Obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio

Corte di Cassazione, civile, Sentenza|9 gennaio 2024| n. 822.

Obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio

L’obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio, stabilito dall’art. 101, comma 2, c.p.c., non riguarda le questioni di solo diritto, ma quelle di fatto ovvero quelle miste di fatto e di diritto, che richiedono non una diversa valutazione del materiale probatorio, bensì prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti ovvero una attività assertiva in punto di fatto e non già mere difese. (In applicazione del principio, la S.C. ha negato la nullità della sentenza impugnata che, rilevando d’ufficio il caso fortuito, non aveva concesso termine a difesa ex art. 101 c.p.c., posto che non si trattava di una nuova questione di fatto, ma di una diversa ricostruzione della vicenda con parziale riqualificazione dei medesimi fatti).

Sentenza|9 gennaio 2024| n. 822. Obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio

Data udienza 16 novembre 2023

Integrale

Tag/parola chiave: Procedimento civile – Azione – Principio del contraddittorio sentenza fondata su questione mista, di fatto e di diritto, rilevata d’ufficio – Omessa sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti – Nullità della sentenza – Condizioni – Fattispecie.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

TERZA SEZIONE CIVILE

Composta da

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere Rel. –

Dott. TATANGELO Augusto AUGUSTO – Consigliere –

Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 6552/2020 R.G. proposto da

Fo.Ca., rappresentata e difesa, giusta procura in calce al ricorso, dall’avv. An.Bo., elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. An.Gu., in Roma, (…)

– ricorrente –

contro

SANTUARIO (…), in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso, giusta procura in calce al controricorso, dall’avv. Fa.Al., elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, (…)

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro n. 1462/2019, depositata in data 4 luglio 2019

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16 novembre 2023 dal Consigliere dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, dott. Mario Fresa, che ha chiesto l’accoglimento del secondo motivo del ricorso;

udito il difensore della parte controricorrente, avv. Fa.Al., che ha chiesto il rigetto del ricorso

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FATTI DI CAUSA

1. Fo.Ca. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Paola il Santuario di San Francesco di Paola chiedendone la condanna, ex art. 2051 cod. civ., al risarcimento dei danni subiti a seguito del sinistro occorso il 4 agosto 2011, alle ore 23,00 circa, allorquando, all’uscita dalle prove di una rappresentazione teatrale, era caduta in terra a causa di un dislivello della pavimentazione del parcheggio antistante la basilica.

All’esito della costituzione del convenuto, che eccepiva l’assenza di prova del nesso di causalità, riconducendo il sinistro all’esclusiva condotta negligente dell’attrice, il Tribunale adito rigettava la domanda, attribuendo la genesi del sinistro all’assenza di diligenza della Fo.Ca., la quale, ben conoscendo lo stato dei luoghi, avrebbe potuto evitare il danno, scegliendo un percorso alternativo “nella consapevolezza della inesistenza di qualsivoglia affidamento di stabilità sul tratto pavimentato utilizzato”.

2. La Corte d’appello di Catanzaro, decidendo sul gravame proposto dalla soccombente, ha confermato la decisione di primo grado osservando che: appariva accertato, sulla base del coincidente narrato dei testi, che la zona sulla quale si era verificato il sinistro era interessata da lavori, con presenza di sabbia; non risultava smentito il fatto che l’appellante fosse abituale frequentatrice dei luoghi e fosse dunque ben consapevole della peculiare situazione nella quale si trovava il sito; la sua scelta di percorrere un luogo privo di sicurezza, da lei ben conosciuto, si configurava alla stregua di condotta anomala, abnorme, tale da recidere il nesso causale tra la custodia e la res.

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3. Per la cassazione della suddetta decisione ricorre Fo.Ca., con tre motivi.

Resiste il Santuario San Francesco di Paola, depositando controricorso.

4. Fissata adunanza camerale dinanzi alla Sezione Sesta, il Collegio, con ordinanza interlocutoria depositata il 16 novembre 2021, avuto riguardo alla questione di diritto posta con il secondo motivo, ha ritenuto insussistenti le condizioni per definire il ricorso ed ha rimesso la causa alla sezione semplice per la trattazione in pubblica udienza.

