L’errore di fatto riconducibile all’art. 395, n. 4, c.p.c.

Corte di Cassazione, sezione sesta (seconda) civile, Ordinanza 23 luglio 2020, n. 15700.

La massima estrapolata:

L’errore di fatto riconducibile all’art. 395, n. 4, c.p.c., postula un contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, sempreché la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio, formatosi sulla base di una valutazione, sicché pur sempre inammissibile è il ricorso per revocazione che prospetti l’erronea valutazione, in fatto e in diritto, delle emergenze probatorie documentali

Ordinanza 23 luglio 2020, n. 15700

Data udienza 26 febbraio 2020

Tag/parola chiave: Revocazione ordinaria – Fabbricato – Denuncia di nuova opera – Violazione delle distanze di legge – Inconfigurabilità dell’errore di fatto di cui all’art. 395 n. 4 c.p.c. – Errata valutazione od interpretazione delle risultanze processuali – Carenza probatoria delle doglianze – Inammissibilità

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE SECONDA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere

Dott. ABETE Luigi – Consigliere

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 340-2019 proposto da:
(OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentati e difesi dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrenti –
contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso l’ordinanza della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di ROMA, n. 26798/2018, depositata il 23/10/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/02/2020 dal Consigliere Dott. SCARPA ANTONIO.

