La sudditanza della moglie al marito “padre-padrone” che compie atti sessuali con la figlia minorenne

Corte di Cassazione, penale, Sentenza 15 ottobre 2020, n. 28675.

La sudditanza della moglie al marito “padre-padrone” che compie atti sessuali con la figlia minorenne non determina il riconoscimento delle attenuanti generiche per la donna, condannata in concorso in violenza sessuale assieme al marito.

Sentenza 15 ottobre 2020, n. 28675

Data udienza 24 settembre 2020

Tag – parola chiave: Reati sessuali – Sudditanza della madre al “padre – padrone” – Atti sessuali con la figlia minorenne – Attenuanti generiche per la genitrice – Diniego

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAMACCI Luca – Presidente

Dott. DI STASI Antonella – rel. Consigliere

Dott. SEMERARO Luca – Consigliere

Dott. MENGONI Enrico – Consigliere

Dott. ZUNICA Fabio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nata a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 03/07/2019 della Corte di appello di Napoli;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Antonella Di Stasi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Filippi Paola, che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilita’ del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 03/07/2019, la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza 13/06/2014 del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con la quale, per quanto rileva in questa sede, (OMISSIS) era stata dichiarata responsabile dei reati di cui agli articoli 40 cpv., 81, 609 bis e 609 ter c.p. (capo b) e 110, 572, 61 n. 1 e 4 c.p. (capo c), in danno della figlia minore (anni sei), e condannata alla pena di anni dodici di reclusione -dichiarava non doversi procedere nei confronti di (OMISSIS) in ordine al reato di cui al capo c) perche’ estinto per prescrizione e rideterminava la pena relativamente al residuo reato di cui al capo b) nella misura di anni sette di reclusione.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione (OMISSIS), a mezzo del difensore di fiducia, articolando due motivi di seguito enunciati.
Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all’affermazione di responsabilita’ per il reato di cui al capo b) dell’imputazione, esponendo che la sentenza era nulla perche’ riportava nel suo corpo solo il reato di cui al capo a), peraltro imputabile ad altro imputato.
Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla commisurazione della pena, al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e della sospensione condizionale della pena.
Lamenta, quanto alla mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche che la Corte territoriale non aveva considerato la situazione di sudditanza psicologica della (OMISSIS) nei confronti del marito, che nell’ambiente familiare si comportava da “padre padrone”, le condizioni sociali in cui la stessa viveva, nonche’ lo stato di incensuratezza; la pena irrogata era sproporzionata ed andava rideterminata nei minimi edittali con concessione del beneficio della sospensione condizionale.
Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso e’ manifestamente infondato.
Costituisce principio consolidato che non e’ affetta da alcuna invalidita’ la sentenza la cui epigrafe non riporta i capi di imputazione, ben potendo l’enunciazione dei fatti e delle circostanze che formano oggetto della contestazione essere contenuta nel corpo del provvedimento, in quanto l’articolo 546 c.p.p., comma 3, sanziona a pena di nullita’ la sola mancanza o incompletezza del dispositivo (Sez.6, n. 43465 del 07/10/2015, Rv.265130 – 01;Sez. 5, n. 2117 del 04/02/1997, Rv.207003 – 01).
Nella specie, l’omessa indicazione, nella sentenza di appello, dei capi di imputazione riferibili alla ricorrente non da’ luogo ad alcuna nullita’ del peovvedimento, essendo i fatti e le circostanze che hanno formato oggetto delle imputazioni contenute nel corpo della sentenza stessa e trattandosi di un evidente refuso.
2. Il secondo motivo di ricorso e’ manifestamente infondato.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, oggetto di un giudizio di fatto, non costituisce un diritto conseguente all’assenza di elementi negativi connotanti la personalita’ del soggetto, ma richiede elementi di segno positivo, dalla cui assenza legittimamente deriva il diniego di concessione delle circostanze in parola; l’obbligo di analitica motivazione in materia di circostanze attenuanti generiche qualifica, infatti, la decisione circa la sussistenza delle condizioni per concederle e non anche la decisione opposta (Sez.1, n. 3529 del 22/09/1993, Rv. 195339; Sez. 2, n. 38383 del 10.7.2009, Squillace ed altro, Rv. 245241; Sez.3,n. 44071 del 25/09/2014, Rv.260610).
E si e’ affermato il principio che, in caso di diniego, soprattutto dopo la specifica modifica dell’articolo 62 bis c.p. operata con il Decreto Legge 23 maggio 2008, n. 2002 convertito con modif. dalla L. 24 luglio 2008, n. 125 che ha sancito essere l’incensuratezza dell’imputato non piu’ idonea da sola a giustificarne la concessione, e’ assolutamente sufficiente che il giudice si limiti a dar conto di avere ritenuto l’assenza di elementi o circostanze positive a tale fine (Sez.3, n. 44071 del 25/09/2014, Rv.260610; Sez. 1,n. 39566 del 16/02/2017, Rv.270986).
Inoltre, secondo giurisprudenza consolidata di questa Corte, il giudice nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non deve necessariamente prendere in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti; e’ sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione, individuando, tra gli elementi di cui all’articolo 133 c.p., quelli di rilevanza decisiva ai fini della connotazione negativa della personalita’ dell’imputato (Sez.3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv.259899; Sez.6, n. 34364 del 16/06/2010, Rv.248244; sez. 2, 11 ottobre 2004, n. 2285, Rv. 230691).
L’obbligo della motivazione non e’ certamente disatteso quando non siano state prese in considerazione tutte le prospettazioni difensive, a condizione pero’ che in una valutazione complessiva il giudice abbia dato la prevalenza a considerazioni di maggior rilievo, disattendendo implicitamente le altre. E la motivazione, fondata sulle sole ragioni preponderanti della decisione non puo’, purche’ congrua e non contraddittoria, essere sindacata in cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato.
Nella specie, la Corte territoriale, con motivazione congrua e logica, ha negato la concessione delle circostanze attenuanti rimarcando la gravita’ dei fatti, per la tenera eta’ della minore e per la grave compromissione dell’equilibrio psichico della stessa; ha, quindi, valutato anche lo stato di sudditanza psicologica per i maltrattamenti subiti dalla ricorrente ad opera del marito, ed ha ritenuto tale circostanza irrilevante, essendo preminente la salvaguardia della salute e della liberta’ sessuale della figlia minore, in tenera eta’ e del tutto indifesa di fronte alle violenze del padre.
La mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e’, pertanto, giustificata da motivazione congrua ed esente da manifesta illogicita’, che, pertanto, e’ insindacabile in cassazione (Sez. 6, n. 42688 del 24/9/2008, Rv. 242419).
3. Consegue, quindi, la declaratoria di inammissibilita’ del ricorso.
4. Essendo il ricorso inammissibile e, in base al disposto dell’articolo 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’ (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalita’ e gli altri dati identificativi, a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52, in quanto imposto dalla legge.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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