5. Fissata la pubblica udienza, il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte.

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce “omessa o insufficiente motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. in relazione all’art. 116 cod. proc. civ.”.

Lamenta che la Corte d’appello avrebbe omesso di considerare che sul luogo del sinistro non era più presente alcun cantiere, dal momento che i lavori, a quella data, erano terminati; nessuno dei due testimoni oculari aveva riferito la presenza di macchinari o materiali da lavoro, ma la semplice presenza di sabbia e, soprattutto, entrambi avevano detto che non vi era segnalazione del presunto cantiere.

Evidenzia pure che: l’errata rappresentazione del fatto emerso dalle dichiarazioni testimoniali determina l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia; le dichiarazioni non esaminate o erroneamente esaminate offrono la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi viene a trovarsi priva di fondamento.

2. Con il secondo motivo la ricorrente prospetta “violazione di legge ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., in relazione all’art. 2051 cod. proc. civ. e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., circa la condotta anomala della vittima”.

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Lamenta che la Corte di merito non avrebbe chiarito in che modo la ricorrente abbia usato il bene senza la normale diligenza o con affidamento soggettivo anomalo, così omettendo di indicare con precisione quali atti incauti e abnormi avesse tenuto la vittima durante la condotta, non essendo sufficiente a tal fine addurre la conoscenza dei luoghi. Argomenta che ritenere la semplice conoscenza dei luoghi presupposto sufficiente ad interrompere il nesso di causalità equivarrebbe ad ammettere che sull’utente grava sempre l’obbligo di ricordare la morfologia di ogni singolo centimetro dell’area da percorrere e in sostanza imporre a parte attrice l’onere della prova dell’inevitabilità ed imprevedibilità dell’evento così riconducendo la responsabilità per i danni da cose in custodia nell’alveo della responsabilità per colpa, ovvero della ipotesi della cd. insidia e trabocchetto.

Soggiunge che la Corte non ha inoltre tenuto in considerazione che il piazzale era aperto al libero transito, circostanza di per sé sufficiente a ritenere il custode quanto meno corresponsabile.

3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce “error in procedendo ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc civ., in relazione alla mancata

concessione di un termine a difesa ex art. 101 cod. proc. civ. e omessa motivazione sul punto”.

Afferma che, alla rilevazione d’ufficio del caso fortuito, sarebbe dovuto conseguire la concessione di un termine a difesa ai sensi dell’art. 101 cod. proc. civ. e che, in mancanza di ciò, la decisione impugnata deve ritenersi nulla per violazione del contraddittorio.

4. Ragioni di ordine logico impongono di esaminare preliminarmente il terzo motivo, che è infondato.

Prima della modifica dell’art. 101 cod. proc. civ. ad opera della legge n. 69/09, la giurisprudenza formatasi sul tema della cd. terza via si divideva tra un primo orientamento (cfr., Cass., sez. 2, 10/8/2009 n. 18191, Cass. Sez. 2, 09/06/2008 n. 15194, Cass., sez. 3, 05/08/2005 n. 16577; Cass., sez. 3, 31/10/2005, n. 21108; Cass., 21/11/2001, n. 14637), che affermava che il giudice non potesse decidere la lite in base ad una questione rilevata d’ufficio senza averla previamente sottoposta alle parti, al fine di provocare sulla stessa il contraddittorio e consentire lo svolgimento delle difese in relazione al mutato quadro della materia del contendere, ed un diverso orientamento, espresso da Cass., sez. 2, 27/07/2005, n. 15705, secondo cui non era affetta da nullità e non era soggetta ad alcuna censura la sentenza che si fondava su una questione rilevata d’ufficio al momento dell’assunzione della decisione e non sottoposta dal giudice al preventivo contradittorio delle parti.

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Le Sezioni Unite, intervenute a dirimere il contrasto, con la pronuncia del 30 settembre 2009, n. 20935, hanno affermato che, se il giudice rileva d’ufficio una questione di puro diritto, senza procedere alla sua segnalazione alle parti affinché su di essa si apra la discussione, non vi è nullità della sentenza perché da tale omissione non deriva la consumazione di altro vizio processuale diverso dall’error iuris in iudicando ovvero dall’error in iudicando de iure procedendi, la cui denuncia in sede di legittimità consente la cassazione della sentenza solo se tale errore si sia in concreto consumato. Qualora, invece, si sia trattato di questioni di fatto, ovvero miste di fatto e di diritto, la parte soccombente può dolersi della decisione solo sostenendo che la violazione di quel dovere di indicazione ha vulnerato in concreto la facoltà di chiedere prove o, in ipotesi, di ottenere un’eventuale rimessione in termini.

