La natura vincolata delle determinazioni in materia di abusi edilizi

Consiglio di Stato, sezione sesta, Sentenza 18 giugno 2019, n. 4103.

La massima estrapolata:

La natura vincolata delle determinazioni in materia di abusi edilizi e, quindi, anche delle determinazioni di sanatoria, esclude la possibilità di apporti partecipativi dei soggetti interessati e, conseguentemente, non impone nei confronti dell’amministrazione procedente, laddove l’impedimento al condono sia insuperabile perché tassativamente previsto dalla legge, un obbligo di previa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della relativa domanda.

Sentenza 18 giugno 2019, n. 4103

Data udienza 14 febbraio 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1139 del 2015, proposto dalla società VI. S.r.l., in persona del rappresentante legale pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati An. Be. e An. Ma. ed elettivamente domiciliata nello studio del secondo dei suindicati difensori in Roma, via (…);
contro
il Comune di Milano, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An.Ma., Pa. Co. e Al. Mo. Am, dell’Avvocatura comunale nonché dall’avvocato Ra. Iz., presso lo studio di quest’ultimo è elettivamente domiciliato presso in Roma, (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano, Sez. II, 22 ottobre 2014 n. 2522, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Vista la costituzione in giudizio dell’amministrazione appellata;
Esaminate le memorie e i documenti prodotti;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del 14 febbraio 2019 il Cons. Stefano Toschei e uditi gli avvocati An. Ma. e St. Pa., in sostituzione dell’avvocato Pa. Co.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. – Con ricorso in appello la VI. S.r.l. ha chiesto a questo Consiglio la riforma, in parte qua, della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano, Sez. II, 22 ottobre 2014 n. 2522, con la quale è stato (solo) parzialmente respinto il ricorso (R.G. n. 712/2014) proposto ai fini dell’annullamento del provvedimento prot. gen. n. 831155/2013 del 20 dicembre 2013 con il quale il Comune di Milano ha respinto la domanda di condono edilizio presentata in data 10 dicembre 2004 relativamente ad alcune opere edilizie realizzate, senza la previa acquisizione del titolo abilitativo, nell’edificio di piazza (omissis) a Milano.
2. – Dalla documentazione depositata in atti, sia nel corso del primo che in occasione del secondo grado di giudizio, può ricostruirsi la vicenda contenziosa qui in esame, nei limiti di quanto è di interesse per la decisione dell’appello, come segue:
– la società VI. S.r.l. è proprietaria di un edificio sito in Milano in piazza (omissis) sottoposto a tutela ex l. 1 giugno 1939, n. 1089 in virtù del decreto del Ministero per i beni culturali e ambientali 22 marzo 1982;
– essendo state realizzate delle opere all’interno dell’edificio senza avere prima ottenuto il rilascio dei prescritti titoli autorizzativi, la società proprietaria, all’indomani dell’entrata in vigore delle disposizioni che consentivano il terzo condono edilizio legislativo (d.l. 30 settembre 2003, n. 269 convertito nella l, 24 novembre 2003, n. 326), presentava domanda di condono in data 10 dicembre 2004;
– il Comune di Milano, in data 11 settembre 2013, comunicava alla società proprietaria il preavviso di diniego di condono, motivandolo in ragione della presenza di un vincolo monumentale di tutela dell’edificio che costituiva presupposto escludente l’accoglimento della domanda;
– la società proprietaria presentava osservazioni significando che le opere realizzate non ricadevano in nessuno dei casi di esclusione di accesso alla sanatoria e che non interessavano alcuno degli elementi di pregio del palazzo, che la presenza di un vincolo monumentale non poteva costituire, da sola, la ragione di impedimento al condono e che, comunque, il procedimento avviato con la domanda di condono non poteva concludersi con un diniego ma avrebbe dovuto proseguire al fine di consentire alla Soprintendenza di esprimersi, in merito alla richiesta sanatoria, quale amministrazione preposta alla tutela del vincolo;
– essendosi accorto il comune procedente di avere errato nell’indicare la norma di legge impeditiva dell’accoglimento della domanda di condono, posto che nello specifico era stata indicata, quale norma impeditiva, l’art. 32, comma 27, lett. d), l 326/2003, quando la norma da indicarsi correttamente era l’art. 32, comma 27, lett. e), l. 326/2003, veniva comunicato alla società proprietaria un nuovo preavviso di diniego con atto del 12 novembre 2013;
– a questo punto la VI. S.r.l. presentava ulteriori osservazioni, con nota del 28 novembre 2013, nondimeno il Comune di Milano adottava il provvedimento definitivo di diniego di condono edilizio 20 dicembre 2013, disponendo altresì la rimessione in pristino stato dei luoghi.
