La presentazione di una istanza di sanatoria

Consiglio di Stato, Sentenza|16 febbraio 2022| n. 1150.

La presentazione di una istanza di sanatoria, ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 380 del 2011, determina soltanto un arresto interinale dell’efficacia dell’ordine di demolizione, ponendolo in stato di temporanea quiescenza.

Sentenza|16 febbraio 2022| n. 1150. La presentazione di una istanza di sanatoria

Data udienza 3 febbraio 2022

Integrale

Tag- parola chiave: Abusi edilizi – Ordine di demolizione – Presentazione di una istanza di sanatoria – Effetti – Individuazione

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1990 del 2015, proposto da
AM. HO. SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Gi. So., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Fa. Al. in Roma, via (…);
contro
COMUNE DI NAPOLI, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. An., Fa. Ma. Fe., Gi. Pi., Br. Ri., An. Ca., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Ni. La. in Roma, via (…);
nei confronti
REGIONE CAMPANIA, non costituita in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania Sezione Quarta n. 3865 del 2014;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Napoli;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 3 febbraio 2022 il Cons. Dario Simeoli e uditi per le parti gli avvocati Gi. So. e Ma. Di Ne., per delega dell’avvocato Gi. Pi.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

La presentazione di una istanza di sanatoria

FATTO e DIRITTO

Ritenuto in fatto
1.? Con un primo ricorso (n. 7290 del 2006), la società Am. Ho. ? proprietaria del complesso alberghiero Mo. Pa. Ho., sito in Napoli nella (omissis) ? impugnava l’ordine di demolizione del Comune di Napoli del 1 febbraio 2006, notificato il 18 luglio 2006, delle seguenti opere abusive:
– pavimentazione di circa 5.000 mq;
– area piscina, con 2 vasche e tre manufatti (circa 500 mq complessivi);
– due manufatti (mq 450 x 3,80 e 210 x 3,10) adibiti a salottini ristorazione;
– tre tettoie (rispettivamente di 45, 30 e 90 mq);
– corpo di fabbrica di 28 mq;
– capannone in ferro di 155 mq;
– corpi di fabbrica adibiti a sala congressi e camere d’albergo per complessivi 1.000 mq circa;
– manufatto di collegamento di 28 mq;
– baracche a struttura mista e deposito lavanderia;
– corpo di fabbrica in sopraelevazione di 90 mq;
– ampliamento della caldaia e del vano ascensore;
– manufatto in legno di 65 mq; vano in muratura e taglio della muratura con installazione di cancello in ferro e rampante scala di accesso.
1.1.? Con un secondo ricorso (n. 5935 del 2006), la proprietà impugnava anche la disposizione dirigenziale del Comune di Napoli n. 331 del 23 maggio 2006, recante il rigetto dell’istanza di accertamento di conformità presentata in data 16 novembre 1999 in ordine alle citate opere di ampliamento del complesso alberghiero.
Al riguardo, va precisato che, per alcune delle opere sopra indicate, la medesima istanza di accertamento di conformità del 16 novembre 1999 era già stata rigettata dall’Amministrazione comunale, con disposizione n. 124 del 2000, in applicazione della normativa urbanistica, vigente ratione temporis, che originariamente classificava l’area in questione quale “zona agricolà (nEa)”.

 

