Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza 10 settembre 2018, n. 21965.
La massima estrapolata:
Non costituisce condotta diffamatoria l’utilizzo di una chat riservata ai componenti di una organizzazione sindacale su Facebook per scambiare valutazioni e giudizi di contenuto anche pesantemente negativo relativi alla società a cui i lavoratori appartengono e al suo amministratore.
Ordinanza 10 settembre 2018, n. 21965
Data udienza 11 aprile 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente
Dott. CURCIO Laura – Consigliere
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere
Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere
Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 18205-2016 proposto da:
(OMISSIS) S.P.A., (OMISSIS) S.R.L., in persona dei legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– ricorrenti –
contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 73/2016 della CORTE D’APPELLO di LECCE SEZIONE DISTACCATA di TARANTO depositata il 18/05/2016 R.G.N. 578/2015.
FATTO E DIRITTO
Rilevato:
1. che con sentenza n. 73 pubblicata il 18.5.2016, la Corte d’appello di Lecce, accogliendo il reclamo proposto dal sig. (OMISSIS) e in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato al predetto con lettera del 15.12.2014 e condannato la (OMISSIS) s.p.a., quale cessionaria di ramo d’azienda della (OMISSIS) s.p.a., alla reintegra e al pagamento di un’indennita’ pari a dodici mensilita’ dell’ultima retribuzione globale di fatto, nonche’ al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali;
2. che la Corte territoriale ha premesso come il licenziamento fosse stato intimato al sig. (OMISSIS), guardia particolare giurata alle dipendenze di (OMISSIS) s.p.a. dal 2007, per le offese rivolte dal medesimo all’amministratore delegato, sig. (OMISSIS), nel corso di una conversazione su Facebook che sarebbe intervenuta il 18.9.2014 e la cui schermata, stampata, sarebbe pervenuta all’azienda il 13.11.2014 per mano di un anonimo;
3. che ai fini del recesso era stata considerata dalla societa’ anche la recidiva in ragione della sanzione conservativa adottata nei confronti del dipendente il 21.10.2014, per assenza ingiustificata dal 23 al 24 settembre 2014;
4. che, secondo la Corte di merito, non poteva tenersi conto della recidiva contestata in quanto il licenziamento era stato intimato per giusta causa e considerato, tra l’altro, che il lavoratore aveva proposto ricorso in giudizio (R.G. n. 10140/14 – Tribunale di Taranto) al fine di far accertare l’illegittimita’ del provvedimento disciplinare del 21.10.2014;
5. che, riguardo alla condotta diffamatoria contestata, il giudice d’appello ha ritenuto la stampa della schermata della pagina Facebook, in quanto raccolta senza garanzia di rispondenza all’originale e di riferibilita’ ad un determinato periodo temporale e in assenza di conferma testimoniale, inidonea a dimostrare il contenuto del colloquio e la data dello stesso;
6. che in ragione della inutilizzabilita’ del documento anonimo e del disconoscimento dello stesso da parte del sig. (OMISSIS), mancava la prova del fatto addebitato;
7. che, comunque, le espressioni contestate, ove anche attribuibili al sig. (OMISSIS), dovessero essere valutate tenendo conto del ruolo del predetto quale Rsa per il sindacato (OMISSIS), del fatto che il messaggio fosse stato pubblicato sul “gruppo Facebook” del sindacato (OMISSIS) e all’interno della conversazione intervenuta tra i partecipanti alla chat, il sindacalista (OMISSIS), la dipendente (OMISSIS) e l’ (OMISSIS), in relazione all’invito che, a dire della (OMISSIS), l’amministratore (OMISSIS) le aveva rivolto perche’ cambiasse sindacato in quanto la (OMISSIS) voleva la morte dell’azienda;
8. che, ha sottolineato la Corte d’appello, il riferimento fatto nella conversazione ai metodi “schiavisti” dell’azienda, e le espressioni usate riguardo all’amministratore, peraltro incomplete per l’uso di puntini sospensivi (“faccia di m…” e “cogli….”), dovessero valutarsi come “coloriture, ormai entrate nel linguaggio comune, tese a rafforzare il dissenso dai metodi del (OMISSIS)”, dovendo altrimenti “concludersi che la liberta’ di critica e, ancora prima, di opinione, possa essere esercitata solo manifestando idee favorevoli o inoffensive o indifferenti”;
9. che avverso tale sentenza le societa’ (OMISSIS) s.p.a. e (OMISSIS) s.p.a. hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a sette motivi, cui ha resistito con controricorso il lavoratore;
Considerato:
