Non commette autoriciclaggio il contribuente che nella voluntary disclosure ha dichiarato il falso

Corte di Cassazione, sezione seconda penale, Sentenza 1 aprile 2019, n. 14101.

La massima estrapolata:

Non commette autoriciclaggio il contribuente che nella voluntary disclosure ha dichiarato il falso regolarizzando beni che in realtà non erano all’estero, ma già in suo possesso. Il falso infatti non può aver generato, come provento, quegli stessi beni che erano già presenti nel patrimonio del contribuente e che erano stati dichiarati, sebbene falsamente, come collocati all’estero. Viene così a mancare uno dei requisiti essenziali per la sussistenza del delitto di autoriciclaggio che è il reimpiego di beni provenienti da un delitto commesso dalla medesima persona.

Sentenza 1 aprile 2019, n. 14101

Data udienza 1 marzo 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PRESTIPINO Antonio – Presidente

Dott. RAGO Geppino – rel. Consigliere

Dott. DE SANTIS Anna Maria – Consigliere

Dott. PAZIENZA Vittorio – Consigliere

Dott. COSCIONI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato il (OMISSIS);
contro l’ordinanza del 06/11/2018 del Tribunale del riesame di Brescia;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. G. Rago;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CENICCOLA Elisabetta, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
uditi i difensori, avv.ti (OMISSIS) e (OMISSIS), che hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 06/11/2018, il Tribunale del riesame di Brescia confermava l’ordinanza con la quale il giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Bergamo, in data 17/10/2018, aveva applicato a (OMISSIS) la misura degli arresti domiciliari in relazione ai reati di cui al Decreto Legge n. 167 del 1990, articolo 5 septies, (capo sub 1) e articolo 648 ter 1 c.p. (capo sub 2).
1.1. In relazione al capo sub 1), al ricorrente e’ contestato: “il delitto p. e p. dall’ Decreto Legge n. 167 del 1990, articolo 5 septies, (conv. con modo L. n. 227 del 1990) poiche’, nell’ambito della procedura di collaborazione volontaria di cui al Decreto Legge 28 giugno 1990, articoli 5 quater e 5 octies, (convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 1990, n. 227), forniva dati e notizie non rispondenti al vero nella relazione di accompagnamento – depositata in data 30.12.2015 – alla domanda di adesione alla procedura, presentata in data 24.10.2015, in particolare:
dichiarava falsamente che l’adesione a detta procedura si collocava in un diverso ambito oggettivo rispetto alla verifica fiscale aperta in data 20.10.2017 nei confronti della societa’ (OMISSIS) s.r.l., partecipata totalitariamente ed amministrata dall’indagato;
nonche’, in relazione alla collezione di opere d’arte (valutata Euro 25.944.984,00) asseritamente detenuta all’estero di cui al punto 11) della sezione 1.1) della citata relazione:
dichiarava falsamente di detenere dette opere quale “collezionista” di opere d’arte;
dichiarava falsamente di non essere titolare, e di non avere alcun ruolo, in relazione alla societa’ di diritto elvetico (OMISSIS) s.a.;
attestava falsamente la completezza e veridicita’ dei dati e delle informazioni rese in sede di relazione di accompagnamento, omettendo di indicare di detenere. tramite la (OMISSIS) s.r.l, e la societa’ (OMISSIS) s.r.l., la societa’ di diritto inglese (OMISSIS) Uk, anch’essa titolare di un ingente patrimonio di opere d’arte detenute all’estero;
attestava falsamente la collocazione spaziale di diverse opere d’arte, in particolare facendo risultare come detenute all’estero opere detenute in Italia: dichiarava falsamente che il 100% delle opere oggetto della procedura di collaborazione volontaria avrebbe continuato ad essere detenuto nel Regno Unito;
nonche’, ancora, presentava una dichiarazione sostitutiva di atto di notorieta’ redatta in epoca non anteriore al 24.10.2015 – datata 2 settembre 2015 e nella quale attestava falsamente “di aver prodotto (…) tutta la documentazione richiesta ed esistente ai fini della procedura di collaborazione volontaria riguardante la propria posizione”, documentazione prodotta invece allo studio (OMISSIS)- (OMISSIS)- (OMISSIS) in epoca successiva al 24.10.2015. In Bergamo, dal 30.12.2015 al 26.04.2016″.
Il Tribunale – dopo avere indicato analiticamente gli indizi a carico del ricorrente e disatteso anche la tesi difensiva (pag. 5 ss dell’ordinanza impugnata) – riteneva che, in relazione al suddetto reato, il quadro indiziario fosse grave, preciso e concordante, e “di per se’ sufficiente a legittimare e rendere necessaria la misura domiciliare in atto” (pag. 11 ordinanza impugnata).