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Successivamente ? in ragione dell’annullamento parziale della variante per la zona occidentale ad opera della sentenza n. 2404 del 2000 del T.a.r. Napoli, passata in cosa giudicata ? l’area è stata riclassificata (con deliberazione della Giunta della Regione Campania n. 478 del 12 agosto 2004) come “zona di agglomerati di recente formazione (nB)”: a questo punto, l’istanza di accertamento di conformità presentata nel 1999 è stata rivalutata (con il provvedimento impugnato nel presente giudizio), sia pure con esito ancora negativo, essendo stato ritenuti ostativi i vincoli paesaggistici esistenti sulla zona.
2.? Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, con sentenza n. 3865 del 2014, riuniti due i ricorsi, li ha rigettati entrambi.
3.? Avverso la predetta sentenza ha proposto appello la società Am. Ho., riproponendo nella sostanza i motivi già proposti in primo grado, sia pure adattati all’impianto motivazionale della sentenza appellata.
In particolare, secondo l’appellante, la sentenza di primo grado andrebbe riformata in quanto:
i) avrebbe dovuto ritenere illegittima l’ordinanza di demolizione nella parte in cui sanziona anche opere per le quali pendeva istanza di accertamento di conformità (da vagliare alla stregua della nuova disciplina urbanistica conseguita dall’appellante in accoglimento del suo precedente ricorso avverso la variante occidentale del 1998);
ii) l’art. 27 del 6 giugno 2001, n. 380, assegnerebbe il potere inibitorio e sanzionatorio, nelle aree vincolate, alla Soprintendenza e non al Comune;
iii) non sarebbero stati considerati gli articolati motivi sviluppati in primo grado (con il ricorso n. 5935 del 2006), cui i quali era stata dimostrata la rilevanza del giudicato di cui alla sentenza del T.a.r. n. 2404 del 2000 ai fini dell’esame dell’istanza di sanatoria, sia enunciando le ragioni per le quali la disciplina della zona ‘nB’ su tutto il territorio del Comune di Napoli avrebbe dovuto essere uniforme ed omogenea attraverso la necessaria integrazione tra i contenuti della variante occidentale del 1998, e la variante generale del 2004, sia esplicitando le ragioni storiche circa la pertinenza della disciplina di cui all’art. 20 del PTP (omissis)-(omissis) alla proprietà della società Am. Ho. (l’area ora di proprietà del Mo. all’epoca della formazione del piano paesistico era di proprietà della Società Te. di Ag.); sarebbe poi irragionevole ritenere che sul territorio comunale possano convivere zone ‘B’ con distinta e differenziata disciplina;
iv) sarebbe stata erroneamente esclusa la natura pertinenziale degli interventi per cui è causa, nonché la possibilità di rilascio di autorizzazione paesaggistica ex post in sanatoria;
v) sarebbe erroneo affermare la natura vincolata del rigetto dell’istanza di sanatoria in ragione del riscontro della cd. doppia conformità, essendo stata da tempo elaborata la cd. ‘sanatoria giurisprudenzialè, che integrando il precetto di cui all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, ammetterebbe la sanabilità anche delle opere che siano conformi soltanto all’epoca in cui il Comune valuta l’istanza di conformità ;
vi) il diniego di sanatoria sarebbe manifestamente illegittimo nella parte in cui ha escluso la sanatoria anche per i c.d. volumi tecnici (deposito, lavanderia, dispensa), che non sarebbero luogo a incrementi volumetrici e che nella specie erano del tutto interrati.
4.? Si è costituito in giudizio il Comune di Napoli, insistendo per il rigetto del gravame.
5.? All’odierna udienza, la causa è stata discussa e trattenuta in decisione.

 

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Considerato in diritto

6.? La sentenza di primo grado deve essere confermata.
7.? Con il primo motivo di appello, l’appellante insiste nel sostenere che l’ordinanza di demolizione n. 255 del 1 febbraio 2006 sarebbe illegittima per il solo fatto di essere stata adottata anteriormente al diniego di accertamento di conformità del 23 maggio 2006.
7.1.? La censura non può essere accolta, sia pure in ragione di una motivazione parzialmente diversa rispetto a quella utilizzata dal giudice di primo grado (incentrata sul fatto che la reiezione dell’istanza di accertamento di conformità del 2006 costituirebbe un “provvedimento di secondo grado, avendo l’amministrazione comunale già concluso l’originario procedimento con disposizione n. 124 del 2000”).
Secondo l’orientamento giurisprudenziale oramai consolidato, la presentazione di una istanza di sanatoria, ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 380 del 2011, determina soltanto un arresto interinale dell’efficacia dell’ordine di demolizione, ponendolo in stato di temporanea quiescenza (e, per questo motivo, non determina l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse, dell’impugnazione proposta avverso l’ordinanza di demolizione).
In caso di rigetto dell’istanza di sanatoria, l’ordine di demolizione riacquista dunque la sua efficacia, senza alcuna necessità per l’Amministrazione di adottarne uno nuovo (Cfr. ex plurimis, Consiglio di Stato, sentenze, n. 1432 del 2021, n. 2681 del 2017, n. 1565 del 2017, n. 1393 del 2016, n. 466 del 2015, n. 2307 del 2014).
Nel caso di specie, è altresì dirimente osservare che l’ordine di demolizione, seppure antecedente al diniego di sanatoria del 23 maggio 2006, è stato comunque notificato successivamente in data 18 luglio 2006.
8.? L’ulteriore mezzo di gravame, incentrato sull’asserito difetto di competenza del Comune a disporre la sanzione demolitoria, da rinvenirsi invece in capo alla Soprintendenza, è anch’esso destituito di fondamento.

