Obbligo per i datori di lavoro ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza

Corte di Cassazione, sezione prima penale, Sentenza 27 gennaio 2020, n. 3282

Massima estrapolata:

L’art. 4, lett. c) del d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547 obbliga datori di lavoro, dirigenti e preposti a disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza e facciano uso dei mezzi di protezione messi a loro disposizione e postula la prioritaria dimostrazione della relativa condotta omissiva, l’assolvimento degli obblighi imposti da questa norma, deve essere verificato con riguardo alle peculiari caratteristiche dell’impresa, ai tipi di lavorazione ivi effettuati, all’entità del personale e ai diversi gradi di rischio. Ciò non comporta, peraltro, sempre ed in ogni caso una vigilanza ininterrotta o la costante presenza fisica del controllore accanto al lavoratore, ma può anche sostanziarsi in una vigilanza generica, seppure continua ed efficace, intesa ad assicurare nei limiti dell’umana efficienza, che i lavoratori seguano le disposizioni di sicurezza impartite ed utilizzino gli strumenti di protezione prescritti.

Sentenza 27 gennaio 2020, n. 3282

Data udienza 12 novembre 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TARDIO Angela – Presidente

Dott. SARACENO Rosa Anna – Consigliere

Dott. CASA Filippo – rel. Consigliere

Dott. LIUNI Teresa – Consigliere

Dott. SANTALUCIA Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato il (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del 21/05/2019 del GIP TRIBUNALE di TORINO;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. CASA FILIPPO;
lette le conclusioni del PG Dott.ssa FILIPPI Paola, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza resa in data 21.5.2019, il G.I.P. del Tribunale di Torino, in funzione di giudice dell’esecuzione, pronunciandosi sull’istanza proposta nell’interesse di (OMISSIS), volta ad ottenere, alla luce della decisione n. 40/2019 della Corte Costituzionale, la rideterminazione in termini piu’ favorevoli della pena di tre anni, undici mesi, tre giorni di reclusione e 16.000,00 Euro di multa, applicatagli con la sentenza n. 1533/2017 emessa in data 14.11.2017 ex articolo 444 c.p.p. dallo stesso Giudice, divenuta irrevocabile il 27.4.2018, in relazione al reato di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 1, e altro, preso atto del mancato raggiungimento di un nuovo accordo fra le parti ai sensi dell’articolo 666 c.p.p. e articolo 188 disp. att. c.p.p., rideterminava la pena applicata al condannato nella misura di tre anni, sei mesi, venti giorni di reclusione e 16.000,00 Euro di multa.
2. Ricorre per cassazione l’interessato col patrocinio del difensore, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto il giudicante, nella rideterminazione della pena, non avrebbe potuto porre quale pena base una pena superiore al minimo edittale ripristinato a seguito della sentenza della Corte Costituzionale.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, nella sua requisitoria scritta, ha concluso per il rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso e’ infondato, per quanto si passa ad esporre.
1.1. La questione da affrontare trae origine dalla recente declaratoria di illegittimita’ costituzionale del Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 73, comma 1, di cui alla sentenza n. 40 del 23/1/2019 (in G.U. del 13/3/2019), in riferimento al minimo edittale di otto anni di reclusione, ripristinato per effetto della precedente decisione della Corte costituzionale n. 32 del 25/2/2014.
Con tale decisione (n. 32/2014) si era, infatti, determinata la reviviscenza del testo normativo in vigore antecedentemente alla modifica introdotta dal Decreto Legislativo n. 272 del 2005, articolo 4-bis, comma 1, lettera b, convertito con mod. nella L. n. 49 del 2006, con restaurazione, per le condotte relative a detenzione e cessione di droghe cd. pesanti, del trattamento minimo di otto anni di reclusione, soglia che la Corte costituzionale ha, oggi, dichiarato illegittima, facendo, cosi’, tornare in vigore il limite minimo di sei anni.
Consapevole del mutamento dei parametri normativi di riferimento, conseguenti all’ultima pronuncia del giudice costituzionale, il giudice dell’esecuzione ha rideterminato in misura inferiore la pena applicata ex articolo 444 c.p.p. in sede di cognizione.