1.2. In relazione al capo sub 2), al ricorrente e’ contestato “il delitto p. e p. dall’articolo 648 ter 1 c.p. poiche’, avendo commesso ii delitto di cui al capo 1) in data 30.12.2015, immediatamente dopo, e segnatamente in data 31.12.2015, trasferiva parte della collezione di opere d’arte dianzi indicata a (OMISSIS) verso il corrispettivo di Euro 11.130.000,00, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa delle opere in parola mediante trasferimento delle stesse – trasferimento collocato nell’ambito di una serie di operazioni societarie contestuali ed interdipendenti finalizzate a mettere a disposizione della (OMISSIS) la provvista necessaria per effettuare il menzionato acquisto – a soggetto terzo estraneo al reato presupposto e confusione delle medesime con l’ingentissimo patrimonio di opere d’arte detenuto dal predetto. In (OMISSIS)”.
Il Tribunale (pag. 12), dopo avere descritto la complessa operazione finanziaria, cosi’ concludeva: “Ebbene, all’esito della complessiva e reciproca compravendita, la (OMISSIS) ha (ri)acquisito a costo zero, avendo precedentemente ricevuto la provvista dalla (OMISSIS) – la (OMISSIS) (di cui (OMISSIS) restava amministratore) e ha acquistato una nutrita collezione di opere d’arte, cedendo in cambio la Strategia Holding (tuttavia svuotata del patrimonio immobiliare). Dal canto suo (OMISSIS) – persona fisica e attraverso l’interposizione fittizia di (OMISSIS) e (OMISSIS) UK – ha versato alla (OMISSIS) 35 milioni di Euro (provenienti dalle casse della (OMISSIS), gia’ soggetta a verifica fiscale) che ha immediatamente riottenuto quale corrispettivo delle vendite sopra descritte: Inoltre ha ricavato una societa’, la Strategia Holding, e ha incassato personalmente 11 milioni di Euro. Tale negozio ha dunque avuto l’effetto di monetizzare beni che oramai erano stati dichiarati (e che grazie alla V.D. (OMISSIS) ha potuto vendere personalmente, incassando il relativo corrispettivo) e che, in caso di esito negativo della procedura (ad esempio per inammissibilita’, di cui (OMISSIS) era pienamente conscio) ovvero di rideterminazione in aumento dell’imposta dovuta (per effetto del recupero a tassazione delle plusvalenze e degli ulteriori redditi non dichiarati), avrebbero potuto essere aggrediti dall’amministrazione finanziaria”.
Ad avviso del Tribunale (pag. 13), sussistevano tutti gli elementi costitutivi del reato di autoriciclaggio posto che:
a) il reato presupposto andava individuato nel reato di falso di cui al Decreto Legge n. 167 del 1990, articolo 5 septies, in quanto la vendita “ha avuto ad oggetto opere derivanti dal reato di cui al capo 1) nella misura in cui l’apparente regolarizzazione delle opere mediante le condotte di falso sopra analizzate ha consentito all’indagato di venderle in prima persona, incassandone il prezzo”. Concetto questo successivamente ribadito (pag. 15) laddove il Tribunale ha osservato che “Non puo’ infine sottacersi come la complessiva operazione in esame fosse altresi’ funzionale, ed idonea, a frustrare la garanzia erariale, di guisa da rendere la condotta astrattamente compatibile anche con il delitto di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 11, pacificamente non coperto da alcuna causa di non punibilita’. Invero, per effetto della strategia economica in questione, l’indagato ha trasformato le opere (ormai dichiarate e quindi aggredibili) in denaro, in larga parte occultato (cfr. nota n. 547992 del 13.9.2018, accertamenti patrimoniali in esito ai quali sono state rinvenute sui conti del (OMISSIS) liquidita’ ben inferiori, pari a 156.513,92 Euro), cosi’ ostacolando il recupero delle maggiori imposte. Tale lettura combacia con il complessivo comportamento dell’indagato, la cui iniziale scelta di accedere alla procedura di emersione e’ stata dettata dall’avvio dell’accertamento fiscale a carico della (OMISSIS) e dal timore che questo si estendesse agli ulteriori redditi posseduti. In quest’ ottica si comprende dunque come il (OMISSIS), in rapida sequenza, dopo aver aderito alla V.D. in maniera tutt’ altro che spontanea e proprio mentre erano in corso l’accertamento fiscale nei confronti della (OMISSIS) e l’infedele procedura di regolarizzazione dei redditi posseduti all’estero – nel dubbio che quest’ultima, poiche’ non spontanea e fondata su dati falsi, fosse ritenuta inammissibile ovvero esitasse in una rideterminazione in aumento dell’imposta – abbia escogitato un articolato artificio economico finalizzato a trasformare le opere (destinate a costituire la garanzia per il fisco) in denaro di piu’ agevole occultamento e dispersione, cosi’ da paralizzare l’eventuale recupero delle maggiori imposte (ammontanti quanto meno ad ulteriori 2 milioni di Euro e destinate ad aumentare significativamente per effetto del recupero a tassazione dei redditi prodotti dalle societa’ non dichiarate e, ancor di piu’, in caso di esito negativo della V.D.”;
b) era ravvisabile anche la finalita’ e la idoneita’ della suddetta condotta di ostacolare l’esatta identificazione delle opere attraverso confusione nella vasta collezione della (OMISSIS);
c) non era sussistente la causa di non punibilita’ di cui al Decreto Legge n. 167 del 1990, articolo 5 quinquies.