Il principio del contraddittorio, già sancito dall’art. 101 cod. proc. civ., è stato ulteriormente rafforzato dall’introduzione nello stesso articolo di un secondo comma, ad opera della legge n. 69 del 2009, in forza del quale il giudice non può decidere la lite in base ad una questione rilevata d’ufficio senza averla previamente sottoposta alle parti, al fine di provocare sulla stessa il contraddittorio e consentire lo svolgimento delle difese in relazione al mutato quadro della materia del contendere, risultando, altrimenti, violati i diritti di difesa per mancata realizzazione del contraddittorio e dovendosi prevedere che i rilievi d’ufficio devono avvenire in modo da provocare il contraddittorio sulla relativa questione e, quindi, mai “a sorpresa” (cioè solo nella motivazione della sentenza).

Va, tuttavia, precisato che l’ambito delle questioni rilevabili d’ufficio per le quali si pone l’obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio, ovvero per le quali esiste il divieto della sentenza della “terza via”, si estende solo a questioni di fatto, o miste di fatto e diritto, od eccezioni rilevabili d’ufficio, non anche ad una diversa valutazione del materiale probatorio.

Difatti, l’obbligo del giudice di suscitare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio, stabilito dal secondo comma all’art. 101 cod. proc. civ., riguarda le questioni di fatto, ovvero miste di fatto e di diritto, che richiedono non una diversa valutazione del materiale probatorio, bensì prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti ovvero una attività assertiva in punto di fatto e non già solo mere difese (Cass., sez. L, 19/05/2016, n. 10353; Cass., sez. 1, 08/06/2018, n. 15037; Cass., sez. 2, 12/09/2019, n. 22778; Cass., sez. 3, 05/05/2021, n. 11724).

La decisione d’appello qui impugnata si pone in armonia con i suddetti principi, poiché non ha affatto rilevato una nuova questione di fatto, tale potendosi considerare solo quella che richieda prove aventi un contenuto diverso da quello chiesto dalle parti, avendo piuttosto proceduto, sulla base delle prove offerte dalle parti, ad una diversa ricostruzione in fatto della vicenda sottoposta al suo esame, sia pure con una parziale riqualificazione dei medesimi fatti. Ciò che impone di escludere la fondatezza della violazione contestata.

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5. Inammissibile è, invece, il primo motivo di ricorso.

Il “fatto” di cui può denunciarsi con ricorso per cassazione l’omesso esame, ai sensi della nuova formulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come modificato dall’art. 54 del decreto-legge n. 83 del 2012, convertito dalla legge n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis, deve essere un fatto storico vero e proprio, avente carattere di fatto principale, ex art. 2697 cod. civ. (cioè, un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o di fatto secondario (cioè, un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale) e deve altresì possedere i due necessari caratteri dell’essere “decisivo” (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) e dall’aver formato oggetto di “discussione” tra le parti (Cass., sez. U, 07/04/2014, n. 8053; Cass., sez. 2, 29/10/2018, n. 27415; Cass., sez. 1, 08/09/2016, n. 17761; Cass., sez. 3, 13/10/2017, n. 23940).

Rimane, quindi, estranea al vizio di legittimità “riformato”, tanto la censura di contraddittorietà della motivazione, quanto quella che, anteriormente alla modifica della norma processuale, veicolava il vizio di “insufficienza” dello svolgimento argomentativo, con il quale veniva imputato al giudice di merito di avere tratto, dal materiale probatorio esaminato, soltanto alcune delle conseguenze logiche che le circostanze, complessivamente considerate, avrebbero consentito di desumere, o di non avere considerato elementi costituenti “fatti secondari”, che, se pur decisivi da soli a fornire la prova contraria favorevole al ricorrente, tuttavia sono idonei ad inficiare l’efficacia dimostrativa attribuita ai diversi elementi posti dal giudice a fondamento della decisione.

