La prova presuntiva legale

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|2 ottobre 2024| n. 25913.

La prova presuntiva legale

La massima: In tema di prova presuntiva, il giudice è tenuto, ai sensi dell’articolo 2729 cod. civ., ad ammettere solo presunzioni “gravi, precise e concordanti”, laddove il requisito della “precisione” è riferito al fatto noto, che deve essere determinato nella realtà storica, quello della “gravità” al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto desumibile da quello noto, mentre quello della “concordanza”, richiamato solo in caso di pluralità di elementi presuntivi, richiede che il fatto ignoto sia – di regola – desunto da una pluralità di indizi gravi, precisi e univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza, e ad articolare il procedimento logico nei due momenti della previa analisi di tutti gli elementi indiziari, onde scartare quelli irrilevanti, e nella successiva valutazione complessiva di quelli così isolati, onde verificare se siano concordanti e se la loro combinazione consenta una valida prova presuntiva (c.d. convergenza del molteplice), non raggiungibile, invece, attraverso un’analisi atomistica degli stessi. Ne consegue che la denuncia, in cassazione, di violazione o falsa applicazione del citato articolo 2729 cod. civ., ai sensi dell’articolo 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., può prospettarsi quando il giudice di merito affermi che il ragionamento presuntivo può basarsi su presunzioni non gravi, precise e concordanti ovvero fondi la presunzione su un fatto storico privo di gravità o precisione o concordanza ai fini dell’inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota e non anche quando la critica si concreti nella diversa ricostruzione delle circostanze fattuali o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica diversa da quella ritenuta applicata dal giudice di merito o senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma (Nel caso di specie, relativo ad un giudizio definito in sede di gravame con la declaratoria di nullità di un contratto di “sale and lease back” per illiceità della causa affermata per violazione del divieto di patto commissorio ed accertata sulla base di una articolata serie di indici sintomatici, la Suprema Corte, prestando adesione anche all’enunciato principio, ha rigettato il ricorso, ritenendo che, nella circostanza, parte ricorrente mirasse, in realtà, ad accreditare una diversa inferenza probatoria degli “indizi” esaminati, attraverso una “decriptazione” degli stessi alternativa a quella fatta propria dal giudice di merito, funzionale a depotenziarne l’efficacia rappresentativa del sottostante patto, onde ricondurli nel quadro tipico del predetto “sale and lease back”). (Riferimenti giurisprudenziali: Cassazione, sezione civile II, ordinanza 21 marzo 2022, n. 9054).

 

Ordinanza|2 ottobre 2024| n. 25913. La prova presuntiva legale

Data udienza 29 aprile 2024

Integrale

Tag/parola chiave: Procedimento civile – Prova civile – Presunzioni – Semplici – Doveri del giudice di merito – Nozione di gravità, precisione e concordanza – Articolazione del ragionamento decisorio in due fasi – Selezione elementi indizianti ed analisi complessiva di quelli individuati – Accertamento finale sulla c.d. convergenza del molteplice – Ricorso in cassazione per violazione o falsa applicazione di legge – Questioni rilevabili – Fattispecie in tema di “sale and lease back”. (Cc, articolo 2727 e 2729; Cpc, articolo 360)

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dai Sig.ri Magistrati:

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Presidente

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere

Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – Consigliere

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere

Dott. LA BATTAGLIA Luigi – Consigliere rel.

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1404/2021 R.G. proposto da:

BP.BA. Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore e FI.RE. Spa, quale procuratrice speciale di RE.GE. Spa per atto del notaio Fe. del 18/07/2019, in persona legale rappresentante pro tempore; entrambe elettivamente domiciliate in Roma, via Tibullo n. 10, presso lo studio dell’avv. Ag.Ca., rappresentate e difese dall’Avv. GI.SO. (C.F. Omissis) per procura speciale allegata al ricorso per cassazione;

– ricorrenti –

contro

Mo.Fr., elettivamente domiciliato in Roma, presso la cancelleria della Corte di cassazione; rappresentato e difeso dall’Avv. MI.MA. (C.F. Omissis), che lo rappresenta e difende per procura speciale rilasciata in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro n. 623/2020, depositata il 05/06/2020.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29/04/2024 dal dott. LUIGI LA BATTAGLIA.

