Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 12 maggio 2020, n. 14549.
Massima estrapolata:
La contravvenzione prevista dall’art. 5, lett. b), della legge 30 aprile 1962, n. 283, è configurabile tutte le volte in cui le modalità di conservazione delle sostanze alimentari contrastino con previsioni normative o anche soltanto con le regole dell’esperienza, sì da pregiudicare l’interesse del consumatore a che l’alimento sia ben mantenuto prima di essere ulteriormente lavorato o utilizzato nella produzione, venduto, preparato o somministrato per il consumo. (In applicazione del principio la Suprema Corte ha considerato immune da censure la decisione impugnata che aveva ritenuto in cattivo stato di conservazione le olive stoccate, nel mese di febbraio, in un’area esterna allo stabilimento di produzione, per l’inidoneità dell’area dal punto di vista igienico e per la sottoposizione dell’alimento a sbalzi termici, ragionevolmente occorrenti anche nei mesi invernali).
Sentenza 12 maggio 2020, n. 14549
Data udienza 5 marzo 2020
Tag – parola chiave: Produzione, commercio e consumo – Prodotti alimentari (in genere) – Reati – In genere – Reato di cui all’art. 5, lett. b), l. n. 283 del 1962 – Configurabilità – Modalità di conservazione delle sostanze alimentari – Requisiti – Fattispecie.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROSI Elisabetta – Presidente
Dott. GENTILI Andrea – Consigliere
Dott. SEMERARO Luca – Consigliere
Dott. GAI Emanuela – Consigliere
Dott. REYNAUD Gianni F. – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 24/10/2018 del Tribunale di Foggia;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Gianni Filippo Reynaud;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Canevelli Paolo, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilita’ del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 24 ottobre 2018, il Tribunale di Bari ha dichiarato la penale responsabilita’ di (OMISSIS), condannandolo alla pena di 4.000 Euro di ammenda, in ordine al reato di cui alla L. 30 aprile 1962, n. 283, articolo 5, comma 1, lettera b), per aver detenuto per il successivo trattamento e la destinazione al commercio circa 5.130 Kg. di olive costituenti prodotti semilavorati in cattivo stato di conservazione.
2. Avverso la sentenza, a mezzo del difensore fiduciario, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, deducendo, con il primo motivo, vizio di motivazione carente e contraddittoria – per aver la sentenza fondato l’affermazione di responsabilita’ sulle dichiarazioni rese in dibattimento dal teste di polizia giudiziaria, trascurando le dichiarazioni rese dalla consulente esterna dell’azienda, con particolare riguardo alla giustificazione dalla medesima fornita circa l’apposizione della doppia etichettatura sui bidoni contenenti le olive.
3. Con il secondo motivo di ricorso, si deduce vizio di motivazione con riguardo alla carenza assoluta di motivazione circa la sussistenza dello stato di cattiva conservazione, avendo la sentenza posto in risalto unicamente l’apposizione della doppia etichettatura e rilevato l’asserita esposizione agli sbalzi termici pur essendo il fatto avvenuto nel mese di febbraio. Qualora, poi, dovesse ritenersi che al momento dell’ispezione le olive fossero scadute, il fatto non sarebbe stato penalmente rilevante, potendo ravvisarsi il solo illecito amministrativo di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 109 del 1992, articoli 10 e 18.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso e’ inammissibile per genericita’ e manifesta infondatezza.
Contrariamente a quanto allega il ricorrente, la sentenza considera le dichiarazioni rese dalla consulente dell’azienda quanto all’apposizione della doppia etichettatura, ma – con motivazione non illogica – le reputa irrilevanti sul rilievo che, non essendo ancora le olive state lavorate dall’azienda gestita dell’imputato, la scadenza del prodotto, gia’ maturata, non poteva essere “allungata” con l’apposizione di una successiva data, che si sarebbe giustificata soltanto a seguito della lavorazione. Il ricorrente non contesta in alcun modo questa non illogica argomentazione ed il ricorso, pertanto, e’ sul punto irrimediabilmente generico.
