La fattispecie di accaparramento di clientela

Corte di Cassazione, sezioni unite civili, Sentenza 27 ottobre 2020, n. 23593.

 

Integra la fattispecie di accaparramento di clientela la condotta dell’avvocato che induce una cliente a conferirgli l’incarico di procedere in giudizio contro una parte con la promessa, rivelatasi poi non veritiera, che i suoi onorari sarebbero stati pagati solo a causa vinta e che offre alla stessa cliente, dopo che il giudizio di primo grado aveva dato esito negativo, di procedere a ricorso in appello ed eventualmente in cassazione, gratuitamente

Sentenza 27 ottobre 2020, n. 23593

Data udienza 15 settembre 2020

Tag/parola chiave: Disciplinare avvocati – Sanzioni – Transazione con la cliente cha ha presentato l’esposto – Irrilevanza – Sanzione disciplinare – Applicabilità

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE UNITE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Primo Presidente

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente di Sezione

Dott. MANNA Felice – Presidente di Sezione

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere

Dott. RUBINO Lina – Consigliere

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 38067-2019 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI TERNI, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimati –
avverso la sentenza n. 148/2019 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 6/12/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/9/2020 dal Consigliere CARRATO ALDO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale CARDINO ALBERTO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

FATTI DI CAUSA

A seguito di esposto presentato al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Terni nei confronti dell’avv. (OMISSIS) da una sua assistita, il Consiglio distrettuale disciplinare dell’Umbria instaurava un procedimento disciplinare a carico del suddetto professionista legale in relazione ai seguenti capi di incolpazione:
a) aver indotto la cliente che aveva inoltrato l’esposto a conferirgli l’incarico di procedure in giudizio contro una parte con la promessa che i suoi onorari sarebbero stati pagati solo a causa vinta e che le sarebbero stati richiesti solo gli oneri per le spese processuali, cosi’ rimanendo integrata la violazione degli articoli 5, 6 e 19 del Codice deontologico forense, la cui condotta si era protratta fino al gennaio 2013;
b) aver, successivamente, chiesto ed ottenuto dalla sua cliente compensi professionali che in precedenza aveva promesso dovergli essere pagati solo a causa vinta, giustificandoli, contrariamente al vero, come mere spese proporzionali al valore della causa, con conseguente ulteriore violazione degli articoli 5, 6 e 19 dello stesso Codice deontologico;
c) aver indotto la sua cliente, in occasione di un incontro tenutosi per la prosecuzione del giudizio dopo la sua sospensione dalla professione, a non revocargli il mandato, affermando, contrariamente al vero, che la causa era la sua e la doveva condurre lui;
d) aver offerto alla stessa cliente, dopo che il giudizio di primo grado aveva dato esito negativo, di procedere a ricorso in appello ed eventualmente in cassazione, gratuitamente, illecito consumato in data 5 marzo 2014.
All’esito della compiuta istruttoria, il citato Consiglio distrettuale di disciplina, con decisione del 21 novembre 2016, irrogava, a carico dell’avv. (OMISSIS), la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attivita’ professionale per mesi tre. Il suddetto professionista proponeva ricorso avverso tale decisione sulla base di diversi motivi, ovvero: 1) per intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare; 2) per violazione di legge ed eccesso di potere con riferimento all’articolo 10, comma 3, del Regolamento del CNF sul procedimento disciplinare e agli articoli 97 e 24 Cost.; 3) per travisamento del fatto e delle prove da parte del Consiglio distrettuale di disciplina procedente; 4) per difetto di motivazione del provvedimento disciplinare adottato; 5) per insussistenza dell’illecito disciplinare di accaparramento di clientela; 6) per eccessivita’ della sanzione inflittagli.
L’adito Consiglio nazionale Forense, con sentenza n. 148/2019 (depositata il 6 dicembre 2019), ha dichiarato l’intervenuta prescrizione delle condotte limitatamente a quelle di cui al riportato capo a) dell’incolpazione (ossia di quelle relative alla contestazione di aver indotto la cliente – che aveva inoltrato l’esposto – a conferirgli l’incarico di procedure in giudizio contro una parte con la promessa che i suoi onorari sarebbero stati pagati solo a causa vinta e che le sarebbero stati richiesti solo gli oneri per le spese processuali, cosi’ rimanendo integrata la violazione degli articoli 5, 6 e 19 del Codice deontologico forense, la cui condotta si era protratta fino al gennaio 2013) e, in riforma parziale dell’impugnata decisione, confermata nel resto, ha ridotto la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione a mesi due.
