atti di interversione nei confronti dell’INA-casa” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4079 del 18/06/1986, Rv. 446886).
Dai precedenti appena richiamati consegue l’affermazione del principio per cui allorquando lo Stato, o altro ente pubblico, intervenga nel settore della proprieta’, fondiaria o urbana, per assicurare il soddisfacimento di un interesse pubblico primario, quali l’esigenza di ridistribuzione della proprieta’ agraria (nel caso della L. n. 230 del 1950) ovvero l’assicurazione di una casa di abitazione per i cittadini non abbienti (nel caso dell’assegnazione degli alloggi di edilizia economica e popolare, nelle sue varie forme ed articolazioni) o ancora la ricostruzione post-terremoto (nel caso di cui alla L. n. 225 del 1968) la finalita’ perseguita assume una valenza primaria e prevalente rispetto alla posizione individuale di eventuali soggetti che si pongano in una mera relazione di fatto con la cosa. Pertanto il bene immobile interessato dall’intervento pubblico permane nel patrimonio indisponibile dell’ente, e non e’ quindi usucapibile a vantaggio del privato, sino all’intervenuto completamento dei diversi procedimenti amministrativi finalizzati alla realizzazione dell’interesse pubblico in concreto perseguito. Del resto, ove si accogliesse la soluzione inversa la stessa finalita’ pubblica dell’intervento rischierebbe di essere frustrata, in concreto, da eventuali ritardi nei procedimenti predetti.
Soltanto nei casi in cui l’intervento progettato non abbia avuto seguito, e non si sia quindi realizzato in concreto l’asservimento del bene alla finalita’ pubblica perseguita, puo’ configurarsi una reviviscenza dell’interesse individuale rispetto a quello generale. In tal senso, in una fattispecie in cui un soggetto aveva agito per l’accertamento dell’intervenuta usucapione di un terreno destinato dal piano regolatore generale ad uso pubblico, sul presupposto che al momento dell’inizio del possesso utile all’usucapione fossero trascorsi piu’ di dieci anni senza che del fondo vi fosse stata alcuna concreta utilizzazione, si e’ affermato che “L’appartenenza di un bene al patrimonio indisponibile di un ente territoriale discende non solo dalla esistenza di un atto amministrativo che lo destini ad uso pubblico, ma anche dalla concreta utilizzazione dello stesso a tale fine, la cui mancanza deve essere desunta dalla decorrenza, rispetto all’adozione dell’atto amministrativo, di un periodo di tempo tale da non essere compatibile con l’utilizzazione in concreto del bene a fini di pubblica utilita’” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26402 del 16/12/2009, Rv. 610544).
Allo stesso modo, quando il bene sia ab origine compreso nel patrimonio disponibile dello Stato e sia stato fatto oggetto di utilizzazione uti domini da parte di un privato, che se ne sia impossessato occupandolo per sopperire ad esigenze abitative primarie conseguenti ad eventi bellici (nella fattispecie, si trattava di una occupazione risalente al 1946) ed abbia provveduto alla realizzazione degli impianti di cui il bene era inizialmente privo, rendendolo abitabile, senza alcuna opposizione da parte della P.A. per oltre cinquant’anni, “… il potere di fatto dagli stessi esercitato corrispondente all’esercizio del diritto di proprieta’ (presumendosi l’animus possidendi, indipendentemente dall’effettiva esistenza del relativo diritto o dalla conoscenza del diritto altrui) non puo’ considerarsi viziato per contrasto con la volonta’ della P.A., dal momento che il comportamento accondiscendente della stessa Amministrazione, tenuto durante tutto il lungo periodo trascorso del possesso esercitato, in relazione ad un bene del suo patrimonio disponibile, e’ idoneo a dimostrare, per facta concludentia, la volonta’ di non opporsi all’altrui possesso” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5158 del 10/03/2006, Rv. 587175).
Il punto di equilibrio del sistema e’ quindi rappresentato da un lato dall’individuabilita’ di un interesse pubblico di portata generale, alla cui realizzazione sia finalizzato l’intervento dello Stato o altro ente pubblico nel settore della proprieta’, urbana o fondiaria. Laddove tale interesse sia configurabile, esso tendenzialmente prevale sulla posizione del privato, titolare di un rapporto di fatto con la res compresa nell’intervento stesso. Dall’altro lato, tuttavia, l’interesse della P.A. al bene immobile deve manifestarsi in un tempo congruo, e quindi laddove il progettato intervento non abbia mai avuto inizio, ovvero il bene sia stato de facto abbandonato da tempo immemore dall’ente pubblico, non ha piu’ ragion d’essere la soggezione della posizione individuale rispetto ad un interesse pubblico che, in concreto, non si e’ mai realizzato.

[…]

A quanto precede va aggiunta la doverosa considerazione che, anche nei rapporti tra privati, e’ ormai pacifico il principio per cui “Nella promessa di vendita, quando viene convenuta la consegna del bene prima della stipula del contratto definitivo, non si verifica un’anticipazione degli effetti traslativi, in quanto la disponibilita’ conseguita dal promissario acquirente si fonda sull’esistenza di un contratto di comodato funzionalmente collegato al contratto preliminare, produttivo di effetti meramente obbligatori. Pertanto la relazione con la cosa, da parte del promissario acquirente, e’ qualificabile esclusivamente come detenzione qualificata e non come possesso utile ad usucapionem, salvo la dimostrazione di un’intervenuta interversio possessionis nei modi previsti dall’articolo 1141 c.c.” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 7930 del 27/03/2008, Rv. 602815; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1296 del 25/01/2010, Rv. 611222; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9896 del 26/04/2010, Rv. 612577; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5211 del 16/03/2016, Rv. 639209).

Quindi in ogni ipotesi in cui si configuri un titolo di legittimazione del rapporto di fatto costituito tra un soggetto ed un bene, anche in relazione ad un progettato trasferimento della proprieta’ di un immobile che poi non venga, per qualsiasi ragione, portato a termine, non v’e’ spazio per ipotizzare una situazione di possesso, e quindi non si realizza una fattispecie astrattamente idonea ad usucapionem, a meno che il detentore non compia, alla stregua di quanto previsto dall’articolo 1141 c.c., un atto di interversione idoneo, appunto, a trasformare la sua condizione di mera detenzione in possesso.

C)  Natura e contenuto dell’acquisto

L’acquisto per usucapione si ha titolo originario  considerato che non è subordinato alla posizione del titolare precedente, ma all’esistenza dei requisiti previsti dalla legge, cioè del possesso e del tempo.

Il contenuto dell’acquisto per usucapione si determina con riguardo al contenuto del possesso; pertanto il possesso pieno porta all’acquisto della proprietà, mentre il possesso minore risulta utile per l’acquisto degli altri diritti reali di godimento.

È necessario fare riferimento al contenuto del possesso al fine di risolvere il problema della c.d. usucapio libertatis, cioè il problema se l’acquisto per usucapione liberi il bene dai diritti sulla res.

In giurisprudenza prevale la soluzione negativa, fondata sul rilievo che il codice espressamente prevede l’effetto liberatorio all’art. 1153 secondo comma, c.c. in tema di acquisto di cosa mobile dal non proprietario pertanto, la mancata menzione dell’effetto liberatorio in tema di usucapione starebbe a significare l’esclusione di tale effetto.

art. 1153  2 co  c.c.    effetti dell’acquisto del possesso: ……………………………..

La proprietà si acquista libera da diritti altrui sulla cosa, se questi non risultano dal titolo e vi è la buona fede dell’acquirente.

Nello stesso modo si acquistano diritti di usufrutto, di uso e di pegno (c.c.981, 1021, 2784).

Non sembra essere convincente per un autore[291] l’ipotesi dell’applicazione analogica di questa norma – ossia l’art. 1153 c.c. – agli acquisti per usucapione.

In mancanza di un preciso dato normativo è necessario fare riferimento al principio generale della estinzione dei diritti per incompatibilità; questo principio non legittima, però, l’usucapio liberatis.

In realtà, chi esercita un possesso pieno del bene potrà usucapire la proprietà libera da vincoli – che comporterebbero limitazioni del possesso – mentre se l’usucapione ha subito una limitazione del possesso, a causa della presenza dei diritti reali altrui, tali diritti rimarranno.

  • Effetti retroattivi

Il principio della cosiddetta retroattività reale dell’usucapione — secondo cui si ritiene che l’usucapiente sia stato titolare del diritto di proprietà — sin dal primo momento in cui ha cominciato a possedere la cosa si giustifica con contingenti ragioni di necessità e di opportunità pratica, sicché trova applicazione puntuale nei casi in cui, senza pregiudizio dei terzi (che nell’intervallo abbiano ad esempio acquistato dal proprietario) occorra sanare o rendere certe e definitive, situazioni alle quali abbiano dato luogo gli atti intermedi dell’usucapiente[292].

L’usucapione compiutasi all’esito di possesso ventennale esercitato da un soggetto privo di titolo trascritto estingue le iscrizioni e trascrizioni risultanti a nome del precedente proprietario (tale effetto estintivo riconducendosi non già ad una presunta usucapio libertatis, bensì all’efficacia retroattiva dell’usucapione stessa), con la conseguenza che il notaio rogante nella successiva vendita del bene compiuta dall’usucapiente non è tenuto a verificare l’esistenza di iscrizioni o trascrizioni pregiudizievoli di data anteriore a quella della trascrizione della sentenza di accertamento dell’intervenuta usucapione[293].

 

Infine, ad esempio, presupposto logico-giuridico dell’attuazione della disciplina della distanza delle costruzioni dalle vedute di cui all’art. 907 c.c. e l’anteriorità dell’acquisto del diritto alla veduta sul fondo vicino rispetto all’esercizio, da parte del proprietario di quest’ultimo, della facoltà di costruire. Pertanto, nel caso in cui l’usucapione del diritto di esercitare la servitù di veduta si sia maturata, per compimento del termine utile, dopo l’ultimazione dell’edificio costruito sul fondo vicino, il titolare della servitù non può richiedere l’arretramento di tale edificio alla distanza prevista dalla citata norma. Né vale invocare in contrario il principio della retroattività degli effetti dell’usucapione, in quanto, se è vero che l’usucapiente diventa titolare del diritto usucapito sin dalla data d’inizio del suo possesso, tuttavia i suddetti effetti sono commisurati alla situazione di fatto e diritto esistente al compimento del termine richiesto: ne consegue che se, durante il maturarsi del termine, il soggetto, che avrebbe potuto contestare l’esercizio della veduta, ha modificato tale situazione, avvalendosi della facoltà di costruire sul proprio fondo, e a tale situazione che occorre far riferimento per stabilire il contenuto ed i limiti del diritto di veduta usucapito[294].

D)  Usucapione abbreviata

[295]

 

art. 1159 c.c.   usucapione decennale: colui che acquista in buona fede da chi non e proprietario un immobile, in forza di un titolo che sia idoneo a trasferire la proprietà e che sia stato debitamente trascritto (c.c.2643 e seguenti  affinché avverta i terzi dell’esistenza dell’atto, assolvendo così la funzione di pubblicità propria dei registri immobiliari), ne compie l’usucapione in suo favore col decorso di dieci anni (3 anni per  i beni mobili registrati) dalla data della trascrizione.

La stessa disposizione si applica nel caso di acquisto degli altri diritti reali di godimento sopra un immobile.

 

Il fattore temporale, requisito indispensabile per il perfezionamento dell’usucapione, è determinante, ai fini dell’usucapione abbreviata [296] di cui agli artt. 1159 c.c. e ss., oltre alla buona fede del possessore, il titolo astrattamente idoneo al trasferimento e la trascrizione dello stesso.

Per la S.C.[297] l’usucapione decennale presuppone l’acquisto in buona fede di un immobile a non domino e postula la identità tra la zona alienata e quella posseduta nonché la trascrizione del titolo, il quale deve specificamente riguardare l’immobile che si è inteso con esso trasferire e del quale si sostiene l’acquisto per decorso del decennio, in modo che, attraverso la trascrizione e la perfetta corrispondenza tra l’oggetto del titolo e quello del possesso, i terzi interessati siano posti in grado di conoscere in maniera sicura ed autentica l’acquisto per usucapione che dell’immobile venga facendo il possessore.

E’ importante, poi sottolineare sotto un mero profilo processuale, come ha avuto modo di recente la Cassazione

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|17 novembre 2021| n. 34819

che ove sia dedotto (nella specie, in via riconvenzionale) l’avvenuto acquisto del diritto di proprietà per usucapione ordinaria, la difesa con la quale venga invocata l’usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c. può essere sollevata, nel corso del primo grado di giudizio, per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni ed in comparsa conclusionale, non determinandosi, in conseguenza, un mutamento della domanda né della situazione giuridica con essa fatta valere, posto che la “causa petendi” delle azioni a difesa della proprietà è lo stesso diritto vantato dall’attore e non il titolo che ne costituisce la fonte.

1)   La buona fede

La buona fede, come già analizzata in precedenza[298], che la legge esige debba accompagnarsi al possesso, è quella di tipo soggettivo prevista dall’art. 1147 c.c., ossia l’ignoranza incolpevole di ledere un diritto altrui.

Essa, ai sensi della norma da ultimo citata, si presume, ed è sufficiente, che sussista al momento della presa di possesso del bene, se successiva alla stipulazione del negozio traslativo[299].

Per ultima Cassazione[300] in tema di usucapione decennale di beni immobili, la buona fede di chi ne acquista la proprietà in forza di titolo astrattamente idoneo è esclusa soltanto quando sia in concreto accertato che l’ignoranza di ledere l’altrui diritto dipenda da colpa grave, ai sensi dell’art. 1147, secondo comma, c.c.

Non può, allora, affermarsi che versi in colpa grave colui il quale, rivoltosi a un notaio per la redazione di un atto traslativo, senza averlo esonerato dal compiere le visure catastali ed ipotecarie, addivenga all’acquisto in considerazione delle garanzie di titolarità del bene e di libertà dello stesso fornite dall’alienante, o apparente tale, e nella ragionevole presunzione che l’ufficiale rogante abbia compiuto le opportune verifiche. (Nella specie, in applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, per aver del tutto omesso di prendere in esame la tesi dell’attore, il quale aveva sostenuto che la propria buona fede al momento dell’acquisto dovesse essere desunta dalla circostanza che egli aveva incaricato del rogito un notaio “tra i più autorevoli della zona”, sicché non avrebbe avuto ragione di dubitare circa il diligente compimento delle visure, dalle quali sarebbe risultata l’esistenza della trascrizione di una domanda giudiziale di trasferimento in proprietà del bene in questione, ai sensi dell’art. c.c., proposta da un terzo nei confronti del dante causa).

Principio già statuito dalla medesima Corte[301] secondo la quale in tema di usucapione decennale di beni immobili, la buona fede di chi ne acquista la proprietà in forza di titolo astrattamente idoneo è esclusa soltanto quando sia in concreto accertato che l’ignoranza di ledere l’altrui diritto dipenda da colpa grave (art. 1147 c.c.); in linea generale, non può affermarsi che versi in colpa grave colui il quale, rivoltosi a un notaio per la redazione di un atto traslativo e non avendolo esonerato dal compiere le cosiddette visure catastali ed ipotecarie, addivenga all’acquisto in considerazione delle garanzie di titolarità del bene e di libertà dello stesso fornite dall’alienante, o apparente tale, e nella ragionevole presunzione che l’ufficiale rogante abbia compiuto le opportune verifiche, atteso che il notaio, pur fornendo una prestazione di mezzi e non di risultato, è tenuto a consentire la realizzazione dello scopo voluto dalle parti con la diligenza media, riferibile alla categoria professionale di appartenenza, curando le adeguate operazioni preparatorie all’atto da compiere, senza ridurre la sua opera alla passiva registrazione delle altrui dichiarazioni. (Nella specie, è stata cassata la sentenza impugnata che, senza compiere alcuna specifica indagine in ordine alla colpa in concreto ascrivibile, aveva escluso la buona fede di coloro i quali avevano posseduto per oltre dieci anni l’immobile acquistato con atto regolarmente trascritto, sulla astratta considerazione che i predetti avrebbero potuto verificare attraverso le visure dei registri immobiliari l’esistenza — al momento del loro acquisto — della trascrizione della domanda giudiziale di accertamento del trasferimento della proprietà del medesimo bene a favore di terzi, che l’avevano in precedenza comprato dallo stesso dante causa in forza di atto non trascritto).

2)   Titolo astrattamente idoneo

E’ pure necessario, per il compimento dell’usucapione abbreviata, l’esistenza di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento del bene oggetto del possesso.

Tale deve reputarsi un atto di natura traslativo-derivativa o traslativo-costitutiva proveniente a non domino.

In tema la S.C.[302] ha deciso che l’usucapione decennale postula l’esistenza del titolo, e cioè di un negozio giuridico che sarebbe idoneo in astratto a produrre l’acquisto della proprietà o di un diritto reale minore, se una circostanza particolare non impedisse in concreto il verificarsi di tale effetto. L’art. 1159 c.c., parlando di acquisto di un immobile o di un diritto reale sopra l’immobile, esprime questo concetto. In mancanza dell’effettivo trasferimento del diritto di proprietà o dell’effettiva costituzione di un diritto reale di godimento da parte di chi non è titolare, l’usucapione abbreviata non può quindi essere invocata.

Ad esempio, poi, secondo recente Cassazione

Corte di Cassazione, civile, Sentenza|20 dicembre 2021| n. 40835

costituisce elemento oggettivo essenziale dell’usucapione abbreviata decennale di cui all’art. 1159 c.c., l’esistenza di un titolo idoneo a trasferire il diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento, intendendosi per tale quello che in astratto, se proveniente dal titolare, sarebbe sufficiente al trasferimento e al conseguente acquisto immediato del diritto, e che, in concreto, nel suo specifico contenuto, comporti un’esatta corrispondenza tra il diritto immobiliare del quale si sostiene l’acquisto per il possesso decennale esercitato e quello acquistato in buona fede “a non domino”. Ne consegue che non può essere acquistata la proprietà esclusiva di un bene accessorio in virtù dell’usucapione decennale, qualora si individui quale titolo idoneo, un atto di alienazione di un’unità immobiliare compresa in un condominio che non individui tale bene come legato da rapporto pertinenziale col singolo appartamento e, piuttosto, lo ricomprenda tra le parti comuni, i sensi dell’art. 1117 c.c., cui si estende l’effetto traslativo “pro quota”.

Oltretutto, il titolo può essere considerato idoneo solo quando l’oggetto in esso descritto coincide con quello sul quale è concretamente esercitato il possesso.

Difatti per la S.C.[303], l’usucapione decennale presuppone l’acquisto in buona fede di un immobile a non domino e l’identità tra zona alienata e zona posseduta, nonché la trascrizione del titolo il quale deve specificamente riguardare l’immobile che si è inteso con esso trasferire e del quale si sostiene l’acquisto per decorso del decennio. Il titolo stesso è elemento autonomo ed essenziale, nel senso che deve indicare esattamente l’immobile ed il diritto immobiliare trasmesso, poiché la perfetta ed assoluta identità fra l’immobile posseduto e quello acquistato in buona fede a non domino va accertata in base ad una distinta valutazione del titolo d’acquisto e del possesso, rimanendo preclusa la possibilità di integrare le risultanze dell’uno con quelle dell’altro.

Ad esempio se, in un atto di compravendita viene individuato un immobile con i confini ed i dati catastali difformi da quelli caratterizzanti il bene oggetto del possesso, il titolo di trasferimento è inidoneo a fondare l’usucapione abbreviata.

Inoltre, in forza di una massima della S.C.[304], il titolo idoneo a trasferire la proprietà di beni immobili, richiesto per l’usucapione decennale, deve consistere in un negozio traslativo a titolo particolare e non può essere, quindi, ravvisato in atti diretti ad attuare un acquisto mortis causa.

Ancora, sempre per la medesima Corte[305], non costituisce titolo astrattamente idoneo al trasferimento la donazione di un bene altrui, attesa l’invalidità a norma dell’art. 771 c.c. di tale negozio.

Infine, la vendita conclusa da un falsus procurator è del tutto inidonea a produrre l’effetto traslativo, non stipulando egli in nome proprio e non avendo i poteri per impegnare altri, onde la vendita stessa risulta inefficace e priva di rilevanza giuridica nei confronti del titolare del diritto apparentemente trasmesso[306].

Mentre[307] costituisce titolo idoneo a trasferire la proprietà a norma dell’art. 1159 c.c. l’atto annullabile, il quale è perfettamente operante se e finché non venga annullato, ma non l’atto affetto da nullità giacché questo vizio è sempre rilevabile da chiunque vi abbia interesse e investe il titolo nella sua antigiuridica esistenza.

3)   La trascrizione

E’ richiesta la trascrizione del titolo poiché, da quel preciso momento, decorre il tempo occorrente per l’usucapione del bene.

L’art. 2652, n. 6, c.c., nel disciplinare (tra l’altro) gli effetti della trascrizione della domanda di accertamento della nullità degli atti soggetti a trascrizione, fa salvi i diritti che i terzi hanno acquistato dal titolare apparente con atto trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda suddetta, purché questa non sia stata trascritta nel quinquennio successivo alla data di trascrizione dell’atto impugnato.

La dichiarazione della nullità del primo atto di trasferimento in quanto opponibile ai terzi rende il subacquirente (avente causa nel secondo atto di trasferimento) acquirente a non domino privo della tutela prevista dall’art. 2652 n. 6 c.c., ma non incide sulle situazioni giuridiche che trovano tutela indipendentemente dall’efficacia del titolo dichiarato nullo[308].

Da sottolineare che l’usucapione, maturata in conseguenza del soddisfacimento dei requisiti prescritti ex lege, non può essere contrastata da eventuali titoli d’acquisto dello stesso bene trascritti anteriormente a quello, (astrattamente idoneo), sul quale si fonda l’usucapione. Ciò si verifica, semplicemente, perchè il diritto sorto per effetto dell’usucapione estingue tutti i diritti preesistenti ed incompatibili con esso. Tuttavia, la giurisprudenza ha ritenuto che l’esistenza di trascrizioni nei pubblici registri a carico del bene, antecedenti a quella (di trascrizione sulla medesima res) funzionale al compimento dell’usucapione abbreviata, a motivo dell’effetto pubblicitario che ad esse si accompagna e, pertanto, per la loro conoscibilità da parte di un qualunque soggetto munito di ordinaria diligenza, esclude la buona fede, presunta ex. art. 147 c.c., in capo all’usucapiente.

4)   Oggetto

L’usucapione abbreviata, al pari di quella ordinaria, può avere ad oggetto non solo il diritto di proprietà bensì, anche, un diritto reale di godimento parziario come, ad es.: l’usufrutto, l’uso, l’enfiteusi, la superficie e la servitù apparente (in forza di un diritto idoneo a costituire la medesima e debitamente trascritto).

In tema di servitù è opportuno riportare alcune pronunce della Corte di legittimità secondo le quali:

  • quando l’alienante dichiari nell’atto di trasferimento di un immobile che a favore del bene ceduto esiste una servitù attiva (nella specie, una servitù di passaggio) a carico del fondo di un terzo, la quale non risulti effettivamente costituita, non sussiste un titolo idoneo per l’usucapione decennale prevista dall’art. 1159 c.c., poiché tale titolo richiede, riguardo ad una servitù (che in occasione del trasferimento del fondo dominante si trasferisce all’acquirente non perché il venditore lo abbia voluto e dichiarato, ma per l’inerenza della servitù al fondo), la partecipazione, oltre che del proprietario del fondo a cui vantaggio opererebbe la servitù, anche dell’apparente proprietario del fondo servente, nei cui confronti deve operare la trascrizione prevista dallo stesso art. 1159[309].
  • L’acquisto della servitù apparente per usucapione decennale presuppone la sussistenza di un atto a titolo particolare astrattamente idoneo ad attuare il «trasferimento» del diritto che si assume usucapito, e tale atto deve consistere in un titolo col quale il soggetto, il quale si qualifichi senza esserlo — proprietario del «fondo servente», abbia costituito una servitù in favore del «fondo dominante» il cui titolare ne vanti, poi, l’acquisto per usucapione[310]. —
  • Beni Immobili

L’usucapione abbreviata può riguardare sia beni immobili, sia beni mobili soggetti o meno a registrazione e sia, infine, universalità di mobili. A seconda della natura del bene oggetto di usucapione la legge prescrive, oltre alla sussistenza dei succitati requisiti, una durata del possesso più o meno lunga.

In particolare, l’usucapione abbreviata di immobili richiede che il possesso si sia protratto ininterrottamente per dieci anni, a far data dalla trascrizione del titolo.

Per la Corte di Cassazione[311], inoltre, l regime della usucapione abbreviata previsto dall’art. 1159 c.c. per l’acquirente di buona fede di un immobile in forza di titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà, si applica anche alle cose le quali, ancorché non esplicitamente o chiaramente indicate nell’atto di acquisto del bene alienato, siano a questo legate da un rapporto pertinenziale.

  • Piccola proprietà rurale

 

Un’ipotesi particolare di usucapione abbreviata di immobili è quella regolata dall’art.1159 bis c.c. la quale ha ad oggetto la piccola proprietà rurale.

art. 1159 bis c.c.    usucapione speciale per la piccola proprietà rurale

La proprietà dei fondi rustici con annessi fabbricati situati in comuni classificati montani dalla legge si acquista in virtù del possesso continuato per quindici anni.

Colui che acquista in buona fede (1147 c.c.) da chi non è proprietario, in forza di un titolo che sia idoneo a trasferire la proprietà e che sia debitamente trascritto, un fondo rustico con annessi fabbricati, situati in comuni classificati montani dalla legge, ne compie l’usucapione in suo favore col decorso di cinque anni dalla data di trascrizione (art. 2643 c.c.).

La legge speciale stabilisce la procedura, le modalità e le agevolazioni per la regolarizzazione del titolo di proprietà.

Le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano anche ai fondi rustici con annessi fabbricati, situati in comuni non classificati montani dalla legge, aventi un reddito non superiore ai limiti fissati dalla legge speciale.

La norma, introdotta con legge n.346 del 10-5-1976, contempla, sia i fondi rustici con annessi fabbricati situati in comuni classificati montani (per tali intendendosi quelli situati per almeno l’80% della propria estensione al di sopra dei seicento metri di altitudine sul livello del mare) sia i fondi rustici con annessi fabbricati non classificati in comuni montani ed aventi un reddito dominicale non eccedente gli €.180,76, così come fissato dall’art. 6 della Legge n.97 del 31-1-1994 recante nuove disposizioni per le zone montane.

Ai sensi dell’art. 3 della predetta Legge il riconoscimento della proprietà acquistata per usucapione può essere ottenuto in forza di ricorso al tribunale del luogo in cui è situato il fondo.

Il provvedimento di accertamento della proprietà, emesso dall’autorità giudiziaria in caso di accoglimento dell’istanza, non acquista efficacia di cosa giudicata  ma costituisce un mero titolo per ottenere la trascrizione del diritto.

