Cassazione 12

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 27 aprile 2016, n. 17206

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza emessa in data 7.11.2014 la Corte d’Appello di Perugia, in parziale riforma della sentenza emessa in data.28-5-2013 dal G.u.p. del locale Tribunale nei confronti di S.D. e S.G. , dichiarava la nullità della sentenza impugnata, relativamente alla condanna per il capo b), essendo ravvisabile il fatto diverso della truffa maturata attraverso l’esibizione del falso testamento e il successivo prelievo del saldo dal conto corrente, per la quale ordinava restituirsi gli atti al P.M.; ripristinata quanto al capo a) l’originaria qualificazione del fatto, riduceva, con le concesse attenuanti generiche equivalenti, la pena agli appellanti per i residui reati, unificati ex art. 81 c.p., a mesi otto di reclusione ciascuno, confermando nel resto la prima sentenza, comprese le statuizioni civili.
1.1. Gli imputati, in particolare, sono stati ritenuti responsabili del delitto al capo a), di cui agli artt. 110, 485, 491, 61 n. 2 e 7 c.p., perché, in concorso tra loro, al fine di procurarsi un ingiusto profitto e di commettere il reato di cui sub b), formavano falsamente un testamento olografo a firma di S.A. , datato 19.10.2007 che facevano registrare dal dott. B.F. – notaio in Perugia – con atto rogito n. 19367 del 16.10.2008; del delitto al capo c), di cui agli artt. 110, 61 n. 2, 483 c.p., perché, in concorso tra loro, al fine di commettere il reato di cui sub b), attestavano falsamente nella dichiarazione di successione “albero genealogico” che gli eredi di S.A. erano S.D. e S.G. , mentre in realtà, erano e sono S.P. , S.V. e S.R. ; del delitto al capo d), di cui agli artt. 110, 614 c.p., in relazione agli artt. 392 e 610 c.p., perché, in concorso tra loro, si introducevano all’interno dell’abitazione di S.A. , sita in (omissis) , contro la volontà della proprietaria e dei legittimi eredi, con violenza sulle cose – rimuovendo forzatamente la vecchia serratura e con violenza privata installavano una nuova serratura che impediva ai legittimi eredi di entrare.
1.2. I fatti venivano ricostruiti dai giudici di merito, nel senso che S.R. e S.V. inoltravano dichiarazione – querela datata 7.2.2009, deducendo che nell’abitazione sita in (…), appartenente alla zia S.A. , deceduta, taluno aveva cambiato la serratura ed evidenziavano che fino al 26.1.2009, erano potuti accedere con le chiavi della casa in loro possesso, ma il 6.2.2009 ciò non era stato possibile, poiché, come appreso da vicini di casa, si era presentato un giovane trentenne, qualificatosi come nipote della defunta, il quale aveva fatto sostituire la serratura; inoltre, i predetti S.V. e S.R. inoltravano altra dichiarazione – querela in data 27.6.2009, rappresentando di aver rilevato che il conto corrente acceso a favore della de cuius presso banca Unicredit di (…) era stato svuotato e solo dopo molte insistenze e con molte difficoltà erano venuti a sapere dalla direttrice della banca che, a seguito della presentazione di testamento olografo pubblicato dal notaio B. , le persone che ne erano portatrici quali eredi avevano ritirato dalla banca l’intera somma; nel visionare il suddetto testamento, S.R. rilevava che lo stesso era stato redatto il giorno precedente al decesso della zia, con calligrafia diversa da quella di quest’ultima, che, per le condizioni di salute che la impossibilitavano a fare qualsiasi cosa, non poteva averlo certo redatto lasciando a tali “D. e G. ” i suoi beni. Si appurava, quindi, che era stato pubblicato il testamento olografo, nonché presentata all’Agenzia delle Entrate la relativa dichiarazione di successione e dal conto corrente Unicredit, con saldo attivo di Euro 39.674,30 era stato effettuato un prelievo, a mezzo di bonifico per 40.000,00 a favore dei due imputati e di G.G. (loro madre). Inoltre, a seguito della acquisizione della documentazione medica relativa alla defunta, emergeva che le condizioni di salute della stessa erano molto critiche (cfr. C.T. delle parti civili), tali da rendere impossibile per la stessa scrivere, ed a seguito dell’espletamento di più accertamenti tecnici grafologici, disposti anche dal P.M. di (…), risultava, altresì, che il testamento olografo non risultava scritto con grafia riconducibile defunta. Gli imputati in sede di interrogatorio dichiaravano che la copia del testamento era pervenuta a casa della madre di S.D. a mezzo di lettera, che non erano in grado di ricostruire il loro genealogico, che ignoravano eventuali rapporti di parentela, che il notaio li aveva consigliati di pubblicare il testamento con accettazione dell’eredità con beneficio di inventario, che erano entrati nella casa della defunta, ove avevano trovato dei documenti attestanti i pessimi rapporti tra la de cuius e i nipoti V. e R. e che avevano saputo anche dai vicini di casa che lei aveva lasciato tutto al nipote avvocato, attività svolta da S.G. , agendo, comunque, in buona fede. Veniva escusso tra gli altri S.V. , il quale confermava che lui, R. e P. erano gli unici eredi della defunta, le cui pessime condizioni non le permettevano di fare alcunché e che non sapeva della esistenza di altri parenti aventi il nome degli imputati.
