L’errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione

Consiglio di Stato, Sentenza|15 febbraio 2022| n. 1088.

L’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi delle citate disposizioni normative deve essere caratterizzato: a) dal derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato; b) dall’attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) dall’essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa.

Sentenza|15 febbraio 2022| n. 1088. L’errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione

Data udienza 3 febbraio 2022

Integrale

Tag- parola chiave: Processo amministrativo – Impugnazioni straordinarie – Revocazione – Errore di fatto revocatorio – Caratteristiche – Individuazione

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7100 del 2021, proposto da
Garante per la Protezione dei Dati personali, in persona del Legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocato Di. Va., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio, in Roma, (…);
contro
Il. It. S.p.A., in persona del Legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avvocati Gu. Ol., Fi. Pa. e Va. Mo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il Seconco, in Roma, via (…);
nei confronti
Ti. S.p.A., in persona del Legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avvocati An. Li. e Ma. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la revocazione
della sentenza del Consiglio di Stato – Sez. VI n. 04103/2021, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Il. It. S.p.A. e di Ti. S.p.A.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 3 febbraio 2022 il Cons. Marco Poppi e uditi per le parti gli Avvocati presenti come da verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

L’errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione

FATTO e DIRITTO

Con ricorso iscritto al n. 5824/2020, Il. It. S.p.A., impugnava la nota n. 23369 del 24 giugno 2020 con la quale il Garante per la Protezione dei Dati personali (di seguito Garante) respingeva l’istanza di accesso presentata il 7 aprile 2020 relativamente agli atti del procedimento concluso in data 15 gennaio 2020 con l’adozione, nei confronti di Ti. S.p.A., di un provvedimento correttivo e sanzionatorio per ripetute violazioni in tema di trattamento dei dati personali nello svolgimento delle attività di marketing.
La condotta contestata all’operatore consisteva nell’effettuazione di chiamate promozionali a utenti di altri concorrenti (tra i quali Il.) che non avevano prestato il relativo consenso, o si erano iscritti nel Registro pubblico delle opposizioni o, ancora, avevano espresso la volontà di non ricevere contatti promozionali.
La richiesta di Il., motivata allegando la pendenza di un giudizio risarcitorio innanzi al giudice civile, era diretta all’acquisizione degli “elenchi delle numerazioni mobili, acquisite da Codesta spettabile Autorità nel corso del procedimento, utilizzate da TI. SpA per gli illeciti contatti commerciali e per l’effettuazione delle campagne promozionali rivolte a clienti “non” TI. in violazione delle norme a tutela dei dati personali” e limitata “alle numerazioni mobili non afferenti a clienti TI. SpA. (e, ove esistenti, solo a quelle dei clienti di Il. contattati da TI.), depurate – ove possibile – da ogni riferimento personale (nomi, indirizzi, cap. ecc.)”.
Il Tar, con sentenza n. 11060 del 29 ottobre 2020, accoglieva il ricorso, “limitatamente alle numerazioni mobili non afferenti a clienti Ti. S.p.a. (e, ove esistenti, solo a quelle dei clienti di Il. contattati da TI.)”, ritenendo la richiesta di accesso correttamente motivata circa la sussistenza di un interesse diretto, concreto e attuale da individuarsi “nella tutela della correttezza della dinamica concorrenziale” violata da un “illecito inserimento dei clienti Il. nelle campagne promozionali svolte da TI. (cfr. anche TAR Lazio, sez. I quater, n. 10080/2020)”.
Detto esito veniva impugnato tanto da TI. con appello iscritto la n. 9241/2020 R.R., quanto dal Garante con appello iscritto al n. 9260/2020.