Pertanto, coloro che ritengono di essere titolari di diritti contrastanti con quello accertato con il decreto, e che non abbiano partecipato al procedimento di riconoscimento, possono agire in sede contenziosa per l’accertamento del proprio diritto.

A mente di una sentenza della S.C.[312] difatti, il decreto emesso dal pretore ai sensi della legge 14 novembre 1962 n. 1610 in tema di cosiddetto usucapione abbreviata, pur non costituendo una sentenza neanche in senso sostanziale, e non essendo, quindi suscettibile di passare in cosa giudicata, contiene, però, il riconoscimento giudiziale del diritto di proprietà, il quale si deve presumere iuris tantum a favore del soggetto che abbia ottenuto tale decreto (fino a quando non venga pronunciata una decisione di accertamento della proprietà del terzo che abbia contestato il diritto del beneficiario del provvedimento in questione), e, pertanto, ove il soggetto medesimo agisca in rivendicazione, può concorrere, insieme agli altri elementi del caso concreto (compreso l’atteggiamento difensivo del convenuto), a fornire la prova incombente sul rivendicante.

Ancora, per altra sentenza più recente[313], in tema di usucapione speciale previsto dall’art. 1159 bis c.c. il decreto di riconoscimento della proprietà rurale di cui alla legge 346/1976 — non avendo valore di sentenza — non è idoneo a passare in cosa giudicata ma conferisce solo una presunzione di appartenenza del bene a favore del beneficiario del provvedimento fino a quando, a seguito dell’opposizione di cui all’art. 3 della citata legge o di un autonomo giudizio non sia emessa pronuncia di accertamento della proprietà; Ad un tal riguardo, l’eventuale estinzione del giudizio di opposizione determina la caducazione e non la consolidazione del decreto, come invece previsto per l’estinzione dell’opposizione a decreto ingiuntivo — suscettibile di acquisire il valore formale e sostanziale di cosa giudicata — o, in generale, nei giudizi di opposizione a provvedimenti dotati di una propria sfera di effetti.

Inoltre è bene anche sottolineare che nello speciale procedimento disciplinato dai commi quarto e quinto dell’art. 3 della legge 10 maggio 1976 n. 346 (usucapione speciale per la piccola proprietà rurale), avverso il decreto pretorile di accoglimento della richiesta di riconoscimento, che non costituisce sentenza, neppure in senso sostanziale, va proposta opposizione dinnanzi allo stesso pretore (oggi Tribunale) e non appello al tribunale, che se proposto va dichiarato inammissibile[314].

Il provvedimento di riconoscimento de quo non è opponibile all’intestatario dei beni, usucapiti dal terzo, il quale non sia stato, preventivamente, sentito in contraddittorio con l’usucapiente in occasione del procedimento di accertamento.

La giurisprudenza, operando un’evidente interpretazione estensiva della norma, ritiene che l’art. 1159 bis c.c. debba trovare applicazione anche quando il fondo rustico sia privo di fabbricati e, nonostante, vi sia stato mutamento della destinazione da agricola ad urbana successivamente alla maturazione dell’usucapione.

In base alle modifiche apportate alla legge n. 346 del 1976 dalla legge n. 97 del 1994 la disposizione di cui all’art. 1159 bis c.c. si applica anche ai fondi rustici con annessi fabbricati situati in territori non classificati montani, quando il loro reddito dominicale iscritto in catasto non supera complessivamente le lire trecentocinquantamila[315].

Peraltro, quasi a voler controbilanciare il predetto allargamento della portata del dispositivo della norma citata, la stessa giurisprudenza ha sancito che l’usucapione potrà essere invocata, soltanto, se il fondo, iscritto al catasto terreni, sia concretamente destinato ad attività agricola.

Infatti per l’applicazione della usucapione speciale, di cui all’art. 1159 bis, c.c. — introdotta dalla legge 10 maggio 1976 n. 346 — non è sufficiente che il fondo sia iscritto nel catasto rustico, ma è necessario che esso sia destinato in concreto all’attività agraria, atteso che la suddetta usucapione può avere per oggetto soltanto un fondo rustico, inteso come entità agricola ben individuata, che sia destinata ed ordinata a una propria vicenda produttiva[316].

Nella fattispecie in oggetto l’usucapione abbreviata del fondo matura con il possesso protratto per 5 anni dalla data della trascrizione del titolo.

La legge introduttiva dell’articolo 1159 bis, in esame, è irretroattiva, per cui, il possesso che sia maturato in epoca anteriore all’introduzione della novella, in termini sufficienti per il perfezionamento dell’usucapione abbreviata (ai sensi della nuova disciplina ma insufficienti per quella precedente), se interrotto prima dell’entrata in vigore della nuova legge, non potrà essere utilmente invocato per affermare l’avvenuta usucapione del bene.

Per la S.C.[317] la legge 10 maggio 1976 n. 346, nella parte in cui, introducendo l’art. 1159 bis c.c., prevede una usucapione speciale per la piccola proprietà rurale, con riduzione, rispettivamente, a quindici ed a cinque anni del possesso ventennale e decennale contemplato dai precedenti artt. 1158 e 1159 c.c., non ha efficacia retroattiva.

Pertanto, con riguardo ad un possesso ad usucapionem, in relazione al quale si sia verificata una causa interruttiva, prima della maturazione del periodo di tempo necessario al compimento dell’usucapione stessa secondo le norme all’epoca vigenti, resta preclusa la possibilità di invocare la sopravvenienza della citata legge, ancorché detto possesso abbia avuto una durata sufficiente all’usucapione speciale.

L’efficacia immediata della legge di conversione di un decreto — legge può essere desunta dal contenuto delle sue disposizioni, anche in mancanza di un’espressa previsione in proposito.

Si deve, pertanto, ritenere che la legge 22 dicembre 1980 n. 874 — la quale nel convertire il D.L. 26 novembre 1980 n. 776 ha prorogato la sospensione dei termini sostanziali e processuali, relativi ad atti da compiersi nelle zone della Campania e della Basilicata interessate dal terremoto del 23 novembre 1980 dalla scadenza inizialmente fissata al 31 dicembre 1980 al 31 gennaio 1981 — è efficace dal giorno dopo la sua pubblicazione nella g.u. (avvenuta il 24 dicembre 1980), anche in mancanza di una espressa enunciazione circa l’inapplicabilità della vacatio legis, in quanto lo scopo della modifica era quello di prorogare la scadenza degli anzidetti termini, per la perdurante situazione di disorganizzazione conseguente al sisma, senza alcun intervallo o soluzione di continuità ed in considerazione del fatto che si trattava di semplice proroga dei termini e non della loro riapertura.

  • Beni mobili

Diversamente, per i beni mobili non registrabili (art.1161 c.c.), quando manca il titolo idoneo, indispensabile per l’acquisto immediato del bene ex art. 1153 c.c., ma sussistono gli altri requisiti, l’usucapione si compie per effetto del possesso protratto per dieci anni.

art. 1161 c.c.    usucapione dei beni mobili: in mancanza di titolo idoneo, la proprietà dei beni mobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per dieci anni, qualora il possesso sia stato acquistato in buona fede.

Se il possessore è di mala fede, l’usucapione si compie con il decorso di venti anni.

La buona fede possessoria, che legittima ai sensi dello art. 1161 c.c. l’usucapione mobiliare abbreviata, è costituita non dall’ignoranza dell’altrui diritto, ma dall’ignoranza di arrecare danno all’altrui diritto, senza che al riguardo possa rilevare la conoscenza della validità (o invalidità) formale dell’atto dispositivo[318].

L’usucapione decennale di cose mobili da parte del possessore di buona fede, disciplinata dall’art. 1161, primo comma, c.c., è istituto che non esisteva sotto il precedente codice e, poiché secondo la norma citata, è rilevante la buona fede al momento dell’acquisto del possesso, occorre, in ipotesi di possesso iniziato sotto il vigore del codice abrogato, rifarsi, ai fini dell’accertamento del verificarsi dell’usucapione, alla nozione che del possesso da il codice vigente. Al riguardo va rilevato che il codice civile vigente (art. 1147 c.c.) non richiede a differenza dell’abrogato codice del 1865 art. 701, ai fini della configurazione del possesso di buona fede, l’esistenza di un titolo idoneo (sebbene viziato) a trasferire al possessore la proprietà della cosa posseduta, onde qualifica la buona fede come puro e semplice stato soggettivo d’ignoranza della lesione, che, mediante il possesso, si arreca all’altrui sfera giuridica. Il riferimento alla nozione di buona fede data dal codice vigente, importa non già l’attribuzione di efficacia retroattiva alla norma dell’art. 1147 c.c.[319]

  • Beni mobili registrati

I beni mobili iscritti in pubblico registro sono usucapibili in via abbreviata, ed in sussistenza degli altri elementi, in virtù del possesso continuato per tre anni (art. 1162 comma 1 c.c.).

Tuttavia, si osserva, il comma 2 del predetto articolo, prevedendo che in mancanza delle condizioni per l’usucapione abbreviata triennale l’usucapione matura comunque in dieci anni, si pone in aperto contrasto con quanto disposto dall’art. 1161 comma 2, c.c., il quale, stabilisce che per i beni mobili non soggetti a registrazione, se il possesso è in mala fede, l’usucapione si compie decorsi venti anni.

art. 1162 c.c.   usucapione di beni mobili iscritti in pubblici registri: colui che acquista in buona fede da chi non è proprietario un bene mobile iscritto in pubblici registri, in forza di un titolo che sia idoneo a trasferire la proprietà e che sia stato debitamente trascritto, ne compie in suo favore l’usucapione col decorso di tre anni dalla data della trascrizione.

Se non concorrono le condizioni previste dal comma precedente, l’usucapione si compie col decorso di dieci anni.

Le stesse disposizioni si applicano nel caso di acquisto degli altri diritti reali di godimento

  • Universalità di mobili

Da ultimo, per l’usucapione breve delle universalità di mobili è richiesto, ex art.1160 c.c., unitamente agli altri requisiti, il possesso ininterrotto per 10 anni.

art. 1160 c.c.    usucapione delle universalità di mobili: l’usucapione di un’universalità di mobili [816] o di diritti reali di godimento sopra la medesima si compie in virtù del possesso continuato per venti anni.

Nel caso di acquisto in buona fede da chi non è proprietario, in forza di titolo idoneo, l’usucapione si compie con il decorso di dieci anni.

9) Le azioni a difesa del possesso

Libro III della proprietà – Titolo VIII del possesso  – capo III delle azioni  a difesa del possesso –  artt. 1168 – 1172

 

A)    In generale

[320]

A tutela del possesso in quanto tale il Legislatore predispone due speciali azioni modulate sul tipo di lesione lamentata:

1)    la reintegra di cui all’art. 1168 c.c., in presenza di spoglio violento e clandestino;

2)    la manutenzione di cui all’art. 1170 c.c., nella duplice tipologia finalizzata a eliminare molestie o turbative al libero dispiegarsi dei poteri del possessore (comma 1); e a recuperare il possesso in caso di spoglio non realizzatosi in modo violento o clandestino (c.d. spoglio semplice: comma 2 e 3).

Benché esperibili anche dal possessore (oltre che dal proprietario o titolare di altro diritto sulla res), non sono invece predisposte a specifica tutela del possesso in quanto tale le c.d. denunce di nuova opera e danno temuto di cui agli artt. 1171 e 1172 c.c., funzionali al diverso scopo di proteggere le res dai pregiudizi che potrebbero patire in seguito a un facere o alla violazione di un obbligo di custodia o manutenzione altrui.

Per la Corte di legittimità[321] l’ordinamento assicura protezione allo ius possessionis in quanto tale e cioè indipendentemente dalla sussistenza o meno della titolarità del corrispondente diritto reale, e gli attribuisce quindi la consistenza del diritto soggettivo, con conseguente necessità che la tutela del medesimo trovi attuazione mediante giudizi di ordinaria cognizione idonei ad assicurare la certezza del giudicato sostanziale in ordine alla situazione possessoria in se considerata.

A tale finalità risponde, nelle azioni di reintegrazione e manutenzione, la seconda fase del procedimento, successiva a quella di emissione (o diniego) dei provvedimenti immediati, che si risolve in un ordinario giudizio di merito, siccome diretta, mediante la decisione definitiva sulla controversia, ad attuare la tutela possessoria nella sua pienezza e con carattere di stabilità, onde anche per essa permane la competenza esclusiva del Pretore (Giudice monocratico) in materia di cause possessorie ex art. 8 c.p.c. (abrogato), restando tale fase pur sempre limitata all’accertamento della fondatezza dell’azione possessoria (e dell’eventuale domanda di risarcimento del danno) ad esclusione di profili petitori.

L’elemento soggettivo integrante le ipotesi dello spoglio e della turbativa possessoria consiste nella coscienza e volontà di agire contro la volontà, espressa o tacita, del possessore, senza che occorra né il dolo né la colpa, e restando altresì irrilevante sia l’intento riprovevole dell’agente, sia la sua convinzione di esercitare un proprio diritto[322].

La tutela del possesso è solo provvisoria e ribaltabile se in seguito prevalgono le ragioni del proprietario in un successivo giudizio petitorio.

Nel giudizio possessorio assume rilievo esclusivo la situazione di fatto esistente al momento dello spoglio e della turbativa, con la conseguenza che per l’esperimento delle azioni di reintegrazione o di manutenzione è sufficiente un possesso qualsiasi anche se illegittimo o abusivo o di mala fede purché abbia i caratteri esteriori della proprietà o di altro diritto reale e il potere di fatto non venga esercitato per mera tolleranza dell’avente diritto[323].

Inoltre[324], ai fini dell’esercizio delle azioni possessorie, non è necessario che il possesso abbia gli stessi requisiti di quello utile per l’usucapione[325], anche se la situazione di fatto deve pur sempre apparire corrispondente all’esercizio del diritto reale. Pertanto, in tema di reintegra del possesso di una servitù di passaggio, non è necessario che esistano (come è invece richiesto per l’usucapione) opere visibili e permanenti destinate all’esercizio del passaggio, ma è sufficiente la prova che il transito era effettuato dall’attore nella sua qualità di possessore di un fondo vicino a quello attraversato e non già come un qualsiasi occasionale passante.

Le due azioni devono essere proposte entro l’anno dall’avvenuto spossessamento o dalla turbativa.

Come da ultimo arresto della Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 28 gennaio 2015, n. 1584

in tema di tutela possessoria, non ogni modifica apportata da un terzo alla situazione oggettiva in cui si sostanzia il possesso costituisce spoglio o turbativa, essendo sempre necessario che tale modifica comprometta in modo giuridicamente apprezzabile l’esercizio del possesso (Cass. n. 11036 del 2003; Cass. n. 1743 del 2005) e, in particolare che l’apposizione di un cancello di agevole apertura, non configura spoglio o molestia ma costituisce un atto lecito rientrante nelle facoltà dei compossessori (cfr Cass. n. 154 del 1994; Cass. n. 3831 del 1985), dovendo al riguardo ritenersi del tutto irrilevanti le ragioni soggettive che abbiano spinto i resistenti alla collocazione del cancello. Decisiva, dunque, è stata la verifica, che peraltro rientra nell’indagine di fatto riservata al giudice di merito, che il cancello non apportava apprezzabile menomazione del passaggio esercitato dai potenziali clienti della ricorrente.

1)   Il termine annuale

Questo termine è di decadenza con natura sostanziale, quindi non soggetto  alla sospensione feriale dei termini processuali.

Come confermato anche da ultima sentenza della Cassazione

Corte di Cassazione, sezione I civile, sentenza 27 settembre 2016, n. 19018

secondo la quale, appunto, il termine annuale ha natura sostanziale e l’azione di reintegrazione (o di manutenzione) deve essere esperita entro l’anno, decorrente dallo spoglio o dalla molestia, spettando al ricorrente la prova della tempestivita’ dell’azione, regola dell’onere della prova che deve essere adattata ai particolari aspetti della presente fattispecie, per cui quando lo spoglio sia stato clandestino, l’onere dell’attore in possessoria non si esaurisce nella dimostrazione della clandestinita’ dell’atto violatore del possesso, ma deve riguardare anche la data della scoperta di esso da parte dello spogliato

Inoltre la proposizione dell’azione al di fuori del termine prescrizionale può essere eccepita solo ad istanza di parte, in quanto, vertendo il termine suddetto su diritti disponibili, rimane escluso il potere officioso del giudice di rilevare l’inosservanza.

Per la S.C.[326] con riguardo alla tempestività dell’azione di spoglio (o di manutenzione) il giudice del merito, cui soltanto è devoluta la cognizione delle condizioni per la proponibilità della domanda, non può porsi, d’ufficio, la questione del decorso del termine annuale in cui l’attore sia eventualmente incorso, trattandosi di termine di decadenza in materia non sottratta alla disponibilità delle parti, la cui inosservanza deve essere eccepita dall’interessato in sede di merito, nei limiti della proponibilità delle eccezioni in senso proprio.

In altri termini[327] l’esperibilità dell’azione di manutenzione nel possesso (come di quella di reintegra) è soggetta al termine di un anno, decorrente dalla molestia (o dallo spoglio), ma — trattandosi di termine di decadenza, e non di prescrizione, in materia non sottratta dalla legge alla libera disponibilità delle parti — la circostanza del decorso del termine annuale non è rilevabile d’ufficio, bensì deve essere eccepita dall’interessato, con la duplice conseguenza che quest’ultimo, esclusa solo la possibilità di sollevare per la prima volta in sede di legittimità tale eccezione, può sempre farla valere, anche in appello, al pari di ogni altra eccezione in senso stretto (rimessa cioè ad libitum della parte), e che se detta eccezione è formulata in appello, è indifferente il comportamento anteriore della parte (a meno di una rinuncia esplicita alla eccezione stessa).

La cassazione ha affermato[328] che il termine per l’esercizio dell’azione possessoria, in caso di spoglio o turbativa effettuati in modo clandestino, non decorre dall’effettiva scoperta del fatto lesivo, ma dal giorno in cui lo stesso avrebbe potuto essere scoperto usando l’ordinaria diligenza dell’uomo medio.

Per il computo del termine si dovrà fare riferimento al primo atto effettivamente lesivo, quando i successivi siano posti in essere con le stesse modalità, altrimenti se i successivi episodi lesivi integrassero una lesione autonoma, diversa, a partire da questa dovrebbe cominciare a decorrere il termine[329].

Difatti per la S.C.[330] nel caso di spoglio o di turbativa posti in essere con più atti il termine di un anno per l’esperimento delle azioni possessorie decorre dal primo atto quando quelli successivi risultino obbiettivamente legati al primo, in dipendenza dei caratteri intrinseci e specifici degli atti stessi, in guisa da profilarsi come progressiva estrinsecazione di un medesimo disegno dello stesso iter esecutivo e come manifestazione di una stessa ed unica situazione lesiva dell’altrui possesso secondo l’incensurabile apprezzamento del giudice del merito.

Poi, come già scritto, al fine di individuare il dies a quo dal quale decorre il termine annuale per proporre l’azione di manutenzione, occorre distinguere l’ipotesi in cui la turbativa del possesso si sostanzia in una pluralità di atti tutti lesivi dell’altrui possesso da quella in cui l’atto lesivo sia uno solo, ancorché esso sia preceduto da una serie di atti di carattere preparatorio e strumentale, ma di per sé inidonei a ledere l’altrui possesso[331]. Nel primo caso (pluralità di atti tutti lesivi) il termine decorre dal primo degli atti lesivi quando essi siano collegati tra loro, sì da costituire la progressione di un’unica catena di attentati possessori, mentre decorre da ciascuno degli atti lesivi se essi presentino carattere di autonomia. Nel secondo caso, invece, essendovi un solo atto lesivo, il termine decorre da quest’ultimo.

È stato specificato[332] anche che la tutelabilità del possesso è stata subordinata dal legislatore alla reazione, entro il termine fissato negli artt. 1168 e 1170 c.c., da parte di colui che si pretende leso, poiché in caso contrario verrebbe meno la ragion d’essere della tutela stessa e della sua preferenza temporale rispetto a quella petitoria. Ne consegue che, ove si verifichi lesione di una situazione possessoria, senza che ad essa si sia reagito, e successivamente vengano posti in essere dallo stesso soggetto altri atti lesivi con analoghe modalità, il termine per proporre l’azione decorre dal primo atto, dovendo presumersi che il leso ne abbia percepito la portata e abbia determinato in base alla valutazione di esso il proprio comportamento. Del tutto diversa è l’ipotesi in cui il successivo atto lesivo venga posto in essere con modalità tali da integrare un episodio autonomo rispetto al primo, ad esempio incidendo in maniera più grave sul godimento di fatto, così da poter indurre il soggetto leso ad una nuova e differente valutazione cui conformare il proprio comportamento, nel qual caso il termine utile per l’esercizio dell’azione possessoria decorre dalla data dell’ultimo episodio.

La Cassazione ritiene che sia le molestie che lo spoglio integrino altresì gli estremi dell’ illecito c.d. extracontrattuale tipizzato dall’art. 2043 c.c., essendo lesivi della posizione di signoria riconosciuta al possessore sulla res.

2)   Risarcimento danni

La domanda di risarcimento dei danni si configura dunque come accessoria a quella principale di reintegra o di manutenzione[333]  e se ne ammette il cumulo con essa (entro il termine di decadenza previsto per l’azione interdittale) e la proponibilità in via autonoma.

La domanda di risarcimento del danno consiste nella diminuzione patrimoniale sofferta per il tempo in cui si è protratto lo spoglio o la turbativa del possesso, avendo contenuto possessorio, può essere proposta congiuntamente all’azione di reintegra o di manutenzione del possesso; essa, tuttavia, non rimane soggetta alla preclusione annuale di cui all’art. 1168 c.c., trovando applicazione, in tema di illecito extracontrattuale, il termine di prescrizione stabilito dall’art. 2947 c.c.[334]

Per ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione sesta (seconda) civile, Ordinanza 4 dicembre 2018, n. 31353.

La privazione del possesso conseguente all’occupazione di un immobile altrui costituisce un fatto potenzialmente causativo di effetti pregiudizievoli ed idoneo a legittimare la pronunzia di condanna generica al risarcimento del danno, ben potendo il giudice successivamente liquidare in concreto il detto danno per mezzo di una valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. che tenga conto, quale parametro di quantificazione, del valore reddituale del bene.

L’azione per il risarcimento del danno ha natura possessoria quando il danno si fa consistere nella sola lesione del possesso, e quindi soggiace alle regole dettate sia in ordine alla competenza che in ordine al termine di decadenza per proporla, mentre non ha natura possessoria, e rientra nella previsione generale dell’art. 2043 c.c., sottraendosi quindi a quelle regole, quando si lamenti non la lesione del solo possesso ma anche quella di altri diritti del possessore[335].

Per altra pronuncia[336] il venir meno della ragion d’essere della tutela possessoria per intervenuta decadenza rende inammissibile anche il risarcimento del danno derivante da un comportamento lesivo che tragga origine dallo spoglio, che è in tal caso soltanto un profilo della tutela accordata dall’ordinamento al diritto soggetto del leso al fine di assicurarne la piena reintegrazione. Ne consegue che l’azione per il risarcimento del danno ha natura possessoria quando il danno consista nella sola lesione del possesso, e quindi soggiace alle regole dettate per quella tutela in ordine al termine di decadenza per proporla, mentre non ha natura possessoria, e rientra nella previsione generale dell’art. 2043 c.c., sottraendosi quindi a quelle regole, quando si lamenti anche la lesione di altri diritti del possessore, sicché la privazione del possesso non esaurisca il danno, ma si presenti come causa di altre lesioni patrimoniali subite in via derivativa dallo spogliato.

L’accoglimento della domanda risarcitoria presuppone però la dimostrazione sia dell’ elemento psicologico (dolo o colpa) sia del nesso eziologico tra lo spoglio o la molestia e la deminutio patrimoniale patita, ai sensi dell’art. 2043 c.c.

La mancata ottemperanza all’ordinanza di reintegrazione nel possesso disposta dal giudice in favore dello spogliato, quanto costituisca una libera scelta dell’obbligato, si traduce in fonte di responsabilità civile ai sensi dell’art. 2043 c.c.[337]

B)  L’autotutela (vim vi repellere licet)

Uno dei pochi casi di “giustizia fai da te” previsto nell’ordinamento civile è quello esercitabile dal possessore molestato.

La difesa privata del proprio possesso, anche mediante contrapposizione della forza è consentita a chi abbia patito spoglio a condizioni però che la reazione segua nell’attualità o con immediatezza rispetto all’azione dello spogliatore.

Verificare se nel fatto concorrano tali condizioni, ai fini della applicazione del principio vim vi repellere licet, rientra nel compito del giudice di merito[338].

La reazione del soggetto che consideri lesi i propri diritti su di un bene a causa dell’abusiva utilizzazione di esso da parte di altri mediante attività corrispondenti all’esercizio di diritti reali, può consistere in comportamenti di fatto impeditivi di tale attività (ad esempio, apposizione di un cancello al proprio fondo illegittimamente utilizzato da altri come passaggio) solo nell’immediatezza del fatto, e non quando la situazione originata dall’altrui attività abbia raggiunto un anche minimo grado di stabilità, dovendo, in tali casi, ottenere la tutela delle proprie ragioni solo per via giudiziaria[339].

C)  Rapporti tra le azioni

Le differenze tra molestia e spoglio semplice legittimanti l’azione di manutenzione, e spoglio legittimante l’azione di reintegra, appena descritte, escludono che un medesimo comportamento materiale possa integrare contemporaneamente entrambe le fattispecie.

A differenza della molestia, che, senza togliere o ridurre materialmente la cosa oggetto dell’altrui possesso, si rivolge piuttosto contro l’attività del possessore, disturbandone il pacifico esercizio o mediante una contraria pretesa (molestia di diritto) o mediante altri fatti o atti diretti a renderlo più disagevole o scomodo, lo spoglio, invece, incide direttamente sulla cosa, sottraendola in tutto o in parte al potere del possessore, che ne viene correlativamente impedito a causa di un ostacolo duraturo o comunque non rimovibile senza l’uso della violenza. Pertanto, posto che il criterio distintivo tra spoglio e molestia non è quantitativo, ma concettuale, ne consegue che, mentre la molestia si misura per gradi ed è manutenibile o no a seconda che superi o meno la normale tollerabilità, lo spoglio, viceversa, si può distinguere in totale o parziale, secondo che cada sull’intera cosa posseduta o su parte di essa. Infatti, nell’ipotesi di spoglio parziale, la parte di cosa della quale il possessore viene privato segna i limiti entro i quali si è mantenuta l’azione materiale dello spogliatore, ma il possesso è tolto: e, per quella parte, è tolto del tutto[340].

Per altra sentenza[341] la distinzione tra spoglio e molestia va posta non già sul piano della quantità, bensì su quello della natura della aggressione all’altrui possesso, nel senso che lo spoglio incide direttamente sulla cosa che ne costituisce l’oggetto, sottraendola in tutto o in parte alla disponibilità del possessore, mentre la molestia si rivolge contro l’attività di godimento del possessore, disturbandone il pacifico esercizio, ovvero rendendolo disagevole e scomodo.