1.3. Quanto, infine, alle esigenze cautelari, il Tribunale, riteneva che sussistesse “(….) un concreto rischio di reiterazione criminosa, desumibile dalla gravita’ e pericolosita’ insita nelle condotte delittuose contestate ed attualizzato dalle risultanze investigative emerse con riguardo ai comportamenti successivi, e recenti, posti in essere dall’indagato. L’abilita’ e la professionalita’ mostrate dal prevenuto in occasione dell’accesso alla V.D. denotano spiccata pericolosita’ e capacita’ delinquenziale, oltre ad intenso proposito criminoso, testimoniato dalla realizzazione delle condotte fraudolente poste in essere contestualmente al trasferimento delle opere a scopo riciclatorio. L’assenza di remore e la ferma volonta’ criminale e’ ulteriormente confermata dal tentativo di occultamento delle opere realizzato subito dopo la notizia del procedimento penale a suo carico e dai plurimi sforzi posti in essere dal (OMISSIS) al fine di manipolare ulteriormente la documentazione contabile e fiscale, compresa quella attinente la V.D., cosi’ da fornire una pezza giustificativa alle falsita’ pregresse”.
2. Contro la suddetta ordinanza, il (OMISSIS), a mezzo dei propri difensori, ha proposto ricorso per cassazione deducendo:
2.1. La violazione del Decreto Legge n. 167 del 1990, articolo 5 quater/2.
La difesa del ricorrente, in punto di fatto, ha premesso di non contestare quanto accertato dal tribunale e cioe’ che:
in data 20/10/2015, la Guardia di Finanza iniziava una verifica fiscale nei confronti della (OMISSIS) s.r.l. societa’ uninominale di cui esso ricorrente era socio unico ed amministratore, controllante la ” (OMISSIS) s.r.l.” a sua volta controllante ” (OMISSIS) UK” societa’ di diritto inglese;
in data 24/10/2015, il (OMISSIS) presentava domanda di collaborazione volontaria (cd. Voluntary Disclosure) in base alla quale dichiarava redditi e beni detenuti all’estero per oltre 33 milioni di Euro (comprensivi di una collezione di opere d’arte del valore di quasi 26 milioni di Euro) aderendo alla relativa emersione.
La difesa, pero’, sostiene che, dalle suddette circostanze, il Tribunale avrebbe desunto errate conseguenze giuridiche avendo ritenuto che la procedura di V.D., benche’ perfezionatasi sul piano amministrativo, era da ritenersi preclusa in quanto tutte le suddette societa’ costituivano un unicum indistinguibile dalla posizione singola del ricorrente il quale se ne serviva come “uno schermo fittizio attraverso cui commerciava in opere d’arte e a sua volta collegato ad altre societa’ estere a se’ riconducibili”. Di conseguenza, secondo l’assunto del Tribunale, essendo il ricorrente venuto a conoscenza che la Guardia di Finanza aveva iniziato una verifica nei confronti della (OMISSIS) srl (e cioe’, in pratica di esso ricorrente) non poteva – per il divieto previsto dal Decreto Legge n. 167 del 1990, articolo 5 quater/2 – appena quattro giorni dopo, presentare una istanza di V.D..
Al contrario, la difesa, ritiene che l’identita’ “dell’ambito oggettivo sia un elemento di natura formale e debba necessariamente consistere nella perfetta identita’ tra il soggetto che subisce la verifica e quello che accede alla V.D.” con la conseguenza che “se la V.D. e’ ammissibile, l’intero patrimonio che vi e’ stato dedotto e’ da ritenersi ormai fiscalmente regolarizzato, e le uniche conseguenze pregiudizievoli per il (OMISSIS) potranno discendere da porzioni di patrimonio occultate o non denunciate, a condizione che le stesse vengano previamente individuate”.
2.2. La violazione dell’articolo 648 ter1 c.p..
Sostiene la difesa che il falso dichiarativo di cui all’articolo 5 septies cit., non puo’ costituire reato presupposto del delitto di autoriciclaggio, in quanto insuscettibile di generare provento da reato. Infatti, “salva l’applicazione delle sanzioni amministrative sulle disponibilita’ non denunciate in sede di V.D., il solo profilo di illiceita’ penale riguarderebbe l’eventuale consumazione di alcune delle fattispecie di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, il cui provento non e’, ovviamente, la base imponibile, ma l’imposta evasa” e le relative sanzioni, corrispondenti alla nuova base imponibile ricalcolata a seguito dei beni non dichiarati, fatta salva, inoltre, l’eventuale responsabilita’ penale.