 

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In corso di giudizio, il Garante, costituitosi con nuovo difensore il 9 febbraio 2021, sollevava due questioni pregiudiziali ex art. 267 TFUE concernenti la verifica della compatibilità della normativa nazionale in materia di accesso con l’art. 8, par. 2 della CEDU e con l’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE).
La Sezione, con decisione n. 4103 del 28 maggio 2021, previa riunione, respingeva entrambi gli appelli confermando la sentenza di primo grado.
Avverso detta decisione il Garante, con atto depositato il 30 luglio 2021, proponeva ricorso per revocazione ex art. 395, comma 1, n. 4 cp.c. “per avere il Consiglio si Stato compiuto un errore di fatto revocatorio sugli atti processuali non avendo considerato l’avvenuta formulazione da parte del Garante di questioni pregiudiziali ai sensi dell’art. 267 TFUE rilevanti ai fini della decisione”.
Il. si costituiva formalmente in giudizio in data 4 agosto 2021, integrando le proprie difese con memoria depositata il 14 settembre successivo con la quale, sotto un primo profilo, eccepiva l’inammissibilità del ricorso sul rilievo che i profili di legittimità comunitaria oggetto delle istanze di rimessione formulate dal Garante avessero costituito oggetto delle difese esplicate da TI. nel medesimo giudizio affrontate dal giudice di appello; sotto altro profilo, che l’omessa considerazione della questione di legittimità comunitaria non integrerebbe un errore revocatorio traducendosi in una mera sollecitazione non vincolante per il giudice.
TI. si costituiva formalmente in giudizio il 6 agosto 2021, sviluppando le proprie difese con memoria depositata il 14 settembre successivo con la quale sosteneva l’ammissibilità del ricorso allegando che le questioni di rilievo comunitario introdotte nel giudizio di appello, e affrontate dal giudice, sarebbero differenti da quelle introdotte dal Garante.
All’esito della camera di consiglio del 17 settembre 2021, con ordinanza n. 5042/2021, veniva accolta l’istanza di sospensione ritenendo la prevalenza “dell’interesse dell’appellante a non consentire l’accesso fino alla decisione del merito per evitare una vanificazione immediata della tutela azionata, senza pregiudizio dell’interesse della parte appellata che ha presentato una istanza di accesso difensivo la quale si riferisce ad una causa civile che, come emerso anche nel corso della discussione in camera di consiglio, è stata fissata nel mese di maggio 2022 e, dunque, in un tempo che consente anche la definizione nel merito della presente causa”.

 

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Con memoria del 18 gennaio 2022, Il. richiamava i precedenti scritti insistendo per la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
Con memoria di pari data il Garante sottolineava il carattere inedito delle questioni pregiudiziali sollevate e rilevava come, circa l’omessa considerazione della eccezione proposta, la giurisprudenza non fosse unanime nell’affermare i principi invocati da Il..
Il. replicava alle deduzioni del Garante con memoria del 21 gennaio successivo.
All’esito della pubblica udienza del 3 febbraio 2021, la causa veniva decisa.
Come anticipato, l’odierna parte ricorrente agisce per revocazione ritenendo integrata la fattispecie di cui all’art. 395, comma 1, n. 4 in ragione della pretesa mancata considerazione, da parte del giudice di appello, di due questioni pregiudiziali sollevate in giudizio ai sensi dell’art. 267 TFUE, ritenute essere rilevanti ai fini della decisione.
Dette questioni venivano introdotte evidenziando come, nel caso di specie, si disputasse di un accesso a dati in possesso del Garante, consistenti in “numerazioni telefoniche di soggetti terzi, senza il loro consenso, omettendo di tenere conto che la Il., in qualità di operatore telefonico del settore, potrebbe a sua volta utilizzare tali utenze per proprie finalità promozionali, potendo porre financo in essere la stessa condotta per la quale la TI. è stata a monte sanzionata” (pag. 9 del ricorso).
Con la prima questione pregiudiziale, la Ricorrente introduceva il tema della compatibilità dell’interpretazione estensiva fatta propria dal Tar del diritto di accesso difensivo con l’art. 8, par. 2, della CEDU, a norma del quale “non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio della riservatezza a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che […] è necessaria […] alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”;
– con l’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) laddove prescrive che “ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano”, che “tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge” e che “il rispetto di tali regole è soggetto al controllo di un’autorità indipendente”.