 Al fine di stabilire se sussistano gli estremi dello spoglio o della molestia non può prescindersi dalle modalità, anche temporali, del comportamento dell’aggressore, le quali hanno rilievo per stabilire se si tratti di un impedimento duraturo, anche se non permanente, integrante lo spoglio, o di un impedimento soltanto transitorio parificabile alla mera turbativa.

Le due azioni non sono perciò cumulabili, ma proponibili simultaneamente in via alternativa, spettando al giudice, in applicazione dei generali poteri di qualificazione della domanda giudiziale, stabilire a quale fattispecie astratta sia ascrivibile la domanda di tutela (non violando perciò, il giudice che disponga la reintegra anziché la cessazione delle molestie, il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato[342].

Le domande di reintegrazione e di manutenzione possono proporsi insieme qualora siano denunziati distinti fatti di spoglio e di molestia, atteso che la semplice turbativa costituisce un minus rispetto alla privazione del possesso[343].

Sotto altro profilo, la domanda di spoglio contiene sempre in sé anche quella di manutenzione, la prima configurandosi quale quid pluris rispetto alla seconda[344].

Per recente Cassazione[345] l’azione di manutenzione del possesso e’ da ritenersi sempre compresa o implicita in quella di reintegrazione da spoglio, sicchè non incorre nel vizio di ultrapetizione il Giudice di appello che, modificando la qualificazione data dal primo giudice, qualifichi come di manutenzione anzichè di spoglio l’azione proposta dall’attore. D’altra parte, le circostanze dedotte dall’attore non soltanto in primo grado ma anche in appello evidenziavano, al di la delle qualificazioni addotte, fatti che non avrebbero comportato la privazione quanto piuttosto di molestia del possesso.

L’azione di reintegrazione, ancorché non cumulabile con quella di manutenzione, è più ampia di questa ultima e ne contiene tutti gli elementi conseguentemente, proposta la prima azione, ben può la parte richiedere e il giudice ritenere, in base alle risultanze processuali, che i fatti denunziati siano da considerarsi compresi entro i limiti di semplici molestie, con ciò operandosi una semplice e consentita emendatio libelli[346].

Anche secondo altra pronuncia[347] la domanda di reintegrazione contiene in sé anche gli elementi di quella più ristretta di manutenzione, e nel petitum della prima è compreso anche il petitum della seconda, essendo la molestia qualcosa di meno della privazione del possesso e dovendosi, pertanto, intendere che colui che chiede di essere reintegrato nel possesso, chiede implicitamente di essere mantenuto nel possesso stesso, essendo, in definitiva, le due azioni dirette ad ottenere un provvedimento giurisdizionale sanzionatorio, per effetto del quale vengono fatti cessare gli effetti lesivi del comportamento antigiuridico di privazione o anche di semplice turbativa del possesso.

È bene anche sottolineare che se si verifica la cessazione della materia del contendere nel giudizio possessorio qualora, nelle more, l’attore sia definitivamente reintegrato nel pristino possesso del bene cui si riferisce la azione esperita, con il conseguente dovere del giudice di rilevare d’ufficio la sopravvenuta carenza d’interesse delle parti, rispettivamente, ad agire e contraddire circa la richiesta di provvedimento possessorio e, quindi, ad ottenere una pronuncia giurisdizionale al riguardo.

D)  La disciplina

La disciplina processuale delle azioni possessorie è contenuta nell’art. 703 c.p.c.

La domanda si propone con ricorso da depositare presso la cancelleria del giudice (oggi il solo tribunale ) «del luogo ove è avvenuto il fatto denunciato» così l’art. 703, comma 1, che richiama l’art. 21.

Il secondo comma dell’art. 703, come modificato dalla legge n. 80/2005, rinvia quanto alle altre disposizioni di procedura, agli artt. 669 bis e segg., solo in quanto compatibili.

art 703  c.p.c.   domande di reintegrazione e di manutenzione nel possesso:

Le domande di reintegrazione [c.c. 1168] e di manutenzione [c.c. 1170] nel possesso si propongono con ricorso [c.p.c. 125] al giudice competente a norma dell’articolo 21 [c.c. 374, n. 5; c.p.c. 8, 28].

Il giudice provvede ai sensi degli articoli 669-bis e seguenti, in quanto compatibili.

L’ordinanza che accoglie o respinge la domanda è reclamabile ai sensi dell’articolo 669-terdecies.

Se richiesto da una delle parti, entro il termine perentorio di sessanta giorni decorrente dalla comunicazione del provvedimento che ha deciso sul reclamo ovvero, in difetto, del provvedimento di cui al terzo comma, il giudice fissa dinanzi a sé l’udienza per la prosecuzione del giudizio di merito. Si applica l’articolo 669-novies, terzo comma.

669-bis c.p.c.   forma della domanda: la domanda si propone con ricorso depositato nella cancelleria del giudice competente

1)   La competenza

Si tratta di competenza funzionale inderogabile, salvo il disposto dell’ art. 704.

In merito alla competenza sono intervenute più volte le Sezioni Unite che hanno stabilito:

  • che con riguardo alla controversia vertente sul possesso di un bene immobile, sito nel territorio italiano e non destinato allo esercizio del culto cattolico, la giurisdizione del giudice italiano non resta esclusa dalla circostanza che le parti in causa abbiano la qualità di enti ecclesiastici, ovvero di ministri di detto culto, poiché l’indicato oggetto della controversia esula dall’ambito delle materie per le quali è contemplata una riserva di giurisdizione in favore dell’autorità ecclesiastica, sia in base al concordato con la Santa Sede ratificato con legge 27 maggio 1929 n. 810, sia in base al vigente accordo modificativo del concordato stesso, ratificato con legge 25 marzo 1985 n. 121[348];
  • la controversia possessoria fra privati, ancorché riguardi immobili realizzati in forza di concessione edilizia, ovvero assoggettati al regime del demanio pubblico (nella specie, mausoleo funerario in cimitero comunale), non coinvolge la pubblica amministrazione, e, pertanto, non può porre un problema di difetto di giurisdizione del giudice ordinario, con la conseguenza della inammissibilità del regolamento preventivo proposto per sollevare la relativa questione[349];
  • le azioni possessorie costituiscono modi di tutela di un diritto, di continuare a godere del bene nello stato di fatto in cui era precedentemente posseduto, e se proposte nei confronti della pubblica amministrazione, spettano alla giurisdizione del giudice ordinario, a meno che sul diritto non abbia inciso un provvedimento avente attitudine a sottrarre al privato la proprietà o disponibilità della cosa o a mutarne il modo di godimento: il che non si verifica quando una dichiarazione di pubblica utilità e indifferibilità e urgenza, implicita nell’approvazione del progetto dell’opera pubblica, sia priva dell’indicazione dei termini finali di esecuzione dei lavori e di pronuncia delle espropriazioni, e dunque sia priva di effetti, e comunque non sia stato emanato un provvedimento di autorizzazione all’occupazione d’urgenza, del quale non possono produrre gli effetti né il provvedimento con cui il Comune ha indetto una licitazione privata per l’appalto dei lavori, né l’ordine di servizio con cui il direttore dei lavori ha ordinato all’appaltatore di eseguire le opere, trattandosi di atti che non hanno come destinatario il possessore e non sono volti a disporre del suo diritto[350];
  • va ascritta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia possessoria instaurata dal proprietario di un fondo occupato dall’amministrazione per l’esecuzione di un’opera il cui progetto sia stato approvato senza indicazioni dei termini di inizio e compimento dei lavori e della procedura, verificandosi in tal caso una situazione di carenza di potere espropriativo, per cui l’occupazione effettuata sul suolo privato costituisce mero comportamento materiale[351].

In merito, poi, al difetto di giurisdizione reclamabile dal coltivatore diretto, la Corte[352] ha avuto modo di affermare che l’art. 26 della legge n. 11 del 1971, con l’attribuire espressamente alle sezioni specializzate agrarie i provvedimenti cautelari di cui al capo terzo, titolo primo del libro quarto c.p.c., implicitamente esclude dalla loro competenza i procedimenti cautelari disciplinati dal capo quarto di quel titolo che restano pertanto devoluti — tanto nella fase interdittale che in quella di merito — alla competenza del pretore (Tribunale) di cui all’art. 8 c.p.c., che rimane ferma anche se il convenuto alleghi il proprio diritto a rimanere sul fondo — del quale il proprietario — attore lamenti lo spoglio — in forza di un contratto di affitto, poiché la questione circa l’esistenza di esso e la sua soggezione a proroga non può escludere la difesa del possesso — come situazione meritevole di tutela indipendentemente dalla sua legittimazione — né mutare l’oggetto e la natura del giudizio.

2)   La legittimazione attiva

I legittimati a proporre tali azioni sono:

  • il possessore (diretto e indiretto);
  • il possessore minore[353];
  • i nudi possessori[354];
  • i compossessori[355]; in tema di azione di reintegrazione del possesso deve riconoscersi a ciascuno dei compossessori la facoltà di agire a tutela del proprio compossesso, senza che insorga necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i compossessori, non ricorrendo un’ipotesi di litisconsorzio necessario, né di indiscindibilità delle cause, essendo idonea la pronuncia a produrre effetti nei confronti dalla parte evocata in giudizio, onde la stessa non può dirsi inutiliter data[356]. Inoltre[357] Il compossessore può esercitare nei confronti dei terzi l’azione di reintegrazione e l’azione di manutenzione quale che sia la sua quota di partecipazione. A sua volta il compossessore può esercitare queste stesse azioni anche nei confronti degli altri compossessori tutte le volte in cui uno di questi sopprima o turbi il possesso degli altri a meno che questi atti non vengono tollerati e non costituiscono atti univocamente idonei a rivelare un mutamento del titolo del proprio possesso, così come previsto anche da ultima Cassazione

    Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 4 agosto 2015, n. 16369

  • ciascuno dei comproprietari; può esercitare autonomamente l’azione per la restituzione del bene stesso nei confronti di chi lo detenga senza titolo, senza necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri comproprietari, spettando al convenuto il quale opponga di essere nel godimento del bene in forza di un contratto stipulato con uno degli altri partecipanti alla comunione fornire la prova del suo assunto, con facoltà di chiamare in giudizio l’altro soggetto per esserne garantito[358].
  • il detentore qualificato[359], come affermato anche da ultima Cassazione[360] secondo la quale il detentore qualificato, ai sensi dell’articolo 1168 c.c., comma 2, ha titolo per esperire l’azione di reintegrazione. Mentre non spetta come già analizzato in precedenza al mero detentore, come ad esempio il gestore di un affare altrui;  in merito la S.C.[361] ha affermato che chi abbia assunto l’utile gestione di un affare altrui concernente una cosa di proprietà dell’interessato non può chiedere la tutela possessoria (nella specie con azione di nunciazione) al fine di ottenere il rispetto della distanza legale per le costruzioni, in relazione a preesistenti vedute aperte nel fondo appartenente al gestito, poiché il gestore non è legittimato a far valere in nome proprio la situazione possessoria facente capo al gestito (posto che la sostituzione processuale è ammessa nei soli casi espressamente previsti dalla legge), e, come titolare di una situazione di detenzione autonoma, in quanto riconosce la situazione poziore dell’interessato, non è legittimato all’esercizio di un’azione come quella tendente al rispetto delle distanze legali, che deve qualificarsi di manutenzione.

In tale figura rientra anche il conduttore. In particolare è stato precisato da recente Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 1 settembre 2014, n. 18486

che il conduttore che si trovi nella detenzione dell’immobile dopo la cessazione di efficacia del contratto di locazione mantiene la veste e la qualità di conduttore, peraltro inadempiente all’obbligo di restituzione dell’immobile. Il conduttore, dunque, rimane detentore qualificato dell’immobile di cui continua a mantenere la disponibilità, pur dopo la scadenza del contratto, come tale è legittimato a ricorrere alla tutela possessoria, ex art. 1168, secondo comma, cod. civ.

Non sembra dubitabile – si continua a leggere nella sentenza in commento –  che la situazione del conduttore di immobile, nella fase successiva alla scadenza del contratto di locazione, sia differente da quella del detentore per ragioni di servizio o di ospitalità.

Neppure si può ritenere che il conduttore, a seguito e per effetto della scadenza del contratto di locazione, divenga un occupante senza titolo dell’immobile. Alla scadenza del contratto, ovvero del diverso termine fissato per il rilascio nel provvedimento di convalida, senza che il conduttore abbia rilasciato l’immobile, si determina una situazione di inadempimento contrattuale, espressamente prevista dall’art. 1591 cod. civ. che in proposito stabilisce che “il conduttore in mora a restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno”.

La giurisprudenza della Corte ha affermato, sin da epoca risalente, che nella fase successiva alla scadenza del contratto, e fintanto che il locatore non proceda all’esecuzione del provvedimento di rilascio, il conduttore che continui ad occupare l’immobile è soggetto ad una serie di obblighi, collegati al contratto, dovendo tra l’altro corrispondere al locatore il canone, fino alla riconsegna (art. 1591 cod. civ.), salvo il maggior danno, anch’esso di natura contrattuale (ex plurimis, Cass., Sez. II, sentenza n. 2672 del 1981; Sez. III, sentenza n. 1133 del 1999; Sez. III, sentenza n. 19139 del 2005; Sez. III, sentenza n. 2525 del 2006).

Non sussiste peraltro contrasto, tra il principio indicato e le affermazioni contenute in alcune pronunce di questa Corte, nelle quali si legge che “il conduttore rimasto nella detenzione dell’immobile dopo la cessazione del contratto (nella specie, accertata giudizialmente) è tenuto al pagamento, da tale momento, dell’indennità di occupazione ai sensi dell’art. 1591 cod. civ., e non già del canone secondo le scadenze pattuite, perché, cessato il rapporto di locazione, la protrazione della detenzione costituisce inadempimento dell’obbligo di restituzione della cosa locata, anche quando è consentita dalla legge di sospensione degli sfratti” (Cass., Sez. III, sentenza n. 4484 del 2009; sentenza n. 11373 del 2010). Le pronunce da ultimo indicate fanno riferimento a casi in cui il legislatore è intervenuto a bloccare le procedure di rilascio, e in questo differente contesto qualificano come indennità il quantum dovuto dal conduttore ai sensi dell’art. 1591 cod. civ..

Il conduttore, dunque, rimane detentore qualificato dell’immobile di cui continua a mantenere la disponibilità, pur dopo la scadenza del contratto, come tale è legittimato a ricorrere alla tutela possessoria, ex art. 1168, secondo comma, cod. civ.

  • Il convivente more uxorio: per ultima Cassazione (Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 2 gennaio 2014, n. 7) in considerazione del rilievo sociale che ha ormai assunto per l’ordinamento la famiglia di fatto, la convivenza “more uxorio”, quale formazione sociale che da vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalita’, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Al riguardo, e’ stato ritenuto che l’estromissione violenta o clandestina dall’unita’ abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio (Cass. 7214/2013).

Principio ripreso da altra recente Cassazione,

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 15 settembre 2014, n.19423

secondo la quale, appunto, la convivenza ‘more uxorio’, quale formazione sociale che dà vita ad un consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità e tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Pertanto l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio.

Orientamento già affermato in una precedente sentenza del 21/3/2013 n. 7214 della medesima Cassazione.

Nel precedente testé richiamato si è dato conto della diversità della convivenza di fatto, fondata sull’affectio quotidiana (ma liberamente e in ogni istante revocabile) di ciascuna delle parti, rispetto al rapporto coniugale, caratterizzato, invece da stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio; si è tuttavia osservato che questa distinzione non comporta che il rapporto del soggetto con la casa destinata ad abitazione comune, ma di proprietà dell’altro convivente, si fondi su un titolo giuridicamente irrilevante quale l’ospitalità, anziché sul negozio a contenuto personale alla base della scelta di vivere insieme e di instaurare un consorzio familiare, nei casi in cui l’unione, pur libera, che abbia assunto – per durata, stabilità, esclusività e contribuzione – i caratteri di comunità familiare; pertanto in questi casi, anche dopo la dissoluzione del rapporto di coppia così stabilizzato (nel caso qui in esame per la morte del convivente) non è consentito al convivente proprietario (nel caso qui in esame all’erede che subentra nell’identica posizione) ricorrere alle vie di fatto per estromettere l’altro dall’abitazione, perché il canone della buona fede e della correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento, impone al legittimo titolare che intenda recuperare, com’è suo diritto, l’esclusiva disponibilità dell’immobile, di avvisare e di concedere un termine congruo per reperire altra sistemazione.

La legittimazione all’azione di spoglio da parte del convivente more uxorio è stata poi ritenuta applicabile anche qualora lo spoglio sia compiuto da un terzo nei confronti del convivente del detentore qualificato del bene (Cass. 2/1/2014 n.7).

L’azione è comunque esperibile anche nei confronti dell’erede del proprietario il quale, pur subentrando per fictio iuris nel possesso del de cuius non è legittimato ad estromettere dal possesso con violenza o clandestinità colui che non poteva esserne estromesso dal de cuius.

Principio, nuovamente ribadito dalla Cassazione

Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 11 settembre 2015, n. 17971

La convivenza “more uxorio”, quale formazione sociale che da vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalita’, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Ne consegue che l’estromissione violenta o clandestina dall’unita’ abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio.

E’ stato pure affermato nella medesima pronuncia, che anche nelle convivenze di fatto, in presenza di figli minori nati dai due conviventi, l’immobile adibito a casa familiare e’ assegnato al genitore collocatario dei predetti minori, anche se non proprietario dell’immobile o conduttore in virtu’ di rapporto di locazione o comunque autonomo titolare di una posizione giuridica qualificata rispetto all’immobile. Egli, peraltro in virtu’ dell’affectio che costituisce il nucleo costituzionalmente protetto (ex articolo 2 Cost.) della relazione di convivenza e’ comunque detentore qualificato dell’immobile ed esercita il diritto di godimento su di esso in posizione del tutto assimilabile al comodatario, anche quando proprietario esclusivo sia l’altro convivente.

  • l’erede[362]; per la S.C.[363] il possesso è tutelato dall’ordinamento giuridico con le azioni di reintegrazione e di manutenzione, previste dagli artt. 1168 e 1170 c.c., per garantire, nell’interesse collettivo, il diritto soggettivo alla sua conservazione contro gli atti di spoglio violento o clandestino e di molestia e per evitare turbamento della pace sociale, a prescindere dalla esistenza di un titolo giustificativo, essendo considerato di per sé un valore meritevole di tutela; e poiché, ai sensi dell’art. 1146 c.c., il possesso continua, con effetto dall’apertura della successione, nell’erede, quest’ultimo, alla morte del possessore, è legittimato a promuovere dette azioni. A tal fine, è sufficiente che l’erede provi la propria qualità di successore universale, non richiedendosi la dimostrazione dell’esistenza di un titolo che autorizzi ad esercitare il potere di fatto sulla cosa. Inoltre, costituendo il possesso, ai sensi dell’art. 1140 c.c., un potere di fatto che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio non solo della proprietà, ma di ogni altro diritto reale, l’erede di chi possedeva la cosa come usufruttuario è legittimato ad esperire i rimedi apprestati dall’ordinamento contro chiunque compia atti di spoglio o di turbativa e anche nei confronti della persona divenuta piena proprietaria del bene per effetto dell’estinzione del diritto di usufrutto di cui era titolare il defunto. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva escluso la legittimazione degli eredi del soggetto che possedeva un immobile a titolo di usufrutto a promuovere l’azione di reintegrazione nei confronti di chi era divento pieno ed esclusivo proprietario del bene con l’estinzione dell’usufrutto).

Qualora, poi, il possesso di un bene si trasferisca, a seguito di successione mortis causa, agli eredi pro indiviso, a ciascun erede deve riconoscersi la facoltà di agire a tutela del proprio compossesso, anche per denunciare lo spoglio commesso da altro compossessore tramite un godimento esclusivo del bene medesimo, senza che insorga necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti gli eredi[364].

  • Il colono; quale detentore autonomo, ben può esperire l’azione di reintegrazione contro il concedente che lo abbia spogliato del godimento del fondo, ma, appunto in quanto detentore e non già possessore, non può reagire con l’azione di manutenzione alle molestie del concedente che turbino siffatto godimento[365].
  • Il locatore; il proprietario della cosa locata non perde, per il fatto di aver concesso la cosa in locazione, il possesso della medesima, in quanto esercita il possesso per mezzo del locatario, con la conseguenza che egli può, in concorso di costui, o anche da solo in nome proprio, esercitare le azioni possessorie contro atti di molestia o di spoglio da chiunque esercitati contro la cosa locata: ciò perché la detenzione dell’immobile da parte del conduttore coesiste con il possesso del locatore, cosicché tanto l’uno che l’altro hanno diritto alla tutela della propria situazione giuridica mediante l’esercizio dell’azione di reintegrazione contro l’autore dello spoglio[366].
  • I condomini; hanno sulle parti comuni dello edificio stesso, il possesso (corpore vel animo), e quindi hanno diritto ad agire, nel concorso di tutti i requisiti per tale azione, per la tutela possessoria in relazione ad atti compiuti da un condomino che interessino la facciata dell’edificio comune[367].
  • Il custode giudiziario; di beni sottoposti a sequestro giudiziario — in quanto esponente e rappresentante, in particolare nei confronti dei terzi, di un patrimonio separato costituente centro di imputazione di rapporti giuridici attivi e passivi — risponde direttamente nei riguardi dei terzi stessi degli atti compiuti in siffatta veste, quand’anche in esecuzione di provvedimenti del giudice ai sensi dell’art. 676 c.p.c. (ai quali i predetti terzi, non essendone destinatari in via immediata, non possono opporsi nell’ambito di quella procedura cautelare) e, pertanto, è legittimato a stare in giudizio attivamente e passivamente in relazione a tali rapporti e per la tutela degli interessi collegativi, anche in ordine a pretese molestie possessorie poste in essere, senza che la conseguenzialità all’esecuzione dei menzionati provvedimenti valga ad escluderne l’animus turbandi in relazione alla volontarietà del fatto (od atto) ed alla concreta relativa efficienza a contraddire un’altrui situazione di possesso[368].
  • Il curatore fallimentare;
  • Socio; poiché nella società semplice il possesso del patrimonio sociale è un possesso dei soci, almeno nei rapporti interni, il socio spogliato dal possesso da altro socio può esercitare contro quest’ultimo l’azione di reintegrazione ex art. 1168 c.c.[369]
  • Committente nel contratto d’appalto; nel contratto d’appalto il committente non perde il possesso del bene, ma continua ad esercitarlo tramite l’appaltatore ancorché questi sia un detentore autonomo, legittimato ex art. 1168 c.c. all’azione di reintegrazione contro il terzo autore dello spoglio[370].
  • La pubblica amministrazione; le azioni possessorie sono esperibili davanti al giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione (e di chi agisca per conto di essa) solo quando il comportamento perseguito dalla medesima non si ricolleghi ad un formale provvedimento amministrativo, emesso nell’ambito e nell’esercizio di poteri autoritativi e discrezionali ad essa spettanti (di fronte ai quali le posizioni soggettive del privato hanno natura non di diritto soggettivo, bensì di interessi legittimi, tutelabili, quindi, davanti al giudice amministrativo), ma si concreti e si risolva in una mera attività materiale, disancorata e non sorretta da atti o provvedimenti amministrativi formali. Ne consegue che, ove dette azioni siano proposte in relazione a comportamenti attuati in esecuzione di poteri pubblici o comunque di atti amministrativi, va dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, ai sensi dell’art. 37, primo comma, c.p.c.[371]

3)   La legittimazione passiva

Le azioni possessorie sono proponibili contro chi abbia posto in essere un comportamento arbitrario che sia causa diretta ed immediata della perdita o della molestia del possesso[372].

La legittimazione passiva va determinata in relazione al momento della proposizione della domanda e pertanto permane anche se successivamente lo stesso spogliatore non sia più in grado di operare la riduzione in pristino, atteso che la pronuncia sull’illegittimità dello spoglio mantiene la sua utilità quanto meno al fine accessorio e consequenziale di legittimare il risarcimento dei danni dello spogliato[373].

E’ opportuno precisare, inoltre, che la giurisprudenza[374] non fa alcuna differenza tra l’esecutore materiale e quello morale, ovvero: sono legittimati passivi, oltre agli autori materiali dello spoglio, gli autori morali dello stesso, anche se questi ultimi siano indifferenti alle utilità ricavabili dal fatto dello spoglio o non siano in grado di eseguire l’ordine di reintegrazione per mancanza di disponibilità del bene oggetto della tutela possessoria, in quanto in tale ipotesi la sentenza eventualmente emessa contro di essi conserva pur sempre la sua utilità quanto meno al fine accessorio e consequenziale di legittimare una richiesta di risarcimento del danno.

Successivamente il principio è stato mitigato nel senso che, affinché un soggetto possa considerarsi autore morale dello spoglio, ancorché non ne sia il mandante, né lo abbia autorizzato, è necessario anche per la legittimazione passiva alla relativa azione, che egli sia stato consapevole di trarre vantaggio dalla situazione posta in essere dallo spogliatore[375].

È stato, infine, nuovamente specificato[376] che per «autore morale», passivamente legittimato nell’azione possessoria unitamente all’autore materiale, deve intendersi il mandante e colui che ex post abbia utilizzato a proprio vantaggio il risultato dello spoglio, sostituendo coscientemente il proprio al possesso dello spogliato, sicché la sola adesione di carattere morale all’azione dello spogliatore (o di colui che ha turbato il possesso) non è sufficiente ai fini della legittimazione passiva.

Inoltre non vi è una ipotesi di litisconsorzio poiché l’azione possessoria può essere proposta indifferentemente contro l’autore materiale o contro l’autore morale dello spoglio o della turbativa, essendo, questi, fatti illeciti che determinano la responsabilità personale di ciascun soggetto concorrente e non ricorrendo, perciò, alcuna ipotesi di litisconsorzio necessario[377].

Litisconsorzio che non sussiste anche quando lo spoglio o la turbativa siano imputabili a più soggetti, si configurano, vertendosi in tema di fatto illecito, responsabilità individuali di ogni singolo autore, che può, perciò, essere convenuto nel giudizio possessorio senza necessità della partecipazione al giudizio degli altri e che è, conseguentemente, tenuto a stare in giudizio per rispondere del suo operato senza possibilità di coinvolgere nel giudizio gli altri autori (o i loro eredi), ai quali l’attore non abbia esteso la domanda[378].

