In tema di licenziamento per giusta causa

Corte di Cassazione, sezione lavoro, Ordinanza 14 maggio 2019, n. 12777

La massima estrapolata:

In tema di licenziamento per giusta causa, il rifiuto del lavoratore di adempiere la prestazione secondo le modalità indicate dal datore di lavoro è idoneo, ove non improntato a buona fede, a far venir meno la fiducia nel futuro adempimento e a giustificare pertanto il recesso, in quanto l’inottemperanza ai provvedimenti datoriali, pur illegittimi, deve essere valutata, sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto dell’art. 1460, comma 2, c.c., secondo il quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto non risulti contrario alla buona fede, avuto riguardo alle circostanze concrete. (Nella specie, relativa a un contratto di lavoro “part-time” in cui la prestazione, pur fissata nella durata settimanale, non era collocata temporalmente, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che, senza attivare la procedura ex art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 61 del 2000, si era rifiutato reiteratamente di adempiere alla prestazione nei giorni e secondo l’orario richiesto, pur osservato pacificamente per sette mesi).

Ordinanza 14 maggio 2019, n. 12777

Data udienza 5 febbraio 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere

Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 8052/2017 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) S.R.L.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 2100/2016 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 20/09/2016 r.g.n. 1375/2014.

FATTO

RILEVATO CHE:
1. con sentenza del 20.9.2016 (n. 2100), la Corte di Appello di Bari, in parziale accoglimento del gravame, interposto dalla societa’ (OMISSIS) srl avverso la sentenza del Tribunale di Trani del 7.5.2014, rigettava la domanda di impugnativa del licenziamento (del 21.10.2011) di (OMISSIS); confermava, invece, la decisione di primo grado quanto alla condanna della parte datoriale al pagamento di Euro 800,00 in favore del lavoratore;
1.1. la Corte distrettuale osservava come le parti avessero sottoscritto un contratto di lavoro part time (25%) di 10 ore settimanali, senza, tuttavia, che, nello stesso (id est: nel contratto) fosse indicata la collocazione temporale della prestazione;
1.2. nei fatti, tuttavia, per i primi sette mesi del rapporto (avente inizio il 5.2.2011), la prestazione era eseguita nelle giornate del sabato e della domenica, in coerenza, anche, con la tipologia dell’attivita’ lavorativa (lavapiatti in un locale);
1.3. la Corte di appello giudicava, pertanto, il recesso datoriale legittimo, a fronte della sospensione unilaterale della prestazione da parte del lavoratore per tre fine settimana, pur in presenza di “un oggettivo vizio inficiante il rapporto in questione (id est: la mancata indicazione, in contratto, dell’articolazione della prestazione)”;
1.4. a fondamento del decisum, i giudici di merito osservavano (anche) come, alla stregua della normativa di riferimento, l’omissione della collocazione temporale dell’orario di lavoro non comportasse la nullita’ del rapporto part time ma consentisse al lavoratore di adire l’autorita’ giudiziaria al fine di ottenere la necessaria integrazione;
ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore affidato a cinque motivi; e’ rimasta intimata la societa’ (OMISSIS) SRL.

 