 

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La seconda questione pregiudiziale implicava, invece, un possibile profilo di contrasto con l’art. 5, paragrafo 1, lett. a) e c) del Regolamento (UE) 2016/679 del 27 aprile 2016 nel parte in cui dispone che i dati personali debbano essere trattati “in modo lecito, corretto e trasparente nei confronti dell’interessato (“liceità, correttezza e trasparenza”)” e che il loro trattamento deve avvenire in modi “adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati (“minimizzazione dei dati”)”, nonché, dell’art. 51 della medesima fonte ove è stabilito che “ogni Stato membro dispone che una o più autorità pubbliche indipendenti siano incaricate di sorvegliare l’applicazione del presente regolamento al fine di tutelare i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche con riguardo al trattamento e di agevolare la libera circolazione dei dati personali all’interno dell’Unione (l'”autorità di controllo”)”: ruolo attribuito nel nostro ordinamento alla stessa Ricorrente.
Sulla base delle suesposte argomentazioni la Ricorrente, nel giudizio di appello, chiedeva che venisse investita la Corte di Giustizia ex art. 267 TFUE anche per chiarire:
– “se in materia di riservatezza è conforme alle previsioni dell’art. 8 della CDFUE e dell’art. 8 della CEDU la prassi che affida al giudice dell’accesso la valutazione sulla necessità in un giudizio alibi pendens del documento al quale è richiesto l’accesso”.
– “se le previsioni di cui Regolamento UE n. 679/2916 (GDPR), dell’art. 8 della CDFUE e dell’art. 8 della CEDU ostino all’esercizio del diritto di accesso ai sensi dell’art. 24, comma 7, della l. n. 241/1990 ad atti di natura riservata detenuti dal Garante ed acquisiti in virtù dei suoi poteri ispettivi quando vi sia un giudizio civile già instaurato nell’ambito del quale è possibile attivare degli strumenti di acquisizione di documenti detenuti dalla Pubblica Amministrazione”.
La mancata percezione da parte del giudice di appello delle suesposte questioni pregiudiziale emergerebbe ictu oculi dall’omessa menzione delle stesse in sentenza e tale errore, relativo a “un punto non controverso tra le parti, non essendosi sulle stesse codesto Ecc.mo Consiglio di Stato neppure implicitamente pronunciato” (pag. 15 del ricorso) sarebbe da ritenersi decisivo in quanto commesso in sede di “ultima istanza giurisdizionale”.
Il. eccepisce l’inammissibilità del ricorso proposto dal Garante negando la ricorrenza del dedotto errore revocatorio sul rilievo che il profilo di compatibilità dell’interpretazione fatta propria dal giudice di prime avesse costituito oggetto di vaglio da parte del giudice
La circostanza, a parere di Il. emergerebbe laddove la Sezione richiamava le difese di TI. relative ai medesimi profili di compatibilità comunitaria rilevando che le difese di GPDP replicavano sostanzialmente le difese di TI..
Il. eccepisce infine che “la mancanza di una espressa motivazione delle ragioni che hanno indotto il Consiglio di Stato a non accogliere l’istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte UE formulata dalla odierna ricorrente” non potrebbe integrare l’errore revocatorio trattandosi di una “una mera sollecitazione all’esperimento di un rimedio che resta nell’esclusiva disponibilità processuale del Giudice” (pag. 13 della memoria).
Il ricorso è inammissibile.