2. Quanto al secondo motivo, e’ ben vero che nella giurisprudenza di questa Corte e’ da tempo consolidato il principio secondo cui la commercializzazione di prodotti alimentari confezionati, per i quali sia prescritta l’indicazione “da consumarsi preferibilmente entro il…”, o quella “da consumarsi entro il…”, non integra, ove la data sia superata, alcuna ipotesi di reato, ma solo l’illecito amministrativo di cui al Decreto Legislativo n. 109 del 1992, articolo 10, comma 7 e articolo 18 a meno che non sia accertato in concreto lo stato di cattiva conservazione delle sostanze alimentari (Sez. 3, n. 30858 del 27/06/2008, Amantia e altro, Rv. 240755; Sez. 3, n. 2144 del 24/01/1996, Sanguineti, Rv. 204562). Il principio piu’ di recente ribadito da Sez. 3, n. 30425 del 11/07/2012, Scognamiglio, non massimata – e’ rimasto valido anche dopo le modifiche apportate alla citata disciplina dal Decreto Legislativo 23 giugno 2003, n. 181, che ha sostituito il Decreto Legislativo n. 109 del 1992, articolo 10 e aggiunto l’articolo 10-bis, il cui comma 5 ha riprodotto il testo dell’originario articolo 10, comma 7, statuendo che “e’ vietata la vendita dei prodotti che riportano la data di scadenza a partire dal giorno successivo a quello indicato sulla confezione”. Anche la violazione delle norme contenute nell’articolo 10-bis e’ stata poi sanzionata solo amministrativamente dal Decreto Legislativo n. 109 del 1992, articolo 18, comma 2, nel testo parimenti sostituito dal Decreto Legislativo n. 181 del 2003 e vigente al momento dei fatti. In ogni caso, benche’ il citato Decreto Legislativo n. 109 del 1992 sia poi stato successivamente abrogato dal Decreto Legislativo 15 dicembre 2017, n. 231, articolo 30 – recante disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni del regolamento (UE) n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori e l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del medesimo regolamento (UE) n. 1169/2011 e della direttiva 2011/91/UE, ai sensi della L. 12 agosto 2016, n. 170, articolo 5 “Legge di delegazione Europea 2015” – la vigente disciplina riproduce le citate disposizioni sulla rilevanza esclusivamente amministrativa dell’illecito in parola, inasprendo, peraltro, le sanzioni pecuniarie (cfr., in particolare, il Decreto Legislativo n. 231 del 2017, articolo 12, comma 3, a norma del quale, “salvo che il fatto costituisca reato, quando un alimento e’ ceduto a qualsiasi titolo o esposto per la vendita al consumatore finale oltre la sua data di scadenza, ai sensi dell’articolo 24 e dell’allegato X del regolamento, il cedente o il soggetto che espone l’alimento e’ soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da 5.000 Euro a 40.000 Euro”).
2.1. Nel caso di specie, tuttavia, questa normativa non viene in rilievo, in primo luogo perche’ non ci si trova di fronte ad un’ipotesi di commercializzazione, bensi’ di impiego dei prodotti (gia’ scaduti) per ulteriore lavorazione che avrebbe “allungato” la data di scadenza (peraltro gia’ formalmente, ed impropriamente, attestata con l’apposizione della nuova etichetta recante termine successivo).
In secondo luogo – ed in ogni caso – il cattivo stato di conservazione e’ stato in sentenza accertato anche in base ad altri elementi ed in particolare in base al fatto che le olive, pur dovendo essere conservate in frigorifero, stavano invece stoccate in un’area esterna allo stabilimento, del tutto inidonea anche sul piano igienico (si pensi che su molti bidoni furono rinvenuti escrementi e deiezioni di volatili), ed erano sottoposte agli inevitabili sbalzi termici, ragionevolmente verificabili, pur trattandosi della regione Puglia, anche il 22 di febbraio.
2.2. Nessun dubbio, pertanto, circa l’inosservanza di prescrizioni dettate specificamente – e comunque ricavabili anche dall’esperienza – a garanzia della buona conservazione dell’alimento.