3. – La VI. S.r.l., quindi, proponeva ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia chiedendo l’annullamento del provvedimento di diniego di condono edilizio e della conseguente ingiunzione di rimessione in pristino dello stato dei luoghi gli atti comunali inibitori dell’esecuzione dei lavori.
Nel corso del processo di primo grado, avendo la suddetta società presentato istanza cautelare, il Tribunale amministrativo regionale, con ordinanza n. 430 del 21 marzo 2014, sospendeva l’efficacia del provvedimento comunale impugnato “nella parte in cui ingiunge la demolizione delle opere abusivamente realizzate”.
In seguito a tale pronuncia i competenti uffici comunali, con nota prot. gen. n. 338910/2014 del 23 maggio 2014 chiedevano alla Soprintendenza di “esprimere il parere in merito alla restituzione in pristino o alla irrogazione della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 33 comma 4 del D.P.R. n. 380/2001”.
Al procedimento che seguì partecipò anche la VI., alla quale era stata trasmessa la suindicata nota, con la trasmissione di osservazioni e si concluse con l’espressione del parere da parte della Soprintendenza, prot. n. 6779 del 1° agosto 2014, con il quale riteneva “non necessaria la rimessa in pristino, considerando anche lo stato di conservazione dell’immobile”.
In ragione di tale sopravvenuta circostanza il Tribunale amministrativo regionale, con la sentenza qui oggetto di appello, dichiarava improcedibile la parte del ricorso proposto nella quale veniva contestata (con gli ultimi tre motivi dedotti nel ricorso) la legittimità della ingiunzione di rimessione in pristino e quindi la demolizione delle opere, in quanto “l’atto impugnato, in tale parte, è stato superato dal parere reso dalla soprintendenza per i beni architettonici che ha ritenuto non necedssaria la rimessa in pristino” (così, testualmente, nella sentenza qui fatta oggetto di appello).
Nondimeno il primo giudice respingeva, nel merito, quella parte del ricorso con la quale la società proprietaria contestava la legittimità del diniego di condono edilizio.
Da qui la proposizione dell’appello.
4. – Lamenta la società VI. in sede di appello, la sostanziale impostazione errata dello scrutinio svolto dal giudice di primo grado ed attraverso il quale egli ha deciso di respingere quella parte del ricorso, in quella sede proposto, riferito alla sostenuta illegittimità del diniego di condono oppostole dagli uffici comunali all’esito del procedimento avviato con la domanda presentata in data 10 dicembre 2004.
In particolare la società appellante, riproponendo sostanzialmente i tre motivi di ricorso dedotti in primo grado e respinti con la sentenza qui oggetto di appello, ha segnalato che il provvedimento di diniego di condono edilizio doveva essere annullato per:
– violazione dell’art. 10-bis, l. 7 agosto 1990, n. 241 in quanto il Comune di Milano, nel provvedimento di diniego di condono edilizio, non aveva spiegato le ragioni per cui aveva disatteso le osservazioni presentate dalla società proprietaria il 28 novembre 2013 e tale comportamento dava luogo al vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti e carenza di motivazione della istruttoria svolta e dell’atto che l’aveva conclusa;
– violazione dell’art. 32 d.l. 269/2003 ed eccesso di potere per violazione della circolare ministeriale n. 2699 del 7 dicembre 2005 in quanto, essendo stato vincolato l’edificio in virtù della l. 1089/1939 e non ai sensi del d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, per detto immobile non poteva farsi applicazione del divieto di ammissione al condono edilizio di cui all’art. 32, comma 27, lett. e), d.l. 169/2003;
– violazione dell’art. 117 Cost., dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dell’art. 5 del trattato sull’Unione europea, dell’art. 296 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea e del protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, allegato al TFUE, nonché violazione dell’art. 32 d.l. 269/2003 e dell’art. 32, comma 1, l. 28 febbraio 1985, n. 47.