2. Avverso tale sentenza gli imputati, a mezzo del loro difensore di fiducia, hanno proposto ricorso, affidato a sei motivi, con i quali lamentano:
– con il primo motivo, la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606, primo comma, lett. b) ed e) c.p.p., per violazione ed erronea applicazione degli artt. 485 c.p., 192 e 533 c.p.p., in quanto i Giudici d’appello non hanno correttamente valutato il cumulo indiziario acquisito al processo, dal quale non emergono elementi idei a ritenere sussistente l’ipotesi criminosa contestata; a mancare è, in particolare, l’elemento soggettivo, ossia la necessaria sussistenza della (piena) rappresentazione e volontà, da parte degli imputati, di aver realizzato il documento falsificato e conseguentemente di averne fatto uso, unitamente al contestuale perseguimento della finalità di trarre profitto dalla falsificazione; le risultanze dell’istruttoria, come considerate ed enumerate dal giudice dell’appello, non consentono di affermare che i due imputati abbiano concorso nella formazione del testamento olografo a firma S.A. , atteso che, quanto alla mancata produzione in giudizio della busta contenente il testamento attastante la ricezione dello stesso a mezzo del servizio postale, tale circostanza non costituisce indizio a carico dei ricorrenti, ben potendo dipendere tale circostanza dalla prassi fattuale e, secondo l’ordinaria esperienza umana, da una molteplicità di ulteriori, alternativi accadimenti; in ogni caso, l’argomento indiziario attinente l’inesistenza della busta contenente il libello oggetto di processo è espressamente smentito dalla (piena) prova rappresentata dalla testimonianza della convivente di S.G. , Ba.Cl. , che ha dichiarato di avere visto, sia il plico, che il documento che in esso era contenuto, quantunque la stessa sia stata ritenuta non credibile; invece, sia gli imputati che la teste Ba. , hanno, sia implicitamente che esplicitamente, motivato il fatto della mancata conservazione della busta della lettera che pervenne all’indirizzo della loro madre con lo scarso rilievo che gli stessi inizialmente diedero a tale comunicazione abbandonata per alcuni mesi tra le missive inevase, ritenendola frutto di uno scherzo o di un equivoco, sicché inconsistenti, in proposito, si presentano gli argomenti secondo i quali la professione svolta dagli imputati (avvocato e commercialista) avrebbe dovuto consigliare loro la conservazione della busta; inoltre, privi di rilevanza ai fini della sussistenza del dolo di falso si presentano gli elementi, invece, valorizzati dai giudici di merito, quali la vaghezza del tenore letterale del testamento, in stridente contrasto con la più analitica disposizione, con cui si puntualizzava che la de cuius revocava gli eventuali precedenti testamenti; gli elementi che sono stati individuati dai giudici di merito, come attestanti la mancanza di buona fede degli imputati in ordine alla genuinità del documento, tra cui il fatto che gli stessi non risulterebbero essersi attivati efficacemente per avere notizie circa la persona della sconosciuta testatrice, non appaiono significativi;
– con il secondo motivo, relativamente al capo b), la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606, primo comma, lett. b) c.p.p., per violazione dell’art. 129 c.p.p., atteso che i giudici d’appello, una volta ritenuta la configurabilità di una truffa semplice, senza indicazione da parte del PM del danno e del danneggiato, piuttosto che decidere per la nullità del capo di imputazione, con remissione degli atti, avrebbe dovuto mandare assolti gli imputati ex art. 129/2 c.p.p. per insussistenza del fatto; in ogni caso, risulta violato il primo comma della norma citata ed i giudici d’appello hanno omesso di dichiarare improcedibile il reato in ragione dell’evidente tardività della querela sporta da S.V. e S.R.;