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

(OMISSIS) e (OMISSIS) hanno proposto ricorso articolato in due motivi, ciascuno inerente assunti errori di fatto ex articolo 395 c.p.c., comma 1, n. 4, per la revocazione della ordinanza 23/10/2018, n. 26798, della Corte di Cassazione.
(OMISSIS) si difende con controricorso.
Su proposta del relatore, ai sensi dell’articolo 391-bis c.p.c., comma 4, e articolo 380-bis c.p.c., commi 1 e 2, che ravvisava l’inammissibilita’ del ricorso, il presidente fissava con decreto l’adunanza della Corte perche’ la controversia venisse trattata in camera di consiglio nell’osservanza delle citate disposizioni.
I ricorrenti hanno presentato memoria, in forza dell’articolo 380-bis c.p.c..
Con ricorso per denuncia di nuova opera del 24 luglio 2003, (OMISSIS) lamento’ che (OMISSIS) e (OMISSIS), proprietari di un fondo confinante, avessero intrapreso lavori per la costruzione di un fabbricato in violazione delle distanze di legge. L’adito Tribunale di Patti, sezione distaccata di S. Agata Militello, ordino’ in sede sommaria la sospensione delle opere e poi, con sentenza del 16 giugno 2008, condanno’ i convenuti a ripristinare la distanza minima di dieci metri dalla parete dell’edificio dell’attore. Proposto gravame in via principale da Salvatore Emanuele e (OMISSIS) ed in via incidentale da (OMISSIS), la Corte d’appello di Messina respinse l’appello incidentale e, in parziale accoglimento dell’appello principale, ordino’ a (OMISSIS) e (OMISSIS), in alternativa, di arretrare il loro fabbricato sino a dieci metri dalla frontistante parete del fabbricato di proprieta’ (OMISSIS), ovvero di arretrare a soli cinque metri, eliminando pero’ le vedute previste sulla parete del loro edificio. (OMISSIS) e (OMISSIS) proposero ricorso per cassazione articolato in cinque motivi, mentre (OMISSIS) notifico’ controricorso.
Questa Corte, con l’ordinanza 23/10/2018, n. 26798, rigetto’ il ricorso, cosi’ motivando:
“Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano la nullita’ della sentenza o del procedimento per violazione degli articoli 112 e 116 c.p.c. e articolo 111 Cost. e omessa valutazione delle prove, in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 4, perche’ la Corte di Appello avrebbe interpretato in modo non corretto le risultanze istruttorie, pervenendo all’erronea conclusione che lo spazio tra le due proprieta’ non costituisse chiostrina. La doglianza e’ inammissibile perche’ essa si risolve in una richiesta di riesame del merito, preclusa in questa sede. In proposito, va riaffermato il principio secondo cui il motivo di ricorso non puo’ mai risolversi “in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv.627790). Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’articolo 113 c.p.c., articolo 871 c.c. e articolo 117 Cost., nonche’ degli articoli 23 sub.19 e 29 del regolamento edilizio comunale del Comune di Sant’Agata di Militello e dell’articolo 1325 c.c., perche’ la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che nel caso di specie lo spazio tra le proprieta’ fosse adibito a stradella e non a chiostrina. Ad avviso dei ricorrenti, posto che la chiostrina puo’ ben configurarsi anche nello spazio esistente tra diverse proprieta’ (alla luce di quanto affermato da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7001 del 08/05/2012, non massimata) e che nessuna norma del regolamento edilizio comunale prescrive che l’area adibita a chiostrina debba essere circondata per intero da edifici, ben si sarebbe potuto, nel caso di specie, ritenere che il distacco tra le due proprieta’ fosse, appunto, una chiostrina. Ed inoltre l’Ufficio tecnico del Comune di S. Agata di Militello, con nota prot.3518 del 21.2.2005, aveva espresso parere favorevole alla sanatoria edilizia presentata dall’Artino in relazione alla finestra a servizio del locale wc da egli realizzato sul lato dell’edificio prospiciente la proprieta’ degli odierni ricorrenti, a condizione che fossero rispettati proprio i parametri di calcolo previsti per gli spazi interni tra edifici: il che dimostrerebbe, secondo i ricorrenti, l’intenzione dello stesso Artino di considerare chiostrina l’area di distacco tra le due proprieta’. Detta volonta’ avrebbe dovuto essere valorizzata dalla Corte di merito, ai sensi dell’articolo 1325 c. c., posto che la legge non prevedrebbe una forma vincolata per l’accordo delle parti finalizzato a destinare uno spazio a chiostrina. Anche in questo caso, si tratta di censura attinente al merito, inammissibile in Cassazione, mediante la quale i ricorrenti sollecitano un complessivo riesame delle circostanze di fatto inerenti l’oggetto del giudizio. Peraltro la sentenza impugnata, con statuizione che neppure risulta specificamente attinta dal motivo