5. – Si è costituito in giudizio il Comune di Milano contestando analiticamente quanto sostenuto dalla VI. nell’atto di appello e chiedendone la reiezione con conferma della sentenza di primo grado, stante la sua correttezza.
Entrambe le parti hanno presentato memorie, anche di replica, confermando le conclusioni già rassegnate nei precedenti scritti difensivi.
6. – Il Collegio ritiene che, alla luce dei motivi di appello dedotti ed all’esito dello scrutinio di tutta la documentazione prodotta, sia nel giudizio di appello che nel corso del processo di primo grado, il gravame non possa trovare accoglimento per le ragioni che verranno qui di seguito illustrate con riferimento a ciascuno dei motivi dedotti dalla società appellante.
7. – Come ha rammentato anche il giudice di primo grado “L’immobile della ricorrente, Palazzo Bo., è stato dichiarato “di interesse particolarmente importante ai sensi della legge 1 giugno 1939 n. 1089″ con decreto ministeriale notificato il 26.5.1982 ed è stato conseguentemente sottoposto a tutte le disposizioni di tutela contenute nella, legge stessa” (così, testualmente, alle pagg. 3 e 4 della sentenza qui oggetto di appello).
L’art. 32, comma 27, d.l. 269/2003, convertito in l. 326/2003, recante disposizioni in tema di cd. condono edilizio, prevede, in particolare, che sono opere comunque non suscettibili di sanatoria quelle che (lett. e), “siano state realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente rilevante ai sensi degli articoli 6 e 7 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490”.
Tali articoli dell'(allora vigente) Testo unico (490/1999) delle disposizioni in materia di beni culturali e ambientali sono quelli che riportano, nell’ambito del citato Testo unico, le disposizioni di imposizione di vincolo e tutela di cui alla l. 1089/1939.
Infatti, l’art. 2, comma 1, lett. a) – richiamato dall’art. 6 indicato dalla disposizione sul cd. condono edilizio sopra riportata – si riferisce alle “cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o demoetnoantropologico”.
Nel caso di specie, dunque, ricorre l’ipotesi di un immobile fatto oggetto di vincolo storico-artistico, diretto e puntuale, in ordine al quale il citato art. 32, comma 27, lett. e), inibisce la possibilità di sanatoria.
Per sgombrare il campo da dubbi interpretativi appare utile precisare che, diversa – ma non ricorrente nel caso di specie – è l’ipotesi di un bene oggetto “di vincoli a tutela degli interessi idrogeologici o delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali”: infatti, per tali beni il medesimo art. 32, comma 27, lett. d), impedisce la sanabilità delle opere solo se i vincoli siano stati “istituiti prima della esecuzione di dette opere”.
8. – Quanto sopra, peraltro puntualmente riprodotto nella sentenza qui oggetto di appello, con puntuale richiamo a precedente giurisprudenziale rispetto al quale non vi è ragione di discostarsi, ad avviso del Collegio, conduce alla dichiarazione di infondatezza del motivo di appello attraverso il quale la società proprietaria riteneva di contestare la decisione di negare il condono assunta dall’amministrazione comunale, tenuto conto che, dunque, quest’ultima, in ragione di quanto chiaramente indicato dalla surriprodotta disposizione legislativa non aveva necessità di acquisire neppure il parere della Soprintendenza sul punto.