Nella fattispecie in esame, invece, nessun reato tributario era stato contestato in quanto “l’unico surplus di imposta e sanzioni nei confronti del (OMISSIS) ad oggi astrattamente ipotizzabile e menzionato da ogni Autorita’ Giudiziaria che sia intervenuta nella vicenda e’ costituito dall’importo di Euro 1.959.218,00 riconducibile alla eventuale modifica dello status contributivo da collezionista a commerciante (….) il predetto ammontare – sempre che si possa contestare un reato e sempre che se ne tracci la destinazione – e’ l’unico elemento fattuale cui ricollegare una qualsivoglia ipotesi di illecito reimpiego”: ma lo stesso Tribunale non aveva neppure individuato l’ammontare del provento illecito reinvestito (ossia il profitto da reato tributario).
Quindi, il falso dichiarativo di cui al capo sub 1) non aveva generato alcun risparmio d’imposta tant’e’ che nonostante le false affermazioni contestategli, non era stata individuata ulteriore base imponibile occultata dal ricorrente.
La difesa, poi, contesta: a) che la vendita dei quadri alla (OMISSIS), potesse essere fatta rientrare nell’impiego “in attivita’ economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative” in quanto la mera cessione non puo’ di per se’ costituire autoriciclaggio, tanto piu’ che non si era trattata di un’operazione simulata; b) la sussistenza di alcun concreto ostacolo alla identificazione della provenienza delle opere d’arte.
2.3. La violazione dell’articolo 274 c.p.p..
In ordine alla motivazione addotta dal Tribunale relativamente all’esigenze cautelari, la difesa contesta il pericolo di reiterazione sia perche’ il falso non e’ tecnicamente reiterabile essendo la procedura di collaborazione chiusa da tempo, sia perche’, sotto il profilo dell’inquinamento probatorio, tutta la documentazione e’ nelle mani degli inquirenti che hanno ormai concluso l’indagine. Quanto alla possibilita’ di vendita di altre opere d’arte, non vi e’ alcun elemento dal quale potersi desumere che il ricorrente possa alienarle: dal che si desume anche la carenza dell’attualita’ della misura.
2.4. La violazione degli articoli 103/5 e 271 c.p.p..
Sostiene la difesa che le intercettazioni telefoniche tra l’indagato, l’avv.to (OMISSIS) ed il dr (OMISSIS), praticante iscritto all’albo di Milano dal 23/07/2015, formalmente in carico al suo dominus, avv.to (OMISSIS), socio dell’avv.to (OMISSIS), sarebbero inutilizzabili in quanto attivita’ captativa in danno di un difensore. Di conseguenza, la motivazione addotta dal Tribunale secondo la quale le intercettazioni sarebbero utilizzabili in quanto “estranee al conferimento di un mandato difensivo nell’ambito del penale” essendo state disposte nell’ambito del procedimento della V.D., sarebbe contraria alla stessa giurisprudenza di legittimita’ che l’ha estesa a tutte le conversazioni comunque inerenti al mandato professionale.
2.5. In data 22/02/2019, la difesa ha depositato: a) trascrizioni di due chiamate intercettate; b) relazione di Consulenza tecnica del Dott. L. Magistro con relativi allegati.
In data odierna, la difesa ha depositato delle “note d’udienza”.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Preliminarmente questa Corte dichiara che non sara’ presa in alcuna considerazione ne’ la documentazione depositata il 22/02/2019 (trattandosi di atti che implicano un giudizio di merito non consentito in questa sede) ne’ la cd. “nota d’udienza” che, in realta’, e’ una vera e propria memoria che avrebbe dovuto essere depositata “fino a cinque giorni prima dell’udienza” ex articolo 127/2 c.p.p..
Tanto premesso, ai fini della soluzione delle questioni dedotte, e’, opportuno, introdurre brevi nozioni sia sull’istituto della Collaborazione Volontaria, sia del reato di autoriciclaggio.
1.1. LA COLLABORAZIONE VOLONTARIA.
La Collaborazione volontaria (cd. Voluntary Disclosure), introdotta con la L. n. 186/2014, e’ una procedura con cui il contribuente, autodenunciandosi, dichiara al fisco “attivita’ finanziarie e patrimoniali costituite o detenute fuori dal territorio dello Stato” non indicate nella dichiarazione (articolo 5 quater/1 lettera a): cd nero transfrontaliero), ovvero redditi occultati in Italia (articolo 1/2-3-4 Legge cit.: cd. nero domestico).
Gli effetti della corretta presentazione dell’autodenuncia sono molteplici, ma, i piu’ importanti possono essere cosi’ riassunti:
a) regolarizzazione della propria situazione patrimoniale e reddituale;
b) corresponsione integrale delle imposte e degli interessi relativi ai redditi non dichiarati;
c) riduzione delle sanzioni amministrative applicabili;
d) non punibilita’ dei reati: dl) di omessa o infedele dichiarazione, di dichiarazione fraudolenta con fatture false o altri artifici, di omesso versamento di ritenute certificate, di omesso versamento IVA; d2) di cui agli articoli 648 bis, 648 ter e 648 ter 1 c.p..
