La regolarità urbanistico edilizia dell’opera condiziona l’esercizio dell’attività commerciale al suo interno

Consiglio di Stato, Sentenza|21 aprile 2021| n. 3209.

La regolarità urbanistico edilizia dell’opera condiziona l’esercizio dell’attività commerciale al suo interno, con la conseguente inibizione, per l’autorità amministrativa, di assentire l’attività nel caso di non conformità dei locali alla disciplina urbanistico – edilizia. Il criterio di ragionevolezza e il principio costituzionale di buona amministrazione comportano che non sia tollerabile l’esercizio dissociato, ed addirittura contrastante, dei poteri che fanno capo allo stesso ente per la tutela di interessi pubblici distinti, specie quando tra questi interessi sussista un obiettivo collegamento, come è per le materie dell’urbanistica e del commercio. Se nelle materie del commercio e dell’edilizia, poteri diversi sono posti a tutela di interessi di diversa natura e ciascun provvedimento è caratterizzato da una funzione tipica, deve, comunque, ammettersi che la stretta connessione tra tali materia abbia indotto a considerare lo stesso fatto, rappresentato dalla conformità edilizia, quale presupposto per l’esercizio di poteri propri sia della materia urbanistica che di quella del commercio.

Sentenza|21 aprile 2021| n. 3209

Data udienza 25 febbraio 2021

Integrale

Tag – parola chiave: Commercio – Attività di vendita al dettaglio – Titolo annonario – Rilascio dell’autorizzazione commerciale – Presupposti – Individuazione

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quinta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 735 del 2020, proposto da
Ga. Sp. S.a.s. di Ca. El. & C., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Ma. Fo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Sa. Cr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Ca. De Vi. in Roma, via (…);
e con l’intervento di
ad opponendum:
Società Ti. Gi. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Pa. De Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale (…);
per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sezione staccata di Salerno, sezione seconda, n. 00089/2020, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza del giorno 25 febbraio 2021 il Cons. Giuseppina Luciana Barreca e, preso atto delle note di passaggio in decisione, depositate ai sensi dell’art. 25 d.l. n. 137 del 2020, convertito in l. 176 del 2020, e del d.l. 183 del /2020, data la presenza degli avvocati Cr., De Ca. e Fo.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1.Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale amministrativo regionale della Campania – sezione staccata di Salerno ha respinto il ricorso proposto dalla società Ga. Sp. S.a.s. di Ca. El. & C. contro il Comune di (omissis) per l’annullamento dell’ordinanza n. 13 del 14 gennaio 2008, con la quale era stata disposta la chiusura immediata dell’attività di commercio al dettaglio di articoli sportivi presso i locali ubicati in (omissis), viale (omissis).
1.1. Nella fase cautelare del primo grado era stata accolta, con ordinanza n. 121/2008, la richiesta di sospensione del provvedimento impugnato, in ragione della sussistenza di danno grave conseguente alla chiusura dell’attività .
1.2. La sentenza, intervenuta all’esito dell’udienza pubblica del 18 novembre 2019, ha dato atto dei motivi di ricorso e dalla costituzione in giudizio del Comune di (omissis), nonché dell’intervento ad opponendum di Fr. Ma., ed ha, in primo luogo, dichiarato il difetto di legittimazione di quest’ultimo, intervenuto in qualità di “residente, dipendente e contribuente” del Comune di (omissis), nonché di autore dell’esposto che aveva dato luogo agli atti amministrativi impugnati.