– con il terzo motivo, relativamente al capo C), la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606 lett. e), per violazione ed erronea applicazione dell’art. 483, attesa la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata con cui il giudice di secondo grado ha ritenuto l’avvenuta la consumazione del reato di falso ex art. 483 c.p., assumendo, in primis, che la dichiarazione di successione fosse da considerare alla stregua di un atto pubblico ed, in secundis, che gli imputati firmatari avevano scientemente dichiarato il falso; invero, relativamente all’elemento oggettivo, il reato in questione richiede che la condotta di falsa attestazione riguardi un “atto pubblico”, nel senso specificamente assunto dall’art. 2699 c.c. cui la norma penale implicitamente rinvia, laddove la dichiarazione di successione presentata a suo tempo dai S. al pubblico ufficiale preposto alla protocollazione della pratica non possiede la natura giuridica richiesta dall’art. 2699 c.c. essendo, con ogni evidenza, un atto avente esclusivo rilievo privatistico, che possiede valore di mera dichiarazione di scienza rivolta all’amministrazione finanziaria essendo naturalmente destinata (solo ed esclusivamente) a provare l’entità dell’obbligo tributario sussistente in capo ai dichiaranti; ne discende l’erroneità dell’operazione giuridica chi sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta di cui all’art. 483 c.p., facendo difetto, nella specie, l’elemento dell’obiettiva destinazione dell’atto oggetto di falsificazione a provare la verità dei fatti in esso attestati; la dichiarazione di successione è destinata ad enucleare unicamente il quantum dovuto dai dichiaranti per saldare l’imposta dovuta in riferimento alla successione non la sussistenza di rapporti di parentela;

– con il quarto motivo, relativamente al capo d), la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606, primo comma, lett. b) ed e) c.p.p., per violazione ed erronea applicazione dell’art. 633 c.p., attesa l’omessa motivazione circa la sussistenza del dolo specifico del reato contestato; in particolare, la presenza del dolo specifico del delitto in esame sarebbe evidenziata dal contegno tenuto dagli imputati a seguito dell’apertura della successione, volto ad effettuare l’accesso all’immobile romano della de cuius: da ciò si evincerebbe l’intento “appropriativo” sussistente in capo ai predetti, ed il fine contestualmente perseguito di occupare l’immobile e di prenderne possesso materiale, contestualmente perseguito, di occupare; tuttavia, l’elemento psicologico richiesto dall’art. 633 c.p. richiede, da un lato, la piena consapevolezza dell’altruità dei beni che rappresentano l’oggetto della condotta di reato, dall’altro, la necessità che, una volta avuta piena rappresentazione di tale elemento, il soggetto agente diriga la propria condotta invasiva alla realizzazione di una occupazione o “profitto”, laddove siffatta condotta non può ritenersi integrata nel caso di specie dal momento che gli imputati si sono “mossi” esclusivamente sul presupposto o di stare esercitando un diritto accordatogli dalla legge, in quanto chiamati all’eredità della defunta S.A.;
– con il quinto motivo, la violazione dell’art.125 c.p.p., registrandosi nella sentenza impugnata una motivazione apparente, ossia una generale disattenzione dell’obbligo motivazionale, che non può ritenersi assolto con la mera elencazione di alcune considerazioni ove si evidenzia, da parte del giudicante, una generica perplessità circa la rappresentazione difensiva degli imputati;
– con il sesto motivo, l’illegittima conferma dell’entità della provvisionale, posto che gli imputati si sono dichiarati immediatamente disponibili a compiere ogni atto utile a conseguire sollecitamente formale declaratoria civilistica di falsità del testamento pubblicato, al fine di porne nel nulla gli effetti civili conseguenti alla sua pubblicazione.

Considerato in diritto

I ricorsi degli imputati non meritano accoglimento.