Ove la dichiarazione sia infedele, l’Agenzia delle Entrate esercita nuovamente il suo autonomo potere di accertamento con la revoca ex tunc dei suddetti benefici (articolo 5 quinquies/10).
La procedura di Collaborazione volontaria, quindi, ha, come effetto principale, quello di fare emergere “il nero”, su cui il contribuente, deve pagare le imposte e gli interessi che avrebbe dovuto pagare oltre le sanzioni in misura ridotta.
E’ ovvio, poi, che di quei beni occultati – che facevano parte del patrimonio del contribuente – una volta che siano stati dichiarati, il contribuente/proprietario ne possa liberamente disporre (come lo poteva anche prima) in quanto la procedura di Collaborazione Volontaria non produce alcun effetto di “cristallizzazione” o “incommerciabilita’” dei medesimi: l’unico effetto previsto dalla legge – lo si ripete – e’ che il contribuente deve pagare le imposte evase, gli interessi e, in misura ridotta, le sanzioni in cui sarebbe incorso ove l’Amministrazione Finanziaria avesse effettuato nei suoi confronti un autonomo accertamento.
La collaborazione volontaria, tuttavia, a norma dell’articolo 5 quater/2 “non e’ ammessa se la richiesta e’ presentata dopo che l’autore della violazione degli obblighi di dichiarazione di cui all’articolo 4, comma 1, abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attivita’ di accertamento amministrativo o di procedimenti penali, per violazione di norme tributarie, relativi all’ambito’ oggettivo di applicazione della procedura di collaborazione volontaria indicato al comma 1 del presente articolo. La preclusione opera anche nelle ipotesi in cui la formale conoscenza delle circostanze di cui al primo periodo e’ stata acquisita da soggetti solidalmente obbligati in via tributaria o da soggetti concorrenti nel reato”.
1.2. IL DELITTO DI AUTORICICLAGGIO.
Il reato di autoriciclaggio e’ configurabile ove l’agente che abbia commesso un delitto non colposo presupposto, abbia, successivamente, impiegato, sostituito, trasferito, in attivita’ economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilita’ provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa.
Quindi, gli elementi materiali del suddetto delitto sono:
a) la commissione di un delitto non colposo;
b) che dal suddetto delitto sia derivato un provento (denaro, beni o le altre utilita’) economicamente apprezzabile;
c) che il suddetto provento sia stato reinvestito in attivita’ economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative;
d) che l’operazione di reinvestimento abbia costituito un ostacolo alla identificazione della provenienza delittuosa del provento del reato presupposto.
E’ importante focalizzare il punto sub b): l’articolo 648 ter 1 c.p., al comma 1, individua la condotta del suddetto reato nell’impiego, sostituzione, trasferimento “in attivita’ economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative” del denaro, beni, o altre utilita’ “provenienti dalla commissione” del delitto presupposto “in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”.
In altri termini, dalla commissione del reato presupposto, l’agente deve avere conseguito “un provento” di natura economica (denaro, beni, o altre utilita’), che abbia “riciclato” al fine di non rendere riconducibile quella ricchezza al delitto compiuto.
Proprio questa peculiarita’ (e cioe’ l’incremento del patrimonio come effetto diretto del delitto commesso), aveva fatto sorgere il problema della configurabilita’ del delitto di autoriciclaggio nel caso in cui il reato presupposto fosse costituito da un reato tributario che, di per se’, non determina alcun accrescimento del patrimonio dell’agente.
La questione e’ stata, pero’, risolta dalla giurisprudenza di questa Corte – alla quale in questa sede va data continuita’ – secondo la quale il profitto del reato presupposto – nell’ipotesi in cui questo sia un reato tributario – consiste esclusivamente nell’ammontare dell’imposta evasa: ex plurimis Cass. 50310/2014 Rv. 261517; Cass. 43952/2016 Rv. 267925; Cass. 30401/2018 Rv. 272970 (in motivazione).
In altri termini, il provento del reato presupposto, puo’ consistere non solo in un incremento del patrimonio ma anche in un risparmio (omesso pagamento delle imposte dovute) in quanto, comunque, il patrimonio dell’agente ne riceve un vantaggio economicamente apprezzabile.
Il dato giuridico, pero’, fondamentale per la configurabilita’ del reato di autoriciclaggio, e’ che dal reato presupposto derivi, come effetto diretto della condotta criminosa, un vantaggio patrimoniale (sia in termini di incremento che di risparmio), economicamente apprezzabile ed idoneo, quindi, ad essere “riciclato” per evitare che sia riconducibile al reato presupposto.
Questa precisazione consente, pertanto, di chiarire che i reati di falso possono fungere da reato presupposto solo in quei casi in cui dal falso derivi, come effetto diretto, un provento di natura patrimoniale per l’agente, idoneo, poi, ad essere riciclato (ad es. articolo 316 ter c.p.).