1.3. Nel merito, il ricorso è stato ritenuto infondato per le seguenti ragioni.
1.3.1. Quanto al primo motivo, col quale era stato dedotto il cambio di destinazione d’uso dei locali da industriale a commerciale, con concessione edilizia prot. n. 4705 del 23 marzo 1994, previo nulla osta del Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale (ASI) di Salerno prot. n. 597 del 26 febbraio 1994, la sentenza ha osservato che il cambio di destinazione d’uso era stato riferito alla vendita di prodotti “propri” della società istante e che il nulla osta del Consorzio ASI faceva riferimento alla “destinazione di un’area inferiore al 5% dell’intera superficie coperta dell’impianto ad attività di esposizione e commercializzazione dei prodotti di competenza del proprio settore industriale”, laddove la Ga. Sp. s.a.s. aveva “apertamente debordato dai suindicati limiti qualitativi e quantitativi consentiti…”. In particolare, emergeva dal verbale di ispezione e di accertamento della polizia municipale di (omissis) del 17 ottobre 2006 che, a fronte della comunicazione di apertura di un’attività di vendita al dettaglio in regime di vicinato (prot. n. 46765 del 1° ottobre 2004), la vendita era effettuata su una superficie superiore “venendosi così a configurare un’attività di media struttura” non autorizzata; inoltre, il successivo rapporto della polizia municipale prot. n. 14090 del 5 marzo 2007 aveva confermato che l’attività commerciale risultava esercitata in una media struttura di vendita, senza essere in possesso della prescritta autorizzazione, avendo destinato alla vendita una superficie utile pari a mq. 1.291,00, ed aveva inoltre constatato che “All’esito degli accertamenti è risultato che le attività commerciali svolte… ricadono in zona (omissis), destinata ad attività industriali-produttive. La società G. S. s.a.s., in particolare, pur in possesso di concessione prot. n. 4705 del 23 marzo 1994 rilasciata dal Sindaco del Comune di (omissis) per il cambio di destinazione d’uso di porzione dei propri locali da attività industriale ad attività di esposizione e commercializzazione dei propri prodotti, dagli accertamenti esperiti, è emerso che la società suddetta espone e commercializza anche e, soprattutto, prodotti di marchi nazionali e stranieri”.
1.3.2. Quanto al secondo motivo, col quale la ricorrente aveva sostenuto che l’amministrazione comunale, prima di interdire l’attività commerciale esercitata dalla Ga. Sp., ed a fronte dell’affidamento in quest’ultima ingenerato, avrebbe dovuto rimuovere con le forme motivazionali e le garanzie partecipative proprie dell’autotutela l’autorizzazione sindacale prot. n. 1802 del 21 maggio 1991, la sentenza ha rilevato che:
– il titolo abilitativo aveva autorizzato ab origine l’esercizio commerciale insediato presso i locali ubicati in (omissis), alla via (omissis), e successivamente aveva autorizzato il trasferimento da questa sede a quella controversa, ubicata sempre in (omissis), al viale (omissis), nonché assentita giusta concessione edilizia prot. n. 4705 del 23 marzo 1994, sotto l’espressa condizione che “siano verificati dal Comando VV.UU. i mq della superficie di vendita”;
– poiché era stato accertato che l’attività di vendita era difforme dal “paradigma abilitativo”, l’amministrazione comunale era “rimasta, dunque, nella legittima condizione di esperire direttamente – senza l’intermediazione delle forme e le garanzie proprie dell’autotutela invocate da parte ricorrente – i poteri di vigilanza e sanzionatori previsti dall’ordinamento in materia commerciale”;
– l’ordinanza impugnata era stata comunque preceduta dalla comunicazione ex art. 7 della legge n. 241 del 1990;
– peraltro l’inidoneità dell’immobile sotto il profilo urbanistico-edilizio per la non conformità dell’uso commerciale sia alla destinazione urbanistica della zona che alle prescrizioni del titolo edilizio (concessione edilizia prot. n. 4705 del 23 marzo 1994) avrebbe giustificato la “rimozione di qualsivoglia titolo annonario”.
1.3.3. Quanto al terzo motivo, con il quale si era sostenuto che la disciplina applicabile ratione temporis (art. 24 della legge n. 426 del 1971, previgente rispetto all’art. 7 del d.lgs. n. 114 del 1998), non avrebbe postulato alcun nesso di presupposizione tra la conformità urbanistico-edilizia dell’immobile e l’abilitazione commerciale degli esercizi ivi insediati, e, quindi, alcuna interrelazione necessaria tra titolo edilizio e titolo annonario, la sentenza ha osservato che, trattandosi di illecito permanente, era applicabile il regime sanzionatorio frattanto sopravvenuto (art. 22, comma 6, del d.lgs. n. 114 del 1998) e che comunque in senso contrario all’assunto della ricorrente deponevano gli artt. 24 e 39 della legge n. 426 del 1971, così come interpretati dalla giurisprudenza di cui ai precedenti citati in motivazione (Cons. Stato, V, 28 giugno 2000, n. 3639; Cons. Stato, V, 17 ottobre 2002, n. 5656; Cons. Stato, VI, 23 ottobre 2015, n. 4880).