10. che col primo motivo di ricorso le societa’ hanno dedotto violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della L. n. 300 del 1970, articolo 7, articoli 2106 e 2119 c.c. per avere la sentenza escluso la rilevanza della recidiva contestata in relazione al licenziamento intimato per giusta causa ed inoltre in ragione del ricorso proposto dal lavoratore per far dichiarare l’illegittimita’ della sanzione conservativa;
11. che col secondo motivo le ricorrenti hanno censurato la sentenza, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame del fatto storico decisivo, oggetto di discussione tra le parti, concernente la non contestazione della paternita’ delle dichiarazioni rese nella chat;
12. che col terzo e quarto motivo di ricorso le societa’ hanno dedotto, in via subordinata rispetto al secondo motivo, violazione e falsa applicazione degli articoli 167, 414 e 416 c.p.c., articolo 2697 c.c., L. n. 92 del 2012, articolo 1, comma 48, articolo 111 Cost. e articoli 2697 e 2719 c.c., per non avere la Corte di merito applicato il principio di non contestazione quanto alla paternita’ delle dichiarazioni dell’ (OMISSIS) sulla chat e per avere ritenuto valido il disconoscimento della conformita’ delle copie agli originali delle pagine web;
13. che col quinto motivo di ricorso le societa’ hanno dedotto, in via subordinata rispetto al secondo e terzo motivo e in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame del fatto storico, decisivo per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti, relativo alla paternita’ delle dichiarazioni nella chat Facebook, conseguente alla mancata ammissione delle prove orali articolate e della richiesta di informazioni alla Polizia Postale;
14. che col sesto motivo le ricorrenti hanno censurato la sentenza per violazione e falsa applicazione degli articoli 2106 e 2119 c.c. per avere escluso la lesione del vincolo fiduciario e quindi la giusta causa di licenziamento a fronte di ingiurie, minacce e denigrazione dell’azienda e del suo amministratore espresso nel corso della conversazione su una chat di Facebook avente ad oggetto temi di natura sindacale;
15. che col settimo motivo, in via subordinata rispetto a tutti i precedenti motivi di ricorso, le societa’ hanno censurato la sentenza per violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, articolo 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, per avere ricondotto la fattispecie in esame al regime sanzionatorio di cui all’articolo 18, comma 4, anziche’ a quello previsto dal comma 5, nonostante la sussistenza del fatto contestato e la non applicabilita’ al medesimo, in base alla contrattazione collettiva, di una sanzione conservativa;
16. che il primo motivo di ricorso e’ infondato, dovendosi correggere, in diritto, ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., u.c., la motivazione adottata dalla Corte territoriale.
17. che occorre infatti considerare come, ai fini disciplinari, la recidiva, ove anche intesa in senso piu’ ampio rispetto alla previsione di cui all’articolo 99 c.c., presupponga non solo che un fatto illecito sia posto in essere una seconda volta, ma che lo sia dopo che la precedente infrazione sia stata contestata al medesimo lavoratore e sanzionata (cfr., in motivazione, Cass. n. 13265/18);
18. che nel caso di specie la condotta posta a base del licenziamento era stata commessa in data 18.9.14, quindi in epoca anteriore rispetto alla assenza ingiustificata del 23 e 24 settembre, oggetto della sanzione conservativa; posto quindi che all’epoca della conversazione sulla chat di Facebook l’assenza ingiustificata non era stata contestata al dipendente, perche’ non ancora commessa, non vi e’ spazio per configurare la recidiva, che deve pertanto considerarsi erroneamente contestata;
19. che riguardo ai restanti motivi di ricorso, occorre premettere come la sentenza d’appello si fondi su due rationes decidendi, tra loro alternative; la prima, basata sul difetto di prova della attribuibilita’ all’ (OMISSIS) delle dichiarazioni sulla chat per inidoneita’ probatoria del documento anonimo; la seconda, sulla insussistenza di una giusta causa di licenziamento per essere le espressioni comparse sulla chat, di dissenso del lavoratore rispetto ai metodi dell’amministratore, riconducibili al legittimo esercizio del diritto di critica;
20. che, per ragioni di priorita’ logica, si esaminano anzitutto le censure mosse alla seconda ratio decidendi, che afferma l’inidoneita’ – a monte della condotta contestata a integrare giusta causa di licenziamento;