DIRITTO

CONSIDERATO CHE:
1. con il primo motivo – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3 – e’ dedotta violazione dell’articolo 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, articolo 1, Decreto Legislativo n. 61 del 2000, articoli 2 e 3, per aver la Corte di appello ritenuto che il lavoratore dovesse eseguire la prestazione nonostante la fissazione unilaterale, da parte del datore di lavoro, dei giorni – sabato e domenica – in cui rendere la prestazione; cio’, in violazione delle norme di legge che espressamente (quanto all’inserimento di clausole elastiche) escludono che il rifiuto del lavoratore di adeguarsi alle direttive aziendali possa costituire giusto motivo di licenziamento;
2. con il secondo motivo – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3 – e’ dedotta violazione dell’articolo 2119 c.c., della L. n. 604 del 1966, articolo 1, Decreto Legislativo n. 61 del 2000, articolo 8, comma 2, dell’articolo 12 preleggi; la sentenza impugnata e’ censurata nella parte in cui avrebbe erroneamente interpretato il Decreto Legislativo n. 61 del 2000, articolo 8, comma 2, come disposizione che impone al lavoratore, anche a fronte di un inadempimento datoriale (nella specie, rappresentato dalla fissazione unilaterale della collocazione temporale della prestazione lavorativa), l’obbligo di uniformarsi alla scelta datoriale, salvo adire la tutela giudiziaria, per una diversa fissazione delle modalita’ di svolgimento della prestazione;
3. con il terzo motivo – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3 – e’ dedotta violazione dell’articolo 2119 c.c., della L. n. 604 del 1966, articolo 1, Decreto Legislativo n. 61 del 2000, articolo 8, comma 2, quarto periodo, articolo 12 preleggi; la censura investe la sentenza per contraddittorieta’ della motivazione laddove avrebbe confermato la condanna della parte datoriale al risarcimento del danno, in favore del lavoratore;
4. con il quarto motivo – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3 – e’ dedotta violazione dell’articolo 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, articolo 1 e dell’articolo 1375 c.c., per aver la sentenza impugnata ritenuto non improntata a buona fede la condotta del lavoratore di rifiuto ad ottemperare alla unilaterale determinazione della collocazione temporale della prestazione da parte del datore di lavoro;
5. con il quinto motivo, e’ dedotta violazione dell’articolo 111 Cost., comma 6, per omessa motivazione del provvedimento ovvero per motivazione che si fonda su affermazioni inconciliabili;
6. il primo, il secondo ed il quarto motivo possono trattarsi congiuntamente, in quanto tutti, nella sostanza, pongono la questione del rifiuto del dipendente di adempiere la prestazione lavorativa secondo l’orario di lavoro indicato dalla parte datoriale e non fissato, per iscritto, nel contratto part time;
7. essi sono infondati;
7.1. il Decreto Legislativo n. 61 del 2000, articolo 2, comma 2 (poi abrogato dal Decreto Legislativo n. 81 del 2015, articolo 55, comma 1, lettera a)) ma ratione temporis applicabile alla fattispecie di causa, stabilisce che “Nel contratto di lavoro a tempo parziale e’ contenuta puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno (..)”;
7.2. il successivo articolo 8, comma 2, prevede che “L’eventuale mancanza o indeterminatezza nel contratto scritto delle indicazioni di cui all’articolo 2, comma 2, non comporta la nullita’ del contratto di lavoro a tempo parziale. Qualora l’omissione riguarda la durata della prestazione lavorativa, su richiesta del lavoratore puo’ essere dichiarata la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla data del relativo accertamento giudiziale. Qualora invece l’omissione riguardi la sola collocazione temporale dell’orario, il giudice provvede a determinare le modalita’ temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale (…) tenendo conto in particolare delle responsabilita’ familiari del lavoratore interessato, della sua necessita’ di integrazione del reddito derivante dal rapporto a tempo parziale mediante lo svolgimento di altra attivita’ lavorativa, nonche’ delle esigenze del datore di lavoro (…)”;
7.3. nella fattispecie di causa, le parti, fissavano la durata della prestazione di lavoro (10 ore settimanali) e, tuttavia, omettevano, nel contratto di lavoro, di indicare la sua esatta collocazione temporale;
7.4. nei fatti, i contraenti, secondo l’accertamento operato nella sentenza impugnata, raggiungevano, al riguardo, un accordo (tacito); quest’ultima (id est: la prestazione lavorativa) era resa -pacificamente – per sette mesi, nei giorni del sabato e della domenica, in coerenza con il contenuto dell’attivita’ lavorativa (di lavapiatti) e le esigenze aziendali (di esercizio di un locale);
7.5. il comportamento oppositivo del lavoratore, consistito nel rifiuto reiterato di adempiere, ad un certo punto, alla prestazione lavorativa nei termini richiesti dalla parte datoriale (ovvero secondo l’orario di lavoro che, sin dall’inizio, era stato osservato cioe’ nei giorni del sabato e della domenica) ha costituito, per la Corte territoriale, giusta causa di licenziamento;