1. Con il primo motivo, gli imputati – sviluppando in buona parte doglianze in fatto, inammissibili in questa sede di legittimità e ribadendo una versione alternativa degli accadirnenti, che si traduce in una diversa valutazione delle risultanze processuali e non già in una censura riconducibile ad un vizio di motivazione, desumibile dalla lettura del provvedimento impugnato – lamentano, nella sostanza, l’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato, in merito all’ipotesi criminosa loro attribuita al capo a), di cui agli artt. 485 c.p. e 491 c.p., riguardante la formazione del falso testamento olografo di S.A. , laddove la sentenza impugnata sul punto, va subito detto, non merita alcuna censura. Le argomentazioni complete ed esaustive in essa contenute hanno dato infatti compiuta risposta alle deduzioni svolte in appello, confermando, senza incorrere in vizi, l’affermazione di responsabilità degli imputati per il delitto in questione, anche sotto l’aspetto del dolo, in tal senso convergendo tutti gli elementi indiziari raccolti.
1.1. In proposito, va, innanzitutto, rilevato che la sussistenza dell’elemento materiale del reato in questione, ossia la falsità dell’intera scheda testamentaria, risulta pacificamente acclarata nel presente giudizio. I giudici di merito, invero, hanno rilevato come il testamento in questione – recante la data del giorno prima del decesso della S. ed asseritamente ricevuto per posta – non poteva essere realmente riferito alla de cuius, persona ultranovantenne, atteso che la stessa era affetta da forma conclamata di demenza di Alzheimer ed era stata ricoverata, poco prima del suo decesso, in ospedale per cardiopatia comportante un suo costante stato soporoso, che le rendeva impossibile effettuare qualsivoglia atto, quale lo scrivere, dare ordini e, di certo, disporre la spedizione di documenti. L’accertamento tecnico ha confermato tale convincimento, posto che la scheda testamentaria in questione è risultata appunto redatta con grafia che non era dell’anziana donna.
1.2. Ciò posto, la Corte territoriale ha ritenuto, con ragionamento logico immune da vizi, che gli imputati fossero gli autori della falsa scheda testamentaria, in considerazione dei plurimi elementi indiziari convergenti in tal senso, costituiti in sintesi: dal fatto che proprio gli imputati fossero in possesso del falso testamento; dalla inverosimiglianza – in merito a tale possesso – della versione dei fatti, secondo cui il testamento era pervenuto loro, il giorno prima della morte della defunta, per posta (fatto questo, comunque, indimostrato, pur potendo essere prodotta all’uopo la busta che lo conteneva a comprova della ricezione), laddove la donna giammai avrebbe potuto spedirlo; dal contenuto delle disposizioni testamentarie, risultando i destinatari delle sostanze proprio “G. e D. “, con annullamento delle precedenti disposizioni e l’indicazione “vi lascio tutti i miei beni”, con il riferimento al “ricordo di vostro padre P. “, laddove effettivamente il padre degli imputati si chiamava P. , ma non era legato da rapporti di parentela e/o di amicizia con la testatrice; dall’elemento logico, secondo cui gli imputati erano le uniche persone che avrebbero tratto un vantaggio dalla creazione di quel testamento, né vi potevano essere terzi a cui ricondurre la autonoma decisione di redigere un falso testamento a favore di “altri”, non essendo nemmeno ipotizzabile che taluno potesse avere un interesse personale, disgiunto da quello dei due S. a renderli destinatari di un testamento che li avrebbe resi proprietari, oltre che del denaro del conto corrente della defunta, anche dell’appartamento sito in XXXX, risultante avere un notevole valore economico.
1.3. Neppure merita censura la circostanza messa in risalto dai giudici d’appello, secondo cui si presenta singolare che gli imputati non abbiano rapidamente verificato l’esatta identità di colei che tanto generosamente aveva pensato a loro nelle ultime volontà, così come non si siano preoccupati neppure di sapere in quali condizioni si trovasse la donna, accertando se la benefattrice fosse ancora in vita o meno. Così come manifestamente infondata si presenta la deduzione circa la ritenuta inattendibilità della teste Ba.Cl. , convivente con S.G. , che ha parlato di una lettera, di cui aveva visto la busta, con la quale tale S.A. aveva nominato il compagno, unitamente a suo fratello, quale suo erede, atteso che la valutazione della credibilità del teste rappresenta una questione di fatto, che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni, che non si ravvisano nella fattispecie, trovando peraltro la valutazione dei giudici d’appello, circa l’inattendibilità della teste in questione, ampio conforto nelle risultanze indicate, che attestano l’impossibilità per la de cuius di redigere il testamento e spedirlo nella data di riferimento.