 

L’errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione

Ai sensi dell’art. 395, n. 4 c.p.c. “le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione” nell’ipotesi in cui “la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”.
Circa la natura e consistenza dell’errore di fatto rilevante a tali fini, la giurisprudenza, con posizione consolidata, ha già avuto modo di rilevare che “l’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi delle citate disposizioni normative deve essere caratterizzato: a) dal derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato; b) dall’attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) dall’essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa (Cons. St., A.P., n. 1 del 2013 e n. 2 del 2010; sez. III, 1° ottobre 2012, n. 5162; 24 maggio 2012, n. 3053; sez. IV, 24 gennaio 2011, n. 503, 23 settembre 2008, n. 4607; 16 settembre 2008, n. 4361; 20 luglio 2007, n. 4097; e meno recentemente, 25 agosto 2003, n. 4814; 25 luglio 2003, n. 4246; 21 giugno 2001, n. 3327; 15 luglio 1999 n. 1243; C.G.A., 29 dicembre 2000 n. 530; sez. VI, 9 febbraio 2009, n, 708; 17 dicembre 2008, n. 6279; C.G.A., 29 dicembre 2000, n. 530; Cass. Civ., sez. I, 24 luglio 2012, n. 12962; 5 marzo 2012, n. 3379; sez. III, 27 gennaio 2012, n. 1197); l’errore deve inoltre apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (C.d.S., sez. VI 25 maggio 2012, n. 2781; 5 marzo 2012, n. 1235)” (Cons. Stato, Ad. plen., 24 gennaio 2014, n. 5)
In coerenza con le illustrate coordinate ermeneutiche, è pacifico che il rimedio in questione, in quanto avente natura straordinaria, non può che essere percorribile nei soli casi tassativamente contemplati e in alcun modo può tradursi in un ulteriore grado di giudizio o in un riesame di questioni già oggetto di sindacato da parte del giudice (Cons. Stato, Sez. III, 6 luglio 2021, n. 5159).
L’errore revocatorio, infatti, si sostanzia in una erronea percezione delle acquisizioni processuali, frutto di una “svista” che induca a ritenere la sussistenza o insussistenza di fatti decisivi ai fini dell’esito processuale, invece inesistenti o accertati, e in alcun modo può interessare la successiva attività di interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni formulate in giudizio.
Ne deriva che tale disallineamento fra la realtà fattuale e il contenuto della decisione deve essere “macroscopico, ovvero essere percepibile attraverso una lettura meramente oggettiva degli “atti o documenti della causa”, senza che, al fine di ricavarla da questi ultimi, sia necessario alcun tipo di attività interpretativa e/o valutativa” e “non deve aver costituito oggetto, sulla scorta delle contrapposte rappresentazioni delle parti, del vaglio giurisdizionale” (Cons. Stato, Sez. III, 7 giugno 2021, n. 4304).

 