in esame, ha -in modo del tutto convincente e condivisibile- affermato che la chiostrina va identificata con il “cortile di piccole dimensioni destinato prevalentemente a dare aria e luce a locali secondari” e deve rispettare le caratteristiche dimensionali previste dal regolamento locale (cfr. pag.9 della sentenza). Ed infine, non appare puntuale neanche il riferimento alla sentenza delle S.U. di questa Corte n. 10318/2016 (Rv.639677) operata dai ricorrenti a pag.17 del ricorso, poiche’ con quella decisione le S.U. non hanno inteso affermare, come sembrano intendere i ricorrenti, che le disposizioni regolamentari locali hanno portata integrativa rispetto alle norme del codice civile, ma (al contrario) il principio opposto, secondo il quale la normativa del codice integra quella locale anche quando quest’ultima, pur prevedendo una distanza tra fabbricati maggiore di quella stabilita dall’articolo 873 c.c., non imponga il rispetto di alcuna distanza minima dal confine, con conseguente applicazione del principio della prevenzione, proprio in virtu’ dell’affermato principio della portata integrativa dell’intero impianto codicistico. Con la conseguenza che “… il preveniente conserva la facolta’ di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla meta’ di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facolta’ di costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli articoli 874, 875 e 877 c.c.” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 10318 del 19/05/2016, Rv.639677). Peraltro, va riaffermato il principio secondo cui “Non possono considerarsi norme integrative della disciplina stabilita dal codice civile in materia di distanze tra le costruzioni le Disposizioni di un regolamento edilizio relative alla lunghezza massima degli edifici riguardo al fronte della strada, all’altezza massima dei medesimi senza alcun riferimento al distacco delle costruzioni e alla superficie minima delle chiostrine, trattandosi di norme dirette ad assicurare l’estetica edilizia, l’armonico assetto urbanistico e l’igiene delle abitazioni: ne consegue che la loro violazione da luogo unicamente ad un’azione di risarcimento dei danni nei confronti dell’autore della costruzione, dovendo escludersi la legittimazione passiva dei condomini dell’edificio rimasti estranei al fatto illecito costituito dalla violazione delle norme predette (Conf. 2675/73, mass. n. 366164)” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5197 del 13/11/1978, Rv.394943; conformi, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5378 del 12/06/1996, Rv.498042 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11259 del 17/12/1996, Rv.501375). Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione dell’articolo 111 Cost. per difetto di motivazione in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 5, perche’ la Corte territoriale avrebbe sostanzialmente omesso di indicare i motivi che l’hanno portata a respingere il gravame da essi interposto avverso la decisione di prime cure. Anche questa doglianza e’ inammissibile in quanto non si confronta con i limiti previsti, per la deducibilita’ in Cassazione del vizio di motivazione, dall’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo applicabile ratione temporis, in vigore a seguito della novella di cui al Decreto Legge n. 83 del 2012, articolo 54, convertito in L. n. 134 del 2012. In base a tale normativa, il vizio di motivazione dev’essere interpretato “… alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’articolo 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimita’ sulla motivazione. Pertanto, e’ denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in se’, purche’ il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830). Restano quindi esclusi da un lato qualunque altro vizio della motivazione e, dall’altro lato, l’omesso esame di elementi istruttori che non integra, di per se’, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico sia stato comunque preso in considerazione dal giudice di merito, ancorche’ la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (in senso conforme, Cass. Sez.6-3, Ordinanza n. 21257 del 08/10/2014, Rv.632914; Cass. Sez.6-3, Sentenza n. 23828 del 20/11/2015, Rv.637781; Cass. Sez.3, Sentenza n. 23940 del 12/10/2017, Rv.645828). Nel caso di specie, non si ravvisa alcuno dei profili suindicati, poiche’ la Corte territoriale, con motivazione ampia ed articolata, ha dato conto delle ragioni della propria decisione, in tal modo adempiendo pienamente a quanto prescritto dall’articolo 132 c.p.c. Con il quarto motivo, i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’articolo 113 c.p.c., articolo 111 Cost., 9 del Decreto Ministeriale n. 1444 del 1968, articoli 871 e 873 c.c., perche’ la Corte di