Ma, se dal falso l’agente non consegue alcun provento (es. articolo 476 c.p.) o, se il falso e’ commesso come reato mezzo per compiere un altro reato dal quale derivi un provento (ad es. il pubblico ufficiale incaricato di redigere un verbale di inventario, omette di inserirvi un bene di cui poi si appropria), il reato di autoriciclaggio o non e’ configurabile (nella prima ipotesi) o lo e’ (nel secondo esempio ipotizzato) ma in relazione al reato appropriativo perche’ solo da questo consegue, in modo diretto, un provento riciclabile.
Chiariti questi concetti, si puo’ ora passare alla disamina della fattispecie concreta.
2. LA VIOLAZIONE DEL Decreto Legge n. 167 del 1990, ART. 5 QUATER/2.
L’articolo 5 septies, punisce con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni “L’autore della violazione di cui all’articolo 4, comma 1, che, nell’ambito della procedura di collaborazione volontaria di cui all’articolo 5 quater, esibisce o trasmette atti o documenti falsi, in tutto o in parte, ovvero fornisce dati e notizie non rispondenti al vero”.
La configurabilita’ o meno del suddetto reato (capo sub 1 dell’incolpazione) dipende dalla valutazione che, in punto di fatto, si da’ della locuzione contenuta nel comma 2 dell’articolo 5 quater (al quale l’articolo 5 septies rinvia), in cui si legge di “ambito oggettivo di applicazione della procedura di collaborazione volontaria indicato nel comma 1 del presente articolo”.
Il punto su cui verte la controversia e’ il seguente.
Il Tribunale, sostiene che il (OMISSIS) non avrebbe potuto accedere all’istanza di Collaborazione Volontaria in quanto, nel momento in cui la presento’, era gia’ in corso, da quattro giorni, una verifica fiscale nei confronti della (OMISSIS) srl a lui riconducibile. L’istanza fu possibile perche’ il (OMISSIS) forni’ all’Amministrazione Finanziaria notizie false (quelle indicate nel capo d’incolpazione) che se da questa conosciute esattamente non gli avrebbero consentito di accedere alla procedura. Infatti, il Tribunale e’ pervenuto alla suddetta conclusione motivando nei termini di seguito indicati: dal punto di vista formale, sia la (OMISSIS) srl che le altre societa’ a questa collegate, erano societa’ distinte dal patrimonio personale del (OMISSIS). Ma, la svolta istruttoria aveva evidenziato una situazione diversa da quella formale: infatti, il (OMISSIS), svolgeva, in realta’, l’attivita’ di commerciante in oggetti d’arte (e, quindi, non era un collezionista come aveva falsamente dichiarato) attraverso la ragnatela di societa’ a lui facenti capo e delle quali si serviva come “uno schermo fittizio attraverso cui commerciava in opere d’arte e a sua volta collegata ad altre societa’ estere a se’ riconducibili”. In altri termini, l’attivita’ personale del (OMISSIS) non era distinguibile, in fatto, da quelle delle singole societa’ “sia per i reciproci rapporti commerciali, sia per le parziali coincidenze o comunque connessioni in punto di amministrazione, sede legale e ubicazione delle opere”: sul punto, il Tribunale (pag. 5 ss) indica una serie di elementi fattuali a riscontro della suddetta affermazione.
La conseguenza, sul piano giuridico e’ stata la seguente: “Se, dunque, l’oggetto della V.D. va correttamente individuato nell’emersione di redditi di fonte internazionale, e’ dimostrata la medesimezza del relativo ambito oggettivo rispetto alla verifica fiscale gia’ in corso che, indipendentemente dal dato meramente formale e fluido del soggetto destinatario della procedura di procedura di controllo, di fatto riguardava uno dei veicoli societari artatamente utilizzati dal contribuente per esercitare la propria attivita’ commerciale e aveva, nella contingenza, disvelato il possesso in capo all’indagato – persona fisica – di beni dal valore sproporzionato rispetto ai redditi dichiarati e, soprattutto, la chiara riconducibilita’ allo stesso di ulteriori societa’ straniere operanti nel settore del commercio di opere d’arte”: da qui la configurabilita’ del reato contestato (articolo 5 septies).
Ad opposta conclusione giunge, invece, la difesa la quale ritiene che il ricorrente avesse il diritto di accedere alla V.D. e che non aveva effettuato alcuna falsa dichiarazione proprio perche’ la verifica fiscale in corso nei confronti della (OMISSIS) s.r.l., soggetto giuridico del tutto diverso dal ricorrente, non aveva nulla a che vedere, sul piano formale, con la sua posizione contributiva.
2.1. Questo Collegio ritiene infondata la censura dedotta in ordine alla configurabilita’ del reato di cui al capo sub 1).
E’ indubbio, come sostiene la difesa del ricorrente, che la locuzione “ambito oggettivo di applicazione della procedura di collaborazione volontaria” si riferisca ai singoli soggetti (persone fisiche o giuridiche indicate nell’articolo 4/1) che abbiano dichiarato di volersi avvalere della procedura di collaborazione volontaria.