Ne consegue l’inammissibilità della censura formulata con la doglianza in esame, volta a riproporre deduzioni difensive svolte nel giudizio di merito (quali l’assenza sul luogo del sinistro di un cantiere e la mancata presenza di segnalazione del cantiere), già vagliate dal giudice di merito e ritenute non dirimenti con valutazione in fatto, la quale, anche per quanto si viene ora ad argomentare in ordine al secondo motivo, è scevra da quei vizi logici o giuridici di gravità tale da qui rilevare dopo la novella del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ.

6. Il secondo motivo è infondato.

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6.1. Il Collegio ritiene necessario premettere alla motivazione del caso in esame le considerazioni che seguono.

Nell’anno 2018 questa Sezione ritenne indispensabile operare un intervento nomofilattico in tema di responsabilità per cose in custodia (art. 2051 cod. civ.), consapevole del disordine interpretativo riscontrato nella giurisprudenza di merito e delle incertezze ermeneutiche emerse nella sua stessa giurisprudenza. Il tutto in una materia particolarmente rilevante per gli aspetti giuridici, sociali ed economici, coinvolgenti soggetti sia privati che pubblici. Nell’anno 2022 sono intervenute, poi, le Sezioni Unite di questa Corte, chiamate ad esprimersi intorno a criticità e distonie emerse nella giurisprudenza di legittimità. Sussiste, dunque, la necessità di apportare un definitivo contributo chiarificatore sulla materia in trattazione, attraverso i punti che si vanno ad esporre.

6.2. Non è ulteriormente discutibile che la responsabilità di cui all’art. 2051 cod. civ. abbia natura oggettiva, come affermato da questa sezione con le decisioni nn. 2477-2483, rese pubbliche in data 1/02/2018, con le quali si è avuto modo di precisare che: “In tema di responsabilità civile per danni da cose in custodia, la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione – anche ufficiosa – dell’art. 1227, primo comma, cod. civ., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost., sicché, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro”.

6.3. Tale qualificazione ha ricevuto una definitiva conferma dalle Sezioni Unite di questa Corte che, con la decisione n. 20943 del 30/06/2022, dopo aver diacronicamente ripercorso le tappe segnate (talvolta in modo dissonante) dalla giurisprudenza della sezione tabellarmente competente in materia, hanno ribadito che “La responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. ha carattere oggettivo, e non presunto, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell’attore del nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno, mentre sul custode grava l’onere della prova liberatoria del caso fortuito, senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode”.

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All’affermazione di tale principio di carattere generale (punto 9 della decisione), le Sezioni Unite hanno poi fatto seguire ulteriori, altrettanto generali precisazioni, così sintetizzabili (punti 8.4. e ss. della sentenza 20943/2022):

a) “l’art. 2051 c.c., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima”;

b) “la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rileva ai fini della sola fattispecie dell’art. 2043 c.c., salvo che la deduzione non sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la sua capacità di recare danno, a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella e l’evento dannoso”;

c) “il caso fortuito, rappresentato da fatto naturale o del terzo, è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode; peraltro le modifiche improvvise della struttura della cosa incidono in rapporto alle condizioni di tempo e divengono, col trascorrere del tempo dall’accadimento che le ha causate, nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere2;

d) il caso fortuito, rappresentato dalla condotta del danneggiato, è connotato dall’esclusiva efficienza causale nella produzione dell’evento; a tal fine, la condotta del danneggiato che entri in interazione con la cosa si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione anche ufficiosa dell’art. 1227 c.c., comma 1; e deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost.;

e) ” quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte dello stesso danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando lo stesso comportamento, benché astrattamente prevedibile, sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale”.

Tali principi sono stati ulteriormente ribaditi dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale (soprattutto Cass. n. 11152/2023, ma pure Cass. nn. 27724/23 e 21675/23) li ha compendiati statuendo che la responsabilità ex art. 2051 cod. civ. ha natura oggettiva – in quanto si fonda unicamente sulla dimostrazione del nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno, non già su una presunzione di colpa del custode – e può essere esclusa o dalla prova del caso fortuito (che appartiene alla categoria dei fatti giuridici), senza intermediazione di alcun elemento soggettivo, oppure dalla dimostrazione della rilevanza causale, esclusiva o concorrente, alla produzione del danno delle condotte del danneggiato o di un terzo (rientranti nella categoria dei fatti umani), caratterizzate dalla colpa ex art. 1227 cod. civ. e, indefettibilmente, dalla oggettiva imprevedibilità e imprevenibilità rispetto all’evento pregiudizievole.