Mentre sussiste quando per l’attuazione della tutela richiesta sia necessaria la rimozione dello stato di fatto abusivamente creato, con l’abbattimento di opere appartenenti in comproprietà anche a terzi non presenti in giudizio, che, giovandosi dell’altrui fatto lesivo, vanno considerati quali autori morali dello spoglio o della turbativa, sussiste la inscindibilità della causa e la conseguente necessità di integrare nei loro confronti il contraddittorio, poiché altrimenti la pronunzia concernente la riduzione in pristino risulterebbe inutiliter data, non potendo venire eseguita né nei confronti dei comproprietari non presenti in causa, né nei soli confronti di quelli presenti, in proporzione alla loro quota di comproprietà, a nulla rilevando in contrario che il comproprietario pretermesso possa fare opposizione all’esecuzione nelle forme previste dall’art. 615 c.p.c.[379]

Sul punto è tornata nuovamente la Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 6 novembre 2015, n. 22694

la quale ha riaffermato che in tema di azioni a difesa del possesso, lo spoglio e la turbativa, costituendo fatti illeciti, determinano la responsabilita’ individuale dei singoli autori secondo il principio di solidarieta’ di cui all’articolo 2055 cod. civ., sicche’, nel giudizio possessorio non ricorre tendenzialmente l’esigenza del litisconsorzio necessario, che ha la funzione di assicurare la partecipazione al processo di tutti i titolari degli interessi in contrasto. Tuttavia, il litisconsorzio necessario tra gli anzidetti soggetti si impone qualora la reintegrazione o la manutenzione del possesso comportino la necessita’ del ripristino dello stato dei luoghi mediante la demolizione di un’opera di proprieta’ o nel possesso di piu’ persone. In tale ipotesi, infatti, la sentenza resa nei confronti di alcuno e non anche degli altri comproprietari o compossessori dell’opera sarebbe inutiliter data, giacche’ la demolizione della cosa pregiudizievole incide sulla sua stessa esistenza e necessariamente, quindi, sulla proprieta’ o sul possesso di tutti coloro che sono partecipi di tali signorie di fatto o di diritto sul bene, atteso che non e’ configurabile una demolizione limitatamente alla quota indivisa del comproprietario o del compossessore convenuto in giudizio (Sez. 2, Sentenza n. 3933 del 18/02/2010, Rv. 611526; nello stesso senso, ex plurimis, Sez. 2, Sentenza n. 22833 del 11/11/2005, Rv. 584689; Sez. 2, Sentenza n. 7412 del 14/05/2003, Rv. 563029; Sez. 2, Sentenza n. 8261 del 07/06/2002, Rv. 554957; e, tra le piu’ risalenti, Sez. 2, Sentenza n. 1511 del 22/05/1974, Rv. 369635; Sez. 2, Sentenza n. 2348 del 12/06/1975, Rv. 376200).

A fissare definitivamente il principio, sono intervenute di recente le Sezioni Unite che hanno ribadito che “In tema di tutela possessoria, qualora la reintegrazione o la manutenzione del possesso richieda, per il ripristino dello stato dei luoghi, la demolizione di un’opera in proprieta’ o possesso di piu’ persone, il comproprietario o compossessore non autore dello spoglio e’ litisconsorte necessario non solo quando egli, nella disponibilita’ materiale o solo in iure del bene su cui debba incidere l’attivita’ ripristinatoria, abbia manifestato adesione alla condotta gia’ tenuta dall’autore dello spoglio o abbia rifiutato di adoperarsi per l’eliminazione degli effetti dell’illecito, ovvero, al contrario, abbia dichiarato la disponibilita’ all’attivita’ di ripristino, ma anche nell’ipotesi in cui colui che agisca a tutela del suo possesso ignori la situazione di compossesso o di comproprieta’, perche’ in tutte queste fattispecie anche il compossessore o comproprietario non autore della condotta di spoglio e’ destinatario del provvedimento di tutela ripristinatoria” (Sez. U, Sentenza n. 1238 del 23/01/2015, Rv. 634086).

In conclusione la sentenza in commento ha afferamto il seguente principio:

1) “In tema di tutela possessoria, qualora la reintegrazione o la manutenzione del possesso richieda, per il ripristino dello stato dei luoghi, la demolizione di un’opera in proprieta’ di piu’ persone, il comproprietario non autore dello spoglio e’ litisconsorte necessario, in quanto e’ comunque destinatario del provvedimento di tutela ripristinatoria”;

2) “E’ ammissibile l’opposizione di terzo proposta – ai sensi dell’articolo 404 c.p.c., comma 1 – dal comproprietario avverso la sentenza resa inter alios che abbia disposto la demolizione della cosa comune, senza la sua partecipazione al giudizio, anche qualora con la detta opposizione il pregiudizio richiesto dall’articolo 404, comma 1, citato non sia precisato e non venga chiesto il riesame della questione di merito, dal momento che il pregiudizio richiesto dalla legge, e il correlativo l’interesse ad impugnare, sono in re ipsa, discendendo dalla natura del decisum, che comporta la distruzione della cosa oggetto del diritto sostanziale”.

La legittimazione passiva di colui che ha effettuato uno spoglio sussiste anche se, prima della proposizione nei suoi confronti della azione di reintegrazione, egli abbia perduto il possesso della cosa in quanto l’esercizio di essa, pur tendendo essenzialmente al recupero dell’oggetto dello spoglio, implica pur sempre una domanda di dichiarazione di illegittimità del comportamento della parte, anche in relazione alla possibilità per l’attore di agire, ove vi sia l’assoluta impossibilità di ottenere la restituzione della cosa, per il risarcimento dei danni, pur con un successivo separato giudizio.

Difatti è irrilevante ai fini di escludere la legittimazione passiva dell’autore materiale dello spoglio, la circostanza che questi abbia perso la disponibilità del bene per averlo alienato a terzi, perché anche in tale ipotesi la sentenza conserva la sua ragion d’essere, quantomeno allo scopo accessorio e consequenziale di legittimare la richiesta di risarcimento danni; del resto tale convincimento è avvalorato dall’art. 1169 c.c. che, prevedendo che la reintegrazione può essere domandata «anche» nei confronti di chi è nel possesso in virtù di un acquisto a titolo particolare fatto con la conoscenza dell’avvenuto spoglio, conferma la sussistenza pure in tale ipotesi della legittimazione passiva dell’autore dello spoglio medesimo[380].

Infine è bene precisare che le azioni possessorie sono esperibili davanti al giudice ordinario nei confronti della P.A. (e di chi agisca per conto di essa) quando il comportamento della medesima non si ricolleghi ad un formale provvedimento amministrativo, emesso nell’ambito e nell’esercizio di poteri autoritativi e discrezionali ad essa spettanti, ma si concreti e si risolva in una mera attività materiale, non sorretta da atti o provvedimenti amministrativi formali; ove risulti, invece, sulla base del criterio del petitum sostanziale, che oggetto della tutela invocata non è una situazione possessoria, ma il controllo di legittimità dell’esercizio del potere, va dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, competente essendo il giudice amministrativo, poiché integra una questione di merito — che spetta al giudice provvisto di giurisdizione decidere — se l’azione sia proponibile e la pretesa dell’attore possa essere soddisfatta[381].

Mentre nelle controversie tra privati nascenti dall’esecuzione di atti amministrativi l’azione possessoria è improponibile solo quando l’attività materiale del privato, che si pretenda lesiva dell’altrui possesso, costituisce la fedele esecuzione delle opere previste dalla P.A., in modo che il privato abbia agito quale longa manus della pubblica amministrazione, onde la reazione della persona, che pretende di essere stata lesa, incontra la stessa disciplina di ogni azione contro la P.A. e, conseguentemente, non si può chiedere al giudice ordinario un provvedimento decisorio che, risolvendosi nell’annullamento o revoca o modifica dell’atto amministrativo, urta contro il divieto di legge. Mentre, per contro, quando il privato esorbita dai poteri conferitigli o dagli obblighi posti a suo carico della P.A., l’attività lesiva non è più riferibile a questa e rientra nella sfera privatistica, per cui la azione possessoria è proponibile[382].

4)   Oggetto della domanda

Oggetto della domanda è il possesso del diritto reale sotteso, si rinvia al par.fo 2 del presente saggio; in particolare, poi, possono formare oggetto della domanda i diritti derivanti:

Distanze legali – per una maggiore disamina aprire il seguente collegamento;

  Le distanze tra le costruzioni ex artt. 873 e ss c.c.

 Luci e vedute – per una maggiore disamina aprire il seguente collegamento;

  Le luci e vedute

Servitù – per una maggiore disamina aprire il seguente collegamento;

    Le servitù prediali 

Usufrutto – per una maggiore disamina aprire il seguente collegamento;

  L’usufrutto

Diritto di superficie – per una maggiore disamina aprire il seguente collegamento;

  Il diritto di superficie

5)   Prova del possesso ed eccezioni

Colui che invoca la tutela possessoria è tenuto a dare la prova dell’asserito possesso[383].

L’esistenza del possesso non può essere desunta esclusivamente dalla produzione del titolo da cui il diritto deriva, potendo tale produzione servire soltanto a delibare la qualità del possesso, non già a sopperire alla mancanza di prova circa l’effettivo esercizio di esso.

Nelle azioni possessorie, il titolo costitutivo del diritto può essere preso in esame dal giudice solo in due ipotesi:

a) ove dal titolo stesso emerga la prova dell’esistenza di un potere di fatto dell’attore sulla cosa, — essendo ovvio che il titolo è un documento, cioè un mezzo di prova, da cui, come da qualsiasi altro mezzo di prova, si può desumere la sussistenza di una situazione di fatto (ad esempio, ove nel titolo si parli di un possesso di fatto esercitato);

b) ad colorandam possessionem, cioè per determinare meglio i contorni di un possesso già altrimenti dimostrato.

È, invece, da escludere che in sede possessoria la prova del possesso possa ricavarsi dal regime legale o convenzionale del diritto reale corrispondente, essendo in ogni caso necessario ed indispensabile, trattandosi di tutelare un potere di fatto materialmente estrinsecatosi in un’attività concreta, che venga data dimostrazione dell’esercizio di fatto del vantato possesso, indipendentemente dal titolo[384].

Assurgono ad elemento probatorio le sommarie informazioni fornite informalmente dai testi, non sotto il vincolo del giuramento nella prima fase del giudizio ai sensi dell’art. 689 primo comma c.p.c., pur non costituendo prova testimoniale in senso tecnico e proprio, sono idonee a fornire elementi indiziari liberamente valutabili dal giudice in sede di decisione del merito[385].

Mentre la funzione dei documenti è quella di suffragare, mediante la prova dello stato di diritto, una già delineata situazione di fatto, sicché se questa viene esclusa, non giova invocare una risultanza documentale lamentandone l’omesso esame da parte del giudice del merito, perché tale risultanza non può comunque indurre a una soluzione diversa da quella adottata[386].

In merito alle attività difensive del convenuto/resistente, per la S.C.[387], l’eccezione feci sed iure feci, sollevata dal convenuto nel giudizio possessorio, ad esempio di reintegrazione, consente una valutazione del titolo posto a sostegno di detta eccezione al limitato fine di acquisire elementi di prova in ordine alla esistenza ed estensione del possesso che il convenuto opponga di avere sulla cosa per escludere o limitare quello ex adverso vantato, mentre è preclusa ogni indagine sull’eventuale ius possidendi del convenuto medesimo in considerazione del divieto di cumulo del giudizio petitorio con quello possessorio, stabilito dall’art. 705 c.p.c.

In altri termini l’eccezione feci sed iure feci è ammissibile solo se tende a dimostrare che il convenuto non ha violato l’altrui possesso, ma ha semplicemente operato nell’ambito del proprio possesso, esclusivo o comune con l’attore, mentre è invece inammissibile allorché è diretta ad accertare lo ius possidendi del convenuto, dovendo escludersi che in sede possessoria la prova del possesso possa desumersi dal regime, legale o convenzionale, del diritto reale corrispondente, occorrendo invece che venga dimostrato l’esercizio di fatto del vantato possesso, indipendentemente dal titolo.

L’eccezione feci sed iure feci del convenuto che deduce di essere compossessore della cosa, rende necessario l’esame del titolo per stabilire sia pure ad colorandam possessionem, l’esistenza e l’estensione del diritto che si allega. Pertanto, tale eccezione deve ritenersi ammissibile se il convenuto tenda a dimostrare di aver agito nell’ambito della sua relazione di fatto, esclusiva o comune, con il bene, mentre deve ritenersi inammissibile se il convenuto mira a fare accertare il suo diritto sul bene medesimo, non potendo essere desunta in sede possessoria la prova del possesso dal regime legale o convenzionale del corrispondente diritto reale, occorrendo, invece, dimostrare l’esercizio di fatto del vantato possesso indipendentemente dal titolo e ciò anche dopo la parziale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 705 c.p.c., in quanto il convenuto in giudizio possessorio può opporre le sue ragioni solo quando dall’esecuzione della decisione sulla domanda possessoria potrebbe derivargli un danno irreparabile, e sempre che l’eccezione sia finalizzata solo al rigetto della domanda possessoria e non implichi, quindi, deroghe alle regole generali sulla competenza[388].

Infine, secondo ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 3 marzo 2016, n. 4198

nel giudizio possessorio l’eccezione feci sed iure feci non è ammissibile quando tenda a fare valere non già lo ius possessionis, cioè l’esistenza di un possesso nello spogliatore, ma lo ius possidendi, e cioè il diritto di possedere dello spogliatore medesimo. Di conseguenza, deve escludersi che in sede possessoria la prova del possesso possa desumersi dal regime -legale o convenzionale- del diritto reale corrispondente, occorrendo invece che venga dimostrato l’esercizio di fatto del vantato possesso, indipendentemente dal titolo.

6)   Provvedimento

Il giudice provvede ai sensi degli artt. 669 bis e seguenti, in quanto compatibili: ciò vuol dire che l’istruttoria è sommaria e deformalizzata, come previsto dall’art. 669 sexies.

Il provvedimento finale assume di regola la forma dell’ordinanza resa nel contraddittorio delle parti.

Non si può tuttavia escludere l’utilizzo anche del modulo a contraddittorio differito, ove la convocazione della controparte possa pregiudicare l’attuazione del provvedimento. In tal caso la decisione assume la forma del decreto inaudita altera parte, il quale però fissa l’udienza di comparizione delle parti in contraddittorio, all’esito della quale con ordinanza sarà confermato, revocato o modificato il precedente decreto.

Lo scenario è però significativamente mutato a seguito della legge n. 80/2005 (di conversione, con modifiche, del D.L. n. 35/2005 “competitività”).

Essa da un canto ha introdotto, con la modifica dell’art. 669 octies, per le cautele idonee ad anticipare gli effetti della sentenza di merito e per i provvedimenti resi su denuncia di nuova opera e danno temuto, il regime di strumentalità attenuata, per il quale la perdita di efficacia non consegue al tardivo o mancato inizio del giudizio di merito, né alla sua successiva estinzione.

Dall’altro, ha nuovamente modificato l’art. 703, stabilendo l’applicabilità del rito cautelare uniforme solo in quanto compatibile, e senz’altro la reclamabilità dell’ordinanza ex art. 669 terdecies (in ciò confermando soluzioni già invalse in via interpretativa).

Da ultimo dalla Cassazione

Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 4 marzo 2015, n. 4292

è stato ribadito che l’ordinanza emessa in sede di reclamo ai sensi degli artt. 669 terdecies e 703, 3 comma c.p.c. in nessun caso può coniugare insieme i requisiti di definitività e decisorietà indispensabili affinché possa essere oggetto di ricorso per cassazione (giurisprudenza costante di questa Corte: v. Cass. nn. 17211/10, 8446/06 e 3338/02). Infatti (come osservato da Cass. n. 3629/14, di cui quanto segue riproduce pressoché esattamente la motivazione) delle due l’una: o tale ordinanza rimane assorbita nella sentenza emessa all’esito dell’eventuale fase di cognizione piena instaurata con la richiesta di prosecuzione del giudizio, ai sensi del 4 comma dell’art. 703 c.p.c., fase definita con sentenza che costituisce, a sua volta, l’unico provvedimento decisorio sulla domanda; ovvero, in caso di mancata richiesta di prosecuzione del giudizio nel termine perentorio stabilito da quest’ultima norma, si pone un’ulteriore alternativa, che ugualmente esclude ogni ipotesi di ricorribilità per cassazione dell’ordinanza che provvede sul reclamo.

La prima soluzione ipotizzabile è che a tale ordinanza si riconosca una stabilità puramente endoprocessuale ed un’efficacia soltanto esecutiva, come avviene per le (pur ontologicamente diverse) misure cautelari, giacché applicandosi l’art. 669-octies, ultimo comma c.p.c. (in base al rinvio agli artt. 669-bis e ss. in quanto compatibili: secondo comma dell’art. 703 c.p.c.), questa al pari di quelle è inidonea al giudicato è dunque, per definizione, non decisoria.

La seconda ipotesi (da ritenersi preferibile, per ragioni di carattere sistematico) è che l’estinzione del giudizio possessorio per la mancata prosecuzione di esso ai sensi del 4 comma dell’art. 703 c.p.c., determini una preclusione pro iudicato (al pari di altre situazioni simili, come quella della seconda ipotesi del primo comma dell’art. 653 c.p.c., operante non solo per il decreto ingiuntivo, ma anche per l’ordinanza ingiuntiva incidentale ex art. 186-ter c.p.c). In tal caso, esclusa per incompatibilità l’applicazione dell’art. 669-octies ultimo comma c.p.c., la parte che non abbia raccolto la provocatio ad prosequendum contenuta nel 4 comma dell’art. 703 c.p.c., e, con essa, la possibilità di ottenere una sentenza sul c.d. merito possessorio, pone in essere una condotta acquiescente che rende irretrattabile l’ordinanza possessoria, munendola di una stabilità (non meramente endoprocessuale, ma) esterna, parificabile a quella della sentenza passata in giudicato.

La legge ha poi optato, in linea con l’intento di disincentivare l’accesso al giudizio a cognizione piena, per la semplice facoltatività del giudizio di merito: conclusa la fase sommaria, il procedimento entra in una fase di quiescenza prestandosi al duplice sviluppo previsto dall’art. 703, comma 4.

Può anzitutto accadere che una delle parti, entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione del provvedimento che ha deciso sul reclamo o, in difetto, dalla comunicazione dell’ordinanza di prime cure, chieda al medesimo magistrato la fissazione dell’udienza per la prosecuzione del giudizio di merito. Si ritiene che l’iniziativa in tal senso configuri una forma di riassunzione del processo. Se invece il giudizio sul merito possessorio non è iniziato nel termine predetto, che spira inutilmente, l’ordinanza possessoria resa ai sensi dell’art. 703, comma 3 acquista stabilità .

Il richiamo dell’art. 703 al solo comma 3 dell’art. 669 novies rende infatti evidente che il provvedimento perde efficacia solo nei casi di mancato versamento della cauzione ex art. 669 undecies o se, con sentenza anche non passata in giudicato, è dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale il provvedimento fu concesso.

art 704 c.p.c.     domande di provvedimento possessorio nel corso di giudizio petitorio: ogni domanda relativa al possesso, per fatti che avvengono durante la pendenza del giudizio petitorio, deve essere proposta davanti al giudice di quest’ultimo. La reintegrazione del possesso può essere tuttavia domandata al giudice competente a norma dell’articolo 703, il quale dà i provvedimenti temporanei indispensabili e rimette le parti davanti al giudice del petitorio.

 

 

7)   Rapporti fra giudizio possessorio e giudizio petitorio

[389]

 

art.  705  c.p.c.   divieto di proporre giudizio petitorio: il convenuto nel giudizio possessorio non può proporre giudizio petitorio, finché il primo giudizio non sia definito e la decisione non sia stata eseguita[390]. Il convenuto può tuttavia proporre il giudizio petitorio quando dimostra che l’esecuzione del provvedimento possessorio non può compiersi per fatto dell’attore.

Per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 25 del 3 febbraio 1992, che ha dichiarato l’illegittimità, per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, dell’art. 705 c.p.c., nella parte in cui subordina la proposizione del giudizio petitorio alla definizione della controversia possessoria ed alla esecuzione della relativa decisione anche quando da tale esecuzione possa derivare al convenuto pregiudizio irreparabile, il convenuto in giudizio possessorio può opporre le sue ragioni petitorie quando dalla esecuzione della decisione sulla domanda possessoria potrebbe derivargli un danno irreparabile, purché l’eccezione sia finalizzata solo al rigetto della domanda possessoria (e non anche ad una pronuncia sul diritto con efficacia di giudicato) e non implichi, quindi, deroga delle ordinarie regole sulla competenza[391].

Ciò non vale per l’attore, poiché il divieto di proporre giudizio petitorio allorquando tra le stesse parti e per il medesimo bene sia tuttora pendente un procedimento possessorio, riguarda, ai sensi dell’art. 705 c.p.c., soltanto il convenuto, per cui nulla vieta all’attore, in pendenza del giudizio possessorio, di formulare domanda petitoria in separato processo; né si profila in tal caso una questione di litispendenza, poiché le due azioni, pur avendo le stesse parti, differiscono nettamente per petitum e causa petendi[392], difatti è in facoltà del convenuto eccepire la improcedibilità di tale domanda, in quanto caratterizzata da un petitum e da una causa petendi del tutto autonomi rispetto a quelli della precedente domanda possessoria[393].

È stato, poi, ulteriormente specificato[394] che la definizione del giudizio possessorio e l’esecuzione della relativa decisione, le quali, ai sensi dell’art. 705 c.p.c., configurano condizioni necessarie e concorrenti affinché il convenuto in detto giudizio sia abilitato ad agire in via petitoria, possono trovare equipollente solo nell’ipotesi in cui vi sia stata una sostanziale cessazione del giudizio possessorio, per avere il convenuto stesso spontaneamente reintegrato l’attore nel possesso, aderendo così alla sua domanda e rinunciando ad ogni contestazione in proposito. Pertanto, il divieto di proporre giudizio petitorio, fissato dalla citata norma, non viene meno quando l’indicata reintegrazione sia avvenuta non spontaneamente, ma in esecuzione di un ordine provvisorio emesso dal pretore in pendenza del procedimento possessorio.

Da ultimo[395] è stato previsto che nel caso in cui il giudice, accogliendo un ricorso possessorio, ordini allo spogliante di reintegrare lo spogliato nel possesso di una servitù di passaggio, coessenziale al provvedimento in questione è l’ordine di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, se la modifica di essi ha reso impossibile l’esercizio del possesso della servitù, non ostando a tale pronuncia il divieto posto dall’art. 705 c.p.c., che concerne il convenuto, e a nulla rilevando che l’accertamento della sussistenza del diritto di servitù formi oggetto di un separato giudizio petitorio.

Le azioni proposte, rispettivamente, in sede possessoria e petitoria, pur nell’eventuale identità soggettiva, sono caratterizzate dall’assoluta diversità degli ulteriori elementi costitutivi (causa petendi et petitum), e, conseguentemente, i provvedimenti e le soluzioni adottate in sede possessoria, lasciando impregiudicata ogni questione sulla legittimità della situazione oggetto di tutela, non possono influire sull’esito del giudizio petitorio. Né le prove acquisite nel giudizio possessorio possono (salvo che non siano state richieste con riguardo a siffatta utilizzazione) essere richiamate nel giudizio petitorio, in favore dell’una o dell’altra parte[396], né le argomentazioni e le circostanze risultanti dalla sentenza che ha definito quel giudizio, giacché queste ultime hanno rilievo solo in quanto si trovino in connessione logica e causale con la decisione in sede possessoria, e perciò, lasciando impregiudicata ogni questione, sulla legittimità della situazione oggetto della tutela possessoria, non possono influire sull’esito del giudizio petitorio[397].

L’orientamento della S.C.[398] in merito ai provvedimenti possessori emessi dal giudice del petitorio è nel senso che hanno carattere puramente incidentale, essendo destinati a venire assorbiti dalla sentenza che definisce la controversia petitoria, la quale costituisce l’unico titolo per regolare in via definitiva i rapporti in contestazione tra le parti, di natura sia possessoria che petitoria, con la conseguenza che il giudice del petitorio, una volta esclusa l’esistenza del diritto da cui si pretende di derivare il possesso, deve necessariamente negare che quest’ultimo sia suscettibile di protezione giuridica.

Invero, fino a quando non intervenga una decisione in sede petitoria, il giudicato possessorio fa stato tra le parti, le quali sono tenute ad uniformare ad esso il proprio comportamento[399] (), senza che l’efficacia di quel giudicato sia subordinata all’instaurazione di un giudizio avente ad oggetto la situazione di diritto esistente tra le parti. Tuttavia, una volta intervenuta, la pronuncia sui rapporti petitori tra le parti interrompe o pone nel nulla l’efficacia del provvedimento conclusivo del giudizio possessorio, il quale non è idoneo ad incidere su diritti e rinviene nel provvedimento giudiziale di tutela del diritto il proprio limite di efficacia.

 

E)   Azione di reintegrazione (o di spoglio)

[400]

art. 1168 c.c.  azione di reintegrazione: chi è stato violentemente od occultamente spogliato del possesso può, entro l’anno dal sofferto spoglio, chiedere contro l’autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo.

L’azione è concessa altresì a chi ha la detenzione (qualificata) della cosa (c.c.1140), tranne il caso che l’abbia per ragioni di servizio o di ospitalità.

Se lo spoglio è clandestino, il termine per chiedere la reintegrazione decorre dal giorno della scoperta dello spoglio.

La reintegrazione deve ordinarsi dal giudice sulla semplice notorietà del fatto, senza dilazione (C.p.c. 703 e seguenti).

 

 

Caratteristiche dello spoglio sono:

1)  la violenza; atti di forza o di minaccia

2)  la clandestinità; spoglio effettuato in maniera occulta; rimanendo ininfluente il fatto che anche i terzi possono averne conoscenza.

La giurisprudenza mitiga il requisito della violenza, ritenendo sufficiente che, anche in assenza di forza fisica, minacce o armi, lo spoglio avvenga senza o contro la volontà del possessore[401].

Secondo una prima pronuncia in realtà doveva considerarsi violenta, ai fini della integrazione del concetto di spoglio, qualsiasi azione che avesse prodotto la privazione del possesso contro la volontà espressa o anche presunta del possessore, ancorché non vi fossero concorsi veri e propri atti di violenza materiale[402].

Per altra pronuncia[403] addirittura ricorreva lo spoglio violento anche nella privazione dell’altrui possesso mediante alterazione dello stato di fatto in cui si trovava il possessore eseguita contro la volontà anche soltanto presunta del possessore; presunzione sussistente sempre che manchi la prova di una manifestazione univoca di consenso e che non è superata dal semplice silenzio, fatto di per sé equivoco che non può essere interpretato senz’altro come manifestazione di consenso o di acquiescenza.

Quanto invece alla clandestinità, ne integra gli estremi lo spoglio avvenuto all’insaputa del possessore/detentore, che solo ex post ne viene a conoscenza[404].

Il requisito della clandestinità dello spoglio, che va riferito allo stato di ignoranza di chi lo subisce, postula che quest’ultimo si sia trovato nell’impossibilità di averne conoscenza nel momento in cui lo stesso viene posto in essere; peraltro, poiché tale inconsapevolezza non deve essere determinata da negligenza del possessore, che va accertata anche alla stregua delle circostanze in cui è stato commesso lo spoglio e mantenuto lo spossessamento, la clandestinità è esclusa dalla presenza di persone che in qualsiasi modo rappresentino il possessore, o dalla conoscenza del fatto da parte delle medesime[405].