L’errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione

Con specifico riferimento a questioni attinenti alla compatibilità comunitaria ai sensi dell’art. 234 del TFUE della normativa interna, l’orientamento prevalente è nel senso che l’eventuale mancato esame di simili questioni da parte del giudice non possa prefigurare una ipotesi revocatoria; ciò sul fondamentale rilievo che simili questioni, quand’anche prospettate dalle parti, non sono oggetto di domande in senso proprio e quindi per esse non opera il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (Cons. Stato, sez. V, 28 gennaio 2021, n. 834).
La rilevanza, anche ai fini revocatori, della questione pregiudiziale andrebbe peraltro sempre apprezzata – e quindi vagliata – non già in via autonoma ma alla luce della sua connessione con un motivo di ricorso, ritualmente proposto nel giudizio; non essendo dato al giudice sollevare questioni pregiudiziali per così dire astratte, ovvero che non abbiano una diretta attinenza con l’esito della lite in corso.
Chiariti nei suesposti termini l’ambito di applicazione del rimedio, e condividendosi da parte di questo Collegio l’indirizzo giurisprudenziale di cui alla sentenza di questo Consiglio n. 834/2021, deve rilevarsi che, contrariamente a quanto sostenuto dall’Autorità i profili di potenziale incompatibilità comunitaria non erano estranei alla complessiva valutazione del giudice di appello.
Si rileva, a tal proposito, che con l’impugnata sentenza la Sezione rilevava che l’Autorità “dapprima con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato e quindi con tutela affidata ad un patrocinatore del libero foro che ha fatto propri i motivi di appello dedotti nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado dalla difesa erariale, (ovviamente) confermandoli quindi nel contenuto e quindi arricchendone la illustrazione nei successivi scritti difensivi…”.
La Sezione dava, ulteriormente, atto che TI. deduceva in appello “error in iudicando per violazione e falsa applicazione degli artt. 22, 24 e 25 della l. n. 241/90; dell’art. 2 del Regolamento n. 1/06 del Garante; degli artt. 14, 15, 117, c. 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU; degli artt. 55, 57 e 58 del Regolamento UE n. 679/16” evidenziando la sostanziale omogeneità delle difese delle Appellanti atteso che “il complesso ed unico motivo di gravame proposto dall’Autorità ricalca, nella sostanza, le censure dedotte già da TI. nell’appello autonomamente proposto nei confronti della sentenza del TAR per il Lazio n. 11060/2020”.
Ciò premesso, avuto riguardo alla sostanziale omogeneità delle questioni sollevate e, soprattutto alla circostanza che l’unico “arricchimento” in corso di giudizio, riferibile alle difese dell’Autorità (che già a p. 15 dell’appello, alla fine del paragrafo I.1.c. aveva in un certo qual modo introdotto la questione, sebbene non avesse formulato un motivo di appello ad hoc), è rappresentato dall’introduzione delle questioni pregiudiziali in questione, non può che ritenersi che il giudice le abbia conosciute e che, in assenza di specifica menzione, ne abbia implicitamente valutata l’irrilevanza ai fini invocati.
Ferma restando l’illustrata conclusione, deve ulteriormente evidenziarsi che TI., in sede di appello, sviluppando la censura come sopra rubricata, esponeva che “… anche l’art. 8, c. 2, CEDU, con riferimento al diritto al rispetto del domicilio e della corrispondenza, dispone che “Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. Nella specie, l’ingerenza dell’autorità pubblica (il Garante) nel godimento del diritto al rispetto del domicilio e della corrispondenza di TI. trovava la propria giustificazione unicamente dall’art. 58 del Regolamento GDPR, dunque per i soli fini di “eseguire i compiti assegnati” (art. 55) al Garante dal Regolamento GDPR. Tali compiti sono elencati all’art. 57 del Regolamento GDPR, e, tra di essi, non v’è certo quello di ostendere le informazioni o i dati ottenuti nell’ambito delle ispezioni effettuate nel corso dell’istruttoria di un procedimento sanzionatorio ad altri soggetti privati, per loro asserite esigenze difensive del tutto svincolate dall’oggetto del provvedimento sanzionatorio. Peraltro, la giurisprudenza consolidata della Corte EDU ha avuto modo di chiarire che non solo la possibilità dell’ingerenza dell’autorità pubblica nel diritto al rispetto del domicilio e della corrispondenza dev’essere espressamente prevista dalla legge, ma quest’ultima dev’essere sufficientemente chiara da dare ai cittadini un’adeguata indicazione delle circostanze e delle condizioni in cui le autorità pubbliche hanno il potere di ricorrere a tali misure (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Application no. 20605/92, 25/6/97, case of Halford v. the United Kingdom, par. 49)” (paragrafo n. 12 dell’atto di appello).