1.4. Nel contesto descritto non si ravvisa il lamentato vizio motivazionale, in relazione all’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 485 c.p., atteso che le complessive argomentazioni sviluppate nella sente n impugnata – che hanno escluso la ricorrenza della buona fede da parte degli imputati – danno conto pienamente della ricorrenza del dolo nelle condotte dagli stessi poste in essere, consistente, secondo i principi più volte espressi da questa Corte, nel perseguimento, da parte dell’agente, di un vantaggio o un danno per sé o per altri, senza che occorra il perseguimento di finalità illecite, poiché l’oggetto di esso è costituito dal fine di trarre un vantaggio di qualsiasi natura, legittimo od illegittimo. (Rv. 238791). In particolare, nel delitto di falso in scrittura privata il vantaggio o il danno perseguito dall’agente, che costituisce l’oggetto del dolo specifico, può essere di qualsiasi natura e può consistere in qualsiasi utilità patrimoniale o non patrimoniale, legittima o illegittima.
1.5. Elemento sintomatico della evidente volontà di trarre vantaggio economico dalla operata falsificazione della scheda testamentaria può ricavarsi indubbiamente dal fatto che gli imputati hanno utilizzato tale scheda per entrare in possesso delle sostanze della de cuius, vantaggio economico che rappresenta il filo conduttore dell’intera vicenda, ossia il reale movente di tutta l’operazione posta in essere dai ricorrenti, che va dalla redazione della falsa scheda testamentaria, all’utilizzo della stessa per appropriarsi del denaro ed occupare la casa XXXXna della defunta, casa alla quale gli imputati sostituivano la vecchia serratura con una nuova al fine di impedire ai legittimi eredi di accedere all’immobile, come si dirà innanzi.
2. Il secondo motivo di ricorso si presenta manifestamente infondato, atteso che la Corte territoriale, in relazione al capo b), ha adeguatamente dato conto delle ragioni per le quali ha ritenuto che, nella fattispecie in esame, essendo indubbia la configurabilità del reato di cui all’art. 640 – 61 nr. 7 c.p., la sentenza impugnata andasse annullata, per tale capo, stante la diversità del fatto, rispetto a come descritto nella contestazione, ai sensi dell’art. 521 c.p.p. comma 2 c.p.p..
In proposito, le deduzioni, secondo le quali la Corte territoriale avrebbe dovuto prosciogliere gli imputati, ai sensi dell’art. 129 c.p., anche per tardività della querela non colgono nel segno, atteso che esse non si ricavano dalla sentenza impugnata che in proposito dà conto, invece, di una querela tempestivamente proposta dalle parti offese.
3. Con il terzo motivo di ricorso i S. adducono la non configurabilità nella fattispecie in esame del delitto di cui all’art. 483 c.p., loro contestato al capo c), non avendo la dichiarazione di successione – presentata a suo tempo da S.D. al pubblico ufficiale preposto alla protocollazione della pratica – la natura giuridica richiesta dall’art. 2699 c.c., a cui la norma penale implicitamente rinvia, trattandosi di atto di esclusivo rilievo privatistico, finalizzato a fornire la prova dell’obbligo tributario sussistente in capo ai dichiaranti per saldare l’imposta dovuta, in riferimento alla successione di cui i contribuenti si dichiarano beneficiati e non essendo, comunque, un atto diretto a provare la verità fattuale, in merito alla qualità di erede testamentario.
In proposito, i ricorrenti operano una segmentazione della procedura di “dichiarazione di successione”, ritenendo sussistente nella sostanza una fase precedente alla presentazione al pubblico ufficiale di tale dichiarazione, nella quale essa avrebbe natura strettamente privata, con l’impossibilità di configurare in questo segmento temporale il reato di falso in oggetto.
Tali rilievi non meritano accoglimento. La Corte territoriale ha evidenziato in proposito che la contestata falsità è correlata alla falsa attestazione di essere gli imputati eredi di S.A. , contenuta nell’albero genealogico di cui alla dichiarazione di successione e, pur tenendo conto della rilevanza fiscale di tale dichiarazione, tuttavia, con la sua presentazione il pubblico ufficiale determina e certifica l’ammontare delle imposte, costituendo essa il primo atto di un procedimento che assume natura pubblicistica sottratta alla disponibilità del dichiaraz4anante e determinando l’interesse pubblico alla garanzia della genuinità della dichiarazione.