Con l’adottata pronuncia il CNF ha, in primo luogo, esaminato la doglianza attinente alle prospettata prescrizione degli illeciti e, dopo aver esposto la disciplina normativa in materia, ha ritenuto applicabile il termine prescrizionale quinquennale di cui al R.Decreto Legge n. 1578 del 1933, articolo 51, solo con riguardo alla condotta di cui al citato capo a) esauritasi nella primavera del 2009, nel mentre ha rilevato che detto termine non era trascorso con riferimento agli altri due illeciti (risalenti al 2012 e al 2013), siccome esso era stato idoneamente interrotto mediante la delibera di apertura del procedimento, comunicata il 9 settembre e il 7 ottobre 2014, a seguito del provvedimento di riunione dei procedimenti.
Ha osservato, poi, il CNF che per il procedimento disciplinare, siccome di natura amministrativa, non sono previsti termini perentori di definizione ne’ che, ai fini della tutela dell’interesse perseguito con tale procedimento, avrebbe potuto avere rilevanza la sopravvenuta transazione tra il professionista e la sua cliente che aveva presentato l’esposto nei suoi riguardi.
Ha rilevato, altresi’, il CNF che l’organo disciplinare non era incorso nel travisamento delle prove ne’ la motivazione della decisione dallo stesso adottata poteva ritenersi omessa od incompleta (fermo restando, peraltro, in quest’ultima eventualita’, il potere dello stesso CNF di integrazione della motivazione medesima).
Infine, il CNF confermava la sussistenza degli estremi della violazione ricondotta all’accaparramento di clientela e, sulla scorta della dichiarazione di estinzione per prescrizione dell’addebito di cui al capo a), riduceva la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione a mesi due, ravvisandola come adeguata in relazione agli ulteriori due addebiti ritenuti sussistenti, in tal senso, quindi, riformando solo parzialmente l’impugnata deliberazione.
Avverso la citata sentenza del CNF ha proposto ricorso per cassazione dinanzi a queste Sezioni unite l’avv. (OMISSIS), articolandolo in quattro motivi, con richiesta di sospensione degli effetti dell’impugnata sentenza.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente ha denunciato – ponendo riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – la nullita’ della sentenza e del procedimento per asserita violazione o falsa applicazione della L. n. 247 del 2012, articolo 61, comma 1, nella parte in cui prevede che l’impugnazione del provvedimenti del Consiglio distrettuale di disciplina si propone con ricorso avanti ad apposita sezione disciplinare del CNF, nel mentre quest’ultimo aveva deciso nella sua integrale composizione, esercitando, contemporaneamente, funzioni amministrative e giurisdizionali.
2. Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione dell’articolo 97 Cost. e del regolamento 21 febbraio 2014, n. 2, articolo 10, commi 3) e 4), 21, 22 e 24, (in materia di procedimento disciplinare emanato in virtu’ della L. n. 247 del 2012, articolo 59, comma 5). In sostanza, con tale censura il ricorrente ha inteso contestare che, nel caso di specie, non sarebbero stati garantiti il buon andamento e l’imparzialita’ dell’esercizio dell’azione disciplinare, pur dovendosi a quest’ultima riconoscere natura amministrativa, poiche’ il CDD aveva scelto immotivatamente di non istruire il fascicolo disciplinare nelle prime due udienze (alla presenza dello stesso professionista) salvo, poi, ascoltare i testi e decidere in assenza di esso ricorrente quale incolpato, cosi’ esercitando illegittimamente il potere discrezionale istruttorio a tale organo conferito.
3. Con la terza doglianza il ricorrente ha denunciato – con riguardo all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, – la nullita’ della sentenza e del procedimento con riferimento all’asserito vizio della mancata motivazione dell’impugnata sentenza con violazione dell’articolo 132 c.p.c. e articolo 118 disp. att. c.p.c., articoli 116 e 246 c.p.c., nonche’ – con riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, – la falsa applicazione dell’articolo 111 Cost..
In particolare, il ricorrente ha inteso confutare la decisione del CNF nella parte in cui – a suo avviso – tale organo non aveva adottato un’effettiva motivazione circa la censura mossa avverso la pronuncia del CDD con cui era stata dedotta l’assenza di una idonea motivazione a della responsabilita’ disciplinare di esso tutte le acquisizioni istruttorie.
