La conoscenza dello stato d’insolvenza dell’imprenditore da parte del terzo

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|14 settembre 2022| n. 27074.

La conoscenza dello stato d’insolvenza dell’imprenditore da parte del terzo

In tema di revocatoria fallimentare, questa Corte ha infatti affermato che la conoscenza dello stato d’insolvenza dell’imprenditore da parte del terzo dev’essere effettiva, e non meramente potenziale, nel senso che, ai fini dello accoglimento della domanda, non è sufficiente la dimostrazione della mera conoscibilità oggettiva del predetto stato, occorrendo invece quella della concreta situazione psicologica del terzo al momento del compimento dell’atto impugnato. L’onere di fornire la relativa prova incombe al curatore, il quale può assolverlo anche in via presuntiva, avvalendosi di elementi indiziari caratterizzati dagli ordinari requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dagli articoli 2727 e 2729 del codice civile (quali notizie di stampa, risultanze di bilancio, protesti, procedure esecutive e altro), tali da indurre a ritenere che il terzo, facendo uso della normale prudenza ed avvedutezza, rapportata alle sue qualità personali e professionali, nonché alle condizioni in cui si è trovato concretamente ad operare, non possa non aver percepito i sintomi rivelatori dello stato di decozione del debitore.

Ordinanza|14 settembre 2022| n. 27074. La conoscenza dello stato d’insolvenza dell’imprenditore da parte del terzo

Data udienza 14 giugno 2022

Integrale

Tag/parola chiave: Revocatoria fallimentare – Conoscenza effettiva dello stato di insolvenza dell’imprenditore da parte del terzo – Onere della prova a carico del curatore – Non revocabilità delle rimesse effettuate dal fideiussore sul conto corrente bancario dell’imprenditore fallito quando risulti che non sia stata utilizzata provvista del debitore – Spese processuali – Valutazione della soccombenza in base all’esito finale della lite – Accoglimento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26725/2015 R.G. proposto da:
(OMISSIS) S.P.A., IN LIQUIDAZIONE E IN AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA, in persona del commissario straordinario p.t. Prof. Avv. (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’Avv. (OMISSIS), con domicilio eletto in (OMISSIS), presso lo studio dell’Avv. (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) S.P.A., in persona del procuratore speciale (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’Avv. (OMISSIS), con domicilio eletto in (OMISSIS), presso lo studio dell’Avv. (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 623/15, depositata il 6 febbraio 2015;
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 14 giugno 2022 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

La conoscenza dello stato d’insolvenza dell’imprenditore da parte del terzo

FATTI DI CAUSA

1. La (OMISSIS) S.p.a. in liquidazione ed in amministrazione straordinaria convenne in giudizio il (OMISSIS) S.p.a., per sentir dichiarare l’inefficacia delle rimesse effettuate sul conto corrente n. (OMISSIS) nell’anno anteriore alla dichiarazione dello stato d’insolvenza, con la condanna della convenuta alla restituzione della somma complessiva di Euro 2.077.708,77, oltre interessi e rivalutazione monetaria, nonche’ al risarcimento del maggior danno cagionato ad essa attrice.
A sostegno della conoscenza dello stato d’insolvenza della societa’ da parte della Banca, l’attrice riferi’ che a) dall’analisi dei bilanci relativi agli anni 2000-2004 emergeva la sussistenza di un patologico squilibrio finanziario, b) la convenuta era a conoscenza dell’utilizzazione di mezzi anormali di pagamento da parte della societa’, c) dalle informazioni fornite dalla Centrale dei Rischi della Banca d’Italia risultava una riduzione degli affidamenti accordati dalle banche, un utilizzo limitato degli stessi e l’avvenuto rilascio di garanzie reali, d) sui beni della societa’ risultava iscritta una pluralita’ di ipoteche, e) lo stato di crisi della societa’ era stato ampiamente riferito dagli organi di stampa, f) l’intero settore di mercato versava notoriamente in stato di crisi, che aveva condotto alla chiusura di due stabilimenti della societa’, all’approvazione di un programma di crisi aziendale, alla concessione della cassa integrazione speciale ai lavoratori ed alla messa in liquidazione della societa’, g) nei confronti di quest’ultima erano stati emessi decreti ingiuntivi, notificati atti di precetto ed avviati procedimenti esecutivi.