 

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8.1.? Vale richiamare, anche in questo caso, la giurisprudenza della Sezione, secondo cui il potere di vigilanza di cui all’art. 27 comma 1 del citato d.P.R. n. 380 del 2001 deve intendersi come potere-dovere di carattere generale, appartenente al Comune e riguardante l’intera attività edilizia sul territorio, da esercitarsi anche in ipotesi di opere prive di autorizzazione paesaggistica.
Di conseguenza, non è fondata la pretesa esclusione della competenza comunale per effetto del comma 2 del medesimo art. 27, in favore di quella del Soprintendente laddove trattasi di abusi realizzati su immobili vincolati (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 18 aprile 2013, n. 2150).
Il doveroso raccordo tra le due amministrazioni comporta dal punto di vista dell’ordine urbanistico-edilizio che, ferma la competenza del Comune, l’attività ripristinatoria e demolitoria incidente su immobili soggetti a vincolo sconti l’intervento, su richiesta del Comune (o delle altre autorità preposte alla tutela) della Soprintendenza nelle concrete specificazioni delle modalità operative, e quindi nello svolgimento materiale delle operazioni di ripristino dello stato preesistente al fine di prevenire che i valori culturali cui il vincolo si riferisce siano materialmente offesi dalle operazioni di riduzione in pristino (così deve interpretarsi la proposizione normativa, secondo cui: “il dirigente provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa”).
Resta naturalmente ferma la possibilità di dar corso alla parallela e autonoma potestà ripristinatoria ad opera degli organi di tutela del patrimonio culturale ai sensi di quelle leggi. Anche la censura appena esaminata è, quindi, infondata (Consiglio di Stato, Sez. VI, 26 gennaio 2015, n 319).
9.? Sono del pari infondati i motivi di appello che intendono censurare il contenuto del diniego di sanatoria.

 

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9.1.? Preliminarmente, deve ricordarsi che, contrariamente alla tesi di parte appellante, l’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, nel disciplinare l’accertamento di conformità, ossia quello strumento attraverso cui si consente la sanatoria di opere realizzate in assenza di titolo edilizio, ma conformi alla normativa applicabile, richiede che gli interventi abusivi siano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della istanza di sanatoria, non potendosi affatto accogliere l’istituto della c.d. sanatoria giurisprudenziale, la cui attuale praticabilità è stata da tempo esclusa dalla giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 3194 del 2016; Sez. VI, n. 2784 del 2015; Sez. IV, n. 2306 del 2006; secondo Corte Cost. n. 232 del 2017, l’approdo che richiede la verifica della ‘doppia conformità ‘ deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento “finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità “).
9.2.? Ciò posto, come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, ostava all’intervento edilizio per cui è causa la presenza del vincolo paesaggistico apposto con decreto ministeriale del 25 gennaio 1958, con cui è stata dichiarata di notevole interesse pubblico la zona dei (omissis) e adiacenze sita nel comune di Napoli.
L’articolo 10, comma 4, del piano paesistico (omissis) Collina dei (omissis), impedisce infatti la creazione di nuovi volumi (“è vietato qualsiasi intervento che comporti incremento dei volumi esistenti”). Questo Consiglio di Stato, con sentenza n. 5256 del 2012, ha affermato che l’area in questione è “inserita nel piano territoriale paesistico di (omissis) (omissis) come “Zona PI – protezione integrale” e che pertanto la suddetta qualificazione esclude la possibilità di interventi edilizi che (come quello in esame) costituiscono di per sé un fattore di degrado ambientale, in quanto alterano l’originaria morfologia del tradizionale contesto paesaggistico e sono in palese contrasto con le imprescindibili esigenze di tutela e conservazione di valori che rappresentano la ragione costitutiva del vincolo stesso […] nonostante le ferite cagionate dall’edilizia, spontanea e non, la zona costituisce una porzione di territorio ancora conservante qualche traccia dei tratti tipici del paesaggio collinare agrario, caratterizzato dall’ampiezza dei quadri panoramici, dalla presenza di beni archeologici e di gruppi arborei, condizioni atte a formare la sua tipica, antica, immagine paesaggistica”.

