Cassazione10

Suprema Corte di Cassazione

sezione II
sentenza 27 aprile 2016, n. 8430

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BIANCHINI Bruno – Presidente
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere
Dott. ORICCHIO Antonio – rel. Consigliere
Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5985-2012 proposto da:

(OMISSIS), (OMISSIS) SAS (OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentati e difesi dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

(OMISSIS) SCRL, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS) in virtu’ di procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 278/2011 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata il 25/10/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/04/2016 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito l’Avvocato (OMISSIS) per la ricorrente e l’Avvocato (OMISSIS) per la controricorrente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato in data 24/10/2007 gli odierni ricorrenti proponevano opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 940 del 1/8/2007, con il quale il Tribunale di Trento, su richiesta della (OMISSIS) s.c.a.r.l., aveva ingiunto il pagamento della somma di Euro 61.732,21 oltre interessi di mora, quale corrispettivo per la fornitura di merce, cosi’ come risultante da fatture allegate in sede monitoria.

Eccepivano in primo luogo il difetto di legittimazione della societa’ ingiungente in quanto la denominazione non coincideva con quella della societa’ che aveva emesso le fatture poste a fondamento del ricorso, assumendo pertanto che non era legittimata a richiedere la somma oggetto del decreto.

Nel merito aggiungevano che la fornitura delle barbatelle di vite, oggetto del contratto di compravendita intercorso fra le parti, era risultata gravemente viziata tant’e’ che la societa’ opponente aveva dovuto intervenire presso i propri clienti per sostituire le piante malate, subendo in tal modo rilevanti danni.

Si costituiva la societa’ opposta la quale precisava che la societa’ fornitrice della merce coincideva con la societa’ ricorrente, mentre quanto al merito sosteneva la prescrizione del diritto di garanzia, aggiungendo altresi’ che i vizi lamentati erano insussistenti. Inoltre i pagamenti in acconto effettuati dall’opponente erano stati tutti contabilizzati, dovendosi ritenere gli altri versamenti indicati nell’atto di opposizione in realta’ riferibili a forniture distinte da quella posta alla base della procedura monitoria.

Il Tribunale di Trento, con la sentenza n. 195 del 23/2/2009 rigettava l’opposizione ed avverso tale decisione gli opponenti proponevano appello, reiterando le difese gia’ proposte in citazione, lamentando altresi’ la mancata ammissione dei mezzi di prova richiesti.

Nella resistenza della societa’ appellata, la Corte di Appello di Trento con la sentenza n. 278 del 25/10/2011 rigettava l’appello, confermando integralmente la pronunzia impugnata.

A tal fine rilevava che i capi di prova articolati dagli appellanti erano inammissibili in quanto in parte generici, ed in parte contenenti dei giudizi di carattere tecnico.

Disattendeva altresi’ l’eccezione relativa all’erronea denominazione della societa’ ingiungente, ed alla sua non corrispondenza con quella emittente le fatture azionate in sede monitoria, ritenendo che si trattasse di un errore che non aveva impedito la rituale instaurazione del contraddittorio, dovendosi in ogni caso considerare che la societa’ che aveva emesso le fatture era stata incorporata dalla societa’ appellata. Quanto al merito, attesa la mancata prova della tempestiva denunzia dei vizi, le deduzioni difensive degli opponenti andavano disattese, non essendo per altro nemmeno emersa l’effettiva sussistenza dei vizi lamentati. Infine, per quanto attiene alla violazione del Decreto Ministeriale 8 febbraio 2005, articolo 9 nella parte in cui si prevede che le piantine di vite debbano essere commercializzate con un’etichetta esterna riportante delle indicazioni specifiche, riteneva del pari che non vi fosse prova della mancata consegna delle certificazioni fitosanitarie prescritte per legge.

Per la cassazione di tale sentenza, la (OMISSIS). s.a.s., (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno proposto ricorso, affidato a quattro motivi.

La (OMISSIS) soc. coop. agr. ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex articolo 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’articolo 125 c.p.c., comma 1 in quanto il decreto ingiuntivo sarebbe stato emesso ad istanza di un soggetto giuridicamente inesistente. Infatti la richiesta monitoria e’ stata avanzata da un soggetto, (OMISSIS) s.c.a.r.l., pacificamente inesistente, atteso che a seguito della riforma delle societa’ cooperative l’acronimo in questione non puo’ piu’ essere utilizzato dalle cooperative a mutualita’ prevalente. La corretta denominazione della societa’ era quindi (OMISSIS) Societa’ Cooperativa Agricola.