4. Con la quarta ed ultima censura il dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, suo fondamento, con l’affermazione incolpato omettendo di dar conto di ricorrente ha denunciato – ai sensi – la nullita’ della sentenza e del procedimento per contraddittoria e carente motivazione della sentenza, sempre in relazione all’articolo 132 c.p.c. e articolo 118 disp. att. c.p.c., oltre che la violazione dell’articolo 111 Cost., in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
5. Rileva il collegio che il primo motivo e’ infondato.
Va osservato, infatti, che, pur se la lettera della L. n. 247 del 2012, articolo 61, comma 1, discorre di “apposita sezione disciplinare” del CNF, la mancata istituzione di tale organo e la decisione da parte del CNF nella sua integrale composizione non fa venir meno il carattere di terzieta’ ed indipendenza di detto Consiglio Nazionale (essendo, anzi, esse maggiormente garantite per il ricorrente) ne’ la natura “giustiziale” della sua attivita’ e delle sue decisioni.
Su tale questione sono intervenute recentemente queste Sezioni unite (v. sentenza n. 2084/2019), chiarendo che in tema di giudizi disciplinari innanzi al Consiglio nazionale forense, i quali hanno natura giurisdizionale, in quanto si svolgono dinanzi ad un giudice speciale istituito dal Decreto Legislativo n. 382 del 1944, articolo 21 (tuttora operante, giusta la previsione della VI disposizione transitoria della Costituzione), la spettanza al Consiglio – in attesa della costituzione, al suo interno, di un’apposita sezione disciplinare la L. n. 247 del 2012, ex articolo 61, comma 1, – di funzioni amministrative accanto a quelle propriamente giurisdizionali, non ne menoma l’indipendenza quale organo giudicante, atteso che non e’ la mera coesistenza delle due funzioni ad incidere sull’autonomia ed imparzialita’ di quest’ultimo ne’, tantomeno, sulla natura giurisdizionale dei suoi poteri, quanto, piuttosto, il fatto che quelle amministrative siano affidate all’organo giurisdizionale in una posizione gerarchicamente subordinata, essendo in tale ipotesi (non riscontrabile nella specie) immanente il rischio che il potere dell’organo superiore indirettamente si estenda anche alle funzioni giurisdizionali.
Pertanto, la mancata costituzione di un’apposita sezione disciplinare all’interno del CNF non incide sulla natura giurisdizionale dei suoi poteri, ne’ sull’imparzialita’ e sull’autonomia dell’organo giudicante, le quali sono comunque assicurate dalla sua composizione collegiale e dalla natura elettiva dei suoi componenti (negli stessi sostanziali termini v. SU n. 17064/2011 e n. 11833/2013).
Da qui l’infondatezza della prima censura dedotta dal ricorrente.
6. Anche la seconda doglianza e’ priva di fondamento.
Infatti non puo’ ritenersi affatto che si sia venuta a configurare nella fattispecie una violazione del principio di buon andamento di cui all’articolo 97 Cost., essendo stata garantita la partecipazione dell’incolpato al procedimento disciplinare dinanzi alla CDD, che ha compiuto legittimamente l’attivita’ istruttoria in funzione dell’accertamento o meno della sussistenza degli illeciti disciplinari contestati a suo carico, dando seguito, in proposito, allo svolgimento delle udienze necessarie per l’espletamento della stessa (e la circostanza che l’incolpato non abbia partecipato a quelle in cui erano state assunte alcune testimonianze non e’ stata ritenuta riconducibile ad un legittimo impedimento dello stesso, ne’ quest’ultimo, nell’esposizione del motivo, chiarisce – in osservanza del principio di specificita’ della censura – in che cosa potesse essere consistito e come lo avesse fatto valere, senza che, in ogni caso, il suo diritto alla “controprova” sia risultato in concreto leso).
Ne’, diversamente da quanto assume lo stesso ricorrente, dal combinato disposto dei richiamati articoli 20-24 del regolamento (n. 2 del 21 febbraio 2014) che disciplina il procedimento disciplinare si evince la previsione della necessaria osservanza di termini perentori per la definizione del procedimento stesso ne’ che l’istruttoria non possa svolgersi, ove la stessa lo imponga, in piu’ udienze, ferma rimanendo l’imprescindibilita’ del rispetto del diritto dell’incolpato alla sua partecipazione, che, nel caso di specie, e’ stato garantito. Pertanto, l’eventuale rinvio della fase dibattimentale funzionale all’assunzione di prove non assurge a motivo di nullita’ del procedimento disciplinare e cio’ anche in conformita’ a quanto ritenuto sia per il procedimento civile che per quello penale, nemmeno quando siano violati i termini, pacificamente ordinatori, previsti dall’articolo 81 disp. att. c.p.c., comma 2, (per il giudizio civile) e dall’articolo 477 c.p.p. (per il giudizio penale), quest’ultimo evocato dal ricorrente.