I principi appena evocati sanciscono in via definitiva l’attuale statuto della responsabilità del custode, il cui fondamento riposa, pertanto, su elementi di fatto individuati tanto in positivo – la dimostrazione che il danno è in nesso di derivazione causale con la cosa custodita (la sequenza è quella che muove dall’accertamento di un danno giuridicamente rilevante per risalire alla sussistenza di una relazione causale tra l’evento dannoso e la cosa custodita e si chiude con l’imputazione in capo al custode dell’obbligazione risarcitoria, dalla quale il custode si libera giusta il disposto dell’art. 2051 c.c., provando il caso fortuito) – quanto in negativo (l’inaccettabilità di una mera presunzione di colpa in capo al custode e l’irrilevanza della prova di una sua condotta diligente).

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Nel confermare tali principi, in ossequio all’insegnamento delle Sezioni Unite, mette ancora conto di precisare, sul piano della struttura della fattispecie (non su quello degli effetti, che risultano ormai definitivamente scolpiti dal massimo organo della nomofilachia), che il caso fortuito appartiene alla categoria dei fatti giuridici e si pone in relazione causale diretta, immediata ed esclusiva con la res, senza intermediazione di alcun elemento soggettivo; mentre la condotta del terzo e la condotta del danneggiato rilevano come atto giuridico caratterizzato dalla colpa (art. 1227, primo comma, cod. civ.), con rilevanza causale esclusiva o concorrente (sul concorso tra causa umana e causa naturale, Cass. n. 21619/2007), intesa, nella specie, come caratterizzazione di una condotta oggettivamente imprevedibile ed oggettivamente imprevenibile da parte del custode.

Va ancora osservato, in proposito, che sia il fatto (fortuito) che l’atto (del terzo o del danneggiato) si pongono in relazione causale con l’evento di danno non nel senso della (impropriamente definita) “interruzione del nesso tra cosa e danno”, bensì alla luce del principio disciplinato dall’art. 41 cod. pen., che relega al rango di mera occasione la relazione con la res, deprivata della sua efficienza di causalità materiale, senza peraltro cancellarne l’efficienza causale sul piano strettamente naturalistico. Ciò tanto nell’ipotesi di efficacia causale assorbente, quanto di causalità concorrente di tali condotte, poiché, senza la preesistenza e la specifica caratterizzazione della res, il danno non si verificherebbe (esemplificando: una strada perfettamente asfaltata e senza buche non sarà in relazione causale, se non naturalistica, con il danno subito dal pedone che inciampa nei suoi piedi).

Il dato normativo va, pertanto, applicato governando la costruzione funzionale dell’illecito e raccordandola con la modulazione dei rimedi ad esso conseguenti, vale a dire tenendo conto che il sistema risarcitorio si fonda non solo sulla capacità preventiva della colpa (giustizia correttiva), ma anche sul soddisfacimento di esigenze meramente compensative (giustizia redistributiva, cioè il trasferimento del peso economico di un evento pregiudizievole dal danneggiato su chi abbia la signoria della cosa) e, non da ultimo, muovendosi con la consapevolezza che quello causale, essendo un “giudizio” utilizzato per allocare i costi del danno, deve essere calibrato in relazione alla specifica fattispecie di responsabilità; costituisce, difatti, il proprium della responsabilità civile il presentarsi “a geometria variabile, perché moltiplica le sue possibilità a seconda degli istituti con cui si fonde, facendo scattare principi anche solo lievemente diversi ma con implicazioni notevoli sulla allocazione finale dei costi, sulla prevenzione, sulla sostenibilità nel tempo della sua promessa (il risarcimento del danno)”.