Da ciò discende, a fronte della puntuale indicazione di legge che non lascia spazi ad una interpretazione difforme da parte dell’amministrazione comunale dinanzi alla quale è stata presentata la domanda di condono edilizio, la ininfluente impugnazione dell’atto di diniego di condono con riferimento ad eventuali deficit formali riscontrati nell’istruttoria, in particolare per mancata valutazione delle osservazioni fornite agli uffici comunali dalla società proprietaria nonché con riferimento all’asserita violazione dell’art. 10-bis l. 241/1990.
Al fine di ritenere infondati tali profili di illegittimità del provvedimento di diniego di condono edilizio impugnato in primo grado e già in quella sede proposti e nel presente grado reiterati è sufficiente considerare che la caratterizzazione in termini di vincolatività del potere di scrutinio della domanda di condono edilizio assegnato dal legislatore del condono ai competenti uffici al fine di verificare la stretta corrispondenza tra la domanda di condono ed i suoi presupposti con le tassative condizioni per l’accoglimento o la reiezione della domanda medesima impone l’applicazione dell’art. 21-octies, secondo comma, primo periodo, l. 241/1990, atteso che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, ricorrendo tutti i presupposti previsti dalla disposizione normativa impeditiva del rilascio del condono laddove l’abuso sia realizzato “su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente rilevante ai sensi degli articoli 6 e 7 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490” (così, come si è già riferito, l’art. 32, comma 27, lett. e), d.l. 269/2003, convertito in l. 326/2003)
Va quindi puntualizzato ancora una volta, con riferimento all’asserita violazione dell’art. 10-bis l. 241/1990 e nello stesso tempo dell’art. 3 l. 241/1990 per avere gli uffici comunali mancato di considerare le osservazioni presentate nel corso del procedimento dalla società proprietaria dell’immobile, come, soprattutto in ragione della natura strettamente vincolata delle determinazioni in materia di abusi edilizi, non occorra che l’autorità emanante confuti analiticamente le memorie procedimentali presentate dall’interessato che sia stato destinatario di un preavviso di diniego di condono edilizio, essendo sufficiente il riferimento alla non idoneità delle osservazioni per rimettere in discussione e per superare i motivi del rigetto dell’istanza. In altri termini, ciò che si impone all’amministrazione procedente è l’onere di rilevare di avere preso in esame (anche) le controdeduzioni sollevate dall’interessato in sede endoprocedimentale, sia pure in assenza dell’obbligo di accedere alla puntuale e analitica confutazione delle singole argomentazioni svolte che, nel caso di specie, possono dirsi contenute nella motivazione del provvedimento finale.
D’altronde, la natura vincolata delle determinazioni in materia di abusi edilizi e, quindi, anche delle determinazioni di sanatoria, esclude(rebbe) la possibilità di apporti partecipativi dei soggetti interessati e, conseguentemente, non impone nei confronti dell’amministrazione procedente, laddove come, nel caso di specie, l’impedimento al condono sia insuperabile perché tassativamente previsto dalla legge, un obbligo di previa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della relativa domanda (cfr., su tutte le questioni appena affrontate, da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 26 novembre 2018 n. 6671).
9. – Quanto poi al paventato contrasto costituzionale, riproposto nella sede di appello dalla società proprietaria dell’immobile, va ricordato che, come ha riconosciuto la Corte costituzionale nella sentenza 28 giugno 2004 n. 196, l’oggetto fondamentale dell’art. 32, commi 25-27, d.l. 269/2003, convertito in l. 326/2003, è la previsione e la disciplina di un nuovo condono edilizio esteso all’intero territorio nazionale, di carattere temporaneo ed eccezionale rispetto all’istituto a carattere generale e permanente del “permesso di costruire in sanatoria”, disciplinato dagli artt. 36 e 45 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), ancorato a presupposti in parte diversi e comunque sottoposto a condizioni assai più restrittive.