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Si costitui’ la Banca, e resistette alla domanda, contestando la quantificazione dell’importo delle rimesse da revocare e la sussistenza della scientia decoctionis.
1.1. Con sentenza del 23 settembre 2011, il Tribunale di Monza accolse parzialmente la domanda, dichiarando l’inefficacia delle rimesse solutorie affluite sul conto corrente dal (OMISSIS) fino alla chiusura del rapporto e condannando la Banca alla restituzione della somma di Euro 300.370,60, oltre interessi legali.
2. L’impugnazione proposta dalla (OMISSIS) e’ stata rigettata dalla Corte d’appello di Milano, che con sentenza del 6 febbraio 2015 ha accolto l’appello incidentale proposto dalla Banca, riducendo ad Euro 108.069,23 l’importo delle rimesse inefficaci.
A fondamento della decisione, la Corte ha escluso innanzitutto la possibilita’ di far risalire la scientia decoctionis ad una data diversa da quella indicata dalla sentenza di primo grado, osservando che gl’indici di sofferenza emergenti dai bilanci prodotti risultavano, se valutati ex ante e con i comuni criteri di lettura, non univoci e comunque compatibili con una situazione di severa ma ancor transitoria e superabile difficolta’ economica della societa’, e precisando che soltanto con la pubblicazione del bilancio relativo all’anno 2003 erano divenute incontrovertibili le grandi perdite causate dalla produzione aziendale e l’assenza di una seria e fondata prospettiva di rilancio nel mercato.
La Corte ha confermato inoltre la non revocabilita’ delle operazioni c.d. bilanciate, richiamando l’orientamento giurisprudenziale secondo cui occorre, a tal fine, che le stesse non abbiano funzione solutoria, in virtu’ di accordi intercorsi tra il solvens e l’accipiens, che abbiano destinato le rimesse a costituire la provvista di coeve o prossime operazioni di pagamento o prelievo mirato in favore di terzi o del cliente stesso, e rilevando che la relazione del c.t.u. nominato in primo grado ne aveva individuata una sola, attinente alla provvista per il pagamento di un assegno bancario insoluto, la cui contestualita’ costituiva sul piano logico un indizio grave e preciso. In ordine alle rimesse riferibili ad accrediti di effetti salvo buon fine con disponibilita’ differita, poi tornati insoluti e riaddebitati sul conto, oppure per finanziamenti per operazioni estero, ha ritenuto invece non provato che la Banca avesse incassato alcuna somma, osservando che l’attrice non aveva assolto l’onere probatorio posto a suo carico in ordine al carattere solutorio delle rimesse. Riguardo agli scoperti oltre fido, ha ritenuto non provata la cronologia dei singoli movimenti, osservando che la stessa non poteva desumersi dall’ordine delle operazioni risultante dall’estratto conto o dalla scheda di registrazione contabile, non necessariamente corrispondente alla realta’, e concludendo che, in assenza di tale prova, dovevano ritenersi effettuati prima gli accrediti e poi gli addebiti.

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La Corte ha poi ritenuto non pertinenti le censure relative alla data in cui la Banca aveva avuto conoscenza del bilancio relativo all’anno 2003, osservando che la sentenza di primo grado non aveva fatto riferimento alla data in cui lo stesso sarebbe dovuto pervenire al registro delle imprese, ma ai tempi tecnici necessari per l’inserimento dei dati presso la Camera di commercio e la consultazione, in ordine ai quali non era stata sollevata alcuna critica specifica.
Ha infine confermato la non revocabilita’ delle rimesse effettuate dai terzi garanti, ritenendo non contestato che l’importo indicato dalla Banca fosse stato accreditato sul conto corrente per escussione dei pegni rilasciati a garanzia degli affidamenti concessi alla societa’, senza che cio’ avesse comportato la disponibilita’ dell’importo stesso.
3. Avverso la predetta sentenza la (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, illustrati anche con memoria. La Banca ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria.