1.2. Per la soluzione del caso, occorre prendere le mosse dagli orientamenti espressi dalle Sezioni Unite di questa Corte, che a partire dalla sentenza n. 42858 del 29/5/2014, P.M. in proc. Gatto, Rv. 260697 hanno tracciato le linee ermeneutiche fondamentali per la comprensione della tematica devoluta dal ricorso, enunciando, fra gli altri, il fondamentale principio in base al quale, quando, a seguito di una sentenza irrevocabile di condanna, interviene la dichiarazione d’illegittimita’ costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest’ultimo non sia stato interamente eseguito, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato.
Con la richiamata decisione, che si innesta su un percorso interpretativo gia’ segnato da precedenti pronunce (Sez. U., n. 18821 del 24/10/2013, Ercolano, Rv. 258650; Sez. U., n. 4687 del 20/12/2005, Catanzaro, Rv. 232610), il Supremo Consesso ha affermato che, in linea di principio, l’efficacia del giudicato penale nasce, invero, dalla necessita’ di certezza e stabilita’ giuridica, propria della funzione tipica del giudizio, ma anche dall’esigenza di porre un limite all’intervento dello Stato nella sfera della liberta’ individuale del soggetto, sicche’ si esprime, essenzialmente, nel divieto di “bis in idem”, e non implica l’immodificabilita’ in assoluto del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna nei casi in cui la pena debba subire modificazioni necessarie imposte dal sistema a tutela dei diritti primari della persona (Sez. U, n. 42858/2014 cit., Rv. 260696; v. anche Corte Cost. sentenze n. 115 del 1987, n. 267 del 1987, n. 282 del 1989).
Proprio in virtu’ del principio di (relativa) “flessibilita’” del giudicato, questo non esplica, quindi, efficacia assoluta e totalmente preclusiva, come dimostrato dalla previsione legislativa di plurimi strumenti che consentono al giudice dell’esecuzione di operare interventi integrativi o modificativi delle statuizioni gia’ divenute definitive, primo fra tutti la possibilita’ di revoca della sentenza di condanna di cui all’articolo 673 c.p.p..
Sempre con la sentenza in commento, le Sezioni Unite hanno, poi, affrontato il tema della distinzione ontologica tra declaratoria di incostituzionalita’ della norma penale ed ordinario intervento legislativo abrogativo, giustificato da mutata considerazione delle finalita’ da perseguire con le disposizioni penali, evidenziando che, nel primo caso, la pronuncia di illegittimita’ costituzionale travolge sin dall’origine la norma scrutinata secondo un fenomeno diverso da quello dell’abrogazione, che limita l’efficacia della sua applicazione a fatti verificatisi sino ad un certo limite temporale, potendo dar luogo a successione di leggi nel tempo in relazione alla diversa regolamentazione della stessa materia introdotta (Sez. U, n. 42858/2014 cit., Rv. 260695). Pertanto, nella prima situazione, poiche’ la norma incostituzionale viene “espunta dall’ordinamento proprio perche’ affetta da invalidita’ originaria”, sorge l’obbligo per i giudici avanti ai quali si invocano le norme dichiarate incostituzionali di non applicarle, obbligo vincolante anche quando il contrasto con i valori costituzionali sia riscontrato in disposizione di legge penale sostanziale incidente soltanto sulla pena, cosi’ divenuta illegale nella sua misura, sebbene irrogata a punizione di un fatto di immodificata illiceita’ penale.
Da tanto discende che “tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna fondata, sia pure in parte, sulla norma dichiarata incostituzionale devono essere rimossi dall’universo giuridico, ovviamente nei limiti in cui cio’ sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili perche’ gia’ compiuti e del tutto consumati”. In tal modo, in aderenza al disposto della L. n. 87 del 1953, articolo 30, comma 4, secondo il quale, quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale e’ stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali, si e’ precisato, da un lato, che l’omesso inserimento nel testo dell’articolo 673 c.p.p. del caso di declaratoria di incostituzionalita’ di norma penale relativa al solo trattamento sanzionatorio non impedisce un intervento di adeguamento da parte del giudice dell’esecuzione, dall’altro, che la rilevanza della pronunzia di incostituzionalita’ della disposizione sulla pena incontra il limite dell’esaurimento del rapporto esecutivo.
1.3. Tali principi hanno ricevuto ulteriore precisazione per effetto di un successivo intervento delle Sezioni Unite di questa Corte, indotto dalla citata sentenza di illegittimita’ costituzionale n. 32 del 2014 in tema di droghe cd. “leggere”.