7.6. per i giudici di merito, pur a fronte di un inadempimento datoriale, per “l’oggettivo vizio inficiante il rapporto di lavoro” (id est: per la mancata indicazione, nel contratto stipulato in forma scritta, della collocazione temporale dell’orario), il lavoratore “non poteva (recte non avrebbe potuto) rifiutarsi di lavorare”, potendo, piuttosto, attivare la procedura cit. D.Lgs n. 61, ex articolo 8, comma 2, con richiesta di risarcimento;
8. osserva il Collegio come la decisione impugnata non violi le norme riportate in rubrica e risulti in linea con l’orientamento di questa Corte, espresso in ultimo con la pronuncia n. 11408 del 2018, secondo cui, ove venga in rilievo una situazione riconducibile all’eccezione inadimplenti non est adimplendum – quale e’ il rifiuto del lavoratore di rendere la prestazione fondata sulla allegazione dell’inadempimento del datore di lavoro – il giudice debba procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalita’ rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse; pertanto, qualora (il giudice) rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti e’ opposta l’eccezione non sia grave ovvero abbia scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte a norma dell’articolo 1455 c.c., deve ritenere che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato ai sensi dell’articolo 1460 c.c., comma 2 (cfr. oltre a Cass. n. 11408 cit., tra le altre, Cass. n. 3959 del 2016; Cass. n. 11430 del 2006; Cass. n. 8880 del 2000);
8.1. in altre parole, l’inottemperanza del lavoratore al provvedimento datoriale, pur illegittimo, dovra’ essere valutata, sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto dell’articolo 1460 c.c., comma 2, secondo il quale, nei contratti a prestazioni corrispettive, la parte non inadempiente non puo’ rifiutare l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto e’ contrario alla buona fede;
8.2. la relativa verifica, riservata al giudice di merito, e’ incensurabile in cassazione se non nei ristretti limiti del vizio di motivazione (cfr. Cass. n. 11408 cit.);
8.3. tale controllo e’ stato correttamente condotto dalla Corte di appello di Bari che, sulla base di tutte le circostanze concrete qualificanti la specifica fattispecie, caratterizzata, altresi’, dalla possibilita’, per il lavoratore, di attivare la procedura giudiziale per la determinazione delle modalita’ temporali di svolgimento della prestazione, con diritto alla corresponsione, nelle more della pronuncia medesima, in aggiunta alla retribuzione, di un ulteriore emolumento a titolo di risarcimento del danno (cit. L. n. 61 del 2000, articolo 8, comma 2), ha concluso per la natura ingiustificata, in quanto non improntata a buona fede, del rifiuto ad adempiere del lavoratore, e per una gravita’ (del rifiuto medesimo) tale da far venir meno la fiducia del datore di lavoro;
9. anche gli ulteriori motivi sono, nel complesso, da respingere;
9.1. entrambi imputano alla sentenza omissioni e contraddizioni nella motivazione, per avere la Corte di appello confermato, invece, la pronuncia di primo grado di condanna della parte datoriale, al risarcimento del danno, in favore del lavoratore, nella misura di Euro 800,00;
10. in disparte considerazioni connesse al.fatto che i giudici di merito, al riguardo, hanno ritenuto la statuizione del Tribunale non oggetto di specifica impugnazione, e’ sufficiente osservare come, sulla base di quanto chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. un., n. 19881 del 2014; Cass., sez. un., n. 8053 del 2014), la riformulazione dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal Decreto Legge n. 83 del 2012, articolo 54, debba essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’articolo 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimita’ sulla motivazione; e’ pertanto denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale, riscontrabile in caso di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”;
10.1. nessuna di tali evenienze si riscontra nella sentenza impugnata che, per la parte qui censurata, ha in maniera chiara e niente affatto perplessa espresso le ragioni della decisione, come sopra delineate in relazione ai precedenti motivi;
11. il ricorso va pertanto respinto;
12. nulla va statuito sulle spese, non avendo la parte intimata svolto alcuna attivita’ difensiva;
13. l’ammissione del ricorrente al beneficio del gratuito patrocinio lo esonera, allo stato, dal versamento dell’ulteriore somma dovuta ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, a titolo di contributo unificato (cfr. Cass. n. 25005 del 2014; Cass. n. 18523 del 2014);
14. non si provvede, invece, sull’istanza di liquidazione degli onorari e delle spese proposta dal difensore del ricorrente; in tema di patrocinio a spese dello Stato, secondo la disciplina di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, la competenza sulla liquidazione degli onorari al difensore per il ministero prestato nel giudizio di cassazione spetta, ai sensi dell’articolo 83 del suddetto decreto, come modificato dalla L. 24 febbraio 2005, n. 25, articolo 3, al giudice di rinvio oppure a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato (Cass. n. 23007 del 2010).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della non sussistenza, allo stato, dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.

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