Ma, e’ altrettanto indubbio che la forma non puo’ prevalere sulla sostanza altrimenti si incorrerebbe e si legittimerebbe l’abuso del diritto.
Pertanto, nella concreta fattispecie, la questione da risolvere non consiste nello stabilire cosa si debba intendere, in diritto (e, quindi, in astratto) per “ambito oggettivo di applicazione della procedura di collaborazione volontaria”, quanto se, in punto di fatto, quella situazione formale costituita da un intreccio di societa’, in realta’, celava, nella sostanza, quella diversa ipotizzata dalla pubblica accusa e fatta propria dal Tribunale e cioe’ che il ricorrente aveva creato, attraverso la costituzione di molteplici societa’ da lui direttamente controllate, uno schermo fittizio utilizzato per commerciare in opere d’arte, per effetto del quale, aveva evaso il fisco.
Sul punto, bisogna dare atto che i dati fattuali indicati analiticamente dal Tribunale sono numerosissimi, univoci e convergenti in senso accusatorio, tant’e’ che la stessa difesa nulla ha saputo o potuto eccepire essendosi limitata a proporre la tesi di cui si e’ detto.
Va aggiunto che fra le numerose prove, il Tribunale ha indicato anche il contenuto di alcune intercettazioni in ordine alle quali la difesa ha sollevato eccezione di inutilizzabilita’ (supra in parte narrativa sub 2.4.).
La suddetta eccezione va, allo stato, dichiarata inammissibile per due motivi:
innanzitutto, la difesa non ha esattamente chiarito gli estremi fattuali in grado di confutare l’affermazione del Tribunale secondo il quale si tratterebbe di conversazioni estranee al mandato difensivo (pag. 10): il che, sotto questo profilo, rende la censura generica;
in secondo luogo, perche’, a tutto concedere, la difesa non ha effettuato la cd. “prova di resistenza”: infatti, a fronte dell’imponente quadro probatorio illustrato dal Tribunale – gia’ di per se’ ampiamente sufficiente a livello indiziario – non e’ chiaro quale rilevanza e decisivita’ abbiano le suddette intercettazioni.
In conclusione, le censure dedotte in ordine alla insussistenza del reato di cui all’articolo 5 septies, nonche’ alla inutilizzabilita’ delle intercettazioni, vanno ritenute infondate.
2. LA VIOLAZIONE DELL’ART. 648 TER1 C.P..
La censura e’ fondata.
Nella fattispecie in esame, secondo la tesi del Tribunale (pag. 13):
a) il reato presupposto sarebbe il reato di falso di cui all’articolo 5 septies;
b) il provento sarebbe costituito dall’apparente regolarizzazione delle opere d’arte dichiarate;
c) il reimpiego sarebbe costituito dalla vendita alla (OMISSIS) della suddetta collezione d’arte per la somma di Euro 11 milioni di Euro;
d) l’ostacolo all’identificazione sarebbe costituito dalle complesse modalita’ della vendita (descritte a pag. 12).
Il Tribunale ha aggiunto che “Tale negozio ha dunque avuto l’effetto di monetizzare beni che oramai erano stati dichiarati (e che grazie alla V.D. (OMISSIS) ha potuto vendere personalmente, incassando il relativo corrispettivo) e che, in caso di esito negativo della procedura (ad esempio per inammissibilita’, di cui (OMISSIS) era pienamente conscio) ovvero di rideterminazione in aumento dell’imposta dovuta (per effetto del recupero a tassazione delle plusvalenze e degli ulteriori redditi non dichiarati), avrebbero potuto essere aggrediti dall’amministrazione finanziaria”.
In realta’, nessuno degli elementi materiali previsti dall’articolo 648 ter 1 c.p., sono individuabili nella concreta fattispecie in esame.
Ed infatti, innanzitutto, il preteso reato presupposto (il falso) non ha generato alcun provento per la semplice ragione che i beni oggetto della falsa dichiarazione, in realta’, facevano gia’ parte del patrimonio del (OMISSIS) ed erano gia’ stati dichiarati nell’ambito della V.D. (cfr pag. 10 e 12 ordinanza impugnata in cui e’ lo stesso Tribunale che afferma che le opere d’arte – poi oggetto del ritenuto autoriciclaggio – erano nella disponibilita’ del ricorrente in quanto elencate nella relazione di accompagnamento alla V.D.).
Il reato di falso, quindi, consistette nell’avere il (OMISSIS) falsamente comunicato nella relazione di accompagnamento alla V.D. che quelle opere (poi oggetto dell’asserito autoriciclaggio) si trovavano all’estero ed ivi sarebbero rimaste collocate quando, invece, erano nella sua disponibilita’ in Italia (pag. 13 ordinanza).
Ma, e’ evidente che il suddetto falso, non puo’ avere generato (come provento) quegli stessi beni che erano gia’ presenti nel patrimonio del ricorrente e che erano gia’ stati dichiarati (sebbene, falsamente, come collocati all’estero).