Appello avrebbe errato nel ritenere che l’intervento edilizio realizzato dai ricorrenti costituisse nuova costruzione. Ad avviso dei ricorrenti, infatti, il giudice di merito avrebbe dovuto considerare come nuova costruzione soltanto la parte di detto intervento che si sostanziava in modifica e sopraelevazione del preesistente edificio, riconoscendo al contempo il diritto dei ricorrenti di mantenere le aperture originariamente presenti nella sagoma iniziale dello stesso. Anche in questo caso, la doglianza e’ inammissibile perche’ si sostanzia in una richiesta di riesame del merito, preclusa in questa sede. Peraltro, la censura e’ anche infondata, posto che “In tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, e’ qualificabile come nuova costruzione. Ne consegue l’applicazione della normativa vigente al momento della modifica e l’inoperativita’ del criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorita’ temporale correlata al momento della sopraelevazione” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15527 del 11/06/2008, Rv.604088; conforme Cass. Sez. 2, Sentenza n. 74 del 03/01/2011, Rv.615695). Nello stesso senso, si e’ affermato che “La sopraelevazione, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle distanze, come nuova costruzione” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15732 del 15/06/2018, Rv.649409; conformi, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 21059 del 01/10/2009, Rv.609586 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6809 del 24/05/2000, Rv.536871). Con il quinto ed ultimo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli articoli 24 e 111 Cost. e 81 c.p.c., perche’ la Corte di Appello avrebbe omesso di considerare che l’originario ricorrente non aveva, nel corso del giudizio di merito, fornito idonea prova di essere proprietario di alcune particelle coinvolte nella controversia. Ad avviso dei ricorrenti, questa carenza avrebbe dovuto comportare, da parte della Corte di merito, il rigetto della domanda per carenza di prova circa la legittimazione ad agire dell’Artino. Anche questa censura e’ inammissibile perche’ con essa si prospetta una questione nuova che dalla lettura della sentenza impugnata non risulta esser stata proposta in precedenza nel corso dei gradi di merito. Ne’ i ricorrenti indicano, nel motivo in esame, in quale momento del giudizio, e con quale atto, detta doglianza sarebbe stata formulata, con conseguente ulteriore profilo di inammissibilita’ per carenza della necessaria specificita’. In definitiva, alla luce dell’inammissibilita’ di tutti i motivi dedotti il ricorso va rigettato e le spese del grado, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. (…)”.
Il ricorso per revocazione deduce come primo errore di fatto addebitato all’ordinanza n. 26798/2018 l’affermazione contenuta nella decisione sul quinto motivo di ricorso, allorche’ la Corte di cassazione, quanto alla deduzione della mancata prova della proprieta’ dei fondi oggetto di lite in capo a (OMISSIS), dichiaro’ la censura “inammissibile perche’ con essa si prospetta una questione nuova che dalla lettura della sentenza impugnata non risulta esser stata proposta in precedenza nel corso dei gradi di merito”, aggiungendo “ne’ i ricorrenti indicano, nel motivo in esame, in quale momento del giudizio, e con quale atto, detta doglianza sarebbe stata formulata, con conseguente ulteriore profilo di inammissibilita’ per carenza della necessaria specificita’”. Il primo motivo del ricorso per revocazione di (OMISSIS) e (OMISSIS) espone che e’ erronea la dichiarazione di novita’ della questione, giacche’, al contrario, con la memoria depositata il 28 giugno 2018 nell’approssimarsi dell’adunanza camerale ex articolo 380-bis 1, c.p.c., erano stati specificati gli atti delle pregresse fasi di merito in cui gia’ era stata avanzata l’eccezione del difetto di prova della proprieta’, e percio’ anche della carenza della legittimazione ad agire, di (OMISSIS). Si tratterebbe, peraltro, di questione che puo’ rilevarsi anche d’ufficio pure nel giudizio di cassazione.
Il secondo motivo del ricorso del ricorso per revocazione censura poi l’erroneita’ dell’ordinanza n. 26798/2018 della Corte di cassazione nella parte in cui essa aveva esposto la deduzione di (OMISSIS), secondo cui “lo spazio esistente tra i due fondi … di comune accordo era stato da sempre impiegato come stradella di accesso ad essi”, nonche’ la contrapposta allegazione dei convenuti (OMISSIS) e (OMISSIS), per cui “sulla parete dell’immobile del ricorrente frontistante la loro proprieta’ vi era in origine una porta, che l’Artino avrebbe illecitamente trasformato in finestra”. I ricorrenti per revocazione sottolineano come, al contrario, dalla documentazione acquisita alla causa risultasse che (OMISSIS) aveva abusivamente ampliato il suo fabbricato, che la strada al 10 maggio 2003 non era esistente, che piuttosto esisteva da tempo immemorabile una chiostrina, che era stato percio’ illegittimo il comportamento del (OMISSIS), mentre doveva riconoscersi ai ricorrenti la facolta’ di mantenere il loro fabbricato alla distanza di tre metri in applicazione del principio di prevenzione.