L’irrilevanza della colpa, quale criterio per risalire al responsabile, è condizione necessaria ma non sufficiente per attribuire alla responsabilità di cui all’art. 2051 cod. civ. natura oggettiva. Essa fa giustizia di quei modelli di ragionamento che evocano la presunzione di colpa, la quale individua il fondamento della responsabilità pur sempre nel fatto dell’uomo – il custode – venuto meno al suo dovere di controllo e vigilanza affinché la cosa non abbia a produrre danno a terzi (Cass., sez. 3, 20/05/1998, n. 5031), ma non anche della teoria del riconoscimento di una presunzione di responsabilità in capo al custode, giustificata ritenendo che, se la cosa fosse stata ben governata e controllata, non avrebbe arrecato alcun danno, mentre se il danno si verifica (fatto noto) si presume che ciò sia avvenuto perché la cosa non è stata adeguatamente custodita (fatto ignoto); da tale presunzione di responsabilità il custode si libererebbe dimostrando, in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa gli attribuisce, che il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso.

Ritenere che sul custode gravi una presunzione di responsabilità – esclusa espressamente, come si è detto, dalla già ricordata pronuncia delle Sezioni Unite – è indice di una resistenza ad emanciparsi dalla colpa che, infatti, viene evocata in via surrettizia non per fondare, in via di regola, la responsabilità del custode, ma (comunque) per escluderla in via di eccezione. La capacità di vigilare la cosa, di mantenerne il controllo, di neutralizzarne le potenzialità dannose, difatti, non è elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità, bensì elemento estrinseco del quale va tenuto conto alla stregua di canone interpretativo della ratio legis, cioè come strumento di spiegazione di “un effetto giuridico che sta a prescindere da essi”. L’intento di responsabilizzare il custode della res o di controbilanciare la signoria di fatto concessagli dall’ordinamento affinché ne tragga o possa trarne beneficio sulla cosa con l’obbligazione risarcitoria (Cass., ord. 01/02/2018, n. 2480, § § 11 e 12) possono essere criteri di spiegazione di quello scelto per allocare il danno, ma non sono elementi costitutivi della regola di fattispecie, né elementi di cui tener conto per escludere l’obbligazione risarcitoria in capo al custode.

Non è stata fornita una definizione normativa della custodia da parte del legislatore del 1942 perché l’art. 2051 cod. civ. si è limitato a tradurre l’espressione francese sous sa garde che appariva nell’art. 1384, 1° comma, Code Napoléon. Questa Corte (Cass., Sez. Un., 11/11/1991, n. 12019) ha, tuttavia, avuto già occasione di rilevare le diverse accezioni della portata della custodia come criterio di determinazione della responsabilità rinvenienti dalle fonti romane e ha ritenuto di poterle raggruppare nelle seguenti categorie: a) quella che si riallaccia alla configurazione giustinianea per cui la custodia non è che un particolare tipo di diligentia; b) quella custodiendae rei, la quale rimane un criterio soggettivo di responsabilità; c) quella più recente, che individua il concetto di custodia nella responsabilità oggettiva. A quest’ultima, che “si concretizza in un criterio oggettivo di responsabilità, intendendo per tale quello che addossa a colui che ha la custodia della cosa la responsabilità per determinati eventi, indipendentemente dalla ricerca di un nesso causale fra il comportamento del custode e l’evento”, ha ricondotto quella rilevante ai sensi dell’art. 2051 cod. civ.

Obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio

Non può mettersi in dubbio che, per individuare il responsabile, non debba farsi riferimento alla custodia di fonte contrattuale (Cass., sez. 3, 18/02/2000, n. 1859; Cass., sez. 3, 20/10/2005, n. 20317), siccome l’articolo 2051 cod. civ. attiene ai rapporti con i terzi danneggiati dalla cosa oggetto di custodia, né possono nutrirsi riserve circa il fatto che, trattandosi di una relazione meramente fattuale, non sia giustificato un mero rinvio ad altri istituti come la proprietà, i diritti reali minori, il possesso, la semplice detenzione; la relazione giuridica con la cosa non è elemento costitutivo della responsabilità, a differenza di quanto previsto dagli artt. 2052, 2053, 2054 cod. civ., sicché responsabile ex art. 2051 cod. civ. può ben essere un soggetto diverso da quello che abbia un titolo giuridico sulla res (Cass., sez. 3, 6/07/2006, n. 15364), atteso che rileva esclusivamente la relazione di fatto di natura custodiale, a prescindere finanche dal se essa sia titolata. L’applicazione dell’art. 2051 cod. civ. si arresta soltanto dinanzi alle cose insuscettibili di custodia in termini oggettivi (acqua, aria): Cass., sez. 3, 20/02/2006, n. 3651 (per il caso del mare territoriale, pure escluso dai possibili oggetti di custodia a questi fini: Cass., sez. 3, 23/05/2014, n. 11532).