L’errore commesso nell’indicazione inficiava la validita’ dell’atto introduttivo, non potendosi in alcun modo ritenere intervenuta una sanatoria.

Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c. e dell’articolo 183c.p.c. in relazione all’articolo 360, nn. 3 e 5 in quanto i giudici di merito avrebbero inopinatamente disatteso la richiesta di mezzi istruttori formulata dall’opponente, sull’erroneo presupposto della genericita’ e della natura valutativa dei capitoli di prova, laddove gli stessi miravano a fornire la dimostrazione dell’effettiva esistenza dei vizi delle piante vendute e della tempestiva denunzia da parte dell’acquirente.

Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, sempre in relazione all’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5 la violazione e falsa applicazione degli articoli 1494 e 1495 c.c., in relazione all’articolo 1453 c.c., nonche’ l’omessa motivazione sul risarcimento del danno e l’illogica motivazione con travisamento del fatto in ordine alla denuncia dei vizi.

Si sostiene che la Corte distrettuale non avrebbe minimamente motivato in ordine alla richiesta risarcitoria, cio’ proprio in conseguenza della mancata ammissione dei mezzi di prova.

Inoltre con atto stragiudiziale del 30/6/2008 la ricorrente aveva notiziato la societa’ intimata delle gravissime conseguenze relative al difetto di innesto delle barbatelle.

Peraltro avrebbe inopinatamente qualificato l’azione proposta volta a far valere l’ordinaria risoluzione del contratto, in presenza della vendita di aliud pro alio come domanda nuova, trattandosi in realta’ di una domanda insita nella deduzione delle anomalie riscontrate nelle piante vendute.

Infine con il quarto motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione del Decreto Ministeriale 8 febbraio 2005, articolo 9 nonche’ l’erronea e falsa rappresentazione dei fatti e difetto di motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia.

Infatti non vi sarebbe alcuna prova dell’effettiva allegazione da parte della societa’ venditrice della certificazioni fitosanitarie, la cui assenza sarebbe stata ammessa dalla stessa venditrice. Peraltro la mancata ammissione di mezzi istruttori aveva inciso anche su tale contestazione, occorrendo pertanto cassare la pronunzia impugnata per consentire l’espletamento dei mezzi di prova richiesti.

2. Il ricorso e’ infondato e pertanto deve essere rigettato.

Quanto al primo motivo, i giudici di merito hanno osservato che risultava condivisibile la conclusione alla quale era giunto il Tribunale il quale aveva rilevato che la mancata indicazione nel ricorso monitorio dell’esatta denominazione della creditrice (Societa’ Cooperativa Agricola anziche’ Soc. coop. a responsabilita’ limitata) non aveva in ogni caso impedito di individuare il soggetto che aveva effettivamente promosso il procedimento, e conseguentemente di instaurare validamente il contraddittorio. Inoltre hanno soggiunto che la societa’ ingiungente aveva documentato l’intervenuta incorporazione della societa’ che aveva emesso la fattura, essendo pertanto subentrata in tutti i rapporti sia attivi che passivi.

Il principio affermato dalla Corte distrettuale trova ampio conforto nella costante giurisprudenza di questa Corte che in numerose circostanze ha avuto modo di affermare che (cfr. Cass. 22 aprile 1995 n. 4540) l’indicazione del soggetto contro cui e’ proposta l’impugnazione come societa’ per azioni, invece che – conformemente alla realta’ – come societa’ in nome collettivo, concretizza un mero errore materiale che non determina l’invalidita’ dell’atto e della sua notificazione, se non influisce sulla individuazione del soggetto cui tali atti si riferiscono. (Nella specie la S.C. ha ritenuto sussistere un mero errore materiale, rilevando che non era stata dedotta l’esistenza di diverse societa’ con denominazione simile; che era gia’ stata precisata la sentenza impugnata; che il medesimo errore, gia’ contenuto nell’atto di appello, non aveva impedito alla societa’ di esplicare le sue difese e si era riflesso nella stessa intestazione della sentenza di secondo grado).