La clandestinità, riferita al momento effettuale dello spossessamento, ricorre tutte le volte in cui questo sia avvenuto mediante atti che non possano venire a conoscenza di colui che è stato privato del possesso o della detenzione; per cui ciò che è rilevante è non tanto che il possessore o il detentore abbia ignorato lo spoglio, ma soprattutto che egli, usando l’ordinaria diligenza e avuto riguardo alle concrete circostanze in cui lo spossessamento si è verificato ed è stato mantenuto, si sia trovato nella impossibilità di averne conoscenza. L’accertamento della possibilità per lo spogliato di avere conoscenza del sofferto spoglio, usando dell’ordinaria diligenza, deve essere compiuto dal giudice del merito attraverso la valutazione delle circostanze in cui è stato commesso lo spoglio ed è stato mantenuto lo spossessamento, nonché delle particolari condizioni in cui si è trovato il possessore o il detentore. Il relativo accertamento, sempre che sia sorretto da motivazione congrua ed esente da vizi logici o da errori di diritto, si sottrae al sindacato di legittimità[406].

Per ultima cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 5 marzo 2014, n. 5215

è’ passibile di azione di reintegrazione, ai sensi dell’art. 1168 cod. civ., colui che, consapevole di un possesso in atto da parte di altro soggetto, anche se ritenuto indebito, sovverta, clandestinamente o violentemente, a proprio vantaggio la signoria di fatto sul bene nel convincimento di operare nell’esercizio di un proprio diritto reale, essendo, in tali casi, ‘l’animus spoliandi in re ipsa’, e non potendo invocarsi il principio di legittima autotutela, il quale opera soltanto ‘in continenti’, vale a dire nell’immediatezza di un subito ed illegittimo attacco al proprio possesso.

Principio quest’ultimo ripreso anche da altra recente Cassazione

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|28 luglio 2021| n. 2161

3)  l’animus spoliandi; di tale requisito, però, non vi è cenno nella lettera della norma, anche se per la S.C.[407], invece, la privazione totale o parziale del possesso (elemento obbiettivo) deve essere caratterizzata dall’elemento soggettivo (animus spoliandi), consistente nella consapevolezza di sostituirsi nella detenzione o nel godimento di un bene, contro la volontà, manifesta o presunta, dello «spogliato».

Si ritiene generalmente che la condotta dello spoliator debba essere caratterizzata dalla consapevolezza di agire contro la volontà (reale o presunta) della vittima: è quello che generaliter si definisce animus spoliandi e sussiste per il solo fatto di aver privato la vittima del possesso, indipendentemente dall’eventuale convinzione di operare secundum ius.

Con la conseguenza che la ricorrenza dello spoglio può escludersi (con onere della prova a carico del convenuto) solo in presenza di un ragionevole convincimento dello spoliator in ordine all’esistenza di un consenso anche implicito alla privazione del possesso[408].

4)  Possesso della cosa[409]; nell’azione di reintegrazione lo scopo della tutela possessoria è quello di ripristinare lo stato di fatto preesistente e di restituire il possessore, che ha sofferto lo spoglio, nel possesso della cosa. Ne consegue che quando quest’ultima sia venuta a mancare del tutto, l’azione di reintegrazione non può essere proposta per l’inesistenza del suo oggetto, (senza che possa rilevare la possibilità della ricostruzione dello stesso), inesistenza che il giudice deve accertare di ufficio, anche in mancanza di una eccezione del convenuto. Per altra pronuncia l’azione di reintegrazione, che è diretta al ripristino della preesistente situazione di fatto, qualora oggetto del potere di fatto sia una cosa nella sua integrale consistenza, ha funzione recuperatoria, con la conseguenza che non può essere proposta e dà luogo al risarcimento dei danni nell’ipotesi di totale distruzione della cosa stessa. Peraltro nel possesso di servitù, oggetto del quale è una utilità a favore di un fondo ed a carico di un altro fondo, allorché la distruzione, anche totale, riguardi le opere mediante le quali si realizza il rapporto di strumentalità tra i due fondi, resta proponibile l’azione di reintegrazione atteso che il ripristino delle opere rimosse o distrutte rimette il possessore nella preesistente situazione di fatto[410].

Anche se per altra pronuncia in caso di azione di reintegra nel possesso, il fatto di avere il convenuto dismesso ogni rapporto materiale con la cosa e di non essere, quindi, in grado di dare esecuzione all’obbligo di reintegrazione del possessore spogliato (come nell’ipotesi di un appaltatore coautore dello spoglio) non esclude la sua legittimazione passiva all’azione stessa, conservando pur sempre la sentenza di condanna una sua utilità, quanto meno al fine accessorio di legittimare una richiesta di risarcimento dei danni nei suoi confronti[411].

In tutti i casi d’impossibilità alla restituzione lo spoliatore sarà tenuto al risarcimento del danno, determinato in relazione alla perdita del possesso.

Mentre non costituisce spossessamento quel comportamento che tende a far cessare una detenzione semplicemente tollerata.

L’elemento oggettivo dello spoglio, che consiste nella privazione del possesso, si atteggia diversamente a seconda che questo abbia ad oggetto una cosa, o un diritto, sostanziandosi, nel primo caso, in un’azione che toglie al possessore il potere di fatto sulla cosa, e nel secondo caso in un comportamento che impedisce al possessore l’esercizio del diritto, e che può estrinsecarsi sia in un atto positivo, rivolto a porre in essere un ostacolo materiale allo esercizio dell’altrui diritto, sia in un contegno negativo, con il quale lo spoliator si opponga all’eliminazione di un ostacolo non creato da lui, contro l’espressa volontà del possessore di riportare la situazione di fatto allo status quo ante[412].

La giurisprudenza non ascrive all’area concettuale dello spoglio ogni modifica alla situazione di fatto, ma solo quelle che assurgano agli estremi della compromissione in modo apprezzabile dell’esercizio dei poteri sulla cosa in cui il possesso stesso si compendia[413].

Per la configurabilità dello spoglio non è necessario che la privazione del possesso abbia carattere definitivo o permanente, essendo sufficiente che si manifesti con carattere duraturo, ossia che essa non si riveli, di per sé, come mero impedimento di natura provvisoria o transitoria, ma si presenti come destinata a permanere per una durata apprezzabile di tempo[414].

Ne risulta una casistica che modula in modo articolato i profili dello spoglio, ravvisandosene gli estremi sia nel caso di una privazione parziale[415], sia in caso di sottrazione[416] vera e propria del possesso sia in caso di svuotamento[417] dei poteri della vittima sulla res; sia ancora in ipotesi di aggressione implicante un mutamento di destinazione[418] economica della res stessa o, infine, di semplice atto arbitrario[419].

Mentre la vendita di un bene da parte del comproprietario-compressore in quanto traslativa dello ius possidendi, ma non necessariamente dello iuris possessionis, non è sufficiente ad integrare gli estremi dello spoglio in danno degli altri compossessori ove non segua l’immissione di fatto dell’acquirente nel possesso del bene a lui venduto[420].

In tema di servitù

Il carattere saltuario dell’esercizio delle servitù discontinue (servitù di passaggio) non costituisce ostacolo all’esperibilità delle azioni a tutela del possesso, dovendo esso essere valutato in relazione alle peculiari caratteristiche ed esigenze della servitù stessa, essendo sufficiente, una volta instaurata sul bene la relazione di fatto sostenuta dal relativo animus possidendi, che il bene medesimo possa continuare a considerarsi nella virtuale disponibilità del possessore che può venir meno soltanto in presenza di chiari ed univoci segni dell’animus derelinquendi[421].

Ai fini della reintegrazione nel possesso di una servitù di passaggio, non occorre che tale possesso abbia i requisiti occorrenti per l’usucapione, essendo sufficiente la prova del durevole e pacifico utilizzo del passaggio in epoca prossima a quella dello spoglio, dal quale è consentito presumere l’utilizzo nel momento dello spoglio stesso ed, altresì, che il transito sia stato dall’attore effettuato nella sua qualità di possessore di un fondo cui si accede mediante quello attraversato[422].

Il termine annuale

La reintegra è sottoposta a un termine di decadenza: entro l’anno dal sofferto spoglio recita l’art. 1168, e la decorrenza si attesta dal momento della scoperta in caso di spoglio clandestino.

Il termine annuale, previsto a pena di decadenza dall’art. 1168 c.c. per la proposizione dell’azione di reintegrazione nel possesso, va determinato con riferimento alla data di deposito del ricorso, che individua con certezza la reazione all’atto illecito, mentre irrilevanti sono al riguardo la data della sua notifica o quella in cui sia stato notificato l’atto di chiamata in causa del terzo, successivamente individuato, in base alle difese del convenuto o alle risultanze processuali, quale autore dello spoglio[423].

Nell’ipotesi in cui lo spoglio sia stato clandestino, colui che agisce in possessoria — sul quale incombe, di regola, l’onere di provare la tempestività della proposizione dell’azione — deve dimostrare soltanto la clandestinità dell’atto violatore del possesso e la data della scoperta di esso da parte sua, iniziando a decorrere il termine annuale di decadenza dal momento in cui cessa la clandestinità e lo spossessato viene a conoscenza dell’illecito, o sia in condizione di averne conoscenza facendo uso della normale diligenza; resta, invece, a carico del convenuto spoliatore l’onere di provare l’intempestività dell’azione rispetto all’epoca di conoscenza o di conoscibilità dello spoglio[424].

Trattandosi di decadenza e non di prescrizione, la prova della tempestività dell’azione incombe all’attore, tenuto a dimostrare la sussistenza dei presupposti necessari all’esercizio di essa. Nell’ipotesi in cui la turbativa (o lo spoglio) sia riferibile a più atti successivi, il termine decorre dal primo di essi, quando lo stesso presenti, da solo, l’idoneità necessaria a concretare la turbativa e gli atti successivi siano ad esso collegati o connessi in modo tale da costituire prosecuzione e progressione della medesima attività, mentre decorre dall’ultimo quando i singoli atti siano autonomi e dissociati[425].

Il giudice non può rilevare d’ufficio il decorso del termine di decadenza per la proposizione dell’azione di spoglio di cui all’art. 1168 c.c., trattandosi di materia non sottratta alla disponibilità delle parti[426].

art. 1169 c.c.   reintegrazione contro l’acquirente consapevole dello spoglio: la reintegrazione si può domandare anche contro chi è nel possesso in virtù di un acquisto a titolo particolare (1321), fatto con la conoscenza dell’avvenuto spoglio.

Per la S.C.[427] nel caso in cui il trasferimento del possesso del bene ad un terzo avvenga prima che sia proposta l’azione possessoria, il soggetto spogliato deve necessariamente convenire in giudizio l’avente causa dello spoliator (altrimenti, la sentenza di reintegra emessa contro l’autore dello spoglio sarebbe inutilmente resa, avendo quest’ultimo perduto, col possesso del bene, la facultas restituendi) e può ottenere la tutela invocata a condizione: a) che vi sia stato uno spoglio a norma dell’art. 1168 c.c.; b) che l’avente causa dello spoliator abbia ricevuto il possesso del bene, per effetto dell’acquisto a titolo particolare, dall’autore dello spoglio; c) che lo stesso fosse a conoscenza dello spoglio nel momento in cui ha acquistato il possesso, in quanto tale conoscenza è elemento costitutivo dell’obbligo di effettuare la disposta reintegrazione. Nel caso in cui, invece, il trasferimento del possesso avvenga dopo l’esercizio dell’azione possessoria e l’attore ottenga la condanna dello spoliator alla reintegrazione, l’avente causa di quest’ultimo non è tutelato dalla presunzione di buona fede, in quanto la pendenza del processo al momento della cessione del possesso rappresenta il fatto costitutivo dell’obbligo, a carico dell’avente causa dello spoliator, di effettuare la disposta reintegrazione e non potendosi ammettere che l’autore dello spoglio, trasferendo ad altri, a processo iniziato, il possesso del fondo, vanifichi gli effetti della sentenza di reintegrazione, facendo così venir meno la tutela giurisdizionale possessoria del soggetto spossessato.

 

 

F)   Azione di manutenzione

[428]

art. 1170 c.c.    azione di manutenzione: chi è stato molestato nel possesso di un immobile, di un diritto reale sopra un immobile o di un’universalità di mobili può, entro l’anno dalla turbativa (attività che ostacola o rende più gravoso il possesso), chiedere la manutenzione del possesso medesimo (C.p.c. 703 s.s.).

L’azione e data se il possesso dura da oltre un anno, continuo e non interrotto, e non è stato acquistato violentemente o clandestinamente. Qualora il possesso sia stato acquistato in modo violento o clandestino, l’azione può nondimeno esercitarsi, decorso 1anno dal giorno in cui la violenza o la clandestinità è cessata.

Anche colui che ha subito uno spoglio non violento o clandestino può chiedere di essere rimesso nel possesso, se ricorrono le condizioni indicate dal comma precedente.

Differentemente dallo spoglio, la molestia non priva il possessore del godimento del bene, ma ne turba l’esercizio; essa può consistere in un’attività materiale oppure in un’attività giuridica e deve trattarsi, in ogni caso, di attività persistenti o comunque destinati ad avere un seguito di turbativa.

La cessazione della molestia prima della proposizione della domanda fa venire meno il presupposto dell’azione.

Così secondo unanime giurisprudenza:

l’azione di manutenzione ha per fine la cessazione della molestia del possesso, e quindi in tanto può essere esperita, in quanto vi sia una molestia in atto al momento della proposizione della domanda[429]. Anche si avrà modo di specificare da qui a poco che il principio è stato mitigato.

L’azione di manutenzione, di cui all’art. 1170, primo comma, c.c., avendo come fine la cessazione della turbativa del possesso, postula, per la sua esperibilità, una molestia in atto al momento della proposizione della domanda, estremo, questo, insussistente nella ipotesi di atti di molestia sporadici, ossia che si esauriscono al momento del loro compimento[430].

Il fine logico-giuridico è quello della cessazione a differenza della reintegra che prevede la restituzione, anche se azione di manutenzione del possesso oltre ad avere carattere non meramente conservativo, ma restitutorio, nel caso di spoglio non violento né clandestino (art. 1170, secondo comma, c.c.), tende in ogni altro caso alla cessazione della molestia, e quindi a far cessare le turbative già avvenute e ad impedire le future, sì da mantenere nel possesso colui che si trovava in tale situazione rispetto alla cosa prima della turbativa. Ne consegue che il giudice, ove riconosca fondata l’azione di manutenzione, ha il potere-dovere di ordinare la distruzione dell’opera mediante la quale sia stata arrecata la denunciata molestia, derivandone, in mancanza, che la lamentata turbativa, anziché essere eliminata, continuerebbe a produrre i suoi effetti[431].

Per altra pronuncia[432] la manutenzione non ha, necessariamente, carattere recuperatorio, come la reintegra, ma anche, e soprattutto, preventivo ed è sufficiente a proporla il semplice fondato timore che si intenda modificare, con lo stato dei luoghi, lo stato attuale del possesso. Alla nozione di molestia non è, pertanto, inerente l’esistenza di un danno attuale, essendo sufficiente che lo stato di possesso sia posto in dubbio o in pericolo perche il soggetto passivo della molestia sia legittimato a chiedere la tutela possessoria.

Per di più la riduzione in pristino, cui è diretta l’azione di manutenzione, può consistere non già nella mera riproduzione della situazione dei luoghi modificata o alterata da una determinata azione, ma anche nell’esecuzione d’un quid novi qualora il rifacimento puro e semplice sia inidoneo a realizzare il ripristino stesso[433].

Date le caratteristiche della molestia, la sua ricorrenza è da escludersi in presenza di consenso espresso o anche tacito del possessore.

Ricorre quest’ultima ipotesi quando circostanze univoche e concorrenti escludono la volontà del possessore di far valere la propria posizione[434], mentre invece il silenzio è un fatto di per sé equivoco e come non necessariamente sintomatico di consenso[435]. Non è il tuttavia il solo comportamento molesto a legittimare il ricorso all’azione di manutenzione.

I singoli beni mobili sono esclusi dall’azione per la manifesta inconfigurabilità di una molestia continuata che non sia prevenibile in via di autotutela.

La molestia che giustifica l’esperimento dell’azione è quell’attività volontaria che incide sul godimento del bene da parte del possessore in modo da contrastarlo o renderlo notevolmente più difficoltoso.

A differenza dello spoglio, non comporta la perdita del possesso.

Nel concetto di turbativa o di molestia rientra ogni attività, materiale o psichica, che anche senza investire direttamente la cosa oggetto di possesso, costituisca espressione di una volontà contraria al possesso altrui[436].

L’azione di manutenzione è esperibile non solo nell’ipotesi di molestia di fatto, ma anche in quella di semplici turbative di diritto e può essere, quindi, utilmente esercitata anche al solo fine di provocare una pronuncia ricognitiva della situazione possessoria e,correlativamente, dichiarativa dell’illiceità dell’altrui opposizione contro di essa, attraverso la minacciata frapposizione di ostacoli al compimento di un qualsiasi atto di esercizio del potere medesimo[437].

Essa, pertanto, può rivestire carattere materiale o giuridico.

Ricorre la prima ipotesi quando l’attività materiale rivesta un particolare contenuto di disturbo, che imprima al possesso addirittura una conformazione diversa da quella sua originaria, anche se a tal fine non appare necessario che l’attività del molestatore assurga agli estremi della violazione di legge[438], né che vi siano materiali alterazioni dello status quo [439], ma è sufficiente che lo stato di possesso sia posto anche soltanto in dubbio o in pericolo[440], che sia compiuto volontariamente[441] anche mediante un’opposizione all’esercizio dello altrui possesso[442].

Per alcune pronunce[443], poi, al fine della configurabilità della molestia possessoria, la quale, al pari dello spoglio, costituisce un atto illecito che lede il diritto del possessore alla conservazione della disponibilità della cosa, con l’atto materiale deve coesistere il dolo o la colpa, la cui prova incombe su chi propone la domanda di manutenzione, mentre rappresenta apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione logica e sufficiente, l’accertamento dell’esistenza dell’indicato elemento soggettivo.

Secondo una prima ricostruzione, anche in forza dei principi precedentemente enunciati, l’azione di manutenzione, essendo diretta alla tutela di uno stato di fatto apparentemente corrispondente ad una situazione di diritto, postula, per il suo accoglimento, che la turbativa (o il fatto idoneo a determinarla con certezza in futuro) siano attuali e non semplicemente potenziali ed eventuali[444].

Ma, per altra Cassazione, andando a modificare il tiro, la configurazione della molestia possessoria postula un comportamento che ponga in serio pericolo il possesso del vicino, con la conseguenza che l’azione è esperibile anche in via preventiva a fronte della minaccia di compromissione del preesistente stato di fatto[445].

Principio ripreso dalla Corte Tarantina[446] secondo la quale l’azione di manutenzione non ha il solo scopo di rimettere nel possesso la parte che ha subito uno spoglio violento o clandestino, ma anche quello di far cessare le turbative che, operate contro la volontà del possessore o attraverso contestazioni avanzate contro l’altrui possesso in maniera da esporre a pericolo il godimento del bene, attentino (nella forma di molestie di fatto o di diritto) alla integrità del possesso attraverso qualsiasi apprezzabile modificazione o limitazione del modo del precedente esercizio. Ai fini dell’utile esercizio di tale azione, pertanto, non occorre che vi sia una molestia in atto al momento della proposizione della domanda, potendo avere essa anche una funzione preventiva diretta ad arginare un’eventuale e futura turbativa.

Da ultimo, però, la Cassazione[447], ha affermato che la molestia possessoria può realizzarsi, anche senza tradursi in attività materiali, attraverso manifestazioni di volontà che devono – però – esprimere la ferma intenzione del dichiarante di tradurre in atto il suo proposito, mettendo in pericolo l’altrui possesso.

Invece, se le manifestazioni di volontà – siano esse verbali o scritte – siano rivolte all’affermazione di un diritto proprio o alla negazione di un diritto altrui senza far temere imminenti azioni materiali contrastanti con la situazione di possesso, non si è in presenza di molestia possessoria, bensì solo di espressioni intese ad evitare – se possibile – una controversia giudiziaria. La ricorrenza di una o dell’altra ipotesi rientra nella valutazione del giudice di merito, il cui accertamento – se adeguatamente motivato – sfugge al controllo di legittimità.

Principio ripreso da altra Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 12 novembre 2013, n. 25441

secondo la quale, appunto, la molestia possessoria può realizzarsi, anche senza tradursi in attività materiali, attraverso manifestazioni di volontà che devono – però – esprimere la ferma intenzione del dichiarante di tradurre in atto il suo proposito, mettendo in pericolo l’altrui possesso. Invece, se le manifestazioni di volontà – siano esse verbali o scritte – siano rivolte all’affermazione di un diritto proprio o alla negazione di un diritto altrui, senza far temere imminenti azioni materiali contrastanti con la situazione di possesso, non si è in presenza di molestia possessoria, bensì solo di espressioni intese ad evitare – se possibile – una controversia giudiziaria. La ricorrenza di una o dell’altra ipotesi rientra nella valutazione del giudice di merito, il cui accertamento – se adeguatamente motivato – sfugge al controllo di legittimità

La vicenda analizzata riguardava un ricorso per manutenzione del possesso proposto da un nipote nei confronti del proprio zio, poichè aveva spedito alla nipote, in data 23.11.200- un telegramma – ritenuto lesivo del possesso – del seguente testuale tenore: “Al solo fine di evitare l’inizio di altro giudizio ti invito a sgomberare i locali di mia proprietà posti al piano superiore ed a togliere i lucchetti abusivamente ed illegittimamente apposti il tutto entro tre giorni da oggi”.

Secondo la S.C., si continua leggere nella sentenza, che la Corte territoriale aveva argomentativamente chiarito che il telegramma non metteva in alcun modo in pericolo il possesso dell’attrice, essendo evidente che lo stesso mirava solo a prevenire altre liti tra le parti.

Trattavasi invero di una manifestazione di volontà non esprimente l’intenzione di mettere in pericolo il possesso altrui, ma di affermare un proprio diritto, sia pure con la negazione di un diritto d’altri; tutto ciò però non appariva certamente idoneo a mettere in pericolo il possesso che la ricorrente assumeva di avere sull’immobile in questione.

Per ultima sentenza di merito[448] in materia possessoria costituisce atto di turbativa, tutelabile con l’azione di manutenzione, qualsiasi comportamento idoneo a determinare una modifica della cosa incidente sulle concrete modalità di utilizzazione del bene, sino a limitarne in misura apprezzabile la facoltà del suo godimento. Ne deriva che la semplice modifica della cosa non legittima la tutela possessoria esperibile soltanto a fronte di mutamenti che comportino una concreta limitazione della facoltà di godimento del possessore. Nel caso di specie, controvertendosi in merito all’apposizione di un muretto a causa del quale l’accesso al garage dell’attore è divenuto maggiormente difficoltoso soprattutto per il transito delle autovetture, deve ritenersi sussistente la molestia possessoria e quindi fondata l’azione di manutenzione per effetto della modifica in pejus dell’esercizio del possesso.

Ciò che qualifica la molestia di fatto è insomma la pretesa dell’agente di porsi in contrasto con la posizione del possessore, sì da rendere la stessa estremamente più difficile o gravosa[449].

Nell’azione di manutenzione, l’elemento psicologico della molestia possessoria consiste nella volontarietà del fatto, tale da comportare una diminuzione del godimento del bene da parte del possessore e nella consapevolezza della sua idoneità a determinare una modificazione o limitazione dell’esercizio di tale possesso, senza che sia, per converso, richiesta una specifica finalità di molestare il soggetto passivo, essendo sufficiente la coscienza e volontarietà del fatto compiuto a detrimento dell’altrui possesso, che pertanto si presume ove la turbativa sia oggettivamente dimostrata: nella specie i Giudici[450] hanno addirittura accertato che le aperture – costituenti veduta – erano praticate, rifinite, essendo dotate di soglie sporgenti, sia pure di poco, dal filo del muro, così implicitamente ritenendo che per loro collocazione consentivano l’inspectio e la prospectio sul fondo del vicino: la mancanza dei serramenti era circostanza del tutto irrilevante.

L’azione di manutenzione non richiede che l’opera dalla quale nasce la turbativa del possesso sia completata, essendo al riguardo sufficiente l’obiettiva percezione della lesione del possesso da essa determinata.

Qualora vi siano elementi che condizionano l’esperibilità dell’azione di manutenzione contro la molestia del possesso, è possibile esercitarla anche contro lo spoglio semplice, che è lo spoglio non violento né clandestino.

Difatti agli effetti previsti dall’art. 1170 c.c. la pubblicità del possesso, richiesta per l’esperibilità dell’azione di manutenzione, deve intendersi nel senso di esercizio dell’atto di godimento in modo visibile, così da palesare l’animo del possessore di volere assoggettare la cosa al proprio potere, a nulla rilevando che l’esercizio del possesso avvenga in luogo chiuso, non aperto al pubblico, qualora esso non avvenga clandestinamente, ma alla presenza di tutti coloro che frequentano il luogo (nella specie abitazione e solaio di un immobile) su cui il possesso viene esercitato[451].

  • La legittimazione

La legittimazione spetta al possessore; ne rimane escluso il detentore[452], poiché gli è negata la tutela specifica contro gli atti che diminuiscono o rendono più complesso il godimento del bene.

Per la Cassazione, infatti, il detentore non è legittimato all’azione di manutenzione di cui all’art. 1170, primo comma, c.c. e, pertanto, il potere sulla cosa altrui, iniziato in qualità di detentore, non abilita all’esercizio della suddetta azione, salvo che risulti intervenuta l’interversio possessionis ex art. 1141 c.c.[453] .

Non è legittimato a proporre tale azione l’affittuario del fondo rustico, che è un mero detentore[454].

Mentre in tema di legittimazione passiva, come da ultimo arresto della Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 28 gennaio 2015, n. 1584

nell’ipotesi in cui più soggetti esercitino distinte servitù di passaggio su un medesimo fondo, la valutazione dell’estensione del possesso e del modo di esercizio delle servitù, al fine di stabilire se un determinato comportamento di uno di tali soggetti configuri, considerato sotto il profilo oggettivo e soggettivo, una turbativa del concorrente possesso altrui, meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1170 c.c., deve essere compiuta tenendo conto dei titoli vantati dai diversi possessori e secondo criteri di temperamento suggeriti dalle esigenze della civile convivenza e delle relazioni di buon vicinato (così Cass. 27 giugno 1985 n. 3862). L’accertamento compiuto al riguardo dal giudice del merito è incensurabile in sede di legittimità, se – come nella specie – sorretto da motivazione adeguata ed immune da errori, per avere la corte di merito argomentato anche in punto di prova del passaggio.

  • Termine di decadenza

In tema di azione di manutenzione, qualora la turbativa del possesso sia compiuta con una pluralità di atti, il termine previsto dagli artt. 1170 c.c. e 703 c.p.c. a pena di decadenza per la proposizione del ricorso, decorre dal compimento del primo della serie di atti singolarmente lesivi — omogenei od eterogenei –  tra loro collegati, costituendo ciascuno di essi turbativa del possesso; altrimenti, se la lesione(unica) del possesso si realizza solo al termine di una serie di atti preparatori e strumentali, il termine decorre dall’ultimo di essi. In ogni caso, l’accertamento in ordine alla tempestività dell’azione è riservato all’indagine di fatto del giudice di merito e, come tale, è incensurabile in sede di legittimità[455].