21. che occorre premettere alcuni dati oggetto di accertamento in fatto nella sentenza impugnata: il dipendente (OMISSIS) dall’estate 2014 rivestiva la carica di Rsa per il sindacato (OMISSIS); la chat su Facebook, in cui e’ avvenuta la conversazione oggetto di causa, era composta unicamente da iscritti al sindacato (OMISSIS); si trattava quindi di una chat chiusa o privata, come peraltro logicamente ricavabile dall’invio anonimo della stampa della conversazione, e desumibile dal contenuto stesso della conversazione che viene interrotta subito dopo l’avvertimento, da parte di uno dei partecipi, (OMISSIS), del seguente tenore: “Signori fate attenzione che purtroppo c’e’ un collega che legge e va a riferire a (OMISSIS)”; cio’ consente di ritenere accertata nella sentenza impugnata la volonta’ dei partecipanti alla chat di non diffusione all’esterno delle conversazioni ivi svolte;
22. che la Corte territoriale, nel riformare la sentenza di primo grado, ha sottolineato, tra l’altro, la necessita’ di leggere le espressioni adoperate dall’ (OMISSIS) “all’interno dello scambio che interveniva tra i partecipanti alla chat (il sindacalista (OMISSIS), la dipendente (OMISSIS) (OMISSIS) e l’ (OMISSIS)) a seguito dell’invito che proprio l’Amministratore (OMISSIS) aveva rivolto alla lavoratrice (OMISSIS) di cambiare sindacato (perche’ la (OMISSIS) voleva la morte dell’azienda) e… quali reazioni a comportamenti aziendali”;
23. che – dunque – secondo i giudici d’appello la valutazione di gravita’ della condotta, anche rispetto ai limiti del diritto di critica, non puo’ non tener conto dell’effetto esimente della provocazione connessa ad una iniziativa datoriale che appariva come lesiva della liberta’ sindacale dei lavoratori tutelata dall’articolo 39 Cost. e discriminatoria ai danni di quel sindacato;
24. che la lettera di contestazione disciplinare (trascritta nel ricorso in esame) aveva il seguente contenuto: “In data 13.11.2014 e’ pervenuto presso la nostra sede un plico anonimo contenente un documento… costituito dalla stampa di una conversazione su Facebook del 18.9.2014, a cui ha partecipato anche lei, in cui si denigra la societa’ scrivente e lo scrivente Amministratore delegato…. Le sue affermazioni, con particolare riferimento alle espressioni “faccia di…” e “cogli…” che, ancorche’ incomplete, sono chiare nell’individuare la rispettiva offesa e, travalicando i limiti del diritto di critica sindacale, si risolvono in un’offesa gratuita alla persona dell’Amministratore e alla Societa’ e quindi in una diffamazione”;
25. che, ai fini della giusta causa di licenziamento, la condotta del lavoratore deve essere valutata avendo riguardo agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realta’ sociale (Cass., n. 6498 del 2012; Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 25144 del 2010), nella cui cornice devono essere collocate e contemperate le esigenze di tutela della dignita’ della persona rispetto a condotte offensive o diffamatorie e degli altri beni o interessi costituzionalmente rilevanti;
26. che, osserva questa Corte Suprema, per intuitive esigenze di ordine logico-espositivo, si deve anzitutto esaminare l’illiceita’ o meno della condotta per cui e’ causa;
27. che l’addebito mosso al sig. (OMISSIS) ha ad oggetto la diffamazione in danno dell’Amministratore per le espressioni usate nella conversazione avvenuta nella chat degli iscritti al sindacato (OMISSIS);
28. che la condotta diffamatoria lede il bene giuridico della reputazione, cioe’ l’opinione positiva che i consociati hanno di una determinata persona, dal punto di vista etico e sociale;
29. che la lesione della reputazione, in quanto legata al contesto sociale di riferimento, presuppone e richiede la comunicazione con piu’ persone, cioe’ la presa di contatto dell’autore con soggetti diversi dalla persona offesa per renderli edotti e partecipi dei fatti lesivi della reputazione di quest’ultimo;
30. che ove la comunicazione con piu’ persone avvenga in un ambito privato, cioe’ all’interno di una cerchia di persone determinate, non solo vi e’ un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie oggetto di comunicazione, ma si impone l’esigenza di tutela della liberta’ e segretezza delle comunicazioni stesse;
31. che l’articolo 15 Cost. definisce inviolabili “la liberta’ e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione”, dovendosi intendere la segretezza come espressione della piu’ ampia liberta’ di comunicare liberamente con soggetti predeterminati, e quindi come pretesa che soggetti diversi dai destinatari selezionati dal mittente non prendano illegittimamente conoscenza del contenuto di una comunicazione;
32. che la tutela della segretezza presuppone, oltre che la determinatezza dei destinatari e l’intento del mittente di escludere terzi dalla sfera di conoscibilita’ del messaggio, l’uso di uno strumento che denoti il carattere di segretezza o riservatezza della comunicazione;