 

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Il profilo in questione veniva ribadito con la memoria depositata in giudizio il 2 marzo 2021 laddove si affermava che “il generale diritto di accesso ai documenti amministrativi per esigenze difensive stabilito dall’art. 24 della l. n. 241/90, dovrebbe incontrare i limiti direttamente desumibili dall’ordinamento e, in particolare, dalle fonti che istituiscono e funzionalizzano i poteri istruttori delle pubbliche Autorità ” (paragrafo 9) affermando ulteriormente che “non ci sono dubbi circa la titolarità dei diritti fondamentali anche in capo alle persone giuridiche, in quanto formazioni sociali entro cui il singolo svolge la sua personalità ex art. 2 Cost. Questione pacifica anche per la Corte EDU (cfr. con riferimento all’inviolabilità del domicilio dell’impresa sottoposta a indagini di un’autorità garante della concorrenza e del mercato, la sent. del 2/1/15, Delta Peká rny A.S. c. Repubblica Ceca)” (paragrafo 10).
La questione veniva poi ulteriormente arricchita in sede di replica depositata il 5 marzo 2021, laddove TI. evidenziava “che la recentissima pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 2/3/21, in causa C-746/18, ha statuito che il principio di proporzionalità impone di limitare le deroghe alla protezione dei dati personali entro i limiti dello stretto necessario: “Mira dunque a soddisfare il requisito di proporzionalità, in virtù del quale le deroghe alla protezione dei dati personali e le limitazioni di quest’ultima devono compiersi entro i limiti dello stretto necessario (sentenza del 6 ottobre 2020, La Quadrature du Net e a., C-511/18, C-512/18 e C-520/18, EU:C:2020:791, punto 130 nonché la giurisprudenza ivi citata), il fatto che le autorità nazionali competenti siano tenute a garantire, in ciascun caso di specie, che tanto la categoria o le categorie di dati interessati, quanto la durata per la quale è richiesto l’accesso a questi ultimi, siano, in funzione delle circostanze del caso di specie, limitate a quanto è strettamente necessario ai fini dell’indagine in questione” (par. 38)” (paragrafo 7).
Preso atto dei suesposti contenuti delle difese di TI., si rileva che quest’ultima, in sede di appello, riferendosi ai poteri riconosciuti in materia al Garante precisava che “tali compiti sono elencati all’art. 57 del Regolamento GDPR, e, tra di essi, non v’è certo quello di ostendere le informazioni o i dati ottenuti nell’ambito delle ispezioni effettuate nel corso dell’istruttoria di un procedimento sanzionatorio ad altri soggetti privati, per loro asserite esigenze difensive del tutto svincolate dall’oggetto del provvedimento sanzionatorio”.
Deve quindi ritenersi che la questione di compatibilità comunitaria riferita all’ostensibilità di dati acquisiti nell’ambito di una procedura sanzionatoria a fronte delle allegate esigenze difensive ovvero a tutela del sereno svolgimento del procedimento istruttorio, sia pur con diversa formulazione, fosse già stata introdotta (più ritualmente, di quanto non avesse fatto il Garante) da TI. e, quindi, conosciuta dal giudice di appello laddove richiamava espressamente le difese di quest’ultima; come dimostra anche il fatto che il giudice di appello, in un passaggio della motivazione, avesse espressamente confutato il paventato pericolo che attraverso l’accesso fosse condizionato l’esercizio dei poteri del Garante sul rilievo che “il Garante ha già esercitato detto potere, definendo la procedura avente ad oggetto l’intera attività ispettiva e adottando il provvedimento sanzionatorio a carico di TIM” (alla fine del par. 10 della motivazione della sentenza di appello).
Per quanto precede il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Le spese di giudizio sono poste a carico della sola Autorità, nella misura liquidata in dispositivo, mentre possono essere compensate relativamente a TI..

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sul ricorso per revocazione, come in epigrafe proposto;
dichiara il ricorso inammissibile;
condanna il Garante al pagamento delle spese di giudizio in favore di Il. che liquida in Euro 5.000,00 oltre oneri di legge;
compensa le spese di giudizio nei confronti di Ti. S.p.A..
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 febbraio 2022 con l’intervento dei magistrati:
Hadrian Simonetti – Presidente FF
Silvestro Maria Russo – Consigliere
Dario Simeoli – Consigliere
Davide Ponte – Consigliere
Marco Poppi – Consigliere, Estensore

 

 

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In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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