 

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L’invocata disciplina transitoria del predetto piano paesistico (omissis) Collina dei (omissis), di cui all’art. 20 ? valevole peraltro “per le sole aree di pertinenza del complesso termale ed alberghiero della Società Te. di Ag.” ? consente sì “l’adeguamento funzionale nonché la realizzazione di attrezzature a servizio dell’attività alberghiera e quelle necessarie per l’utilizzazione delle risorse idrotermali dell’area”, ma soltanto “con l’esclusione della realizzazione di nuovi volumi”.
9.3.? La consistenza e la destinazione dei manufatti sopra descritti, con creazione di nuovi volumi e superfici, rendeva il vincolo paesaggistico del tutto insuperabile, rendendo superflua la necessità di svolgere una valutazione concreta sulla sua compatibilità paesaggistica ai fini del rilascio di una autorizzazione paesaggistica ex post in sanatoria.
L’art. 167 del d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), recante la disciplina delle sanzioni amministrative previste per la violazione delle prescrizioni poste a tutela dei beni paesaggistici, contiene (nella sua attuale formulazione) la regola della non sanabilità ex post degli abusi, sia sostanziali che formali. Il trasgressore, infatti, è “sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese”, “fatto salvo quanto previsto al comma 4”.
L’intenzione legislativa è chiara nel senso di precludere qualsiasi forma di legittimazione del “fatto compiuto”, in quanto l’esame di compatibilità paesaggistica deve sempre precedere la realizzazione dell’intervento. Il rigore del precetto è ridimensionato soltanto da poche eccezioni tassative, tutte relative ad interventi privi di impatto sull’assetto del bene vincolato. Segnatamente, sono suscettibili di accertamento postumo di compatibilità paesaggistica: gli interventi realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; l’impiego di materiali diversi da quelli prescritti dall’autorizzazione paesaggistica; i lavori configurabili come interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi della disciplina edilizia (art. 167, comma 4). L’accertamento di compatibilità, peraltro, è subordinato al positivo riscontro della Soprintendenza e al pagamento di una somma equivalente al minore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione.
Secondo l’orientamento più volte espresso dalla Sezione (sentenze n. 3579 e n. 5066 del 2012; n. 4079 del 2013; n. 3289 del 2015), il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, sia esso interrato o meno.
Sul piano del metodo, va preliminarmente rimarcato che ciascun costrutto normativo deve essere osservato con la “lente” del suo specifico contesto disciplinare. Le qualificazioni giuridiche rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio non sono automaticamente trasferibili quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo paesaggistico. La regola che in materia urbanistica porta ad escludere i “volumi tecnici” dal calcolo della volumetria edificabile, trova fondamento nel bilanciamento rinvenuto tra i vari e confliggenti interessi connessi all’uso del territorio. Non può pertanto essere invocata al fine di ampliare le eccezioni al divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, il quale tutela l’interesse alla percezione visiva dei volumi, del tutto a prescindere dalla loro destinazione d’uso.

 

La presentazione di una istanza di sanatoria

La conclusione, del resto, è avvalorata dalla stessa lettera della norma in discorso che, nel consentire l’accertamento postumo della compatibilità paesaggistica, si riferisce esclusivamente ai “lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”. Non è consentito all’interprete ampliare la portata di tale norma, che costituisce eccezione al principio generale delle necessità del previo assenso, per ammettere fattispecie letteralmente, e senza distinzione alcune, escluse.
9.4 ? In ogni caso, neppure potrebbe accogliersi la tesi dell’appellante che vorrebbe ricondurre i plurimi abusi sotto la natura pertinenziale dell’intervento (che, come si è visto sopra, spiegherebbe comunque rilevante, ai fini della violazione del vincolo paesistico).
Va rimarcato, infatti, che la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un’opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 4 gennaio 2016, n. 19; Sez. VI, 24 luglio 2014, n. 3952; Sez. V, 12 febbraio 2013, n. 817; Sez. IV, 2 febbraio 2012, n. 615);
Con tutta evidenza, le opere realizzare dall’appellante avevano una precisa ed autonoma funzionalità (si pensi alla sala congressi, al manufatto in vetro e alluminio, alla costruzione della piscina con solarium).
A questo riguardo, va pure precisato che la verifica dell’incidenza urbanistico-edilizia dell’intervento realizzato abusivamente deve essere condotta prendendo in considerazione le opere nella loro globalità, che non possono essere considerate in modo atomistico, non essendo ammessa la possibilità di frazionare i singoli interventi edilizi difformi al fine di dedurre la loro autonoma rilevanza.