La prova presuntiva legale

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Mo.Fr. vendette alla Co.E. Spa leasing e factoring, per un corrispettivo complessivo di Euro 600.000,00, due immobili di sua proprietà, affinché gli fossero successivamente “retrocessi” in leasing, nell’ambito di un’operazione negoziale di sale and lease back che prevedeva il versamento del corrispettivo di Euro 420.000,00 per un immobile e di Euro 180.000,00 per l’altro, suddivisi in 179 canoni mensili. A fronte della morosità del Mo.Fr., la società finanziaria agì in giudizio dinanzi al Tribunale di Castrovillari, domandando l’accertamento dell’intervenuta risoluzione dei contratti di leasing e la condanna al pagamento di tutte le somme dovute (Euro 71.833,41 per canoni insoluti più Euro 553.033,38 per indennità di risoluzione) e alla restituzione degli immobili.

Il Tribunale di Castrovillari accolse la domanda, rigettando quella riconvenzionale dell’utilizzatore per il pagamento dei miglioramenti e delle addizioni, in applicazione della clausola contrattuale che prevedeva che restassero acquisiti al concedente.

La Corte d’Appello di Catanzaro riformò la sentenza di primo grado, dichiarando la nullità del contratto di sale and lease back per illiceità della causa (conseguente alla violazione del divieto di patto commissorio), sulla base di alcuni indici sintomatici, quali la condizione di difficoltà finanziaria dell’utilizzatore (irrilevante essendo che non si manifestasse in una pregressa esposizione debitoria nei confronti della concedente, ma nei confronti di altri istituti bancari); l’assenza di qualsivoglia meccanismo di adeguamento del prezzo al termine del rapporto; la previsione della non rimborsabilità del controvalore di addizioni e miglioramenti (nel caso di specie ammontanti a Euro 170.000,00); la possibilità per il concedente (prevista dalla clausola n. 20) di risolvere i contratti anche in ragione del mero coinvolgimento dell’utilizzatore in azioni giudiziarie, laddove dette azioni potessero “rivelarsi pregiudizievoli per la continuazione del rapporto”; la previsione di ulteriori oneri per l’utilizzatore, quali la manutenzione ordinaria e straordinaria, il pagamento dei premi assicurativi contro i rischi di danneggiamento, il persistente obbligo di pagamento dei canoni anche nel caso di impossibilità di utilizzo degli immobili. Quanto alle conseguenze economiche della risoluzione, le pattuizioni contrattuali prevedevano che l’utilizzatore, oltre che alla restituzione del bene, fosse tenuto a corrispondere “tutto quanto dovuto per canoni scaduti e non pagati, interessi convenzionali di mora, commissioni, spese…, nonché, a titolo di indennità di risoluzione, i restanti canoni a scadere attualizzati al tasso individuato come Euribor 3 mesi tasso 365…, salva la prova del maggior danno e dedotto l’eventuale ricavato dalla vendita del bene (al netto dell’Iva) o quanto ricevuto a titolo di rimborso assicurativo”. La generica previsione, nella clausola in discorso, del diffalco dell’eventuale ricavato della vendita, non poteva valere, tuttavia, secondo la Corte d’Appello, a neutralizzare lo squilibrio contrattuale tra le parti, “sia perché la vendita del bene è indicata nel contratto quale ipotesi meramente “eventuale” ed anch’essa rimessa, in sostanza, alla discrezionalità della concedente, sia perché non sono stati previsti i criteri di scelta del contraente, i termini, le modalità e i parametri di determinazione del prezzo in base ai quali la concedente avrebbe potuto procedere alla vendita degli immobili” (pag. 16 della sentenza impugnata).

La prova presuntiva legale

Hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, la BP.BA. Spa (quale società incorporante la Nu.Ca., a sua volta incorporante la Co.E. Spa – Le.E. Spa) e la FI.RE. Spa, quale procuratrice speciale della RE.Ge. Spa (cessionaria dei crediti della Ca.Di.). Ha depositato controricorso (nonché memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c.) il Mo.Fr.

MOTIVI DELLA DECISIONE

2. Con il primo motivo, le ricorrenti deducono la violazione degli artt. 2727, 2729, 1321, 1322, 1325, 1343, 1345 e 1362 ss. c.c., per avere erroneamente valorizzato, ai fini dell’accertamento della nullità dei contratti in questione, fatti espressivi della “ordinaria struttura causale di qualsivoglia finanziamento e, più in particolare, del lease back” (pag. 13 del ricorso), come tali inidonei, sul piano della prova presuntiva, a fondare la prova della violazione del divieto del patto commissorio (la quale postula, invece, che emerga la preesistenza di una situazione debitoria; la sproporzione tra il valore del bene e il prezzo d’acquisto; una condizione di difficoltà economica del venditore-utilizzatore). Il motivo è infondato.