33. che, come ribadito dalla Corte Cost. nella sentenza n. 20 del 2017, il diritto tutelato dall’articolo 15 Cost. “comprende tanto la corrispondenza quanto le altre forme di comunicazione, incluse quelle telefoniche, elettroniche, informatiche, tra presenti o effettuate con altri mezzi resi disponibili dallo sviluppo della tecnologia”;
34. che quindi l’esigenza di tutela della segretezza nelle comunicazioni si impone anche riguardo ai messaggi di posta elettronica scambiati tramite mailing list riservata agli aderenti ad un determinato gruppo di persone, alle newsgroup o alle chat private, con accesso condizionato al possesso di una password fornita a soggetti determinati;
35. che i messaggi che circolano attraverso le nuove “forme di comunicazione”, ove inoltrati non ad una moltitudine indistinta di persone ma unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo, come appunto nelle chat private o chiuse, devono essere considerati alla stregua della corrispondenza privata, chiusa e inviolabile;
36. che tale caratteristica e’ logicamente incompatibile con i requisiti propri della condotta diffamatoria, ove anche intesa in senso lato, che presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell’ambiente sociale;
37. che l’esigenza di tutela della segretezza delle forme di comunicazione privata o chiusa preclude l’accesso di estranei al contenuto delle stesse, la rivelazione e l’utilizzabilita’ del contenuto medesimo, in qualsiasi forma, prevedendo l’ordinamento specifiche ipotesi delittuose di violazione della corrispondenza, rivelazione del contenuto della stessa e di accesso abusivo a sistemi informatici, (cfr. articoli 616 e 617 c.p.);
38. che, nel caso di specie, la conversazione tra gli iscritti al sindacato era da essi stessi intesa e voluta come privata e riservata, uno sfogo in un ambiente ad accesso limitato, con esclusione della possibilita’ che quanto detto in quella sede potesse essere veicolato all’esterno (tanto che cio’ e’ avvenuto per mano di un anonimo), il che porta ad escludere qualsiasi intento o idonea modalita’ di diffusione denigratoria;
39. che la mancanza del carattere illecito – da un punto di vista oggettivo e soggettivo – della condotta ascritta al lavoratore, riconducibile piuttosto alla liberta’, costituzionalmente garantita, di comunicare riservatamente, assorbe la necessita’ di esaminare il profilo dell’applicabilita’ al caso di specie delle esimenti di cui all’articolo 599 c.p., comma 2, e articolo 51 c.p., comma 1, (le esimenti previste dal codice penale hanno efficacia generale nell’ordinamento: cfr., per tutte, Cass. n. 25682/14) e, quindi, ogni profilo di rispetto o meno della continenza nell’esercizio del diritto di critica;
40. che alla luce di tali ulteriori valutazioni, rilevanti ai fini della nozione normativa di giusta causa in ipotesi di condotte diffamatorie in danno di parte datoriale, deve confermarsi la statuizione della Corte di merito quanto alla mancanza di antigiuridicita’ della condotta addebitata al lavoratore;
41. che risulta pertanto infondato il sesto motivo di ricorso;
42. che parimenti da respingere e’ il settimo motivo di ricorso, atteso che la Corte di merito si e’ uniformata alla giurisprudenza di questa Corte che riconduce al regime sanzionatorio di cui alla L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 4, nel testo modificato dalla L. n. 92 del 2012, l’ipotesi in cui il fatto contestato risulti materialmente esistente ma privo del carattere di illiceita’, (Cass. n. 13383 del 2017; Cass. n. 18418 del 2016; Cass. n. 20540 del 2015; Cass. n. 20545 del 2015);
43. che le considerazioni svolte portano a ritenere assorbiti i residui motivi di ricorso, atteso che, ove almeno una delle plurime rationes decidendi della sentenza impugnata resista al vaglio del giudice dell’impugnazione, risultano inammissibili per difetto di interesse le censure rivolte contro le altre (cfr., da ultimo e per tutte, Cass. n. 11493/18);
44. che le spese di lite del giudizio di legittimita’ sono regolate secondo il criterio di soccombenza e liquidate come in dispositivo;
45. che deve darsi atto della ricorrenza dei presupposti di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna le ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimita’ che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi oltre spese forfettarie nella misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, introdotto dal L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis del medesimo articolo 13.
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