D’altra parte, non e’ neppure ipotizzabile che il provento possa essere costituito dall’apparente regolarizzazione delle opere d’arte dichiarate, perche’, paradossalmente, la “denuncia” di quei beni fino ad allora occultati, ha consentito all’Amministrazione Finanziaria di venirne comunque a conoscenza e, quindi, in caso di non ammissibilita’ della richiesta di ammissione alla procedura di Collaborazione volontaria, di tenerne conto ai fini del ricalcolo delle imposte, interessi e sanzioni.
Il Tribunale, in realta’, a ben vedere, sembra ipotizzare un reato fiscale come reato presupposto a monte dell’asserita operazione di riciclaggio.
Infatti, a seguito della creazione di quella “galassia di societa’” riconducibili al (OMISSIS) direttamente o indirettamente, al ricorrente era stato possibile realizzare “un risparmio di imposta pari a quasi due milioni di Euro (cfr nota dell’Agenzia delle Entrate n. 54494 del 06/09/2018)” (pag. 9 ordinanza impugnata).
Ma, se cosi’ fosse, le conseguenze sarebbero le seguenti:
a) il reato presupposto – dal quale era derivato il suddetto risparmio d’imposta – avrebbe dovuto essere un reato di natura tributaria che, allo stato, non risulta contestato e che, di certo, non puo’ essere ritenuto, neppure in via incidentale, dal Tribunale per l’ovvia ed intuitiva ragione che la contestazione spetta in via esclusiva al Pubblico Ministero;
b) il provento di quel reato presupposto sarebbe, comunque, solo ed esclusivamente il “risparmio di imposta pari a quasi due milioni di Euro” ma non certamente i beni denunciati, a meno che la pubblica accusa non avesse dimostrato che quei beni erano il provento di un qualche reato non colposo che il ricorrente, con l’operazione attuata, aveva cercato di riciclare: ma, di tanto, non vi e’ la minima traccia.
Il Tribunale, poi, a sostegno della propria tesi, afferma che il negozio giuridico a seguito del quale il (OMISSIS) vendette alla (OMISSIS) quadri per 11 milioni di Euro, fu effettuato allo scopo di evitare che i suddetti beni potessero essere aggrediti dall’Amministrazione Finanziaria, in caso negativo della procedura di V.D. alla quale avrebbe fatto inevitabilmente seguito la rideterminazione in aumento dell’imposta dovuta per effetto del recupero a tassazione delle plusvalenze e degli ulteriori redditi non dichiarati, pari ad Euro due milioni.
Ma, e’ evidente che quanto ipotizzato dal Tribunale non ha nulla a che vedere con il reato di autoriciclaggio, perche’, quand’anche fosse fondato (ma, sul punto, nulla si sa) si tratta del “classico” comportamento del debitore finalizzato a sottrarre i propri beni (dei quali il contribuente puo’ liberamente disporre) alla pretesa creditoria dello Stato, contro il quale l’ordinamento, da una parte, ha approntato – a livello civilistico – diversi strumenti giuridici per rimediare al negozio fraudolento (Decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973, articolo 49) e, dall’altro – a livello penalistico ha previsto il reato di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 11, che non risulta, pero’, ancora una volta, contestato.
Pertanto – in considerazione della pacifica ricostruzione del fatto cosi’ come effettuata dal Tribunale – va ritenuta l’insussistenza del fatto di cui al capo b) e, quindi, vanno annullate senza rinvio – limitatamente al suddetto capo – sia l’ordinanza impugnata che quella genetica: restano assorbite le ulteriori censure illustrate supra in parte narrativa al § 2.2. sub a) b).
3. LA VIOLAZIONE DELL’ART. 274 C.P.P..
Venuto meno il reato sub b), viene meno anche la motivazione addotta in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari in ordine al suddetto reato.
Il tribunale (pag. 11), pero’, ha ritenuto la sussistenza delle esigenze cautelari anche in relazione al solo reato di cui al capo sub a) “considerata l’intensita’ delle esigenze cautelari piu’ avanti analizzate” e cioe’ in relazione anche e soprattutto al reato di cui al capo sub b).
Di conseguenza, l’ordinanza va, sul punto, annullata con rinvio affinche’ il Tribunale motivi sulle esigenze cautelari, in particolare sotto il profilo dell’attualita’ e concretezza, in relazione al solo reato di cui al capo sub a).

P.Q.M.

ANNULLA senza rinvio l’ordinanza impugnata, nonche’ l’ordinanza applicativa della misura cautelare emessa dal giudice delle indagini preliminari di Bergamo in data 17/10/2018, limitatamente al capo sub b) dell’incolpazione, perche’ il fatto non sussiste;
ANNULLA l’ordinanza impugnata relativamente alle esigenze cautelari per il residuo reato sub a) con rinvio al Tribunale di Brescia – sezione per il riesame dei provvedimenti coercitivi, con integrale trasmissione degli atti – per nuovo esame.

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