In via generale va, quindi, affermato che il procedimento disciplinare di primo grado ha si’ natura amministrativa, ma speciale, in quanto disciplinato specificamente dalle norme dell’Ordinamento forense, che non contengono termini perentori per l’inizio, lo svolgimento e la definizione del procedimento stesso davanti al Consiglio territoriale all’infuori di quelli posti a tutela del diritto di difesa, nonche’ di quello di prescrizione dell’azione disciplinare. In tale procedimento, pertanto, non trovano applicazione l’articolo 24 Cost. e articolo 6 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo in tema di ragionevole durata del processo, ne’ la L. n. 241 del 1990, articolo 2, sulla durata del procedimento amministrativo, giacche’ la mancata previsione di un termine finale del procedimento disciplinare e’ coessenziale al fatto che esso debba avere una durata sufficiente per consentire all’incolpato di sviluppare compiutamente la propria difesa.
Il CNF, nell’impugnata decisione, ha, poi, adeguatamente motivato sulla irrilevanza – ai fini della definizione del procedimento disciplinare dell’intervenuta transazione tra l’incolpato e la sua cliente che aveva presentato l’esposto nei suoi confronti. Infatti, e’ indiscutibile che un eventuale accordo tra l’avvocato e il suo assistito nel corso del procedimento disciplinare non puo’ influire sul corso dello stesso (comportandone la possibile interruzione od estinzione), poiche’ l’esercizio del potere disciplinare e’ previsto a tutela di un interesse pubblicistico (come tale non rientrante nella disponibilita’ delle parti), rimanendo percio’ intatto, per l’organo disciplinare, il potere di accertamento della responsabilita’ del professionista per gli illeciti a lui legittimamente contestati.
7. Anche il terzo motivo non e’ fondato e va, percio’, respinto.
Infatti, diversamente da quanto dedotto dal ricorrente, il CNF ha sufficientemente motivato (e, quindi, non in modo apparente) sulla valutazione delle emergenze probatorie e sul loro grado di attendibilita’, ponendo decisivo riferimento – nell’esplicazione del suo legittimo potere selettivo delle prove ritenute maggiormente conferenti nell’esercizio del correlato prudente apprezzamento) – alla deposizione dettagliata e credibile della cliente che aveva presentato l’esposto che a quella di un teste imparziale (in relazione alla quale non sussiste certamente la violazione dell’articolo 246 c.p.c.), che aveva confermato il comportamento scorretto dell’avv. (OMISSIS) nel promettere, contrariamente al vero, di non chiedere onorari per l’eventuale difesa della sua assistita nei gradi successivi. E, del resto, gia’ la CDD aveva riscontrato compiutamente l’avvenuta consumazione delle condotte che avevano determinato l’instaurazione del procedimento disciplinare a carico dell’avv. (OMISSIS) e la stessa esposizione circostanziata dei capi di incolpazione rende evidente l’avvenuto accertamento effettivo e completo dei fatti contestati a suo carico.
8. L’ultimo motivo e’ propriamente inammissibile sia perche’ non sussiste alcuna violazione dell’articolo 132 c.p.c. e articolo 118 disp. att. c.p.c. (essendo la motivazione adottata dal CNF adeguata e logica, per quanto gia’ in precedenza chiarito), sia perche’ implica – inammissibilmente in questa sede – la sollecitazione a rivalutare le risultanze di merito sia perche’ con esso si denuncia un vizio di carente (percio’ insufficiente) e contraddittoria motivazione, non piu’ deducibile in cassazione ai sensi del novellato disposto dell’articolo 360 c.p.c., n. 5) (applicabile “ratione temporis” nel caso in questione), secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte (cfr. SU n. 8053 e 8054/2014).
Infatti, la riformulazione dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’articolo 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimita’ sulla motivazione, con la conseguenza che e’ denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in se’, purche’ il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Si precisa al riguardo che tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (v., piu’ recentemente, anche Cass. n. 23940/2017 e n. 22598/2018).
9. In definitiva, alla stregua delle complessive argomentazioni svolte, il proposto ricorso deve essere integralmente respinto, con conseguente assorbimento della formulata istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva dell’impugnata decisione.
In difetto della costituzione delle parti intimate non v’e’ luogo a provvedere sulle spese.
Infine, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, occorre dare atto della sussistenza per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis, se dovuto.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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