Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenza 18 gennaio 2018, n. 1975. L’imputato puo’ invocare la assoluta impossibilita’ di adempiere il debito di imposta sia per la non imputabilita’ a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’aziendasia e sia per l’impossibilita’ di fronteggiare la crisi di liquidita’

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In particolare, quanto al ruolo effettivamente svolto dal (OMISSIS) in seno alla societa’, la sentenza ha aderito al costante indirizzo di legittimita’ – qui da ribadire – in forza del quale l’amministratore di diritto di una societa’ risponde del reato commesso nell’interesse dell’ente anche nel caso in cui la gestione societaria sia, di fatto, svolta da terzi, gravando sul primo, quale legale rappresentante, i doveri positivi di vigilanza e di controllo sulla corretta gestione, pur se questi sia mero prestanome di altri soggetti che agiscano quali amministratori di fatto (tra le molte, Sez. 3, n. 7770 del 5/12/2013, Todesco, Rv. 258850: nell’occasione, la Corte ha affermato che l’accettazione della carica attribuisce allo stesso doveri di vigilanza e controllo sulla corretta gestione degli affari sociali, il cui mancato rispetto comporta responsabilita’ a titolo di dolo generico, nell’ipotesi di accertata consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, ovvero a titolo di dolo eventuale in caso di semplice accettazione del rischio che questi si verifichino. Si vedano anche Sez. 3, n. 14432 del 19/9/2013, Carminati, Rv. 258689).
Indirizzo che, peraltro, il ricorso non contesta.
8. Con riguardo, poi, alla dedotta impossibilita’ di procedere al pagamento dell’IVA, causa la mancanza di risorse, la Corte di appello ha richiamato ancora la giurisprudenza di questa Corte, piu’ volte affermata, a mente della quale, nel reato in esame, l’imputato puo’ invocare la assoluta impossibilita’ di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilita’ penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilita’ a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilita’ di fronteggiare la crisi di liquidita’ tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto (Sez. 3, n. 20266 dell’8/4/2014, Zanchi, Rv. 259190); occorre, cioe’, la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidita’, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volonta’ e ad egli non imputabili (tra le altre, Sez. 3, n. 8352 del 24/6/2014, Schirosi, Rv. 263128; Sez. 3, n. 20266 dell’8/4/2014, Zanchi, Rv. 259190; Sez. 3, n. 5467 del 5/12/2013, Mercutello, Rv. 258055).
9. Cio’ premesso, la sentenza – non contestata sul punto nel gravame – ha sottolineato che la crisi di liquidita’ che aveva colpito l’ente non evidenziava caratteri di imprevedibilita’ o di imponderabilita’, “rappresentando, piuttosto, la conseguenza di scelte imprenditoriali e rientrando nel rischio di impresa tipico della tipologia di prodotto commercializzato dalla societa’ de qua”; in particolare, i tempi di pagamento lunghi, da parte dei clienti, erano emersi come cronici, si’ da non poter costituire un fattore “a sorpresa”. Ancora, la Corte di merito ha evidenziato che non era stato fatto ricorso al credito per reperire danaro, ne’ erano state giustificate o provate le circostanze di questa scelta; di seguito, che vi era sempre stata liquidita’ per il pagamento degli stipendi o di debiti piu’ “urgenti”, si’ da emergere ulteriormente il mancato versamento dell’IVA come espressione di precisa scelta imprenditoriale.
10. In ordine, poi, all’eccepito bis in idem, basti qui rilevare – per evidenziarne la manifesta infondatezza – che lo stesso non puo’ certo esser dedotto con riferimento a condotte tenute in anni diversi da quelli gia’ oggetto di giudizio (ed indipendentemente dall’esito di questo), non rilevando sul punto l’identita’ di soggetto o di tipologia di condotta contestata.
11. Da ultimo, osserva il Collegio che nessuna censura puo’ esser mossa alla sentenza impugnata neppure quanto al trattamento sanzionatorio; la Corte di appello – al pari del Giudice di primo grado – ha infatti inflitto una pena di sei mesi di reclusione, muovendo da una base di nove mesi (non gia’ di sei, come afferma il ricorrente) ed applicando la massima riduzione per le circostanze attenuanti generiche. Nessun errore, pertanto, come invece si sostiene nel terzo motivo di gravame.
12. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’”, alla declaratoria dell’inammissibilita’ medesima consegue, a norma dell’articolo 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonche’ quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

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