In linea generale, occorre premettere che, alla stregua della più recente giurisprudenza di questa Sezione, “in tema di sale and lease back, contratto socialmente tipico, ai fini della violazione del divieto di patto commissorio non è necessaria la congiunta ricorrenza dei tre indici sintomatici, quali l’esistenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria e l’impresa venditrice utilizzatrice, le difficoltà economiche di quest’ultima e la sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall’acquirente, in quanto assume rilevo fondamentale che la complessiva operazione negoziale sia finalizzata a realizzare una causa concreta di garanzia, in luogo dell’effettivo trasferimento dei beni, il cui accertamento è rimesso al giudice di merito, anche sulla base di altri idonei indici rivelatori” (Cass., n. 16367/2023; si veda anche Cass., n. 34899/2023). Nel caso di specie, i giudici di secondo grado, dopo aver osservato che il finanziamento era stato impiegato dal Mo.Fr. in buona parte per il ripianamento di pregresse passività, e solo per l’importo di Euro 169.000,00 per la realizzazione di un capannone sul terreno ricevuto in leasing, hanno compiutamente evidenziato le circostanze di fatto dalle quali era possibile trarre l’evidenza probatoria dello scopo di garanzia sotteso al contratto (con conseguente nullità dello stesso per violazione del divieto di cui all’art. 2744 c.c.), concludendo nel senso che l’insieme delle clausole contrattuali induceva “a ritenere che la vendita (avesse) avuto luogo all’unico scopo di rafforzare le garanzie del creditore mediante l’acquisizione dei cespiti immobiliari ad un prezzo nominale di Euro 600.000 (versato (d)al concedente per l’importo di Euro 492.000…) che, dopo quattro anni dall’inizio delle locazioni finanziarie (stipulate nel dicembre del 2007), ha consentito alla Co.E. di acquisire, oltre alla proprietà di tutti gli immobili, alle consistenti addizioni e migliorie apportate dall’utilizzatore per circa 170mila Euro e nonostante il pagamento di Euro 300.000 a titolo di canoni di locazione finanziaria, l’ulteriore credito di Euro 624.866,70 alla data di risoluzione dei contratti fatta valere con la missiva del 24.1.2012” (pag. 15 della sentenza impugnata). A fronte di una motivazione puntuale e intrinsecamente coerente, le censure delle ricorrenti, lungi dal mettere in luce la violazione di qualsivoglia specifico criterio legale ermeneutico del contratto, finiscono, quindi, per contrapporre la propria diversa interpretazione della regolamentazione pattizia intercorsa tra le parti, in tal modo invocando un’inammissibile riedizione nel merito, da parte della Corte Suprema di Cassazione, del procedimento interpretativo suddetto (si veda Cass., n. 32505/2023, alla cui stregua “il ricorrente per cassazione non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, in quanto, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione del giudice di merito, a cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione”).

La prova presuntiva legale

Anche dall’angolo visuale degli artt. 2727 e 2729 c.c., non può trascurarsi di rilevare che “la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c. e dell’idoneità degli elementi presuntivi dotati di tali caratteri a dimostrare, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, i fatti ignoti da provare, costituisce attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito” (Cass., n. 27266/2023). Invero, “in tema di prova presuntiva, il giudice è tenuto, ai sensi dell’art. 2729 c.c., ad ammettere solo presunzioni “gravi, precise e concordanti”, laddove il requisito della “precisione” è riferito al fatto noto, che deve essere determinato nella realtà storica, quello della “gravità” al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto desumibile da quello noto, mentre quello della “concordanza” richiede che il fatto ignoto sia – di regola -desunto da una pluralità di indizi gravi, precisi e univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza, e ad articolare il procedimento logico nei due momenti della previa analisi di tutti gli elementi indiziari, onde scartare quelli irrilevanti, e nella successiva valutazione complessiva di quelli così isolati, onde verificare se siano concordanti e se la loro combinazione consenta una valida prova presuntiva (c.d. convergenza del molteplice), non raggiungibile, invece, attraverso un’analisi atomistica degli stessi. Ne consegue che la denuncia, in cassazione, di violazione o falsa applicazione del citato art. 2729 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., può prospettarsi quando il giudice di merito affermi che il ragionamento presuntivo può basarsi su presunzioni non gravi, precise e concordanti ovvero fondi la presunzione su un fatto storico privo di gravità o precisione o concordanza ai fini dell’inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota e non anche quando la critica si concreti nella diversa ricostruzione delle circostanze fattuali o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica diversa da quella ritenuta applicata dal giudice di merito o senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma” (Cass., n. 9054/2022, cui può aggiungersi il richiamo di Cass., n. 18611/2021, secondo cui la critica veicolata dal motivo di ricorso per cassazione di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c. “deve concentrarsi sull’insussistenza dei requisiti della presunzione nel ragionamento condotto nella sentenza impugnata, mentre non può svolgere argomentazioni dirette ad infirmarne la plausibilità (criticando la ricostruzione del fatto ed evocando magari altri fatti che non risultino dalla motivazione), vizio valutabile, ove del caso, nei limiti di ammissibilità di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c.”).