L’indeterminatezza della nozione di caso fortuito, talvolta declinato in termini di polivalenza, consente (è bensì vero) di considerare il fortuito tanto come limite della responsabilità per colpa quanto come limite della causa di imputazione della responsabilità. Nondimeno, quando il caso fortuito è evocato espressamente da una norma, come in questo caso, la sua nozione deve essere riempita di contenuto in correlazione con il contesto e con la ratio legis. Per quanto non decisivo, orienta tal senso anche il tenore letterale dell’art. 2051 cod. civ (“Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”), se confrontato con quello dell’art. 2050 cod. civ. (“Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”), dell’art. 2053 cod. civ. (“Il proprietario di un edificio o di altra costruzione è responsabile dei danni cagionati dalla loro rovina, salvo che provi che questa non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione”) e dell’art. 2054 cod. civ. (“Il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno”).

Il contenuto della prova liberatoria non solo è stato tipizzato dal legislatore, ma è stato differenziato secondo la regola di fattispecie di volta in volta presa in considerazione; quando la prova liberatoria è costituita dalla ricorrenza del caso fortuito (cfr. anche l’art. 2052 cod. civ. “Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito”) è segno che il legislatore non ha voluto che il custode (o il responsabile di cui all’art. 2052 cod. civ.) possa liberarsi provando di avere tenuto un comportamento diligente volto ad evitare il danno né la dimostrazione che il danno si sarebbe verificato nonostante la diligenza da lui esigibile, data l’imprevedibilità e

l’inevitabilità dell’evento dannoso, tantomeno che l’intervento del caso fortuito abbia reso oggettivamente impossibile la custodia (utili indicazioni a supporto, ma con carattere di minore prossimità, possono trarsi anche dalle ipotesi in cui il legislatore non ha previsto la prova liberatoria, come nelle ipotesi di cui all’art. 2049 cod. civ. e all’ art. 114 cod. consumo).

7. Tanto premesso, venendo all’esame della fattispecie oggetto della presente controversia, la censura in esame si incentra esclusivamente su una presunta “insufficienza” o “contraddittorietà” della motivazione, assumendo che il giudice d’appello non avrebbe adeguatamente chiarito in quale modo la ricorrente avrebbe usato il bene senza la normale diligenza e, quindi, sulla sussistenza di una condotta colposa del custode, che avrebbe mancato di segnalare la pericolosità dello stato dei luoghi, ossia su circostanze che non rilevano ai fini dell’affermazione (o dell’esclusione) della responsabilità per cose in custodia.

La doglianza non si preoccupa, invece, di contrastare efficacemente la decisione impugnata là dove ha adeguatamente motivato, in fatto, sulla condotta anomala della ricorrente, ritenendola proprio in quanto tale da sola sufficiente ad escludere il nesso di causalità tra la res e l’evento dannoso.

Obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio

Infatti, la sentenza impugnata illustra adeguatamente l’incauta condotta tenuta dall’odierna ricorrente, che ha accettato il rischio di “transitare sul fondo”, interessato da lavori e reso insidioso dalla presenza di sabbia, sebbene fosse a conoscenza della peculiare situazione in quanto frequentatrice abituale dei luoghi.

La Corte territoriale ha, quindi, espresso il giudizio di fatto sulla rilevanza causale del fatto della danneggiata nel pieno rispetto dei principi giuridici che ne costituiscono il fondamento (e che si sono sopra ricostruiti), negando che la caduta e le lesioni riportate dalla ricorrente possano essere in alcun modo ascrivibili al fatto della cosa e, dunque, imputabili a responsabilità del custode, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ.