1.3.4. Quanto al motivo col quale si era lamentato il deficit motivazionale del provvedimento impugnato, la sentenza ha ritenuto che “l’ordinanza n. 13 del 14 gennaio 2008 figura […] perspicuamente e congruamente argomentata in base al duplice rilievo che, da un lato, l’attività di vendita al dettaglio insediata presso il suindicato immobile, localizzato in (omissis), viale (omissis), e censito in catasto al foglio (omissis), particella (omissis) risultava incompatibile con la destinazione industriale riservata all’area di ubicazione e che, d’altro lato, la sua configurazione in termini di esercizio di vicinato risultava incompatibile con l’estensione (mq 1.291,00) dei locali ad esso adibiti, corrispondente a quella (mq 250 – 2.500 per i Comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti) propria di una media struttura di vendita, postulante il rilascio di apposita autorizzazione ex art. 8 del d.lgs. n. 114/1998.”.
1.4. Ne è seguito, come detto, il rigetto del ricorso con condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore del Comune di (omissis) e compensazione con l’intervenuto Ma..
2. Avverso la sentenza la società Ga. Sp. S.a.s. di Ca. El. & C. ha avanzato appello con cinque motivi.
2.1. Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio per resistere all’appello.
2.2. E’ intervenuta in appello la società Ti. Gi. s.r.l. per opporsi alle ragioni dell’appellante.
2.3. Con ordinanza cautelare del 21 febbraio 2020, n. 834 è stata accolta l’istanza di sospensione dell’esecutività della sentenza, valorizzando il presupposto del periculum in mora.
2.4. All’udienza del 25 febbraio 2021 la causa è stata assegnata a sentenza, previo deposito di memoria dell’appellante e di repliche del Comune di (omissis) e della società Ti. Gi. s.r.l., nonché di note di richiesta di passaggio in decisione allo stato degli atti di tutte le parti.
3. Preliminarmente va rilevata l’inammissibilità dell’intervento effettuato in appello dalla società Ti. Gi. s.r.l. perché non conforme alle previsioni degli artt. 28, comma 2, e 97 Cod. proc. amm.
Entrambe le disposizioni richiedono a presupposto dell’intervento, sia in primo grado che in appello, la sussistenza di un “interesse” al giudizio. Si tratta di un interesse che, pur potendo essere di fatto, tale cioè da non consentire di agire in giudizio in qualità di parte, deve però essere dipendente o accessorio rispetto a quello azionato in via principale, in modo tale che dall’accoglimento (in caso di intervento ad adiuvandum: Cons. Stato, III, 22 marzo 2017, n. 1303 e Cons. Stato, Ad. plen., 28 gennaio 2015, n. 1) o dal rigetto (in caso di intervento ad opponendum) del ricorso di primo grado possa derivare un vantaggio, indiretto o riflesso, all’intervenuto (cfr. Cons. Stato, V, 8 aprile 2014, n. 1669, nonché, da ultimo, Cons. Stato, V, 12 ottobre 2020, n. 6037).
3.1. La società Ti. Gi., è dichiaratamente intervenuta “quale titolare di beni immobili ricadenti nella medesima zona territoriale omogenea (omissis) industriale”, utilizzati in conformità ai titoli abilitativi indicati in atti “per la produzione ed assemblaggio di macchine per video giochi” ed afferma il proprio interesse a fare venire meno la “disparità di trattamento” che sussisterebbe tra le ditte, che, come l’intervenuta, rispettano le norme tecniche di attuazione che disciplinano le aree (omissis) (esercitando attività produttiva in conformità alla destinazione d’uso industriale) e le ditte, che, come la ricorrente, hanno continuato ad esercitarvi un’attività commerciale in violazione del Piano regolatore consortile.
Si tratta di un interesse di fatto al rispetto del ripristino della legalità che si assume violata, insufficiente a legittimare l’intervento in appello, alla stregua dell’interpretazione degli artt. 28 e 97 Cod. proc. amm., sopra detta.