Si tratta, peraltro, di un condono che si ricollega sotto molteplici aspetti ai precedenti condoni edilizi che si sono succeduti dall’inizio degli anni ottanta: ciò è reso del tutto palese dai molteplici rinvii contenuti nell’art. 32 alle norme concernenti i precedenti condoni, ma soprattutto dal comma 25 dell’art. 32, il quale espressamente rinvia alle disposizioni dei “capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dall’art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni”, disponendo che tale normativa, come ulteriormente modificata dal medesimo art. 32, si applica alle opere abusive cui la nuova legislazione appunto si riferisce. Attraverso questa tecnica normativa, consistente nel rinvio alle disposizioni dell’istituto del condono edilizio come configurato in precedenza, si ha una saldatura fra il nuovo condono ed il testo risultante dai due precedenti condoni edilizi di tipo straordinario, cui si apportano peraltro alcune innovazioni.
La giurisprudenza, ordinaria e amministrativa, ormai consolidata ha riconosciuto che, ai sensi dell’art. 32, comma 27, lettera d), d.l. 269/2003, convertito in l. 326/2003, sono sanabili le opere abusive realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli (tra cui quello ambientale e paesistico) purché ricorrano congiuntamente determinate condizioni:
– che si tratti di opere realizzate prima dell’imposizione del vincolo; in proposito la Corte costituzionale (ordinanza n. 150 del 2009) ha negato che debba trattarsi solo dei vincoli che comportino l’inedificabilità assoluta;
– che, pur realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche;
– che siano opere di minore rilevanza, corrispondenti alle tipologie di illecito di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell’allegato 1 d.l. 269/2003 (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) senza quindi aumento di superficie;
– che vi sia il previo parere favorevole dell’autorità preposta al vincolo (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 29 marzo 2017 n. 1434 e 21 febbraio 2017 n. 813, Sez. VI, 2 agosto 2016 n. 3487).
Quanto sopra dimostra che nell’ambito dell’ampia discrezionalità normativa esercitata dal legislatore che ha disposto il c.d. terzo condono legislativo, egli ha previsto un ragionevole temperamento all’applicazione della sanatoria generale, che pure comprende anche interventi sul patrimonio immobiliare vincolato o ricadente in area sottoposta a vincolo, risparmiando però da essa, con la previsione di cui all’art. 32, comma, 27, lett. e), del decreto legge, qui più volte citato, gli interventi edilizi abusivi realizzati sugli “(…) immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente rilevante ai sensi degli articoli 6 e 7 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490; (…)”, trattandosi di immobili che, per ragioni storiche ed artistiche ritenute rilevanti, meritano di non subire trasformazioni edilizie che ne possano compromettere la architettoniche caratterizzazioni.
10. – Deriva, pertanto, da quanto sopra la infondatezza dei motivi di appello di talché il ricorso n. R.g. 1139/2015 va respinto potendosi, per l’effetto, confermare la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano, Sez. II, 22 ottobre 2014 n. 2522, con la quale era stato parzialmente respinto il ricorso (R.G. n. 712/2014).
Le spese seguono la soccombenza in virtù del principio sancito dall’art. 91 c.p.c., per come espressamente richiamato dall’art. 26, comma 1, c.p.a. sicché la società appellante dovrà rifondere al comune appellato le spese del grado di appello nella misura complessiva di Euro 3.000,00 (euro tremila/00), oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello n. R.g. 1139/2015, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano, Sez. II, 22 ottobre 2014 n. 2522, con conseguente conferma della parziale reiezione del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado (n. R.g. 712/2014).
Condanna la società VI. S.r.l., in persona del rappresentante legale pro tempore, a rifondere le spese del presente grado di giudizio in favore del Comune di Milano, in persona del Sindaco pro tempore, che liquida in complessivi Euro 3.000,00 (euro tremila/00), oltre accessori come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 febbraio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Diego Sabatino – Presidente FF
Bernhard Lageder – Consigliere
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Giordano Lamberti – Consigliere
Stefano Toschei – Consigliere, Estensore

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