Per ultima pronuncia del Tribunale meneghino[456] in tema di azione di manutenzione, qualora alla turbativa del possesso concorra una pluralità di atti, il dies a quo dal quale decorre il termine annuale per proporre detta azione possessoria va individuato in quello in cui é percepibile, da parte del soggetto passivo, che un singolo atto costituisca parte di una pluralità di atti intesa a realizzare una lesione possessoria. La mera progettazione di un passaggio pedonale sul fondo altrui non integra di per sé molestia concreta e non è perciò un atto idoneo a far decorrere il suddetto termine.

 

G)  Le azioni di nunciazione (o quasi possessorie)

Con tale denominazione sono identificate due azioni che spettano sia al possessore che al proprietario non possessore ovvero al titolare di altro diritto reale di godimento

Le azioni di nunciazione hanno il fine comune di tutelare il proprietario e il possessore da un danno incombente, ma, mentre la denuncia di danno temuto mira a prevenire il danno minacciato dallo stato attuale della cosa altrui, la denuncia di nuova opera tende invece ad evitare che la prosecuzione di un’opera intrapresa, che si ha ragione di ritenere dannosa per la cosa oggetto della proprietà o del possesso, si concreti in un danno effettivo[457].

Assumono, dunque, una veste cautelare tale da realizzare una tutela preventiva del bene rispetto alla possibilità di un futuribile pregiudizio. Si distinguono in tal senso dalle azioni a difesa del possesso le quali sono invece caratterizzate da un intervento successivo pregiudizievole sofferto dal bene. E dunque a carattere repressivo.

Si tratta di due strumenti giuridici, previsti rispettivamente dagli artt. 1171 e 1172 c.c. posti anch’essi a tutela della proprietà. Entrambi mirano a ottenere un provvedimento che tuteli il denunciante dal probabile pregiudizio grave e prossimo che potrebbe derivargli da un’attività o un bene altrui, andando a incidere sull’oggetto del proprio diritto o possesso o sul libero esercizio degli stessi. In sintesi, la distinzione fra le due azioni nasce dalla diversa fonte del pericolo di danno.

 

1)   Denunzia di nuova opera

 

art. 1171 c.c.  denunzia di nuova opera: il proprietario, il titolare di altro diritto reale di godimento o il possessore, il quale ha ragione di temere che da una nuova opera (1o presupposto), da altri intrapresa sul proprio come sull’altrui fondo, sia per derivare danno (2o presupposto) alla cosa che forma l’oggetto del suo diritto o del suo possesso, può denunziare all’autorità giudiziaria la nuova opera, purché questa non sia terminata e non sia trascorso un anno dal suo inizio.

L’autorità giudiziaria, presa sommaria cognizione del fatto, può vietare la continuazione della opera, ovvero permetterla, ordinando le opportune cautele: nel primo caso, per il risarcimento del danno prodotto dalla sospensione dell’opera, qualora le opposizioni al suo proseguimento risultino infondate nella decisione del merito; nel secondo caso, per la demolizione o riduzione dell’opera e per il risarcimento del danno che possa soffrirne il denunziante, se questi ottiene sentenza favorevole, nonostante la permessa continuazione (C.p.c. 688 e seguenti).

 

L’azione di denuncia di nuova opera è di per sé priva di qualsiasi connotazione possessoria o petitoria, dando luogo solo ad una decisione interdittale, meramente strumentale rispetto al successivo giudizio di merito, che sarà definibile come possessorio o petitorio, avuto riguardo alle deduzioni ed alle pretese delle parti.

E deve definirsi come petitorio, e più precisamente come volto all’accertamento della proprietà, il giudizio in cui l’attore lamenti l’esecuzione abusiva di opere sul terreno di cui si dica proprietario, ed il convenuto resista dichiarandosi a sua volta proprietario, chiedendo di provare il proprio diritto[458].

La denuncia di nuova opera è un’azione esperibile a tutela sia della proprietà (o di altro diritto reale di godimento), sia del possesso, rimanendo, in entrambi i casi, oggettivamente identica, con la conseguenza che, ove essa sia esercitata nella duplice veste di proprietario-possessore, il giudice ben può ritenere la domanda fondata con riferimento ad una sola di dette qualità e che, in siffatta ipotesi, le due qualificazioni soggettive non sono in una relazione tale che l’una è principale (petitoria) rispetto all’altra (possessoria), bensì in rapporto di complementarietà, poiché, ai fini dell’accoglimento della domanda, le deficienze probatorie afferenti all’una possono essere ovviate o compensate dalle probanti risultanze che riguardino l’altra[459].

La stessa azione, avendo carattere preventivo in quanto mira ad evitare un danno, può essere promossa quando la nuova opera (da altri intrapresa sul proprio come sull’altrui fondo e da cui si abbia ragione di temere che possa derivare danno alla cosa che forma oggetto del diritto o del possesso del denunciante) non sia ancora terminata.

Il pericolo di danno. Questa condizione ricorre non necessariamente qualora il danno sia certo o si sia già verificato, poiché essa può riconoscersi anche nel “ ragionevole timore di danno ”. In proposito la dottrina ha, anzi, puntualizzato che il danno, proprio in quanto temuto, deve essere necessariamente futuro. Così, laddove il danno si sia già verificato, l’azione di nuova opera è esperibile solo in relazione a un danno ulteriore. Ciò che invece deve essere attuale è solo il (ragionevole) pericolo che il danno possa verificarsi. La potenziale dannosità va valutata in base a criteri di diligenza media e di prudenza, alla stregua delle caratteristiche oggettive dell’attività contestata, nel momento in cui l’azione è stata esperita.

Quando, invece, l’opera è stata portata a termine, non si può ricorrere all’azione di nunciazione, ma si deve fare ricorso alle azioni repressive volte alla rimozione e alla definitiva eliminazione della situazione dannosa, ed, in particolare, nel caso in cui si intende difendere il possesso, alle azioni possessorie di cui agli artt. 1168, 1170 c.c., per la cui proponibilità occorre che non sia decorso un anno dalla turbativa; la relativa prova incombe alla parte attrice, tenuta a dimostrare l’esistenza dei presupposti necessari all’esercizio dell’azione[460].

La non compiutezza è legata, inoltre, a un’altra condizione: il mancato decorso di un anno dall’inizio dei lavori.

Anche in relazione a questo presupposto, si è posto il problema di stabilire quale debba essere considerato il momento di inizio dei lavori.

Secondo una parte della dottrina, l’opera può dirsi iniziata quando siano stati compiuti i lavori preparatori , da cui sia desumibile la volontà dell’autore di porre in essere un’attività che si presenta foriera di un possibile danno.

Non è invece pacifica in dottrina la determinazione del momento in cui l’opera possa dirsi compiuta.

I criteri proposti sono due:

  • il criterio funzionale e
  • il criterio del danno.

Con riferimento al primo, si sostiene che l’opera debba considerarsi ultimata nel momento in cui essa è completa nelle sue componenti organiche e strutturali, a nulla rilevando, ai fini della sua compiutezza, gli elementi di “abbellimento”. La completezza dell’opera si raggiungerebbe, cioè, nel momento in cui essa dovesse possedere gli elementi necessari e sufficienti per renderla idonea all’uso per cui è stata progettata, prescindendo da decorazioni o rifiniture.

In base al secondo criterio, invece, l’opera può dirsi ultimata solo quando essa abbia provocato tutte le conseguenze dannose temute. Solo in quel momento, infatti, secondo i sostenitori di questa teoria, verrebbe a cadere qualsiasi interesse, in capo al danneggiato, di richiedere la sospensione dei lavori.

Infine sotto un profilo prettamente processuale è stato sottolineato[461] che nel procedimento di nunciazione la fase cautelare, finalizzata alle determinazioni provvisorie per la cui concessione è richiesta la ricorrenza delle condizioni poste dall’art. 1171, comma 1, c.c., è distinta da quella di merito, destinata a completare l’indagine sul fondamento della tutela, petitoria o possessoria, domandata dal ricorrente, entrambe, tuttavia, costituiscono fasi di un unico grado del medesimo giudizio – anche quando, prima della novella sul giudice unico di primo grado, la seconda dovesse svolgersi innanzi ad un giudice diverso, trattandosi di giudizio petitorio, per ragioni di competenza per valore – onde nella seconda fase non necessita una nuova domanda, essendo sufficiente, valida ed efficace quella iniziale; in detta seconda fase, poi, l’attore non incontra alcuna preclusione in ordine ai requisiti che, invece, condizionano la proponibilità dell’azione in sede cautelare e la concessione della misura richiesta ed è tenuto solo a dimostrare la sussistenza della denunziata lesione alla situazione di fatto od al diritto fatti valere.

Inoltre a norma dell’art. 1171, secondo comma, c.c., il giudice adito con denuncia di nuova opera e azione di reintegrazione nel compossesso gode di ampi poteri discrezionali, finalizzati all’eliminazione del pregiudizio che il possessore abbia subito, dall’opera altrui, nell’esercizio delle facoltà di godimento del bene tutelato; tali poteri consentono al giudice anche di imporre la realizzazione delle opere necessarie al ripristino di tale godimento[462].

2)   La denunzia di danno temuto

art. 1172 c.c.     denunzia di danno temuto: il proprietario, il titolare di altro diritto reale di godimento o il possessore, il quale ha ragione di temere che da qualsiasi edificio, albero o altra cosa sovrasti pericolo di un danno grave e prossimo alla cosa che forma l’oggetto del suo diritto o del suo possesso, può denunziare il fatto all’autorità giudiziaria e ottenere, secondo le circostanze, che si provveda per ovviare al pericolo(C.P.C. 688 s.s.)

L’autorità giudiziaria, qualora ne sia il caso, dispone idonea garanzia (1179;CPC119) per i danni eventuali

 

 

La denuncia di danno temuto ex art. 1172 c.c., prevista nel titolo IX del libro III del codice civile, proponibile dal proprietario, dal titolare di altro diritto reale di godimento o dal possessore, il quale abbia ragione di temere che da qualsiasi edificio, albero o altra cosa derivi pericolo di grave danno al bene che forma oggetto del suo diritto o del suo possesso, al fine di ottenere, secondo le circostanze, dall’autorità giudiziaria che si provveda per ovviare il pericolo, è istituto diverso dall’azione ex art. 1170, detta diversità si riverbera anche sui termini entro i quali le rispettive azioni possono essere esercitate: la prima entro l’ordinario termine prescrizionale di cui all’art. 2946 c.c., mentre per l’azione di manutenzione il termine previsto è di un anno dalla turbativa[463].

Orbene fatta questa necessaria premessa circa i presupposti (in dottrina) ne sono stati individuati tre:

1)   il pericolo di danno derivante da una cosa a un’altra;

2)   la gravità e la prossimità del medesimo;

3)   il ragionevole timore del pericolo. In proposito, la condizione della denuncia di danno temuto non presuppone necessariamente il danno certo o già comunque verificatosi ; è sufficiente che possa individuarsi un «ragionevole pericolo di danno». Ne deriva che il danno dev’essere futuro; mentre il pericolo attuale. Ove l’evento dannoso si sia già verificato l’unica azione esperibile è quella risarcitoria

Poiché l’azione di danno temuto postula un rapporto di cosa a cosa — nel senso che il fondo altrui deve costituire pericolo per quello proprio — è improponibile da colui che l’esperisce a tutela di un suo diritto personale (nella specie all’incolumità fisica, prospettata dagli utenti di una strada, di cui veniva denunciata la pericolosità per l’eccessiva pendenza, dovuta all’arbitraria modifica del tracciato precedente)[464].

In tema di azioni di nunciazione, la denunzia di danno temuto non presuppone l’esclusiva altruità della cosa da cui deriva il pericolo, giacché diversamente da quanto dall’art. 1171 c.c. previsto con il fare riferimento all’opera da «altri» intrapresa sul proprio come sull’altrui fondo, per l’ipotesi della nuova opera l’art. 1172 c.c. indica espressamente quale fonte generatrice di danno «qualsiasi edificio, albero o altra cosa», in tale generica formulazione dovendo pertanto ritenersi compresa anche la cosa di cui è comproprietario l’istante, che non sia in grado di ovviarvi autonomamente, giacché anche in tal caso risulta integrato il «rapporto tra cosa e cosa» che ne costituisce il presupposto essenziale[465].

Sotto un profilo processuale è bene ricordare, come da consolidata giurisprudenza[466], che con riguardo al procedimento per denuncia di nuova opera, ancorché ai fini dell’attribuzione delle spese della fase cautelare possa venire in rilievo la mancanza dei requisiti richiesti dalla legge per la proponibilità della denuncia, rientra tuttavia nel potere discrezionale del giudice del merito, in considerazione dell’esito finale della lite favorevole al denunciante, porre le spese dell’intero giudizio, comprese quelle della fase cautelare, a carico del convenuto.

C)   Le differenze tra le due azioni

Per una nota sentenza della S.C.[467] l’elemento discretivo tra la denuncia di nuova opera e la denuncia di danno temuto è dato dall’attività umana, quale causa del pericolo di danno, nel senso che la prima azione è diretta ad ovviare il pericolo di danno derivante immediatamente e direttamente da un’attività umana intrapresa sul proprio o sull’altrui fondo e incidente sul bene oggetto della proprietà o del possesso del denunciante, mentre la seconda azione muove dal pericolo di danno derivante al predetto bene da una cosa (edificio, pianta o altra cosa inanimata e che può essere, anch’essa, oggetto di proprietà o di possesso), per effetto di un suo particolare modo di essere[468].

La denuncia di nuova opera, in quanto tendente essenzialmente all’accertamento dell’illegittimità dell’opera iniziata non postula necessariamente l’esistenza di danni già verificatisi al momento della sua proposizione[469].

Di conseguenza, sono diversi i provvedimenti concreti che il giudice deve adottare nell’uno e nell’altro caso, poiché fermo restando il dato comune del fine di mantenere lo stato di fatto ed impedire un mutamento che può essere pregiudizievole all’altrui diritto o all’altrui possesso, nel primo egli può disporre che si arresti il fatto dell’uomo, nel secondo le opportune cautele.

E la differenza si riverbera, a sua volta, sulla legittimazione passiva[470], in quanto nella prima fase, a cognizione sommaria, del procedimento di nuova opera, legittimato passivo è colui che intraprende l’opera, cioè colui che ne assume l’iniziativa e che va considerato l’esecutore materiale della medesima, sia vi provveda direttamente, sia che si avvalga di altre persone (nel qual caso esecutore è anche il cosiddetto autore morale), mentre nella seconda fase, di merito ed a cognizione piena, la legittimazione passiva si determina in base all’azione proposta, secondo le regole generali, ossia il legittimato passivo si identifica in colui che è destinatario del comando dettato dalla norma invocata dall’attore e quindi è l’esecutore morale o materiale dell’opera, se il denunciante agisce in possessorio, ed il proprietario o il titolare di altro diritto reale, se il denunciante agisce il petitorio; invece, nella denuncia di danno temuto, legittimato passivo è sempre colui che, essendovi obbligato, abbia omesso di espletare l’attività necessaria per evitare l’insorgenza della situazione di pericolo e quindi nell’una e nell’altra fase il proprietario della cosa o, comunque, il titolare del diritto reale portatore dell’obbligo (usufruttuario, titolare di servitù, etc etc).

 