I motivi di ricorso sono palesemente estranei al parametro dell’errore revocatorio di fatto, rilevante ai sensi dell’articolo 391-bis c.p.c..
Per consolidata interpretazione, invero, in materia di revocazione delle sentenze della Corte di cassazione, l’errore di fatto di cui all’articolo 395 c.p.c., n. 4, deve consistere in una disamina superficiale di dati di fatto che abbia quale conseguenza l’affermazione o la negazione di elementi decisivi per risolvere la questione, ovvero in un errore meramente percettivo, risultante in modo incontrovertibile dagli atti e tale da aver indotto il giudice a fondare la valutazione della situazione processuale sulla supposta inesistenza (od esistenza) di un fatto, positivamente acquisito (od escluso) nella realta’ del processo, che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale. E’ invece inammissibile il ricorso ex articolo 395 c.p.c., n. 4, ove vengano dedotti errori di giudizio concernenti i motivi di ricorso esaminati dalla sentenza della quale e’ chiesta la revocazione, ovvero l’errata valutazione di fatti esattamente rappresentati o, ancora, l’omesso esame di atti difensivi, asseritamente contenenti argomentazioni giuridiche non valutate (Cass. 22/09/2014, n. 19926; Cass. 09/12/2013, n. 27451; Cass. Sez. Un. 28/05/2013, n. 13181; Cass. 12/12/2012, n. 22868; Cass. 18/01/2012, n. 714; Cass. Sez. Un. 30/10/2008, n. 26022).
In particolare, e’ costante l’orientamento giurisprudenziale secondo cui una sentenza della Corte di cassazione non possa essere impugnata per revocazione in base all’assunto che essa abbia male valutato i motivi di ricorso, perche’ un vizio di questo tipo costituirebbe un errore di giudizio e non un errore di fatto ai sensi dell’articolo 395 c.p.c., comma 1, n. 4, (Cass. Sez. 6 – L, 03/04/2017, n. 8615; Cass. Sez. 6 – 3, 15/06/2012, n. 9835). Si e’ altresi’ gia’ affermato che la configurabilita’ dell’errore revocatorio sia del tutto da escludersi quando si prospetti chela decisione dellaCorte di cassazione sia conseguenz adi una pretesa errata valutazione o di interpretazione delle risultanze processuali, ovvero, in particolare, di un errato giudizio espresso dalla sentenza di legittimita’ circa la inosservanza del requisito di specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti ex articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, che, come nel caso in esame, abbia condotto alla inammissibilita’ del motivo di ricorso (Cass., Sez. 6 – 5, 31/08/2017, n. 20635; Cass. Sez. 2, 22/06/2007, n. 14608; Cass. Sez. 1, 23/05/2006, n. 12154).
La carenza di portata revocatoria, financo astratta, della prima ipotesi di errore ex articolo 395 c.p.c., n. 4, avanzata da (OMISSIS) e (OMISSIS) sta, peraltro, nella circostanza che i ricorrenti non lamentano neppure che l’ordinanza n. 26798/2018 abbia supposto erroneamente l’inesistenza, nel loro ricorso per cassazione, della specifica indicazione della deduzione dinanzi al giudice di merito della questione del difetto di prova della proprieta’ e della mancanza di legittimazione ad agire, quanto invocano, ad integrazione del lacunoso motivo di ricorso, le precisazioni al riguardo rese nella memoria del 28 giugno 2018, cosi’ non considerando che le memorie (ex articolo 378 c.p.c., articolo 380-bis c.p.c., comma 2, o articolo 380 bis.1 c.p.c.) possono essere utilizzate soltanto per illustrare e chiarire le censure gia’ esplicitate nell’atto di impugnazione, e non invece prestarsi a specificare, integrare o ampliare il contenuto dei motivi originariamente proposti nel ricorso (cosi’, semmai, da sopperire anche alle carenze dei requisiti di ammissibilita’ ex articolo 366 c.p.c., comma 1), ne’ tampoco a dedurre nuove censure o illustrare nuove questioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio sulla base dei fatti gia’ accertati nei gradi di merito, ovvero siano evincibili dai documenti prodotti ai sensi dell’articolo 372 c.p.c. (Cass. Sez. 2, 28/11/2018, n. 30760; Cass. Sez. 6 – 3, 23/08/2011, n. 17603; Cass., Sez. 3, 11/06/2003 n. 9387; Cass., Sez. 2, 26/08/2002 n. 12477; Cass., Sez. L, 08/02/2001 n. 1805).