Con la sentenza n. 33040 del 26/2/2015, Jazouli, Rv. 264205, nell’affrontare questione parzialmente sovrapponibile a quella che caratterizza la presente vicenda, si e’ stabilito che “E’ illegale la pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato, per le droghe cosiddette “leggere”, sui limiti edittali del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73 come modificato dalla L. n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014, anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalita’” (in tal senso, in precedenza, anche Sez. 1, n. 52981 del 18/11/2014, De Simone, Rv. 261688; Sez. 1, n. 53019 del 4/12/2014, Schettino, Rv. 261581).
1.3.1. L’intervento nomofilattico della Suprema Corte nella sua composizione piu’ autorevole ha risolto anche il nodo problematico riguardante le modalita’ di realizzazione in fase esecutiva dell’adeguamento del trattamento al diverso parametro di commisurazione della sanzione.
A tal proposito, si e’ negata validita’ al criterio oggettivo di tipo matematico-proporzionale di trasposizione automatica della pena gia’ quantificata in sede di cognizione nell’ambito della diversa previsione edittale (Sez. 1, n. 51844 del 25/11/2014, Riva, Rv. 261331; Sez. 1, n. 52980 del 18/11/2014, Cassia, non massimata): si tratta in effetti di indirizzo del tutto minoritario e sconfessato sia dalle Sezioni Unite che dalle successive pronunce delle sezioni semplici, pronunce che, seppur riferite a fattispecie concrete attinenti a droghe leggere, mantengono inalterata validita’ anche per le situazioni come quella presente, in cui la sanzione e’ stata individuata, confermando pena base che era stata stabilita in forza di una soglia punitiva minima oggi non piu’ in vigore (Sez. 1, n. 49935 del 28/10/2015, P.M. in proc. Martoccia, Rv. 265697; Sez. 1, n. 5199 del 24/11/2015, dep. 2016, P.M. in proc. Vitali, Rv. 266137 in motivazione; Sez. 2, n. 29431 dell’8/5/2018, Puglisi, Rv. 273809).
1.3.1.1. Con la sentenza n. 37107 del 26/2/2015, Marcon, Rv. 264858, le Sezioni Unite hanno ribadito l’inutilizzabilita’ del criterio proporzionale o aritmetico, confermando la possibilita’ per il giudice dell’esecuzione di apprezzare in via discrezionale la congruita’ della pena, alla stregua dei parametri di cui agli articoli 132 e 133 c.p., onde verificarne la funzionalita’ alla rieducazione del soggetto che vi debba essere sottoposto ai sensi dell’articolo 27 Cost..
In quella decisione si e’, testualmente, affermato: “deve escludersi che la rideterminazione della pena da parte del giudice dell’esecuzione possa avvenire in base al criterio matematico-proporzionale, realizzando una sorta di automatismo nell’individuazione della sanzione nel tentativo di replicare le medesime scelte operate nell’originario accordo intervenuto tra le parti. Il giudice dovra’ invece procedere alla rideterminazione della pena utilizzando i criteri di cui agli articoli 132 e 133 c.p., secondo i canoni dell’adeguatezza e della proporzionalita’ che tengano conto della nuova perimetrazione edittale…. se e’ vero che devono essere scartati criteri ispirati a irragionevoli automatismi, e che il giudice non e’ vincolato a rideterminare la pena partendo dal nuovo minimo edittale (due anni di reclusione ed Euro 5.164) nei casi in cui la pena patteggiata originariamente partiva dal minimo edittale previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73 come modificato dalla L. n. 49 del 2006 (sei anni ed Euro 26.000), allo stesso modo deve escludersi che per lo stesso fatto, inquadrato nei nuovi limiti edittali scaturiti dalla dichiarazione di incostituzionalita’, il giudice possa operare la rideterminazione partendo dalla stessa pena-base individuata in origine, troppo distanti essendo gli orizzonti delle comminatorie edittali previste dell’articolo 73 cit. prima e dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, non potendosi considerare di massima gravita’ lo stesso fatto, per il quale, in precedenza, era stata applicata la pena base minima, se non a costo di realizzare una vera e propria elusione della modifica della pena illegale, che verrebbe di fatto confermata. La sensibile differenza delle cornici edittali impone risposte sanzionatorie differenti ed individualizzate”.