In termini analoghi Cass. 16 novembre 2007 n. 23816 a mente della quale non sussiste la nullita’ dell’atto introduttivo del giudizio nel rito del lavoro per violazione dell’articolo 414 c.p.c., n. 2, qualora il nome dell’attore (nella specie la denominazione della persona giuridica attrice) non risulti totalmente omesso o assolutamente incerto ma sia solo non correttamente indicato, per eventuale errore materiale, e tanto non determini alcuna incertezza nell’identificazione della parte attrice, considerato il tenore letterale del ricorso e degli atti nello stesso espressamente richiamati, ne’ arrechi alcun pregiudizio alla controparte nello svolgimento delle sue difese.

Con specifico riferimento alla denominazione di una societa’, si veda poi Cass. 4 maggio 2012 n. 6803, che ha affermato che la partecipazione al giudizio di societa’ erroneamente o inesattamente indicata nella ragione sociale che ne specifichi erroneamente la forma (nella specie, di s.n.c. anziche’ di s.a.s.) non comporta la nullita’ ne’ della citazione (tanto in primo grado, quanto in appello), ne’ della notificazione di essa, a meno che il suddetto errore non ingeneri nel destinatario dell’atto processuale un’incertezza assoluta sull’esatta identificazione della societa’ (in termini anche Cass. 19 marzo 2001 n. 392).

Tornando al caso di specie, l’errore commesso sussisterebbe unicamente nell’erronea indicazione della denominazione del tipo sociale, restando peraltro immutata l’indicazione ” (OMISSIS)”, cosi’ che, non essendo stata allegata alcuna concreta circostanza che possa ingenerare confusione con altro diverso soggetto giuridico, la valutazione del giudice di merito circa l’inidoneita’ dell’errore commesso a determinare una compromissione del principio del contraddittorio rappresenta una valutazione insindacabile in questa sede.

A cio’ deve aggiungersi che la sentenza di appello ha fatto riferimento all’ulteriore circostanza secondo cui vi sarebbe stata da parte dell’odierna controricorrente l’avvenuta incorporazione per fusione della societa’ che a suo tempo aveva emesso la fattura posta a fondamento del ricorso monitorio, evento questo che avrebbe determinato l’integrale subentro della societa’ incorporante in tutti i rapporti facenti capo all’incorporata.

A tale argomentazione i ricorrenti non hanno opposto alcuna critica, trattandosi pertanto di una ratio decidendi idonea di per se’ a sorreggere la decisione impugnata.

In ogni caso deve osservarsi che, secondo la ormai pacifica giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. 8 febbraio 2006 n. 2637) ai sensi del nuovo articolo 2505-bis cod. civ., conseguente alla riforma del diritto societario (Decreto Legislativo 17 gennaio 2003, n. 6), la fusione tra societa’ non determina, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l’estinzione della societa’ incorporata, ne’ crea un nuovo soggetto di diritto nell’ipotesi di fusione paritaria, ma attua l’unificazione mediante l’integrazione reciproca delle societa’ partecipanti alla fusione, risolvendosi in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identita’, pur in un nuovo assetto organizzativo (conf. ex multis Cass. 23 giugno 2006 n. 14526).

Pertanto poiche’ la fusione si e’ verificata in epoca successiva all’emissione della fattura da parte della societa’ incorporata, che dalla sentenza risulta risalire al 2004, e quindi nella vigenza della novella del diritto societario, deve ritenersi che il ricorso monitorio proposto da parte della societa’ scaturente dalla fusione sia stato in realta’ proposto da parte della stessa societa’ incorporata, escludendosi pertanto in radice la sussistenza della dedotta diversita’ soggettiva tra titolare del diritto di credito e ricorrente in sede monitoria.

3. Gli altri motivi di ricorso, in quanto complessivamente involgenti la censura in ordine alla mancata ammissione dei mezzi istruttori da parte dei giudici di merito paiono suscettibili di una disamina congiunta.

Ed invero, se con il secondo motivo ci si duole nello specifico della valutazione di genericita’ e conseguentemente di inammissibilita’, delle prove richieste, con gli altri due motivi si intende contestare la correttezza della conclusione raggiunta in ordine al difetto di prova dell’esistenza dei vizi ed alla mancata allegazione delle prescritte certificazioni fitosanitarie, proprio in ragione dell’indebita compressione del diritto alla prova.