NOTE


[1] Corte di Cassazione, sentenza 21-10-71, n. 2968
[2] Bianca
[3] Vedi par.fo 7, lettera C – Riparazioni, miglioramenti ed addizioni, pag. 56
[4] Vedi par.fo 7, lettera D – Ritenzione a favore del possessore di buona fede, pag. 63
[5] Vedi par.fo 9, lettera D – Azione di manutenzione – legittimazione,  pag. 152
[6] Corte di Cassazione, sentenza 1-12-77, n. 5227
[7] Corte di Cassazione, sentenza 3 agosto 2012, n. 14104
[8] Per una maggiore disamina del contratto di locazione aprire il seguente collegamento La locazione
[9]Per una maggiore disamina del contratto di comodato aprire il seguente collegamento   Il contratto di comodato  Il comodatario quale detentore della cosa comodata non può acquistare il possesso ad usucapionem senza prima avere mutato mediante una interversio possessionis la sua detenzione in possesso, per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore. Corte di Cassazione, sentenza 30-3-95, n. 3811
[10] Corte di Cassazione, sentenza 27-2-96, n. 1533
[11] Per una maggiore disamina del contratto preliminare ad effetti anticipati  aprire il seguente collegamento  Le trattative ed il contratto preliminare – par.fo E – Effetti
[12] Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza 27 marzo 2008 n. 7930, Corte di Cassazione, sentenza 18 settembre 2012, n. 15626
[13] Corte di Cassazione, sentenza 30-6-87, n. 5746
[14] Masi, Rescigno, Bianca
[15] Vedi par.fo 9, lettera A  – Le azioni in generale – Legittimazione attiva, pag. 127
[16] Corte di Cassazione, sentenza 25-5-87, n. 4698
[17] Corte di Cassazione, sentenza 21-6-85, n. 3721
[18] Corte di Cassazione, sentenza 5-12-90, n. 11691
[19] Corte di Cassazione, sentenza 29-5-81, n. 3523
[20] Corte di Cassazione, sentenza 20 settembre 2012, n. 15839
[21] Corte d’Appello Roma, Sezione 1 civile, sentenza 16 aprile 2012, n. 1989
[22]  Corte di Cassazione, sentenza 25-5-87, n. 4698
[23] Corte di Cassazione, sentenza 27-7-83, n. 5165
[24] Corte di Cassazione, sentenza 27 novembre 2012, n. 21084
[25] Corte di Cassazione, sentenza n. 5854 del 16/03/2006
[26] Corte di Cassazione, sentenza n. 27521 del 19/12/2011
[27] Il mutamento della detenzione in possesso, secondo la previsione dell’art. 1141 c.c., non può conseguire al mero compimento di atti corrispondenti all’esercizio della proprietà, anche se compiuti animo possidendi, essendo a tale fine necessario che tali atti si traducano in opposizione contro il possessore, e, cioè rendano esteriormente riconoscibile all’avente diritto che il detentore intende far cessare il godimento nomine alieno, vantando per sé il diritto esercitato. Conseguentemente con riguardo al conduttore di un immobile deve ritenersi che siano inidonei a trasformare la detenzione in possesso sia i meri atti di esercizio del possesso dell’immobile stesso non accompagnati da uno specifico atto d’interversione, sia l’omesso pagamento del canone che, ove non sia accompagnato da un atto di opposizione, configura soltanto un comportamento di inadempienza contrattuale. Corte di Cassazione, sentenza 8-9-86, n. 5466
[28] Corte di Cassazione, sentenza 13008 del 27-5-2010
[29] Corte di Cassazione, sentenza 9-3-92, n. 2802
[30]  Vedi par.fo 8, lettera B) Oggetto dell’usucapione, pag. 94
[31] Vedi par.fo 4 – Soggetti  – compossesso – pag. 28
[32] Tribunale Roma, Sezione 8 civile, sentenza 9 giugno 2012, n. 11952
[33] Corte di Cassazione, sentenza 3.12.2004, n. 22776
[34] Corte di Cassazione, sentenza 21.1.2009, n. 1551
[35] Corte di Cassazione, sentenza 10230 del 15-7-2002
[36] Corte di Cassazione, sentenza 30-6-82, n. 3939
[37] Corte di Cassazione, sentenza 9396 del 6-5-2005. Il possesso può conservarsi solo animo, purché permanga la possibilità di agire, sempre che si voglia, sulla cosa, proseguendo nella medesima situazione di fatto determinata dal soggetto e nella quale consiste il suo possesso. Corte di Cassazione, sentenza 11-6-86, n. 3861
[38] Corte di Cassazione, sentenza 19-4-95, n. 4360. Nella specie la sentenza di merito, confermata dalla s.c., aveva ritenuto inidonei a configurare acquisizione del possesso il passaggio su di un terreno per accedere alla propria abitazione e la sua utilizzazione quale spazio di manovra per la propria autovettura ed aveva escluso che la mancata utilizzazione della stessa area da parte del possessore costituisse segno chiaro ed univoco del suo animus dereliquendi.
[39] Corte di Cassazione, sentenza 2-7-66, n. 1716
[40] Corte di Cassazione, sentenza 7-1-92, n. 39 La rinuncia al possesso da parte del proprietario di un bene, in quanto limitativa dello jus domini, non può presumersi, ma deve risultare da una univoca manifestazione di volontà abdicativa, sicché la semplice astensione dall’esercizio del possesso non è sufficiente a determinarne la perdita, potendosi ritenere che permanga l’animus possidendi quando sia sempre possibile al possessore ripristinarne l’esercizio. Corte di Cassazione, sentenza 21-12-99, n. 14370
[41] Corte di Cassazione, sentenza 20-10-75, n. 3432. Anche del possesso è ipotizzabile un atto di rinuncia ed esso non richiede la forma scritta. Peraltro, tale rinuncia, se può far presumere il venir meno dell’animus possidendi, non comporta necessariamente anche il venir meno del potere di fatto (corpus), cui, in un momento successivo ad essa, ben può riaccompagnarsi l’elemento soggettivo anzidetto, con il conseguente inizio di un nuovo possesso tutelabile ex art. 1168 c.c. — lo stabilire se, nonostante la rinuncia al possesso, il rinunciante abbia o no continuato volutamente a porre in essere un’attività corrispondente all’esercizio di un diritto reale costituisce indagine di fatto, che, se adeguatamente motivata, è insindacabile in sede di legittimità. Corte di Cassazione, sentenza 30-4-82, n. 2724
[42] Corte di Cassazione, sentenza 26-11-75, n. 3952
[43] Corte di Cassazione, sentenza 2-7-66, n. 1716
[44] Corte di Cassazione, sentenza 18-10-78, n. 4687
[45] Vedi par.fo 9, lettera A  – Le azioni in generale – Legittimazione attiva pag. 127
[46] Gazzoni
[47] Per una maggiore disamina del diritto di superficie aprire il seguente collegamento Il diritto di superficie
[48] Corte di Cassazione, sentenza 23-7-83, n. 5086
[49] Per una maggiore disamina del diritto di usufrutto aprire il seguente collegamento L’usufrutto
[50] Per una maggiore disamina del diritto di servitù aprire il seguente collegamento   Le servitù prediali
[51] Corte di Cassazione, sentenza 27-10-75, n. 3590 Nella specie, sulla base dei suesposti principi, la S.C. ha ritenuto non tutelabile con l’azione di spoglio la servitù positiva, mai esercitata, di aprire finestre lucifere sul fondo contiguo.
[52] Per una maggiore disamina del diritto di servitù altius non tollendi  aprire il seguente collegamento   Le luci e vedute
[53] Corte di Cassazione, sentenza 12-10-71, n. 2865
[54] Vedi par.fo 9, lettera A  – Le azioni in generale – Legittimazione attiva pag. 127
[55] Per una maggiore disamina dell’istituto della comunione aprire il seguente collegamento La comunione
[56] Vedi par.fo 6, lettera C  – Riparazioni, miglioramenti ed addizioni, pag. 58
[57] Vedi par.fo 9, lettera A  – Le azioni in generale – Legittimazione attiva, pag. 127
[58] Per la consultazione integrale della sentenza aprire il seguente collegamento   Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 22 novembre 2012, n. 20704 
[59] Corte di Cassazione, sentenza 14 giugno 2012, n. 9786
[60] Corte di Cassazione, sentenza 22-11-86, n. 6878
[61] Corte di Cassazione, sentenza 5-8-85, n. 4383. Pertanto, qualora il possesso di un fondo rustico risulti limitato dal concorrente possesso da altri esercitato su determinati beni presenti nel terreno, quali gli alberi di un bosco, deve escludersi che il godimento di tali beni, da parte del titolare della relativa situazione possessoria, sia qualificabile come atto di spoglio o di turbativa in danno del possessore del fondo
[62] Corte di Cassazione, sentenza 13082 del 9-9-2002
[63] Corte di Cassazione, sentenza 14 giugno 2012, n. 9786
[64] Corte di Cassazione, sentenza nn. 1745/02, 8047/01 e 2555/74
[65] Corte di Cassazione, sentenza n. 511/82
[66] Corte di Cassazione, sentenza n. 7162/91
[67] Corte di Cassazione, sentenza n. 6804/93
[68] Corte di Cassazione, sentenza n. 24456/11
[69] Corte di Cassazione, sentenza n. 26543/08
[70] Corte di Cassazione, sentenza 10406 del 30-7-2001 (nella specie, la S.C., in forza del sopraenunciato principio, ha accolto il ricorso e cassato con rinvio la sentenza del giudice d’appello che aveva escluso che l’apposizione, da parte di alcuni dei comproprietari, di una lapide sulla facciata esterna di una cappella funeraria in aggiunta a quella preesistente e convenzionalmente accettata da tutti i compossessori potesse costituire turbativa o molestia del compossesso del bene comune in danno degli altri comproprietari del bene).
[71] Vedi par.fo 1, lettera A  –  Potere di Fatto – Interversione  –  pag. 15
[72] Corte di Cassazione, sentenza 26-5-99, n. 5127
[73] Vedi par.fo 8, lettera A  –  Nozione ed elementi costitutivi dell’usucapione – punto 2) Interruzione del possesso,  pag. 80
[74] Vedi par.fo 8, lettera A  –  Nozione ed elementi costitutivi dell’usucapione – punto 4) Compossesso,  pag. 85
[75] Corte di Cassazione, sentenza 18-2-99, n. 1367
[76] Corte di Cassazione, sentenza 10-7-97, n. 6260
[77] Corte di Cassazione, sentenza Sez. Un., 15289 del 4-12-2001
[78] Corte di Cassazione, sentenza Sez. Un. 12-3-86, n. 1666
[79] Vedi par.fo 9, lettera  C – azione di reintegrazione, pag. 140
[80] Corte di Cassazione, sentenza 29-4-92, n. 5180
[81] Vedi par.fo 9, lettera D  – azione di manutenzione, pag. 147
[82] Vedi par.fo 8, lettera B  – oggetto dell’usucapione, pag. 95
[83] Corte di Cassazione, sentenza 12-11-79, n. 5835
[84] par.fo 6,  lettera E)  Acquisto a non domino dei beni mobili – Casistica,  pag. 68
[85] Corte di Cassazione, sentenza 7-1-84, n. 106
[86] Corte di Cassazione, sentenza 20-4-76, n. 1379
[87] Corte di Cassazione, sentenza 20-9-91, n. 9837
[88] Corte di Cassazione, sentenza 1009 del 18-1-2008Nel caso di specie, la Corte ha confermato la sentenza che aveva accolto l’azione di reintegra nel sepolcro e di rimozione di salma introdotta dalle parti resistenti in quanto, mentre la parte ricorrente aveva provato documentalmente il proprio possesso o compossesso, le parti resistenti avevano meramente dedotto il compossesso loro e del defunto, senza provarlo, fondandolo su ragioni esclusivamente petitorie
[89] Per una maggiore disamina dell’azienda aprire il seguente collegamento   L’azienda
[90] Vedi par.fo 6,  lettera E) – Acquisto a non domino dei beni mobili – Casistica –  pag. 67
[91] Corte di Cassazione, sentenza 13-11-73, n. 3004
[92] Corte di Cassazione, sentenza 19-4-91, n. 4243 nella specie la S.C. ha confermato la decisione dei giudici di merito, i quali avevano negato la tutela possessoria nella considerazione che il ricorrente si era limitato ad utilizzare dei nastri fissi con la trasmissione ripetitiva di due brani musicali in un ristretto ambito temporale
[93] Corte di Cassazione, sentenza 23-9-91, n. 9901
[94] Corte di Cassazione, sentenza 28-4-93, n. 4999
[95]  Vedi par.fo 8, lettera B  – oggetto dell’usucapione – pag. 95
[96] Corte di Cassazione, sentenza 24-2-77, n. 826
[97] Corte di Cassazione, sentenza 24-1-2000, n. 742
[98] Vedi par.fo 9, lettera A  – Le azioni in generale – Legittimazione attiva pag. 128
[99] Corte di Cassazione, sentenza 6852 del 18-5-2001
[100] Vedi par.fo 8, lettera A  – Nozione ed elementi costitutivi dell’usucapione – pag. 73
[101] Corte di Cassazione, sentenza 30-6-87, n. 5747
[102] Corte di Cassazione, sentenza 16-1-71, n. 80
[103] Corte di Cassazione, sentenza 28 novembre 2012, n. 21119, Corte di Cassazione, sentenza 2 n. 7221 del 25.3.2009, conf. nn. 5226/02, 13921/02, 1741/05, 16841/05
[104] Corte di Cassazione, sentenza 30-7-84, n. 4525
[105] Corte di Cassazione, sentenza 6353 del 16-3-2010
[106] Corte di Cassazione, sentenza 3-7-98, n. 6489
[107] Vedi par.fo 8, lettera A  –  Nozione ed elementi costitutivi dell’usucapione – possesso continuato, pag. 75
[108] Vedi par.fo 9, lettera A  – Le azioni in generale, pag. 116
[109] Corte di Cassazione, sentenza 6-4-81, n. 1943
[110] Vedi par.fo 8, lettera D –  usucapione  abbreviata,  pag. 104
[111] Corte di Cassazione, sentenza 7966 del 21-5-2003
[112] Vedi par.fo 4 – Soggetti  – compossesso, pag. 29
[113] Corte di Cassazione, sentenza 4428 del 24-2-2009
[114] Corte di Cassazione, sentenza 5 novembre 2012, n. 18909
[115] Tribunale Trento, civile, sentenza 28 giugno 2012, n. 629
[116]Corte di Cassazione, sentenza 27 aprile 2012, n. 6575. In senso conforme, vedi, Cassazione civile, Sez. VI-2, ordinanza del 26 ottobre 2011, n. 22348.
[117] Per una maggiore disamina dell’azione per regolamento dei confini aprire il seguente collegamento   Le azioni a difesa della proprietà: rivendicazione – negatoria – regolamento di confini – apposizione dei termini – par.fo 3 Regolamento dei confini
[118] Corte di Cassazione, sentenza 9396 del 6-5-2005
[119] Natoli – Capozzi
[120] Corte di Cassazione, sentenza 8194 del 18-6-2001
[121] Corte di Cassazione, sentenza 19-4-94, n. 3712
[122] Corte di Cassazione, sentenza 17 luglio 2012, n. 12273 tra le altre, Corte di Cassazione, sentenza n. 3404/2009; 18651/04, 15739/04, 11871/04, Corte di Cassazione, sentenza n. 6760/03, 8194/01, 6738/00, 1077/95, 6944/90
[123] Vedi par.fo 8, lettera A  –  Nozione ed elementi costitutivi dell’usucapione – Animus possidendi,  pag. 75
[124] Corte di Cassazione, sentenza 9661 del 27-4-2006
[125] Corte di Cassazione, sentenza 25-1-83, n. 697. Gli atti di tolleranza, che secondo l’art. 1144 c.c. non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso, sono quelli che implicando un elemento di transitorietà e saltuarietà comportano un godimento di modesta portata, incidente molto debolmente sull’esercizio del diritto da parte dell’effettivo titolare o possessore, e soprattutto traggono la loro origine da rapporti di amicizia o familiarità (o da rapporti di buon vicinato sanzionati dalla consuetudine), i quali, mentre a priori ingenerano e giustificano la permissio, conducono per converso ad escludere nella valutazione a posteriori la presenza di una pretesa possessoria sottostante al godimento derivatone. Pertanto nell’indagine diretta a stabilire, alla stregua di ogni circostanza del caso concreto, se una attività corrispondente all’esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l’altrui tolleranza e quindi sia inidonea all’acquisto del possesso, la lunga durata dell’attività medesima può integrare un elemento presuntivo, nel senso dell’esclusione di detta situazione di tolleranza, qualora si verta in tema di rapporti non di parentela, ma di mera amicizia o buon vicinato, tenuto conto che nei secondi, di per sé labili e mutevoli, è più difficile il mantenimento di quella tolleranza per un lungo arco di tempo. Corte di Cassazione, sentenza 22-5-90, n. 4631
[126] Corte di Cassazione, sentenza 21-10-91, n. 11118
[127] Corte di Cassazione, sentenza 4327 del 20-2-2008
[128] Tribunale Ivrea, civile, sentenza 17 febbraio 2012, n. 117
[129] Corte di Cassazione, sentenza 11 maggio 2012, n. 7412. In termini, vedi, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 24 novembre 2003, n. 17876.
[130] Corte di Cassazione, sentenza 17 luglio 2012, n. 12273 v. Corte di Cassazione, sentenza 4327/2008, 8194/01, 1042/98, 8498/95, 1042/92, 4631/90, 1620/84 e Corte di Cassazione, sentenza 9661/2006 che, in motivazione, ha ribadito il principio dell’idoneità del rapporto di parentela per la presunzione della tolleranza; per i rapporti societari Corte di Cassazione, sentenza n. 2487/00
[131] Tribunale Genova,  sentenza 24 maggio 2012, n. 1983
[132] Tribunale Bologna, Sezione 1 civile, sentenza 18 giugno 2012, n. 1719
[133] Corte di Cassazione, sentenza 17-5-72, n. 1495.
[134] Corte di Cassazione, sentenza 11-1-89, n. 81
[135] Corte di Cassazione, sentenza 5-10-85, n. 4820
[136] Vedi par.fo 8 – lettera D) – Usucapione abbreviata – La buona fede, pag. 105
[137] Corte di Cassazione, sentenza 6-7-84, n. 3971
[138] Corte di Cassazione, sentenza 25-2-63, n. 462
[139] Corte di Cassazione, sentenza 13929 del 25-9-2002
[140] Corte di Cassazione, sentenza 21-4-88, n. 3097
[141] Corte di Cassazione, sentenza 2-4-84, n. 2159
[142] Corte di Cassazione, sentenza 7-3-68, n. 744
[143] Corte di Cassazione, sentenza 5 settembre 2012, n. 14917
[144] Per una maggiore disamina dell’azione di petizione ereditaria aprire il seguente collegamento L’azione di petizione ereditaria – par.fo 6 – I rapporti fra erede ed il possessore dei beni ereditari 
[145] Corte di Cassazione, sentenza 19-11-92, n. 12362
[146] Corte di Cassazione, sentenza 4-3-68, n. 691
[147] Corte di Cassazione, sentenza 12-2-93, n. 1784
[148] Corte di Cassazione, sentenza 15-10-77, n. 4413
[149] Corte di Cassazione, sentenza 25-8-97, n. 7985
[150] Corte di Cassazione, sentenza 23 maggio 2012, n. 8156
[151] Corte di Cassazione, sentenza 9 febbraio 2012, n. 1904
[152]  Vedi par.fo 2, lettera A, punto 1) Potere sulla cosa, pag. 5
[153] Corte di Cassazione, sentenza 21-7-71, n. 2377
[154] Corte di Cassazione, sentenza 18651 del 16-9-2004
[155] Corte di Cassazione, sentenza 22 luglio 2010, n. 17245
[156] Corte di Cassazione, sentenza 26-6-92, n. 7923
[157] Corte di Cassazione, sentenza 27 gennaio 2012, n. 1216
[158] Tribunale Benevento, civile, sentenza 17 giugno 2009, n. 1389
[159] Corte di Cassazione, sentenza 13-5-89, n. 2199. Corte di Cassazione, sentenza 9 giugno 2009, n. 13259. Il coniuge che, in costanza di matrimonio, abbia provveduto a proprie spese ad eseguire migliorie od ampliamenti dell’immobile di proprietà esclusiva dell’altro coniuge ed in godimento del nucleo familiare, in quanto compossessore ha diritto ai rimborsi ed alle indennità contemplate dall’art. 1150 c.c. in favore del possessore, nella misura prevista dalla legge a seconda che fosse in buona o mala fede, mentre va esclusa l’invocabilità dell’art. 936 c.c., in tema di opere fatte da un terzo con materiali propri, difettando nel compossessore il requisito della terzietà.
[160] Corte d’Appello Roma,  sentenza 7 settembre 2010, n. 3476, principio espresso dalla Corte di Cassazione, sentenza 18-11-91, n. 12345 (conf. Corte di Cassazione, sentenza 11-4-87, n. 3617) Il coerede il quale abbia migliorato i beni comuni da lui posseduti, pur non potendo invocare l’applicazione dell’art. 1150 c.c., che riconosce il diritto ad una indennità pari all’aumento di valore della cosa determinato dai miglioramenti, tuttavia, mandatario o utile gestore degli altri compartecipi alla comunione ereditaria, può pretendere il rimborso delle spese eseguite per la cosa comune, le quali si ripartiscono al momento della attribuzione delle quote, secondo il principio nominalistico, dato che lo stato di indivisione riconduce all’intera massa i miglioramenti stessi.
[161] Vedi par.fo 4 –  Soggetti  – Compossesso, pag. 23
[162]Corte di Cassazione, sentenza 14 gennaio 2009, n. 743. La costruzione di un’opera da parte di un condomino su beni comuni non è disciplinata dalle norme sull’accessione, bensì da quelle sulla comunione, secondo le quali costituisce innovazione della cosa comune una modificazione della forma o della sostanza del bene che abbia l’effetto di alterarne la consistenza materiale o la destinazione originaria. Pertanto, la costruzione da parte di un comproprietario di una ulteriore rampa su una scala comune e di un torrino – collegato con il bene di proprietà esclusiva – su un solaio, anch’esso comune, da un lato costituisce modifica strutturale della scala e del solaio rispetto alla loro primitiva configurazione e assoggettamento a un uso estraneo a quello originario comune, che viene soppresso; dall’altro può determinare l’appropriazione da parte del condomino del vano occupato dalla nuova rampa e della superficie del torrino (Corte di Cassazione, sentenza n. 21901/2004). Si è precisato che nel regime di comunione legale la costruzione realizzata, in pendenza di matrimonio, su suolo di proprietà esclusiva di uno dei coniugi non costituisce oggetto della comunione ai sensi dell’art. 177, comma 1, lett. a) c.c. mentre gli apporti alla realizzazione della costruzione, che per legge si presumono resi dal coniuge non proprietario, trovano corrispettivo in un suo credito verso l’altro (Corte di Cassazione, sentenza n. 11663/1993). Ancora. Il coniuge che, in costanza di matrimonio, abbia eseguito a proprie spese migliorie e ampliamenti dell’immobile dell’altro, in godimento a entrambi, ha diritto ai rimborsi e alle indennità previste dall’art. 1150 c.c. per il possessore di buona fede e applicabile anche al compossessore, mentre non può invocare l’art. 936 c.c. -opere fatte da un terzo con materiali propri- difettando nel compossessore il requisito della terzietà (Corte di Cassazione, sentenza n. 2199/1989).
[163] Corte di Cassazione, sentenza 14 dicembre 2011, n. 26853
[164] Corte di Cassazione, sentenza 11300 del 16-5-2007
[165] Corte di Cassazione, sentenza 27-4-79, n. 2447
[166] Corte di Cassazione, sentenza 30 luglio 2004, n. 14626
[167] Corte di Cassazione, sentenza 23-7-79, n. 4410
[168] Corte di Cassazione, sentenza 28-1-97, n. 845
[169] Corte di Cassazione, sentenza 9-8-83, n. 5337
[170] Corte di Cassazione, sentenza 18-11-87, n. 8491
[171]Per una maggiore disamina della prelazione volontaria e legale aprire il seguente collegamento   La prelazione volontaria e legale
[172] Corte di Cassazione, sentenza 29-9-95, n. 10272
[173] Corte di Cassazione, sentenza 20-12-65, n. 2465
[174] Corte di Cassazione,  sentenza 19 aprile 2010, n. 9267. In tal senso anche Corte di Cassazione,  sentenza 26 giugno 2001, n. 8741. Il diritto di ritenzione, che è riconosciuto nell’art. 1152 e si configura come situazione non autonoma ma strumentale alla autotutela di altra situazione attiva generalmente costituita da un diritto di credito, è contemplato in favore dell’affittuario nell’art. 20 della legge 3 maggio 1982 n. 203 così come nell’art. 15 della precedente legge n. 11 del 1971 in stretta correlazione al diritto di credito per le indennità spettanti al coltivatore diretto per i miglioramenti, le addizioni e le trasformazioni da lui apportati al fondo condotto, sicché presupponendo l’esistenza di un credito derivante dalle opere indicate e realizzate dal coltivatore diretto, non è scindibile dall’esistenza di detto credito o dall’accertamento di questo. Pertanto eccepito dall’affittuario che si opponga all’esecuzione del rilascio di un fondo rustico il diritto di ritenzione a garanzia del proprio credito per i miglioramenti apportati al fondo, il giudice non può limitarsi ad accertare l’esistenza delle opere realizzate dall’affittuario, ma deve verificarne anche l’indennizzabilità, rigettando l’eccezione ove tale verifica dia esito negativo.
[175] Vedi par.fo 2, lettera A, punto 1) Potere sulla cosa – La detenzione, pag. 5
[176] Corte di Cassazione, sentenza 26-4-83, n. 2867
[177] Corte di Cassazione, sentenza 2-6-99, n. 5346
[178] Tribunale Milano, Sezione 7 civile, sentenza 13 luglio 2010, n. 9277
[179] Corte di Cassazione, sentenza 31-1-89, n. 601
[180] Corte di Cassazione, sentenza 9-11-78, n. 5121
[181] Corte di Cassazione, sentenza 13 luglio 1993, n. 7692
[182] Corte di Cassazione, sentenza 21-9-79, n. 4870
[183] Corte di Cassazione, sentenza 26-4-82, n. 2563
[184] Corte di Cassazione, sentenza 14-9-99, n. 9782
[185] Corte di Cassazione, sentenza 12-6-76, n. 2178
[186] Corte di Cassazione, sentenza 10-11-71, n. 3195
[187] Tribunale Roma, Sezione 6 civile, sentenza 14 settembre 2009, n. 18469
[188] Corte di Cassazione, sentenza 4-3-81, n. 1250
[189] Corte di Cassazione, sentenza III, sent. 11719 del 5-8-2002
[190] Vedi par.fo 5 – Oggetto –  lettera F) Beni immateriali, pag. 34
[191] Corte di Cassazione, Sezione 1 civile, sentenza 29 dicembre 2011, n. 30082
[192] Tribunale Roma, civile, sentenza 11 febbraio 2011, n. 2996
[193] Vedi par.fo 5 – Oggetto –  lettera C  – Beni indisponibili, pag. 33
[194] Corte di Cassazione, sentenza 7-4-92, n. 4260
[195] Corte di Cassazione, sentenza 12-3-51, n. 604
[196] Corte d’Appello Milano, civile, sentenza 28 febbraio 2012
[197] Corte di Cassazione, sentenza 26 settembre 2007, n. 20191
[198] Corte di Cassazione, sentenza 13 ottobre 2000, n. 13642
[199] Corte di Cassazione, sentenza III, sent. 11719 del 5-8-2002
[200] Gazzoni
[201] Corte di Cassazione,  sentenza 11 novembre 2002, n. 15810.  Vedi anche Corte di Cassazione, sentenza 6 ottobre 1997, n. 9714. Se un bene mobile, pur dovendosi iscrivere in pubblici registri, non è stato invece iscritto, ai sensi dell’art. 815 c.c. si applica l’art. 1153 c.c. e non già l’art. 1156 c.c.; pertanto, se colui al quale viene alienato tale bene – da chi appare legittimato – è in buona fede -da presumersi (art. 1147 c.c.), e non esclusa dalla mancanza dei documenti necessari per utilizzarlo (nella specie carta di circolazione di nuova vettura, non immatricolata) – ne acquista la proprietà mediante il possesso.
[202] Corte di Cassazione, sentenza 17 aprile 2001, n. 5600
[203] Tribunale Monza, civile, ordinanza 30 gennaio 2006
[204] Vedi par.fo 9, lettera A  – Le azioni in generale, pag. 117
[205] Corte di Cassazione, sentenza 26-3-73, n. 837
[206] Corte di Cassazione, sentenza 22-4-92, n. 4807,conf. Corte di Cassazione, sentenza 23-6-67, n. 1538
[207] Corte di Cassazione, sentenza Civ., sez. II, n. 1176, del 18.2.1980
[208] Corte di Cassazione, sentenza n. 15446/2007; Corte di Cassazione, sentenza n. 11419/2003; Corte di Cassazione, sentenza n. 5293/2000; Corte di Cassazione, sentenza n. 5964/1996; Corte di Cassazione, sentenza n. 4436/1996; Corte di Cassazione, sentenza n. 4092/1992
[209] Corte di Cassazione, sentenza n. 11626/2008; Corte di Cassazione, sentenza n. 6079/2002; Corte di Cassazione, sentenza n. 4701/1999
[210] Per la lettura della sentenza integrale aprire il seguente collegamento Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza del 20 dicembre 2011, n. 2784
[211] ex plurimis Corte di Cassazione, sentenza n. 25250/2006; Corte di Cassazione, sentenza n. 18207/2004, Corte di Cassazione, sentenza n. 2590/1997; Corte di Cassazione, sentenza n. 5264/1989
[212] Corte di Cassazione, sentenza n. 4444/2007
[213] Vedi par.fo 6, lettera D  –  Gli atti di tolleranza – Definizione,  pag. 46
[214] Corte di Cassazione, sentenza n. 16841/2005; Corte di Cassazione, sentenza n. 5127/1999
[215] Corte di Cassazione, sentenza 21-12-88, n. 6989
[216] Vedi par.fo 6, lettera A  –  acquisto ipso jure – Accessione,  pag. 41
[217] Corte di Cassazione, sentenza 5 giugno 2012, n. 9062, tra le tante Corte di Cassazione, sentenza 12-4-2010 n. 8662; Corte di Cassazione, sentenza 24-8-2006 n. 18392; Corte di Cassazione, sentenza 9-8-2001 n. 11000; Corte di Cassazione, sentenza 13-12-1994 n. 10652
[218] Corte di Cassazione, sentenza 9-8-2001 n. 11000
[219] Corte di Cassazione, sentenza 12762 del 28.11.1991
[220] così Corte di Cassazione, sentenza 18.7.1989, n.3344
[221] Trib. Milano, 30.11.1998, n. 13028
[222] vedi Corte di Cassazione, sentenza 25.9.2002, n. 13921
[223] Corte di Cassazione, sentenza Civ., 17.7.98, n. 6997
[224] Corte di Cassazione, sentenza Civ. 14.11.2000, n.14733
[225] Corte di Cassazione, sentenza 13625 del 11-6-2009
[226] Corte di Cassazione, sentenza 7509 del 30-3-2006
[227] Corte di Cassazione, sentenza 11-10-73, n. 2559
[228] Vedi par.fo 4 – Soggetti – compossesso, pag. 29
[229] Corte di Cassazione, sentenza 7-12-82, n. 6668
[230] Corte di Cassazione, sentenza 14917 del 23-11-2001
[231] Corte di Cassazione, sentenza 28-5-96, n. 4945
[232] Corte di Cassazione, sentenza 1-4-99, n. 3122
[233] Vedi par.fo 4 – Soggetti  – compossesso, pag. 29
[234]Per la lettura della sentenza integrale aprire il seguente collegamento   Corte di Cassazione, sezione II, sentenza n. 16914 del 2 agosto 201
[235] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 09 settembre 2002, n. 13082. Su di un immobile di proprietà esclusiva di un soggetto può ben crearsi una situazione di con possesso “pro indiviso” tra lo stesso soggetto proprietario ed un terzo, con il conseguente possibile acquisto, da parte di quest’ultimo, della comproprietà “pro indiviso” dello stesso bene, una volta trascorso il tempo per l’usucapione, nella misura corrispondente al possesso esercitato. Nè tale situazione di compossesso, che consiste nell’esercizio del comune potere di fatto sulla cosa, “in tota et in qualibet parte” della stessa, da parte di due soggetti, esige la esclusione del possesso del proprietario (chè in tal caso si tratterebbe di possesso esclusivo); nè richiede che il compossessore effettivo ignori l’esistenza del diritto altrui, non valendo la contraria eventualità ad escludere l’”animus possidendi” che sorregge i comportamenti effettivamente tenuti dal possessore il quale abbia usato della cosa “uti condominus