1.4. Ebbene, ad avviso del Collegio, non si rinvengono argomenti per approdare ad esiti differenti quando l’operazione di “riqualificazione sanzionatoria” debba essere compiuta per fatti riguardanti sostanze stupefacenti di tipo “pesante” a seguito della declaratoria di illegittimita’ costituzionale del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 1, contenuta nella sentenza n. 40/2019, quanto al solo limite minimo previsto per la reclusione.
Invero, l’esclusione da parte delle Sezioni Unite del ricorso a criteri automatici di quantificazione del trattamento punitivo in fase esecutiva non e’ stata giustificata solo in dipendenza della riconosciuta illegittimita’ costituzionale dell’intero paradigma normativo, comprensivo sia del limite minimo, che di quello massimo, ma in ragione della necessita’ di raggiungere soluzioni differenziate ed aderenti al caso specifico e di evitare che permanga in esecuzione un trattamento illegale.
Tale esigenza non viene meno solo perche’ la declaratoria d’incostituzionalita’ ha colpito la soglia punitiva minima di otto anni di reclusione, sostituita con quella di sei anni.
Anche con riferimento a tale parametro, se, come affermato dalle richiamate pronunce, i limiti edittali previsti in via generale ed astratta esprimono la valutazione di disvalore del fatto incriminato compiuta dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalita’, la pena che sia stata stabilita dal giudice in concreto in riferimento a quegli estremi costituisce “misura” del giudizio di responsabilita’ per un determinato fatto illecito, sicche’, se la previsione che costituisce il termine di riferimento viene eliminata perche’ incostituzionale, anche la pena gia’ inflitta sulla scorta di tale elemento normativo deve essere riconsiderata per assicurare il rispetto del principio di proporzionalita’, ossia della necessaria correlazione tra risposta punitiva e condotta offensiva come delineata dall’ordinamento.
Il mantenimento della medesima sanzione finisce, al contrario, per rivelare una sproporzione per eccesso rispetto al giudizio di gravita’ espresso dal legislatore, compromettendo l’assolvimento della sua funzione rieducativa.
La conclusione raggiunta, secondo cui “deve escludersi che possa essere conservata, in quanto legittima, sotto il profilo del principio costituzionale di proporzione tra offesa e pena, la pena determinata in relazione ad una cornice edittale prevista da una norma dichiarata incostituzionale e, quindi, inesistente sin dalla sua origine” (Sez. U., Jazouli, citata), va, quindi, confermata e ribadita.
Ne discende che il giudice dell’esecuzione non puo’ esaurire il proprio compito delibativo mediante il giudizio confermativo della pena gia’ inflitta, perche’ rientrante nell’ambito, sia della forbice punitiva della norma precedente, sia di quella attualmente vigente, ma deve rinnovare la valutazione sanzionatoria in concreto con una necessaria riduzione della pena stessa, anche se non in misura predeterminata o assoluta, ma stabilita in via discrezionale in base alle caratteristiche del caso, da giustificare con congrua motivazione.
2. Nel caso di specie, l’operazione delibativa compiuta dal giudice dell’esecuzione si e’ sostanzialmente attenuta ai principi gia’ esposti, in quanto, pur non replicando in modo automatico l’individuazione della pena base ancorandola al minimo edittale (oggi ripristinato) come operato in sede di cognizione con riferimento al minimo allora vigente, ha, tuttavia, individuato una pena base inferiore a otto anni di reclusione (precisamente sette anni e tre mesi di reclusione), pervenendo a un trattamento sanzionatorio finale piu’ favorevole all’imputato.
3. Il ricorso, dal canto suo, da un lato, invoca l’applicazione di un automatismo che la giurisprudenza costituzionale e di legittimita’ non ha mai fissato, pretendendo, erroneamente, che il Giudice adito individuasse come pena base il minimo edittale oggi ripristinato a seguito dell’intervento della sentenza n. 40/2019 C. Cost. (sei anni di reclusione), e, dall’altro, non si confronta, se non in modo generico e confutativo, con la motivazione addotta dal Giudice suddetto per giustificare nei termini prima precisati il trattamento sanzionatorio rideterminato, basata in modo sufficientemente adeguato al dato ponderale della droga e alla personalita’ del condannato.
4. In conclusione, il ricorso va rigettato e il ricorrente, conseguentemente, condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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