In primo luogo deve pero’ escludersi la prospettata violazione dell’articolo 2697 c.c., sul presupposto che entrambi i giudici di merito abbiano disatteso le richieste istruttorie formulate dalla parte.

Ed, infatti, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. 5 settembre 2006 n. 19064) la violazione del precetto di cui all’articolo 2697 cod. civ. si configura soltanto nell’ipotesi che il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne e’ gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni o delle richieste istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia o meno assolto tale onere, poiche’ in questo caso vi e’ soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova o sull’ammissibilita’ della prova, sindacabile in sede di legittimita’ solo per il vizio di cui all’articolo 360 c.p.c., n. 5 (conf. ex multis Cass. 17 giugno 2013 n. 15107; Cass. 14 febbraio 2001 n. 2155).

Nel caso in esame, i ricorrenti, lungi dall’imputare alla Corte distrettuale l’inversione dell’onere della prova, si dolgono, a ben vedere, della valutazione di inammissibilita’ dei mezzi istruttori richiesti.

A tal fine vale richiamare il costante orientamento della Corte (Cass. 10 settembre 2004 n. 18222) per il quale il giudizio sulla superfluita’ o genericita’ della prova testimoniale e’ insindacabile in cassazione, involgendo una valutazione di fatto che puo’ essere censurata soltanto se basata su erronei principi giuridici, ovvero su incongruenze di ordine logico conf. Cass. 10 agosto 1962 n. 2555).

Proprio in riferimento ad un’ipotesi di denunzia di vizi della cosa venduta si veda Cass. 26 ottobre 2005 n. 20682, che ha affermato che in materia di prova per testimoni della tempestivita’ della denunzia dei vizi della cosa venduta, e’ esente da vizi logici ed errori giuridici la valutazione del giudice di merito circa l’inammissibilita’, in quanto generico, di un capitolo di prova testimoniale che indichi i tempi in cui la denuncia sia stata operata con l’avverbio “immediatamente”, atteso che trattasi di espressione recante, anche in considerazione della brevita’ del termine di decadenza di otto giorni dalla scoperta dei vizi, un elevato margine di relativita’, ribadendosi quindi la sostanziale insindacabilita’ della valutazione compiuta sul punto dal giudice di merito.

Nel caso in esame, dalla motivazione della sentenza impugnata emerge che la Corte distrettuale ha adeguatamente dato contezza delle ragioni che la inducevano a non ammettere i mezzi istruttori, di modo che le censure dei ricorrenti non possono trovare spazio in sede di legittimita’.

Peraltro, essendo mancata in toto, per le ragioni anzi dette, la prova dell’esistenza delle anomalie delle piante vendute, diviene del tutto irrilevante accertare se l’azione proposta dall’opponente fosse quella volta a far valere la garanzia per vizi ovvero una domanda di risoluzione per aliud pro alio, in quanto, anche a voler reputare ammissibile tale seconda domanda, in ogni caso doveva essere rigettata per difetto di prova.

Analoghe considerazioni valgono per quanto attiene al richiamo fatto nel ricorso alla pag. 8 ad un atto stragiudiziale del 30 giugno 2008, che conterrebbe la denunzia dei vizi, e cio’ in quanto la formulazione del motivo appare carente del requisito dell’autosufficienza avendo la parte omesso di riportare il contenuto dell’atto in questione e di indicare in quale fase processuale tale documento sia stato introdotto nei precedenti gradi di giudizio, essendo peraltro evidente, anche a voler ritenere raggiunta la prova della denunzia, mancherebbe in ogni caso la prova dell’esistenza dei vizi.

Del pari carente del requisito dell’autosufficienza e’ poi la formulazione del motivo di ricorso nella parte in cui a pag. 10, relativamente alla questione attinente alla produzione della certificazione fitosanitaria, si assume che la circostanza sarebbe stata ammessa dalla controparte nella comparsa di costituzione, avendo i ricorrenti omesso di riprodurre il contenuto di tale atto processuale nella parte in cui conterrebbe la detta ammissione.

Ne’ infine deve trascurarsi la circostanza che sebbene nel testo del ricorso si assuma che sarebbe stato espletato un accertamento tecnico preventivo, parte ricorrente omette di riportarne il contenuto, non essendo pertanto dato in alcun modo verificare quali indagini siano state svolte e quale esito le stesse abbiano avuto.

4. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio che liquida in complessivi Euro 7.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.

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