3.2. La società intervenuta non è titolare di alcuna situazione giuridica dipendente o collegata a quella della ricorrente e non trarrebbe alcun vantaggio, nemmeno indiretto, dalla conservazione del provvedimento di chiusura immediata dell’attività commerciale della Ga. Sp. oggetto di impugnazione, considerato che la Ti. Gi. esercita un’attività di produzione e noleggio di beni in settore merceologico del tutto diverso da quello della società ricorrente (come comprovato anche dalla visura della C.C.I.A.A. prodotta dall’appellante).
3.3. L’atto di intervento è perciò inammissibile.
4. Il primo motivo d’appello, denunciando l’error in iudicando, censura la motivazione della sentenza concernente l’autorizzazione commerciale del 21 maggio 1991, che, ad avviso dell’appellante, sarebbe tuttora valida ed efficace, in quanto mai incisa da alcun provvedimento amministrativo.
4.1. Nell’illustrare la censura si osserva che lo stesso Tribunale amministrativo regionale avrebbe riconosciuto la titolarità e l’efficacia dell’autorizzazione commerciale e che, contrariamente a quanto affermato in sentenza, il provvedimento impugnato non aveva assunto a suo fondamento la violazione della prescrizione del rispetto della superficie di vendita di cui all’autorizzazione; piuttosto, l’unica ragione della chiusura dell’attività commerciale sarebbe stata individuata nel fatto che fosse condotta “in un immobile privo della specifica destinazione d’uso commerciale”.
Inoltre, quanto all’asserita violazione della prescrizione relativa alla superficie, da cui il T.a.r. avrebbe fatto discendere la legittimità dell’ordinanza di chiusura del 14 gennaio 2008, il primo giudice sarebbe incorso in errore perché : si è avvalso di accertamenti espletati due anni prima (il 17 ottobre 2006 e il 5 marzo 2007), le cui risultanze sarebbero state superate alla data del provvedimento impugnato; avrebbe motivato in luogo dell’amministrazione, sostituendosi quindi a quest’ultima; avrebbe perciò pronunciato su un potere amministrativo mai esercitato.
In definitiva, ad avviso dell’appellante, l’esercizio dell’attività su una superficie (asseritamente) superiore a quella autorizzata sarebbe un profilo del tutto estraneo al provvedimento impugnato, che non sarebbe mai stato contestato dall’amministrazione comunale e che, (oltre ad essere venuto meno dopo l’accertamento del 2006) ove riscontrato, avrebbe potuto tutt’al più comportare un ordine di ripristino della superficie assentita, giammai la chiusura tout court ed integrale del punto vendita.
5. Col secondo motivo l’appellante censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto l’esistenza di un’interrelazione tra il titolo edilizio e il titolo annonario, ribadendo che quest’ultimo non è stato mai rimosso e che il Tribunale amministrativo regionale non si sarebbe potuto sostituire al Comune nell’esercizio dei poteri di autotutela.
6. Col terzo motivo l’appellante, nel sostenere che “l’immobile era – ed è – conforme all’assentita attività commerciale”, censura la motivazione di rigetto del motivo di ricorso concernente la concessione edilizia prot. n. 4705 del 23 marzo 1994 sul cambio di destinazione d’uso.
6.1. In particolare, contesta che questo fosse stato assentito nei limiti della vendita dei prodotti “propri”, perché nel richiedere il nulla osta al Consorzio ASI, la società aveva chiesto la “modifica di destinazione d’uso di quota parte dei locali (per) attività di esposizione e commercializzazione dei prodotti di competenza del settore industriale” ed il Consorzio, a sua volta, aveva reso il chiesto nulla-osta atteso che “l’attività di esposizione e commercializzazione dei prodotti di competenza del settore industriale… rientra tar quelle compatibili e coerenti con l’attività a suo tempo programmata ed autorizzata”; di modo che, ad avviso dell’appellante, il nulla osta sarebbe riferito ai prodotti del settore industriale di competenza, non limitato a quelli prodotti in proprio dalla società ; e negli stessi limiti si sarebbe dovuta intendere rilasciata la concessione edilizia.
6.2. Di conseguenza, il riferimento ai “prodotti propri” contenuto nella concessione edilizia non avrebbe il significato ritenuto in sentenza, in quanto la limitazione alla vendita dei prodotti di propria produzione non era presente né nell’autorizzazione commerciale né nel nulla-osta A.S.I.