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Nel caso di specie, la ricorrente mira, in realtà, ad accreditare una diversa inferenza probatoria degli “indizi” esaminati, attraverso una “decriptazione” degli stessi (per usare l’espressione utilizzata dalle ricorrenti a pag. 15 del ricorso) alternativa a quella fatta propria dal giudice di merito, funzionale a depotenziarne l’efficacia rappresentativa di un sottostante patto commissorio, onde ricondurli nel quadro tipico del sale and lease back.

3. Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente denunzia la violazione dell’art. 2744 c.c. in relazione all’art. 360 n. 5, per non avere il giudice di merito rilevato l’inesistenza di una pregressa situazione di debito/credito tra le parti nonché della sproporzione tra prezzo di vendita e valore di mercato dei beni (con conseguente apodittica “presunzione” di una condizione di “debolezza” del venditore-utilizzatore).

Il motivo è inammissibile, dal momento che – in disparte quanto già evidenziato a proposito della non necessità della concorrenza dei tre indici sintomatici individuati dalla giurisprudenza per l’integrazione di un patto commissorio vietato – il fatto storico dell’assenza di un rapporto debitorio con la società acquirente/concedente è stato considerato dal giudice di merito, il quale però non l’ha ritenuto decisivo ai fini di escludere la sussistenza dei presupposti della nullità, ritenendo sufficiente, allo scopo, una condizione di difficoltà finanziaria del venditore/utilizzatore, conoscibile dalla controparte (pag. 13 della sentenza impugnata).

4. Con il terzo motivo, la ricorrente censura la nullità della sentenza per irriducibile contraddittorietà della motivazione (violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c.).

La prova presuntiva legale

Il motivo è infondato.

Premesso che, “in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., disposta dall’art. 54 del D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. in L. n. 134 del 2012, è denunciabile in cassazione l’anomalia motivazionale che si concretizza nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, quale ipotesi che non rende percepibile l’iter logico seguito per la formazione del convincimento e, di conseguenza, non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice” (Cass., n. 12096/2018), è evidente come un tale tipo di “vizio” non si configuri nella sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro, la quale, per quanto sopra esposto, si caratterizza per la compiuta illustrazione degli elementi di fatto posti a sostegno della decisione, che rende perfettamente intelligibile il ragionamento seguito.

5. Con il quarto motivo, la ricorrente denunzia la violazione degli artt. 2744, 1321, 1322, 1325, 1343, 1345 e, 1362 ss. c.c., per avere il giudice di merito erroneamente ritenuto indice di debolezza economica del venditore-utilizzatore l’indebitamento con altre banche (senza esaminarne i bilanci), nonché contraria allo schema tipico del sale and lease back la destinazione di parte del ricavato al ripianamento dei suddetti debiti.

Anche per questo motivo valgono le considerazioni svolte con riferimento ai primi due, che inducono a dichiararlo inammissibile in quanto preordinato a censurare un asserito difetto di motivazione o l’apprezzamento globalmente svolto delle clausole contrattuali, sì da impingere nel giudizio di fatto riservato al giudice di merito.

6. All’inammissibilità e infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.

7. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo in favore del controricorrente Mo.Fr., seguono la soccombenza.

La prova presuntiva legale

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna le ricorrenti al pagamento, in solido, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 10.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e accessori di legge, in favore del controricorrente Mo.Fr.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115/2002, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti del contributo unificato relativo al ricorso stesso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza sezione civile del 29 aprile 2024.

Depositata in Cancelleria il 2 ottobre 2024.

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