Come chiarito da questa Corte (Cass., ord. 01/02/2018, n. 2482; Cass., sez. U, 30/06/2022, n. 20943), quando il comportamento del danneggiato sia ragionevolmente apprezzabile come ragionevolmente incauto, lo stabilire se il danno sia stato cagionato dalla cosa, gestita così come custodita, o dal comportamento della stessa vittima o se vi sia stato concorso causale tra i due fattori, costituisce valutazione di merito da compiere sul piano del nesso eziologico, sottendendo un bilanciamento (o reciproca interazione) tra i doveri di precauzione e cautela gravanti sui soggetti coinvolti.

Difatti, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione, da parte dello stesso danneggiato, delle cautele normalmente (e quindi oggettivamente) attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo (anomalo appunto nel senso di discosto dalla normalità oggettivamente intesa delle condotte attese in quel frangente) nel dinamismo del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento superi il nesso eziologico astrattamente individuabile tra fatto ed evento dannoso. Pertanto, ove la condotta del danneggiato assurga, per l’intensità del rapporto con la produzione dell’evento, al rango di causa autonoma dell’evento del quale la cosa abbia infine costituito una mera occasione, viene meno il nesso eziologico con la res (Cass., sez. 3, 20/07/2023, n. 21675).

8. Al riguardo, risulta incensurabile l’affermazione dell’elisione del nesso di causa tra cosa in custodia ed evento dannoso, siccome fondata su accertamenti di fatto relativi alla eccezionalità della condotta incauta della vittima, tutti espressamente enunciati nella motivazione.

Infatti, la motivazione sull’accertamento di fatto relativo all’individuazione del nesso causale ed alla eventuale “graduazione” della responsabilità causale dell’evento dannoso risulta certamente

adeguata, non meramente apparente, né insanabilmente contraddittoria sul piano logico e, come tale, non sarebbe sindacabile nella presente sede, anche tenuto conto che “nella nuova formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il sindacato di legittimità sulla motivazione è ridotto al “minimo costituzionale”, restando riservata al giudice del merito la valutazione dei fatti e l’apprezzamento delle risultanze istruttorie”, e che “la Corte di cassazione può (solo) verificare l’estrinseca correttezza del giudizio di fatto sotto il profilo della manifesta implausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze e, pertanto, può sindacare la manifesta fallacia o non verità delle premesse o l’intrinseca incongruità o contraddittorietà degli argomenti, onde ritenere inficiato il procedimento inferenziale ed il risultato cui esso è pervenuto, per escludere la corretta applicazione della norma entro cui è stata sussunta la fattispecie” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 16502 del 05/07/2017, Rv. 644818 – 01).

Di certo non è ravvisabile, nella motivazione della decisione impugnata, una manifesta fallacia o la non verità delle premesse di fatto su cui è fondata l’individuazione del rilievo della condotta colposa della vittima in termini di esclusiva causa dell’evento dannoso, essendo state correttamente accertate le circostanze di fatto a tal fine valorizzate; né, tanto meno, sussistono una intrinseca incongruità o logica contraddittorietà degli argomenti utilizzati o vizi logici e giuridici del ragionamento della gravità sola rilevante dopo la novella del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., tali da far ritenere inficiato il relativo procedimento inferenziale.

In conclusione, nel caso in esame la violazione del cd. “minimo costituzionale” della motivazione, con riguardo alla questione della esclusività del ruolo della condotta colposa della vittima nella causazione dell’evento dannoso, sempre che a tanto possa ricondursi la censura sviluppata in riferimento all’abrogato tenore testuale del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., non può dirsi neppure integrata.

Avuto riguardo, dunque, alle incensurabili valutazioni di fatto della Corte territoriale, il motivo in esame non può che essere rigettato.

9. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

Infine, per la natura della causa petendi, va di ufficio disposta l’omissione, in caso di diffusione, delle generalità e degli altri dati identificativi della ricorrente, ai sensi dell’art. 52 d.lgs. 196 del 2003.

Obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, pari ad euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Dispone che, ai sensi dell’art. 52 d.lgs. 196 del 2003, in caso di diffusione del presente provvedimento siano omessi generalità ed altri dati identificativi della ricorrente.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile, in data 16 novembre 2023

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2024.

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

Le sentenze sono di pubblico dominio.

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