7. Col quarto motivo l’appellante ripropone la censura fondata sull’asserita irrilevanza della compatibilità urbanistica ed edilizia dei locali ai fini del rilascio dell’autorizzazione commerciale ai sensi della legge n. 426 del 1971, come da giurisprudenza richiamata in ricorso.
8. Col quinto motivo si ribadisce la censura di difetto di motivazione del provvedimento impugnato perché non avrebbe tenuto conto della validità ed efficacia dell’autorizzazione commerciale e delle osservazioni formulate dall’appellante.
9. I motivi, che, in quanto connessi, vanno trattati congiuntamente, non sono fondati.
Va premesso che non è corretto l’assunto da cui la ricorrente prende le mosse, vale a dire che, col provvedimento impugnato, il Comune di (omissis) avrebbe disposto la chiusura immediata dell’attività di commercio al dettaglio soltanto per contrasto con la destinazione industriale del manufatto e dell’area in cui questo ricade e non anche per svolgimento di attività commerciale su una superficie maggiore di quella autorizzata.
Il provvedimento impugnato e la comunicazione di avvio del procedimento vanno infatti interpretati tenendo conto della peculiarità della situazione di fatto, dovuta alla circostanza che il mutamento di destinazione d’uso del manufatto adibito alla vendita è stato assentito (con la concessione edilizia in data 23 marzo 1994, preceduta dal nulla osta del Consorzio ASI), oltre che per una determinata tipologia di prodotti (limite qualitativo), soltanto entro determinati limiti di superficie (limite quantitativo).
9.1. Dato ciò, il primo giudice non ha affatto integrato o sostituito la motivazione dell’ordinanza di chiusura dell’attività di vendita al dettaglio né ha dato per presupposta la permanente efficacia dell’autorizzazione commerciale del 21 maggio 1991, pronunciandosi poi sul potere di revoca in autotutela di tale autorizzazione che l’amministrazione comunale non avrebbe mai esercitato.
Il percorso logico-giuridico della sentenza ha infatti seguito l’ordine di proposizione dei motivi di ricorso, di modo che, per smentire l’assunto della ricorrente secondo cui la destinazione del manufatto era mutata da industriale a commerciale per effetto del nulla-osta ASI prot. n. 597/1994 e della concessione edilizia n. 4705/1994, ha accertato che: il primo aveva assentito il cambio di destinazione d’uso di “un’area inferiore al 5% dell’intera superficie coperta dell’impianto”; la concessione edilizia, rilasciata per la stessa porzione dell’immobile, aveva, a sua volta, limitato il cambio di destinazione d’uso alla vendita “dei propri prodotti”, quindi ad un’attività di vendita accessoria alla produzione; la polizia municipale aveva riscontrato la trasformazione a fini commerciali dell’intera superficie di mq. 1291 e la sua destinazione alla vendita al dettaglio di merce non prodotta in proprio.
9.2. Precisato che l’ordinanza n. 13 del 14.01.2008 espressamente richiama, a proprio fondamento e presupposto, gli accertamenti compiuti dalla Polizia municipale di cui al verbale del 17 ottobre 2006 ed al rapporto del 5 marzo 2007, di modo che non può ritenersi arbitraria la loro utilizzazione in giudizio, la sentenza è altresì corretta:
– nella parte in cui ha ritenuto che il cambio di destinazione d’uso assentito non avesse riguardato l’intero manufatto, ma una superficie inferiore a quella in concreto adibita alla vendita di mq. 1291, nonché soltanto l’attività accessoria a quella di produzione; le censure di cui al terzo motivo di appello sono integralmente smentite dall’inequivoco tenore letterale della concessione edilizia del 23 marzo 1994;
– nella parte in cui ha ritenuto che la mancanza di titolo edilizio condiziona negativamente la (permanente) legittimità del titolo annonario e che tale interrelazione tra titoli edilizi e commerciali era predicabile già nel vigore della legge n. 426 del 1971; le censure di cui al quarto motivo di appello e la giurisprudenza indicata a sostegno (nell’ordine: Cons. Stato, V, 15 marzo 1984, n. 246; Cons. Stato, V, 18 aprile 1980, n. 410) sono superate dall’oramai consolidata diversa giurisprudenza richiamata dal primo giudice (tra cui va annoverato anche il precedente di Cons. Stato, V, 17 ottobre 2002, n. 5656, inopportunamente citato dall’appellante a supporto delle proprie ragioni).