3.1. La valutazione in questione in sostanza richiama un indirizzo di questa Corte, secondo cui la dichiarazione di successione è un atto eterogeneo, formato dalla denuncia del dichiarante in ordine agli elementi da cui trae origine l’obbligo tributario, cui segue nello stesso documento l’atto del pubblico ufficiale, il quale determina e certifica l’ammontare della relativa imposta. Dopo la presentazione all’ufficio da parte del privato, la dichiarazione di successione costituisce il primo atto del procedimento amministrativo, assume natura pubblica sottratta alla disponibilità del denunziante e diviene oggetto della potestà certificativa ed autoritativa del pubblico ufficiale. Il privato può – nei modi, forme e tempi previsti da leggi e regolamenti – procedere ad integrazione e rettifiche della dichiarazione, ma nessuna modificazione o correzione può apportarsi sul modulo di dichiarazione già presentato, per elementari esigenze di trasparenza e di controllo da parte della pubblica amministrazione. La consapevole immutazione degli elementi di fatto da parte del pubblico ufficiale, in concorso con i consenzienti privati dichiaranti, operata al fine di una più favorevole determinazione della somma da versare a titolo di imposta, integra il delitto di falsificazione materiale di atto pubblico (Sez. 6, n. 3002 del 08/01/1996, Rv. 204379).
3.2. Tale orientamento va condiviso anche da questo Collegio, nella prima parte, con le precisazioni, per la restante parte, che seguono.
Innanzitutto la dichiarazione di successione, che ha effetti di natura fiscale, deve essere presentata presso l’Agenzia delle Entrate entro un anno dal decesso, consentendo di adempiere all’obbligo di pagamento delle imposte allo Stato in base al grado di parentela, alla natura e valore del patrimonio ereditario, di operare la voltura catastale degli immobili e l’individuazione dei soggetti tenuti al pagamento delle imposte (IMU ed altre). In dipendenza degli effetti “pubblicistici” che essa determina (liquidazione dell’imposta, eventuali agevolazioni fiscali in dipendenza del grado di parentela ed altro) deve rilevarsi, dunque, che sussiste un preciso obbligo del dichiarante di enunciare il vero, contenendo spesso la dichiarazione in questione, ovvero gli allegati ad essa, delle autocertificazioni.
3.3. Riconosciuta tale natura e funzione alla dichiarazione di successione risulta rispettato il principio più volte affermato da questa Corte secondo cui il delitto previsto dall’art. 483 cod. pen. sussiste qualora l’atto pubblico, nel quale la dichiarazione del privato è stata trasfusa, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati e, cioè, quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto-documento nel quale la sua dichiarazione è stata inserita dal pubblico ufficiale ricevente (Sez. 2, Sentenza n. 4970 del 12/01/2012 Ud. (dep. 09/02/2012) Rv. 251815; Sez. 6, Sentenza n. 23587 del 28/02/2013 Ud. (dep. 30/05/2013) Rv. 256259; Sez. 5, Sentenza n. 18279 del 02/04/2014 Ud. (dep. 30/04/2014) Rv. 259883); (Sez. 5, n. 2321 del 31/10/2014; Sez. 5, n. 39215 del 04/06/2015)
3.4. I ricorrenti nel considerare specificamente l’orientamento di questa Corte innanzi citato (Rv. 204379), operano una segmentazione della dichiarazione di successione e giungono a ritenere che nella fase procedimentale anteriore all’intervento certificativo e/o autoritativo del p.u., consistente nella redazione e presentazione da parte del privato della dichiarazione di successione, l’atto in questione non presenta alcuna delle caratteristiche di cui all’art. 2699 c.c. In sostanza, i ricorrenti adducono che vi sarebbe una fase precedente alla presentazione al pubblico ufficiale, nella quale la dichiarazione avrebbe natura privata e, per l’effetto, l’impossibilità di configurare in questo segmento temporale il reato di falso in oggetto. Tale assunto, tuttavia, non può essere condiviso, non considerandosi il profilo funzionale della dichiarazione di successione. Specificamente non si ritiene di poter condividere l’impostazione, secondo cui la dichiarazione nasce come scrittura privata, redatta dall’interessato, ed acquista natura di atto pubblico nel momento in cui viene consegnata alla pubblica amministrazione, ritenendo di poter individuare due distinti momenti della stessa, con autonoma significatività e rilevanza, laddove, invece, la sua natura composita e la funzione propria di “dichiarazione” – ossia di atto con cui si comunicano al p.u., circostanze e fatti, vedendo appunto come necessario destinatario di essa un soggetto diverso dal dichiarante- determinano l’infondatezza di tale ricostruzione. La “dichiarazione di successione”, infatti, non pare possa avere vita propria, indipendentemente dalla sua presentazione e dalle conseguenze pubblicistiche che da essa derivano, essendo funzionalmente legata al momento in cui viene portata a conoscenza, nel suo contenuto, al pubblico ufficiale dell’Agenzia delle Entrate, senza “mutare” la propria natura giuridica, convertendosi da atto privato in atto pubblico, costituendo, invece, un tutt’uno (quanto a redazione, presentazione e ricezione del p.u. con conseguenti determinazioni fiscali), in relazione alla funzione da essa assolta.