[236] cfr. fra le altre Corte di Cassazione, sentenza n. 10191/2010; Corte di Cassazione, sentenza n. 17339/2009; Corte di Cassazione, sentenza n. 12984/2002
[237]Corte di Cassazione, sentenza 23 maggio 2012, n. 8164 La Corte, infatti, ha più volte avuto modo di affermare che chi agisce in giudizio per ottenere di essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e quindi, tra l’altro, non solo del corpus, ma anche dell’animus; il secondo, tuttavia, può eventualmente essere desunto in via presuntiva dal primo, se lo svolgimento di attività corrispondenti all’esercizio del diritto dominicale è già di per sè indicativo dell’intento, in colui che le compie, di avere la cosa come propria, sicchè allora e’ il convenuto che deve dimostrare il contrario, provando che la disponibilità del bene e’ stata conseguita dall’attore mediante un titolo che gli conferiva un diritto di carattere soltanto personale (tra le tante v. Corte di Cassazione, sentenza 11/6/2010 n. 14092; Corte di Cassazione, sentenza 6-8-2004 n. 15145; Corte di Cassazione, sentenza 13-12-2001 n. 15755; Corte di Cassazione, sentenza 5-7-1999 n. 6944).
[238] Corte di Cassazione, sentenza 17-4-81, n. 2326
[239] Corte di Cassazione, sentenza 10-12-75, n. 4068
[240] Corte di Cassazione, sentenza 15446 del 10-7-2007
[241] Corte di Cassazione, sentenza 8-5-67, n. 909
[242] Corte di Cassazione, sentenza n. 6030/1988
[243] Corte di Cassazione, sentenza n. 11410/2010; Corte di Cassazione, sentenza n. 8662/2010; Corte di Cassazione, sentenza n. 12863/2008; ex plurimis Corte di Cassazione, sentenza n. 11000/2001; Corte di Cassazione, sentenza n. 4436/1996; Corte di Cassazione, sentenza n. 10652/1994
[244] Corte di Cassazione, sentenza n. 4809/1992; Corte di Cassazione, sentenza n. 3046/1973
[245] Corte di Cassazione, sentenza 12-1-80, n. 282
[246] Per una la consultazione del testo integrale aprire il seguente collegamento  Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 14 gennaio 2013, n. 70
[247] Corte di Cassazione, sent. 26 aprile 2011, n. 9325, Sez. II
[248] Corte di Cassazione, sentenza 3-4-98, n. 3428
[249] Corte di Cassazione, sentenza 14917 del 23-11-2001
[250] Corte di Cassazione, sentenza 10-6-81, n. 3773
[251] Per una maggiore disamina dell’istituto della comunione aprire il seguente collegamento La comunion
[252] Corte di Cassazione, sentenza 23-10-90, n. 10294
[253] Corte di Cassazione, sentenza 20296 del 23-7-2008
[254] Corte di Cassazione, sentenza 26-5-90, n. 4907
[255] Corte di Cassazione, sentenza 20-10-81, n. 5478
[256] Corte di Cassazione, sentenza 12775 del 20-5-2008
[257] Corte di Cassazione, sentenza 26-11-99, n. 13184
[258] Corte di Cassazione, sentenza 6163 del 20-3-2006
[259] Corte di Cassazione, sentenza 14-3-88, n. 2438
[260] Per una la consultazione del testo integrale aprire il seguente collegamento   Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 14 gennaio 2013, n. 709 cfr. Corte di Cassazione, sentenza, Sez. II, 26 maggio 1990, n. 4907; Corte di Cassazione, sentenza, Sez. I, 8 aprile 2003, n. 5456; Corte di Cassazione, sentenza, Sez. Ili, 29 settembre 2005, n. 19170; Corte di Cassazione, sentenza, Sez. I, 9 giugno 2006, n. 13477; Corte di Cassazione, sentenza, Sez. II, 23 maggio 2012, n. 8175
[261] Corte di Cassazione, sentenza 19984 del 18-7-2008
[262] Corte di Cassazione, sentenza 1-6-74, n. 1566
[263] Corte di Cassazione, sentenza 5-5-81, n. 2805
[264] Corte di Cassazione, sentenza 27-3-90, n. 2459
[265] Corte di Cassazione, sentenza 25-9-90, n. 9705
[266] Corte di Cassazione, sentenza 27-10-65, n. 2277
[267] Corte di Cassazione, sentenza 18-2-80, n. 1172
[268] Corte di Cassazione, sentenza 11-2-2000, n. 1530
[269] Per una maggiore disamina del diritto di servitù aprire il seguente collegamento Le servitù predial
[270] Corte di Cassazione, sentenza 25-5-87, n. 4698
[271] Corte di Cassazione, sentenza 23-11-87, n. 8640
[272] Corte di Cassazione, sentenza 18-10-91, n. 11020
[273] Corte di Cassazione, sentenza 4-3-93, n. 2650
[274] Corte di Cassazione, sentenza 28-4-92, n. 5060
[275] Corte di Cassazione, sentenza 11-6-86, n. 3864
[276] Corte di Cassazione, sentenza 30-7-90, n. 7640
[277] Corte di Cassazione, sentenza 10696 del 20-5-2005
[278] Corte di Cassazione, sentenza 25-3-97, n. 2598
[279] Corte di Cassazione, sentenza 8-9-86, n. 5468
[280] Corte di Cassazione, sentenza 26-8-86, n. 5201
[281] Corte di Cassazione, sentenza 28-11-91, n. 12762
[282] Per una maggiore disamina dell’istituto aprire il seguente collegamento   Le luci e vedute – par.fo F usucapione
[283] Corte di Cassazione, sentenza 10-5-72, n. 1419
[284] Per una maggiore disamina dell’istituto aprire il seguente collegamento  Le distanze tra le costruzioni ex artt. 873 e ss c.c.
[285]Corte di Cassazione, sentenza 14-2-97, n. 1372
[286] Vedi par.fo 1, lettera B) Interversione, pag. 14, 2 A ipotesi
[287] Corte di Cassazione, sentenza 15-11-76, n. 4231
[288] Corte di Cassazione, sentenza 28-11-74, n. 3896
[289] Per la lettura della sentenza integrale aprire il seguente collegamento  Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 15 novembre 2012, n. 2011
[290] Corte di Cassazione, sentenza 22-12-78, n. 6150
[291] Capozzi
[292] Corte di Cassazione, sentenza 17-11-73, n. 3082
[293] Corte di Cassazione, sentenza 28-6-2000, n. 8792
[294] Corte di Cassazione, sentenza del 9 aprile 1976, n. 1239
[295] Vedi par.fo 5, lettera A  –  acquisto ipso jure – Accessione,  pag. 41
[296] La diversità sostanziale tra usucapione ordinaria ed abbreviata sembrerebbe confermata dalla circostanza che costituisce domanda nuova, e quindi inammissibile, quella introdotta in corso di causa dalla parte, la quale chiede l’accertamento dell’usucapione breve in luogo di quella ordinaria originariamente dedotta (così Corte di Cassazione, sentenzan. 3815/1991, e Corte di Cassazione, sentenzan.10962/1994). Tuttavia questa affermazione è stata, in parte, sconfessata dalla stessa Suprema Corte (Cfr. Corte di Cassazione, sentenza n.1459 del 1995) che ha statuito che non incorre in vizio di ultrapetizione il giudice che, richiesto di accertare la ricorrenza dell’usucapione abbreviata del diritto, invece, giunge ad appurare, con il conforto delle prove acquisite al processo, l’esistenza del preteso diritto sulla base di un diverso titolo: ossia l’usucapione ordinaria. Peraltro, a ben vedere, la soluzione preferibile appare, forse, quella di consentire, nel corso del procedimento, la deduzione del nuovo titolo giuridico di acquisto, (in luogo di quello originario), del diritto reale di godimento. Difatti, i diritti reali, (passibili di usucapione), permangono sempre gli stessi a prescindere dalla fonte (usucapione ordinaria piuttosto che compravendita ecc.) che li abbia generati.
[297] Corte di Cassazione, sentenza 16-7-66, n. 1923
[298] Vedi par.fo 7 – Effetti del possesso –  lettera A) – La buona fede, pag. 50
[299] Si veda al riguardo Corte di Cassazione, sentenzan.3703 del 08-11-1968. In dottrina, sul punto, si veda Bianca, in La proprietà, trattato Diritto Civile, Tomo VI°,1999, p. 822. Secondo una tesi minoritaria la buona fede deve sussistere al momento della trascrizione: essendo quest’ultima un elemento ulteriore che concorre al perfezionamento della fattispecie. Si veda al riguardo Gazzoni, La trascrizione immobiliare, I, in Comm. al C.c. diretto da Schlesinger, 1998, p.52
[300] Corte di Cassazione, Sezione 6 civile, Ordinanza 14 marzo 2012, n. 4063
[301] Corte di Cassazione, sentenza 15252 del 20-7-2005
[302] Corte di Cassazione, sentenza 12-2-68, n. 464. L’usucapione abbreviata postula l’esistenza di un titolo, cioè di un negozio giuridico che sarebbe idoneo a produrre l’acquisto della proprietà o di altro diritto reale minore in mancanza dell’effettivo trasferimento del diritto di proprietà o dell’effettiva costituzione di un diritto reale di godimento l’usucapione abbreviata non può, quindi, essere invocata. Corte di Cassazione, sentenza 23-4-71, n. 1186
[303] Corte di Cassazione, sentenza 26-1-2000, n. 866
[304] Corte di Cassazione, sentenza 26-7-77, n. 3342
[305] Corte di Cassazione, sentenza 20-12-85, n. 6544
[306] Corte di Cassazione, sentenza 26-3-68, n. 947
[307] Corte di Cassazione, sentenza 15-11-71, n. 3255
[308] Corte di Cassazione, sentenza 7-5-74, n. 1292
[309] Corte di Cassazione, sentenza 14-2-97, n. 1374
[310] Corte di Cassazione, sentenza 12898 del 4-9-2003
[311] Corte di Cassazione, sentenza 21-7-65, n. 1672
[312] Corte di Cassazione, sentenza 11-8-90, n. 8207
[313] Corte di Cassazione, sentenza 14373 del 29-7-2004
[314] Corte di Cassazione, sentenza 15-3-93, n. 3047
[315] Corte di Cassazione, sentenza 14414 del 22-6-2006
[316] Corte di Cassazione, sentenza 28-1-95, n. 1045
[317] Corte di Cassazione, sentenza 7-1-84, n. 101
[318] Corte di Cassazione, sentenza 24-2-82, n. 1134
[319] Corte di Cassazione, sentenza 28-10-70, n. 2190
[320] Vedi par.fo 5, lettera A  –  acquisto ipso jure – Accessione,  pag. 41
[321] Corte di Cassazione, sentenza 5-7-97, n. 6093
[322] Corte di Cassazione, sentenza 30-3-84, n. 2107
[323] Corte di Cassazione, sentenza 7-10-91, n. 10470
[324] Corte di Cassazione, sentenza 15-2-84, n. 1139
[325] Vedi par.fo 7, lettera A  – Nozione ed elementi costitutivi dell’usucapione, pag. 73
[326] Corte di Cassazione, sentenza 27-10-87, n. 7908. Cosi anche per Corte di Cassazione, sentenza 11 novembre 2011, n. 23718. In tema di azione di spoglio il giudice di merito non può porsi d’ufficio la questione del decorso del termine annuale di decadenza in cui l’attore sia eventualmente incorso, trattandosi di un termine in materia non sottratta alla disponibilità delle parti, la cui inosservanza deve essere eccepita dall’interessato in sede di merito nei limiti della proponibilità delle eccezioni in senso proprio.
[327] Corte di Cassazione, sentenza 8-7-83, n. 4599
[328] Corte di Cassazione, sentenza 25-2-89, n. 1044
[329] Sacco
[330] Corte di Cassazione, sentenza 24-4-92, n. 4939
[331] Corte di Cassazione, sentenza 9-9-89, n. 3911
[332] Corte di Cassazione, sentenza 27-5-87, n. 4730
[333] Corte di Cassazione, sentenza 22.11.1994, n. 9871; Corte di Cassazione, sentenza 24.2.1998, n. 1984
[334] Corte di Cassazione, sentenza 20875 del 27-10-2005
[335] Corte di Cassazione, sentenza 28-2-89, n. 1093
[336] Corte di Cassazione, sentenza 25899 del 5-12-2006
[337] Corte di Cassazione, sentenza 3400 del 20-2-2004
[338] Corte di Cassazione, sentenza 29-1-73, n. 277
[339] Corte di Cassazione, sentenza 11-6-83, n. 4021 Corte di Cassazione, sentenza 19-5-2000, n. 6510
[340] Corte di Cassazione, sentenza 24-10-74, n. 3101
[341] Corte di Cassazione, sentenza 6-12-84, n. 6415
[342] Corte di Cassazione, sentenza 2.3.1998, n. 2262. Le azioni possessorie di reintegrazione e di manutenzione non sono cumulabili fra di loro, nel senso che la medesima situazione di fatto, considerata in tutte le sue componenti, non può dare luogo ad entrambe le forme di tutela. Sono, tuttavia, sempre proponibili simultaneamente, in via alternativa fra di loro, essendo poi compito del giudice qualificare la situazione di fatto prospettatagli dalla parte istante ed individuare il rimedio giuridico più adeguato. Corte di Cassazione, sentenza 28-1-2000, n. 980
[343] Corte di Cassazione, sentenza 8287 del 20-4-2005. Nella specie è stata ritenuta corretta l’applicazione del principio surrichiamato, in quanto, mentre con l’azione di reintegrazione era stata lamentata l’invasione del muro con una condotta idrica realizzata dal resistente, la domanda di manutenzione aveva avuto ad oggetto la violazione delle distanze legali in materia di installazione di tubi
[344] Corte di Cassazione, sentenza 26.4.1994, n. 3941
[345] Corte di Cassazione, sentenza 11 novembre 2011, n. 23718
[346] Corte di Cassazione, sentenza 10-5-67, n. 953
[347] Corte di Cassazione, sentenza 12-4-72, n. 1131
[348] Corte di Cassazione, sentenza Sez. Un. 10-4-86, n. 2545
[349] Corte di Cassazione, sentenza Sez. Un. 22-4-88, n. 3131
[350] Corte di Cassazione, sentenza Sez. Un. 11-11-98, n. 11351
[351] Corte di Cassazione, sentenza Sez. Un., ord. 9323 del 19-4-2007
[352] Corte di Cassazione, sentenza 11-1-88, n. 32
[353] Vedi par.fo 3, Possesso minore,  pag. 20
[354] Vedi par.fo 4, Soggetti – Nudo possessore,  pag. 23
[355] Vedi par.fo 4, Soggetti – Compossesso,  pag. 23
[356] Corte di Cassazione, sentenza 6-2-98, n. 1206
[357] Corte di Cassazione, sentenza 22 novembre 2012, n. 20704
[358] Corte di Cassazione, sentenza 9-6-88, n. 3930
[359] Vedi par.fo 2, lettera A, punto 1) Potere sulla cosa –  detenzione qualificata, pag. 8
[360]Corte di Cassazione, sentenza 18 settembre 2012, n. 15626; Corte di Cassazione, sentenza n. 6221 del 2002; Corte di Cassazione, sentenza n. 2028 del 1997
[361] Corte di Cassazione, sentenza 30-7-73, n. 2229
[362] Vedi par.fo 6, lettera A  –  acquisto ipso jure – successione, pag. 38
[363] Corte di Cassazione, sentenza 8075 del 22-5-2003
[364] Corte di Cassazione, sentenza 7-4-86, n. 2395
[365] Corte di Cassazione, sentenza 4-8-78, n. 3837
[366] Corte di Cassazione, sentenza 9-12-71, n. 3567
[367] Corte di Cassazione, sentenza 18-7-84, n. 4195
[368] Corte di Cassazione, sentenza 19-3-84
[369] Corte di Cassazione, sentenza 27-2-97, n. 1798
[370] Corte di Cassazione, sentenza 15-5-98, n. 4908
[371] Corte di Cassazione, sentenza Sez. Un. 6189, del 17-4-2003. Nella specie il presunto spossessamento del bene lamentato dai ricorrenti derivava da un atto amministrativo emesso dal Comune nell’ambito e nell’esercizio di poteri pubblicistici di concessione in uso del bene stesso ad una ASL per la realizzazione di un’opera di pubblica utilità, con autorizzazione alla relativa apprensione
[372] Corte di Cassazione, sentenza 22-7-83, n. 5070. Deve pertanto escludersi che il possessore di un immobile locato possa esperire dette azioni contro chi vantandosi compossessore (nella specie, la moglie del locatore per asserita comunione legale dei beni) si sia limitato a richiedere al locatario il pagamento in proprio favore del canone, e lo abbia poi riscosso per effetto di adesione di quest’ultimo, atteso che, in tale situazione, fra il fatto denunciato e la lamentata perdita o molestia del possesso si inserisce un’autonoma e libera determinazione del terzo con conseguente esclusione di ogni rapporto genetico tra quel fatto ed il pregiudizio del possesso.
[373] Corte di Cassazione, sentenza 18-2-83, n. 1251
[374] Corte di Cassazione, sentenza 14-2-85, n. 1252
[375] Corte di Cassazione, sentenza 10-2-97, n. 1222
[376] Corte di Cassazione, sentenza 11-9-2000, n. 11916
[377] Corte di Cassazione, sentenza 4-4-87, n. 3272
[378] Corte di Cassazione, sentenza 26-8-94, n. 7524
[379] Corte di Cassazione, sentenza 12-8-95, n. 8835
[380] Corte di Cassazione, sentenza 12-6-2000, n. 7980
[381] Corte di Cassazione, sentenza Sez. Un. 10375 del 8-5-2007. Nella specie, relativa al presunto spossessamento esercitato mediante prosecuzione di un’occupazione a fini di esproprio, la S.C. ha affermato la giurisdizione del giudice amministrativo, essendosi in presenza di una efficace dichiarazione di pubblica utilità
[382] Corte di Cassazione, sentenza 5-5-71, n. 1274
[383] Corte di Cassazione, sentenza 16-4-70, n. 1080 Le indagini di carattere petitorio sono consentite soltanto per qualificare e valorizzare situazioni di fatto denuncianti di per se l’esistenza del possesso, potendosi il titolo esaminare solo come fatto inducente prova del possesso e non come fonte del diritto affermato.
[384] Corte di Cassazione, sentenza 29-10-75, n. 3666. La presenza di opere che denuncino la possibilità, per l’avente diritto, di esercitare il possesso quando lo voglia non è affatto idonea al fine della dimostrazione della nascita del possesso, ma solo al fine della dimostrazione della sua conservazione. In particolare, la sussistenza di un collegamento tra due fondi non basta a dimostrare il possesso di una servitù di passaggio acquistata per destinazione del padre di famiglia, se non venga previamente provato l’effettivo inizio dell’attività corrispondente alla servitù.
[385] Corte di Cassazione, sentenza 21417 del 11-11-2004
[386] Corte di Cassazione, sentenza 28-2-86, n. 1291
[387] Corte di Cassazione, sentenza 5-12-88, n. 6583 (conf. Corte di Cassazione, sentenza 24-1-84, n. 580), Corte di Cassazione, sentenza 6-6-83, n. 3837
[388] Corte Cost. 25/92. Corte di Cassazione, sentenza 3-2-98, n. 1042
[389] per una maggiore disamina delle azioni petitorie aprire il seguente collegamento;  Le azioni a difesa della proprietà; rivendicazione; negatoria; regolamento di confini; apposizione dei termini
[390] È costituzionalmente illegittimo l’art. 705 primo comma, c.p.c., nella parte in cui subordina la proposizione del giudizio petitorio alla definizione della controversia possessoria o all’esecuzione della decisione nel caso che ne derivi o possa derivarne un pregiudizio irreparabile al convenuto. Corte Costituzionale, sentenza 3 febbraio 1992, n. 25
[391] Corte di Cassazione, sentenza 22-4-94, n. 3825
[392] Corte di Cassazione, sentenza 7-7-87, n. 5899
[393] Corte di Cassazione, sentenza 18-6-91, n. 6881. Così anche per ultima sentenza della medesima Cassazione (Corte di Cassazione, sentenza 25 giugno 2012, n. 10588), ovvero: Il divieto di proporre giudizio petitorio, previsto dall’art. 705 c.p.c., riguarda il solo convenuto nel giudizio possessorio, trovando la propria “ratio” nell’esigenza di evitare che la tutela possessoria chiesta dall’attore possa essere paralizzata, prima della sua completa attuazione, dall’opposizione diretta ad accertare l’inesistenza dello “ius possidendi“. Ne consegue che l’attore in possessorio, diversamente dal convenuto, può, anche in pendenza del medesimo giudizio possessorio, proporre autonoma azione petitoria, dovendosi interpretare tale proposizione come finalizzata ad un rafforzamento della tutela giuridica, e non già come rinuncia all’azione possessoria; detta facoltà, tuttavia, non può essere esercitata nello stesso giudizio possessorio, ma soltanto con una separata iniziativa, introducendo la domanda petitoria una “causa petendi” ed un “petitum” completamente diversi, dal che deriva l’inammissibilità della stessa se proposta dall’attore nella fase di merito del procedimento possessorio, la quale costituisce mera prosecuzione della fase sommaria.
[394] Corte di Cassazione, sentenza 13-7-79, n. 4087
[395] Corte di Cassazione, sentenza 27 gennaio 2011, n. 1896
[396] Corte di Cassazione, sentenza 13-6-94, n. 573
[397] Corte di Cassazione, sentenza 20-7-99, n. 7747
[398] Corte di Cassazione, sentenza 26 novembre 1997, n. 11883;  Corte di Cassazione, sentenza 8 agosto 2002, n. 11935;  Corte di Cassazione, sentenza 29 aprile 2003, n. 6648, Corte di Cassazione, sentenza 17 febbraio 2012, n. 2371
[399] Corte di Cassazione, sentenza 24 gennaio 1962, n. 123
[400] Vedi par.fo 5 – Oggetto – lettera B  – cose di cui non si può acquistare la proprietà, pag. 32
[401]  Corte di Cassazione, sentenza 29.1.1993, n. 1131
[402] Corte di Cassazione, sentenza 25-5-62, n. 1222
[403] Corte di Cassazione, sentenza 13-2-99, n. 1204
[404] Corte di Cassazione, sentenza 28.1.1995, n. 1036
[405] Corte di Cassazione, sentenza 12740 del 29-5-2006. Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza che aveva ritenuto la clandestinità dello spoglio sul rilievo che non era stata valutata al riguardo la presenza di guardie campestri incaricate dal possessore di vigilare sul fondo e perciò in grado di percepire tempestivamente qualsiasi fatto che avrebbe potuto pregiudicarne il normale godimento
[406] Corte di Cassazione, sentenza 8-4-75, n. 1276
[407] Corte di Cassazione, sentenza 26-5-69, n. 1869
[408] Corte di Cassazione, sentenza 14.2.2005, n. 2957
[409] Corte di Cassazione, sentenza 28-2-85, n. 1745
[410] Corte di Cassazione, sentenza 21-6-85, n. 3731
[411] Corte di Cassazione, sentenza 7-4-87, n. 3356
[412] Corte di Cassazione, sentenza Sez. Un. 16-6-75, n. 2416
[413]  Corte di Cassazione, sentenza 28.1.2005, n. 1743
[414] Corte di Cassazione, sentenza 16-2-76, n. 500
[415] A concretare obiettivamente lo spoglio è sufficiente una privazione anche soltanto parziale del possesso, la quale può manifestarsi con un atto che restringa o riduca le facoltà inerenti il potere esercitato sull’intera cosa oppure diminuisca o renda meno comodo l’esercizio del possesso medesimo, come nella ipotesi di parziale rimozione di una scala, che incide negativamente sulla possibilità di esercizio di una servitù di passaggio. Corte di Cassazione, sentenza 20-3-78, n. 1386
[416]  Corte di Cassazione, sentenza 6.12.1984, n. 6415
[417]  Corte di Cassazione, sentenza 20.6.1995, n. 6956
[418]  Corte di Cassazione, sentenza 4.5.1982, n. 2736
[419] L’estremo della violenza sussiste allorché lo spoglio venga compiuto con atti arbitrari, i quali, contro la volontà espressa o tacita del possessore, tolgano a questi il possesso o gliene impediscano l’esercizio, laddove la clandestinità si verifica quando lo spoglio sia avvenuto all’insaputa del possessore. Corte di Cassazione, sentenza 18-3-75, n. 1048, conf. Corte di Cassazione, sentenza 30-8-2000, n. 11453
[420] Corte di Cassazione, sentenza 27-10-94, n. 8874
[421] Corte di Cassazione, sentenza 3-5-97, n. 3873
[422] Corte di Cassazione, sentenza 17 febbraio 2012, n. 2367
[423] Corte di Cassazione, sentenza 5154 del 3-4-2003
[424] Corte di Cassazione, sentenza 20228 del 18-9-2009
[425] Corte di Cassazione, sentenza 27-3-70, n. 850
[426] Corte di Cassazione, sentenza 29-4-83, n. 2963
[427] Corte di Cassazione, sentenza 29-11-95, n. 12347
[428] Vedi par.fo 5 – Oggetto –  lettera B  – cose di cui non si può acquistare la proprietà,  pag. 32
[429] Corte di Cassazione, sentenza 7-11-70, n. 2279
[430] Corte di Cassazione, sentenza 16-4-81, n. 2298
[431] Corte di Cassazione, sentenza 7-8-90, n. 7978
[432] Corte di Cassazione, sentenza 15-2-62, n. 313
[433] Corte di Cassazione, sentenza 23-11-87, n. 8627
[434] Corte di Cassazione, sentenza 10.4.1996, n. 3291
[435] Corte di Cassazione, sentenza 13.2.1999, n. 1204
[436] Corte di Cassazione, sentenza 19-9-68, n. 2968
[437] Corte di Cassazione, sentenza 19-9-68, n. 2968
[438] Corte di Cassazione, sentenza 13.9.2000, n. 12080, Corte di Cassazione, sentenza 20.5.1997, n. 4463, che fa riferimento all’attentato all’integrità del possesso attraverso qualsiasi modificazione o limitazione dello stesso; Trib. Napoli 18.9.2002, 2004, 76
[439]  Corte di Cassazione, sentenza 13.2.1999, n. 1214;  Corte di Cassazione, sentenza 4.3.1991, n. 2255
[440] Per la configurazione della molestia possessoria non è necessario che l’attentato al possesso si esplichi mediante un’alterazione fisica dello stato di fatto e la produzione di un danno attuale, ma è sufficiente che lo stato di possesso sia posto anche soltanto in dubbio o in pericolo.  Corte di Cassazione, sentenza 4-3-91, n. 2255
[441] Costituisce molestia ogni atto che modifichi, senza escluderlo, il possesso altrui o, quanto meno, ne renda più disagevole l’esercizio, se sia compiuto volontariamente e con la coscienza di arrecare un siffatto turbamento, nonché con la consapevolezza del divieto espresso o tacito del possessore. Corte di Cassazione, sentenza 28-6-69, n. 2343
[442] La molestia che legittima la proposizione della azione di manutenzione può esplicarsi non solo mediante un’attività materiale che incida su uno stato di fatto attuale (molestia di fatto), ma anche mediante un’opposizione all’esercizio dello altrui possesso, la quale, pur senza determinare un mutamento obiettivo e concreto nello stato di fatto, si risolva in una menomazione del potere del possessore (molestia di diritto).  Corte di Cassazione, sentenza 8-2-89, n. 783
[443] Corte di Cassazione, sentenza 22 febbraio 2011, n. 4279. Conforme, vedi, Corte di Cassazione, sentenza 20 agosto 2002, n. 12258
[444] Corte di Cassazione, sentenza 11-4-87, n. 3608
[445] Corte di Cassazione, sentenza 26-5-94, n. 5162
[446] Corte d’Appello Taranto, civile, sentenza 1 settembre 2011, n. 212
[447] Corte di Cassazione, sentenza 10 ottobre 2011, n. 20800. In senso conforme, vedi, merito, Cassazione civile, sentenza 19 febbraio 1999, n. 1409, Cassazione civile sentenza 24 giugno 1995, n. 7200.
[448] Tribunale Cassino, civile, sentenza 2 febbraio 2012, n. 114
[449]  Corte di Cassazione, sentenza 11.11.2002, n. 15788;  Corte di Cassazione, sentenza 6.8.2001, n. 10819
[451] Corte di Cassazione, sentenza 21-2-69, n. 589
[452] Vedi par.fo 2, lettera A, punto 1) Potere sulla cosa – Detenzione,  pag. 5
[453] Corte di Cassazione, sentenza 16-4-81, n. 2298
[454] Corte di Cassazione, sentenza 7-4-86, n. 2392
[455] Corte di Cassazione, sentenza 1555 del 26-1-2005. Nella specie è stato ritenuto che la realizzazione di cabine in muratura a distanza illegale dal fondo confinante e l’installazione di un impianto a gas senza il rispetto della distanza di sicurezza costituivano atti ciascuno dei quali era di per sé idoneo ad arrecare pregiudizio al possesso del vicino
[456] Tribunale Milano, Sezione 4 civile, sentenza 9 novembre 2012, n. 12336
[457] Corte di Cassazione, sentenza 23-3-78, n. 1425
[458] Corte di Cassazione, sentenza 20-1-77, n. 289
[459] Corte di Cassazione, sentenza 13-10-82, n. 5287
[460] Corte di Cassazione, sentenza 3573 del 12-3-2002
[461] Corte di Cassazione, sentenza 15 ottobre 2001 n. 12511
[462] Corte di Cassazione, ordinanza 13 gennaio 2011, n. 676
[463] Corte di Cassazione, sentenza 10403 del 30-7-2001
[464] Corte di Cassazione, sentenza 9-10-97, n. 9783
[465] Corte di Cassazione, sentenza 1778 del 29-1-2007
[466] Corte di Cassazione, sentenza 27 ottobre 2011, n. 22436. In senso conforme, vedi, Cassazione civile, sentenza 6 dicembre 1988, n. 6627
[467] Corte di Cassazione, sentenza 7-4-73, n. 987
[468] Poiché l’azione di danno temuto (art. 1172 c.c.) postula un rapporto tra cosa e cosa da cui possa derivare danno, mentre quella di denunzia di nuova opera (art. 1171 c.c.) presuppone una attività posta in essere sulla cosa propria o altrui, deve ritenersi che ricorra l’ipotesi di danno temuto quando da parte del ricorrente si assuma che da un’opera eseguita sull’altrui proprietà possa derivare danno al proprio fondo, non in considerazione dell’attività in sé posta in essere, bensì per il pericolo di danno cui soggiace il fondo in conseguenza della situazione determinatasi per effetto dell’opera portata a compimento. Corte di Cassazione, sentenza 9-3-89, n. 1237
[469] Corte di Cassazione, sentenza 23-11-82, n. 6344. La domanda di risarcimento di tali danni, avanzata dal ricorrente, costituendo un elemento del tutto eventuale, non incide sulla natura e finalità di detta azione nella sua ulteriore fase del giudizio di merito, che sarà sempre possessorio o petitorio, secondo la natura del rapporto dedotto in causa ed il proposito manifestato dal ricorrente con la conseguente applicazione delle regole proprie, rispettivamente, delle cause possessorie e di quelle petitorie, sia in ordine alla disciplina del rapporto sostanziale controverso, sia in ordine alla individuazione del giudice competente per materia e per valore.

[470]In materia di legittimazione passiva rispetto alle azioni di nunciazione, nella prima fase, a cognizione sommaria, del procedimento di nuova opera, legittimato passivo e l’autore dell’opera, cioè chi ne assume l’iniziativa (esecutore materiale o morale della medesima), mentre nella seconda fase, di merito ed a cognizione piena, la legittimazione passiva si determina in base alla domanda proposta, secondo le regole generali, ossia il legittimato passivo si identifica in colui che è destinatario del comando dettato dalla norma invocata dall’attore e, quindi, l’esecutore morale o materiale dell’opera, se il denunciante agisce in possessorio, ed il proprietario od il titolare di altro diritto reale, se il denunciante agisce in petitorio; invece, nella denuncia di danno temuto, legittimato passivo è sempre colui che, essendovi obbligato, abbia omesso di espletare l’attività necessaria per evitare l’insorgenza della situazione di pericolo e, pertanto, nell’una e nell’altra fase, il proprietario della cosa o, comunque, il titolare del diritto reale portatore dell’obbligo. Corte di Cassazione, sentenza 16-3-81, n. 1445

Avv. Renatodisa 

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