 

La presentazione di una istanza di sanatoria

10.? Secondo l’appellante, il provvedimento avrebbe violato il vincolo conformativo ricollegabile alla sentenza del T.a.r. Campania n. 2404 del 2000.
La tesi secondo cui il giudicato sulla variante urbanistica occidentale sarebbe destinata a prevalere e conformare la disciplina paesaggistica, appare inaccettabile per due ordine di ragioni.
10.1.? Va, in primo luogo, circoscritto l’ambito delle preclusioni, discendenti dal giudicato formatosi sulla variante urbanistica occidentale. La dimensione oggettiva del giudicato amministrativo, è bene ricordare, è correlata all’oggetto del processo e alla struttura del giudizio. I limiti oggettivi del giudicato amministrativo sono saldamente ancorati agli specifici argomenti di fatto e di diritto che integrano la violazione accertata dal giudice.
Nella specie, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, il giudicato di cui alla sentenza n. 2404 del 2000 era limitata alla disciplina urbanistica, senza che dalla stessa potessero emergere peculiari vincoli conformativi sulla pianificazione paesistica (ed inoltre “la decisione è stata attuata dall’amministrazione comunale mediante l’adozione della modifica alla variante occidentale, provvedimento che peraltro non risulta impugnato”).
È stato pure correttamente rimarcato che gli articoli 8, comma 5, e 31 della Variante per la Zona occidentale (prescrizioni relative alla zona ‘nB’) sanciscono l’incompatibilità urbanistica per le opere dirette alla creazione di nuovi volumi, sia pure al servizio della struttura alberghiera (consentendosi gli interventi solo “nel limite massimo della cubatura esistente”),
10.1.? Sotto altro profilo, l’art. 145 del Codice, rubricato “Coordinamento della pianificazione paesaggistica con altri strumenti di pianificazione”, contempla, al comma 3, il principio di “prevalenza dei piani paesaggistici” sugli altri strumenti urbanistici, precisando, segnatamente, che: “Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette”.
Il principio è stato successivamente rafforzato dal d.lgs. 26 marzo 2008, n. 63 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione al paesaggio), con l’inserimento (ad opera dell’art. 2, comma 1, lettera r, numero 4), nella prima parte del medesimo comma 3 dell’art. 145, dell’inciso: “non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico”, riferito alle previsioni dei piani paesaggistici di cui agli artt. 143 e 156.

 

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Il Codice dei beni culturali e del paesaggio definisce dunque, con efficacia vincolante anche per le regioni, i rapporti tra il piano paesaggistico e gli altri strumenti urbanistici (nonché i piani, programmi e progetti regionali di sviluppo economico) secondo un modello rigidamente gerarchico, fondato sui seguenti dispositivi tecnici: immediata prevalenza del primo, obbligo di adeguamento dei secondi con la sola possibilità di introdurre ulteriori previsioni conformative che “risultino utili ad assicurare l’ottimale salvaguardia dei valori paesaggistici individuati dai piani”. In base alla disciplina statale resta così escluso, sia che la salvaguardia dei valori paesaggistici possa essere assicurata da strumenti diversi dai piani paesaggistici, sia che essa possa cedere ad esigenze urbanistiche o naturalistiche rappresentate in diversi strumenti di pianificazione.
Su queste basi, il giudicato invocato dall’appellante, non giustifica alcuna deroga al principio secondo il quale, nella disciplina delle trasformazioni del territorio, la tutela del paesaggio assurge a valore primario, cui deve sottostare qualsiasi altro interesse interferente.
11.? In ragione dell’acclarata abusività e non sanabilità dei manufatti rimasti sforniti di titolo abilitativo, l’ordine di demolizione è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione aggiuntiva rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi. Le censure relative al contraddittorio non possono dunque comportare l’annullamento dell’ordinanza in quanto il dispositivo dell’ordinanza demolitoria “non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990.
12.? L’appello va dunque integralmente respinto.
12.1.? La liquidazione delle spese di lite del secondo grado di giudizio segue la soccombenza secondo la regola generale.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello n. 1990 del 2015, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l’appellante al pagamento delle spese di lite del secondo grado di giudizio in favore dell’Amministrazione comunale, che si liquidano in Euro 3.500,00, oltre accessori di legge se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 febbraio 2022 con l’intervento dei magistrati:
Hadrian Simonetti – Presidente FF
Silvestro Maria Russo – Consigliere
Dario Simeoli – Consigliere, Estensore
Stefano Toschei – Consigliere
Davide Ponte – Consigliere

 

 

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