In conclusione, non è possibile guardare ad una dichiarazione di successione, indipendentemente dalla sua presentazione e dalla attività svolta in essa dal pubblico ufficiale, che è la ratio della “dichiarazione” stessa, insomma indipendentemente dalla natura e funzione pubblica da essa assolta, con l’intervento del p.u..
4. Del tutto infondato appare, altresì, il quarto motivo di ricorso con cui i ricorrenti deducono l’insussistenza del dolo specifico del reato di cui all’art. 633 c.p., atteso che gli imputati si introducevano nell’immobile della de cuius di XXXX alla via XXXX, in un primo momento, per raccogliere notizie in merito alla testatrice e, comunque, dopo aver compiuto tutte le necessarie verifiche in ordine alle circostanze della morte della donna accertando positivamente, presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari del Comune di XXXX, l’assenza di denunce successorie; in un secondo momento, effettuavano l’accesso alla casa romana solo al fine di trarre elementi di fatto utili a definire compiutamente i termini della situazione successoria che li aveva coinvolti.
Tali rilievi sono infondati. Come correttamente osservato dalla Corte territoriale, la condotta invasiva degli imputati finalizzata alla realizzazione dell’occupazione dell’immobile anzidetto è pienamente provata dalle circostanza per cui costoro, con l’aiuto del fabbro Bi. , sostituivano la serratura della casa di proprietà della de cuius e vi accedevano comportandosi come proprietari.
4.1. La redazione della falsa scheda testamentaria, al fine di appropriarsi dei beni della defunta in uno al cambio della serratura dell’abitazione occupata, danno conto del dolo specifico del delitto di invasione di terreni o edifici, integrato dalla consapevolezza dell’illegittimità dell’invasione dell’altrui bene e dalla finalità di occupazione o di trarne altrimenti profitto (arg. ex Sez. 2, n. 16657 de/ 16/01/2014, Rv. 259424).
5. Inammissibile, siccome del tutto generico, si presenta il quinto motivo di ricorso con il quale è stata denunciata una generale violazione dell’art. 125 c.p.p., essendo la motivazione della sentenza impugnata apparente. Tale deduzione all’evidenza risulta smentita da quanto già evidenziato circa la completezza del ragionamento dei giudici d’appello in merito a tutte le condotte contestate agli imputati e, comunque, va osservato come è noto, che una delle cause di inammissibilità del ricorso per cassazione va individuata proprio nella genericità dei motivi di ricorso in violazione dell’art. 581 c.p.p., lett. c), che nel dettare, in generale, quindi, anche per il ricorso in Cassazione, le regole cui bisogna attenersi nel proporre l’impugnazione, stabilisce che nel relativo atto scritto debbano essere enunciati, tra gli altri, “i motivi, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta” (Sez. V, 03/04/2013 n. 35249),
6. Inammissibile si presenta altresì il sesto motivo di ricorso riguardante la conferma della provvisionale a carico degli imputati.
Giova sul punto richiamare i principi più volte affermati da questa Corte, secondo cui non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata, per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinata ad essere travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento (Sez. 2, n. 49016 del 06/11/2014).
7. I ricorsi vanno, dunque, respinti ed i ricorrenti vanno condannati ciascuno al pagamento delle spese processuali, nonché in solido alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili liquidate in Euro 2500,00, oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti ciascuno al pagamento delle spese processuali, nonché in solido alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili liquidate in Euro 2500,00 oltre accessori come per legge.

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