Nella stessa prospettiva si pone la memoria ex articolo 380-bis c.p.c., comma 2, presentata dai ricorrenti, ove viene di nuovo dedotto che non era mai stato “versato in atti il titolo di proprieta’ o concessione edilizia o sanatoria” da parte di (OMISSIS), e che “in pieno ossequio al principio di autosufficienza che permea il grado Supremo, sempre nelle note del 28.06.2018 (pag. 6,7,8), la parte declinava la specifica collocazione della citata doglianza, riferendo che la stessa fosse gia’ stata riportata: 1) nella comparsa di costituzione e risposta in primo grado; 2) verbali di udienza; 3) nella memoria di replica di primo grado; 4) nell’atto di appello…; 5) nella comparsa conclusionale di appello”. Ancora una volta, la tesi difensiva postula inammissibilmente che l’ordinanza n. 26798/2018 avrebbe errato in fatto nel ritenere privo di specificita’ il quinto motivo di ricorso, avendo la Corte di cassazione malamente percepito non quanto emergeva dal testo dell’atto di impugnazione, ma quanto invece poteva leggersi nella memoria depositata in prossimita’ dell’adunanza del 12 luglio 2018.
E’ infine evidente, sempre in ordine al primo motivo di ricorso (e tenuto anche conto di quanto i ricorrenti ribadiscono nella memoria ex articolo 380-bis c.p.c., comma 2), come non possa costituire errore di fatto, che giustifichi la revocazione delle sentenze della Corte di cassazione, la denuncia del mancato rilievo di una questione rilevabile d’ufficio, quale quella del difetto di titolarita’ del diritto azionato, sia perche’ si tratterebbe, al piu’, di un errore di giudizio, sia perche’ la carenza di titolarita’ del diritto e’, si, rilevabile d’ufficio anche nel giudizio di legittimita’, ma pur sempre nei limiti dello stesso (Cass. Sez. U, 16/02/2016, n. 2951), e dunque sempre che essa emerga senza che occorrano indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito.
I ricorrenti, circa l’ipotizzato secondo errore revocatorio, si riferiscono poi a “fatti” che l’ordinanza n. 26798/2018 aveva esposto soltanto quale oggetto delle contrapposte allegazioni difensive sullo stato dei luoghi svolte dalle parti nel giudizio di merito, e non dunque quali elementi costituenti ragioni determinanti ed ineliminabili nell’economia della decisione che ha condotto al rigetto del ricorso.
In particolare, l’errore di fatto, previsto dall’articolo 395 c.p.c., n. 4, e idoneo a costituire, ai sensi dell’articolo 391-bis c.p.c., motivo di revocazione della sentenza o ordinanza emessa dalla Corte di cassazione (dovendo comunque rilevarsi evidente, obiettivo e decisivo, nel senso che sussista un necessario nesso di causalita’ tra l’erronea supposizione e la decisione resa, e non cadere su di un punto controverso sul quale la Corte si sia pronunciata) non e’ configurabile allorche’ si denuncino vizi della sentenza o ordinanza che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico – giuridico, come quando (ed e’ cio’ che avviene nel caso in esame) si adduca l’esistenza di un errore sul contenuto delle tesi difensive delle parti, le quali non costituiscono “fatti”, sicche’ tale errore si configura necessariamente non come un errore percettivo, ma come un ipotetico errore di giudizio, investendo per sua natura l’attivita’ valutativa e interpretativa del giudice (Cass. Sez. L, 18/05/2006, n. 11657).
L’inammissibilita’ del secondo motivo di ricorso discende, in ogni caso, dalla constatazione basilare che l’errore di fatto, che puo’ legittimare la revocazione di una sentenza o ordinanza della Corte di cassazione, deve pur sempre riguardare gli atti “interni” al giudizio di legittimita’, ossia quelli che la Corte esamina direttamente nell’ambito dei motivi di ricorso e delle questioni rilevabili di ufficio, e deve avere, quindi, carattere autonomo, nel senso di incidere direttamente ed esclusivamente sulla sentenza (o ordinanza) medesima (Cass. Sez. 1, 22/10/2018, n. 26643; Cass. Sez. 1, 22/11/2006, n. 24856). L’errore di fatto riconducibile all’articolo 395 c.p.c., n. 4, postula un contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, sempreche’ la realta’ desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio, formatosi sulla base di una valutazione, sicche’ pur sempre inammissibile e’ il ricorso per revocazione che prospetti l’erronea valutazione, in fatto e in diritto, delle ermergenze probatorie documentali (cfr. Cass. Sez. 5, 11/01/2018, n. 442).
Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile e, in ragione della soccombenza, i ricorrenti vanno condannati in solido a rimborsare al controricorrente le spese del giudizio di revocazione, liquidate in dispositivo.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater, – da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna in solido i ricorrenti a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di revocazione, che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis, se dovuto.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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