9.2.1. Ed invero la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato è oramai da tempo nel senso che nel rilascio dell’autorizzazione commerciale occorre tenere presenti i presupposti aspetti di conformità urbanistico-edilizia dei locali in cui l’attività commerciale si va a svolgere, con l’ovvia conseguenza che il diniego di esercizio di attività di commercio deve ritenersi senz’altro legittimo ove fondato su rappresentate e accertate ragioni di abusività dei locali nei quali l’attività commerciale viene svolta (cfr. Cons. Stato, IV, 14 ottobre 2011 n. 5537 e id., V, 8 maggio 2012, n. 5590). Il legittimo esercizio dell’attività commerciale è pertanto ancorato alla iniziale e perdurante regolarità sotto il profilo urbanistico-edilizio dei locali in cui essa viene posta in essere, con conseguente potere-dovere dell’autorità amministrativa di inibire l’attività commerciale esercitata in locali rispetto ai quali siano stati adottati provvedimenti repressivi che accertano l’abusività delle opere realizzate ed applicano sanzioni che precludono in modo assoluto la prosecuzione di un’attività commerciale (cfr. Cons. Stato, VI, 23 ottobre 2015, n. 4880).
L’affermazione che la regolarità urbanistico edilizia dell’opera condiziona l’esercizio dell’attività commerciale al suo interno, con la conseguente inibizione, per l’autorità amministrativa, di assentire l’attività nel caso di non conformità della stessa alla disciplina urbanistico – edilizia è stata riferita anche alla disciplina del commercio di cui alla legge n. 426 del 1971 (Cons. Stato, V, 17 ottobre 2002, n. 5656 e 28 giugno 2000, n. 3639). Si è quindi assistito al consapevole e definitivo superamento del precedente indirizzo giurisprudenziale che affermava l’illegittimità del diniego di autorizzazione commerciale (o di ampliamento o di trasferimento dell’esercizio) per ragioni di ordine urbanistico, sul presupposto che l’interesse pubblico nella materia del commercio fosse di diversa natura ed implicasse perciò criteri valutativi differenti (cfr. Cons. Stato, V, 21 aprile 1997, n. 380 e le altre citate dall’appellante). Come osservato di recente “il revirement giurisprudenziale si fonda su un criterio di ragionevolezza e sul principio costituzionale di buona amministrazione per cui non è tollerabile l’esercizio dissociato, addirittura contrastante, dei poteri che fanno capo allo stesso ente per la tutela di interessi pubblici distinti, specie quando tra questi interessi sussista un obiettivo collegamento, come è per le materie dell’urbanistica e del commercio” (cfr. Cons. Stato, V, 29 maggio 2018, n. 3212).
9.3. Di qui il legittimo esercizio, da parte del Comune di (omissis), del potere sanzionatorio previsto dall’art. 22, comma 6, della legge n. 114 del 1998, stante l’abusività dell’attività di vendita esercitata dalla società appellante in locali privi dell’adeguata destinazione d’uso ed in zona (omissis), destinata ad attività industriali-produttive. La disposizione prevede, infatti, la misura sanzionatoria della chiusura dell’attività di vendita ogniqualvolta questa sia abusiva, cioè svolta in totale assenza di titolo autorizzatorio ovvero in difformità dalle prescrizioni urbanistico-edilizie della zona dell’immobile in cui è esercitata.
9.4. Alla luce della qualificazione sanzionatoria del provvedimento di chiusura immediata dell’attività di cui all’ordinanza n. 14/2008, risultano infondati anche i motivi primo e secondo, nonché quinto, del presente appello, nella parte in cui si basano sull’asserita persistente validità ed efficacia, quindi sul mancato esercizio del potere di annullamento o di revoca in autotutela, dell’autorizzazione commerciale del 21 maggio 1991, n. 1802 (nonché dell’autorizzazione al trasferimento di sede del 1994, riportata in appendice).