Secondo un risalente e consolidato orientamento, il cattivo stato di conservazione delle sostanze alimentari considerato dalla disposizione incriminatrice riguarda quelle situazioni in cui le sostanze stesse, pur potendo essere ancora perfettamente genuine e sane, si presentano mal conservate, e cioe’ preparate o confezionate o messe in vendita senza l’osservanza di quelle prescrizioni – di leggi, di regolamenti, di atti amministrativi generali – che sono dettate a garanzia della loro buona conservazione sotto il profilo igienico-sanitario e che mirano a prevenire i pericoli della loro precoce degradazione o contaminazione o alterazione; a tali situazioni si riferisce infatti la previsione normativa di cui alla L. n. 283 del 1962, articolo 5, lettera b) che ha il ruolo di completare, in armonia con le differenti ipotesi previste dallo stesso articolo, il quadro di protezione e tutela delle sostanze alimentari dal momento della produzione a quello della distribuzione sul mercato e, quindi, anche a quello, rilevante, della loro conservazione (Sez. U., n. 1 del 27/09/1995, dep. 1996, Timpanaro, Rv. 203094). Nel confermare questa impostazione in una successiva decisione, le Sezioni unite di questa Corte hanno altresi’ puntualizzato che la norma incriminatrice, “con l’espressione “cattivo stato di conservazione”, fornisce una nozione aperta di facile comprensione che rimanda anche a concetti generalmente condivisi dalla collettivita’, la quale, a parametro del proprio giudizio, prima ancora che atti normativi, pone regole di comune esperienza, usi e prassi, espressione della cultura tradizionale”, cio’ che non contrasta con il principio di tassativita’ che vige in materia penale, dovendo ovviamente ritenersi che, “sussistendo una disciplina promanante da un atto normativo, l’interprete si riferira’ unicamente a quella e che l’operativita’ delle nozioni di esperienza ha un ambito meramente residuale” (Sez. U, n. 443 del 19/12/2001, dep. 2002, Butti e a., in motivazione).
La decisione da ultimo citata, peraltro, riveste particolare importanza per aver chiarito che la contravvenzione prevista dall’articolo 5, lettera b), L. n. 283 del 1962, che vieta l’impiego nella produzione, la vendita, la detenzione per la vendita, la somministrazione, o comunque la distribuzione per il consumo, di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione, non e’ reato di pericolo presunto, ma di danno, in quanto la disposizione citata non mira a prevenire con la repressione di condotte, come la degradazione, la contaminazione o l’alterazione del prodotto in se’, la cui pericolosita’ e’ presunta “iuris et de iure” mutazioni che nelle altre parti del citato articolo 5 sono prese in considerazione come evento dannoso, ma persegue un autonomo fine di benessere, consistente nell’assicurare una protezione immediata all’interesse del consumatore a che il prodotto giunga al consumo con le cure igieniche imposte dalla sua natura, tanto che essa non si inserisce nella previsione di una progressione criminosa che contempla fatti gradualmente piu’ gravi in relazione alle successive lettere della L. n. 283 del 1962, articolo 5, ma si configura, rispetto ad essi, come figura autonoma di reato, che puo’ concorrere, ove ne ricorrano le condizioni (Sez. U, n. 443 del 19/12/2001, dep. 2002, Butti e a., Rv. 220717; Sez. 3, n. 35234 del 28/06/2007, Lepori, Rv. 237518; Sez. 3, n. 40772 del 05/05/2015, Torcetta, Rv. 264990, ove, richiamandosi le argomentazioni svolte nella sentenza Butti, si parla di danno a tutela del c.d. ordine alimentare).
Al di la’, dunque, del non necessario richiamo al concetto di pericolo – pur tuttavia talvolta ritenuto decisivo (cfr., di recente, Sez. 3, n. 348 del 27/11/2018, dep. 2019, Signorelli, Rv. 274566) – il maggioritario orientamento di questa Corte, a cui il Collegio intende aderire, ravvisa la sussistenza della contravvenzione in parola tutte le volte in cui le modalita’ di conservazione delle sostanze alimentari contrastino con previsioni normative, o anche soltanto con le regole dell’esperienza, si’ da pregiudicare l’interesse del consumatore a che l’alimento sia oggettivamente ben mantenuto prima di essere ulteriormente lavorato o utilizzato nella produzione, venduto, preparato o somministrato per il consumo (cfr. Sez. 3, n. 39037 del 10/05/2018, Malcaus, Rv. 273919; Sez. 3, n. 40554 del 26/06/2014, Hu Wei, Rv. 260655; Sez. 3, n. 6108 del 17/01/2014, Maisto, Rv. 258861; Sez. 3, n. 33313 del 28/11/2012, dep. 2013, Maretto, Rv. 257130).
3. Alla declaratoria di inammissibilita’ del ricorso, tenuto conto della sentenza Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’, consegue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., oltre all’onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Si da’ atto che il presente provvedimento e’ sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, articolo 1, comma 1, lettera a).
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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