9.4.1. La sentenza di primo grado è corretta laddove – sulla base dell’accertamento in fatto compiuto come sopra, in riferimento alla destinazione all’attività commerciale di una superficie di vendita di mq. 1291 in locali non aventi destinazione commerciale né per tale superficie né per la vendita di prodotti non fabbricati dalla società – ha affermato, per un verso, che l’attività era difforme dal titolo abilitativo, essendo questo riferito ad un esercizio di vicinato; per altro verso, che i poteri di vigilanza e sanzionatori previsti dall’ordinamento in materia commerciale (id est quelli di cui all’art. 22 del d.lgs. n. 114 del 1998) sono esercitabili senza necessità della previa rimozione dell’autorizzazione commerciale.
Non sussiste perciò la denunciata violazione dell’art. 34, comma 2, Cod. proc. amm., né questa è riscontrabile nella considerazione conclusiva (di cui alla pag. 10 della sentenza) che la difformità dalla destinazione urbanistica della zona e dalle prescrizioni del titolo edilizio comportavano la sussistenza in re ipsa di “ragioni di interesse pubblico giustificative delle rimozione di qualsivoglia titolo annonario emesso in relazione ad un immobile inidoneo sotto il profilo urbanistico-edilizio”: all’evidenza di tratta di motivazione ad abundantiam, priva di effettiva portata decisoria.
4.2.2. In definitiva la legittimità del provvedimento impugnato si fonda sulla constatazione che, pur essendo la Ga. Sp. in possesso di un’autorizzazione commerciale, e pur potendo questa essere rimossa perché l’attività risultava esercitata in violazione della normativa urbanistico-edilizia, tale rimozione non costituiva presupposto necessario per la chiusura immediata dell’attività di vendita.
D’altronde, come pure bene evidenziato in sentenza, l’autorizzazione era comunque riferita ad un’attività di vendita al dettaglio in un esercizio di vicinato e questa era incompatibile con l’estensione dei locali di fatto adibiti alla vendita (mq. 1291), corrispondente a quella di una media struttura di vendita, senza che, nel procedimento amministrativo o nel processo, la società ricorrente abbia dimostrato di esercitare la vendita nel limite del 5% dell’intera superficie coperta dell’impianto di cui al nulla-osta dell’ASI ed alla correlata concessione edilizia per il cambio di destinazione d’uso di una porzione dei propri locali (essendosi limitata ad affermare genericamente il rispetto dell’originaria autorizzazione sia con le osservazioni procedimentali di cui alla nota dell’11 gennaio 2007 sia con altrettanto generiche affermazioni contenute negli scritti difensivi del processo).
Giova aggiungere che, tenuto conto della superficie in concreto adibita alla vendita, a maggior ragione l’ordine di chiusura immediata dell’attività non avrebbe potuto essere preceduto dalla revoca di un’autorizzazione commerciale, poiché questa non era stata mai richiesta e rilasciata per l’apertura di una media struttura di vendita; ciò, che comportava l’applicabilità dell’art. 39 della legge n. 426 del 1971 (che prescriveva la chiusura dell’attività, tra l’altro, nel caso in cui il titolare non fosse in possesso dell’autorizzazione prescritta per legge), nonché, dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 114 del 1998, quella del già richiamato art. 22, comma 6, della riformata disciplina del settore del commercio.
10. In conclusione, l’appello va respinto.
10.1. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo in favore del Comune di (omissis).
Sussistono giusti motivi di compensazione delle spese processuali tra l’appellante, soccombente, e la società Ti. Gi. s.r.l., carente di legittimazione ad intervenire ad opponendum.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento delle spese processuali in favore del Comune di (omissis), che liquida nell’importo complessivo di Euro 3.000,00, oltre accessori come per legge. Compensa le spese tra la società appellante e la società intervenuta.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso nella camera di consiglio del giorno 25 febbraio 2021, tenuta ai sensi dell’art. 25 del d.l. n. 137 del 2020, convertito dalla legge n. 176 del 2020, come modificato dal d.l. n. 183 del 2020, convertito dalla legge n. 21 del 2021, con l’intervento dei magistrati:
Luciano Barra Caracciolo – Presidente
Fabio Franconiero – Consigliere
Raffaele Prosperi – Consigliere
Valerio Perotti – Consigliere
Giuseppina Luciana Barreca – Consigliere, Estensore

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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