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RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione degli articoli 2727 e 2729 c.c., dell’articolo 115 c.p.c. e del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, articolo 67, comma 2, nonche’ l’omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio, osservando che, nell’individuazione della data di decorrenza della scientia decoctionis, la sentenza impugnata ha omesso di procedere ad una valutazione coordinata dei molteplici aspetti della vicenda, avendoli presi in considerazione atomisticamente, senza peraltro tenere conto di alcuni di essi, rimasti incontestati. Premesso che il principio di non contestazione doveva ritenersi operante, nel rito ordinario, gia’ in epoca anteriore alla modificazione dell’articolo 115 c.p.c., sostiene che la Corte territoriale non ha tenuto conto dello stato di crisi in cui notoriamente versava l’intero comparto produttivo in cui operava essa ricorrente, determinato dall’illegittima concorrenza praticata dalle imprese turche e dalla mancata applicazione alle stesse delle sanzioni antidumping da parte della Commissione Europea, che aveva cagionato rilevantissime perdite alla societa’, costringendola a chiudere due stabilimenti ed a fare ricorso alla cassa integrazione. Aggiunge che, nel valutare le risultanze della Centrale dei Rischi, la sentenza impugnata non ha tenuto conto della riduzione dei fidi accordati dalle banche intervenuta tra il mese di gennaio ed il mese di aprile 2002, ne’ dell’anomalia rappresentata dal superamento del volume di affari della societa’, sintomatico della compromissione della solvibilita’ dell’impresa. Lamenta inoltre l’omessa valutazione della relazione depositata dal commissario giudiziale, da cui emergevano la negativita’ del risultato netto di bilancio e del risultato operativo registrati negli anni 2000-2004 e lo stato di dissesto e squilibrio economico e finanziario della societa’, indicativi della perdita della continuita’ aziendale. Sostiene che i sintomi dello stato d’insolvenza, agevolmente rilevabili da chiunque, avrebbero potuto essere colti dagli operatori bancari fin dall’anno 2000, per poi rivelarsi irreversibili fin dall’anno 2003, senza che a tal fine dovessero attendersi le risultanze del bilancio ufficiale.

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1.1. Il motivo e’ infondato.
In tema di revocatoria fallimentare, questa Corte ha infatti affermato che la conoscenza dello stato d’insolvenza dell’imprenditore da parte del terzo dev’essere effettiva, e non meramente potenziale, nel senso che, ai fini dello accoglimento della domanda, non e’ sufficiente la dimostrazione della mera conoscibilita’ oggettiva del predetto stato, occorrendo invece quella della concreta situazione psicologica del terzo al momento del compimento dell’atto impugnato (cfr. Cass., Sez. I, 27/10/2017, n. 25635; 28/02/2007, n. 4762; 21/12/2005, n. 28299). L’onere di fornire la relativa prova incombe al curatore, il quale puo’ assolverlo anche in via presuntiva, avvalendosi di elementi indiziari caratterizzati dagli ordinari requisiti di gravita’, precisione e concordanza prescritti dagli articoli 2727 e 2729 c.c. (quali notizie di stampa, risultanze di bilancio, protesti, procedure esecutive, etc.), tali da indurre a ritenere che il terzo, facendo uso della normale prudenza ed avvedutezza, rapportata alle sue qualita’ personali e professionali, nonche’ alle condizioni in cui si e’ trovato concretamente ad operare, non possa non aver percepito i sintomi rivelatori dello stato di decozione del debitore (cfr. Cass., Sez. I, 8/02/2018, n. 3081; 24/10/2012, n. 18196; 18/04/2011, n. 8827). E’ stato peraltro precisato che, vertendosi in tema di prova indiziaria, la certezza logica dell’esistenza di tale stato soggettivo puo’ ritenersi legittimamente acquisita allorquando sia raggiunta la prova non gia’ della conoscenza effettiva, da parte di quello specifico creditore, dello stato di decozione dell’impresa (la cui dimostrazione, configurandosi come una prova diretta, deve considerarsi inesigibile dal curatore), ne’ quando tale conoscenza possa ravvisarsi con riferimento ad una figura di contraente astratto (prova, questa, che risulterebbe inutilizzabile, in quanto correlata ad un parametro del tutto teorico di creditore avveduto), bensi’ quando la probabilita’ della scientia decoctionis trovi il suo fondamento nei presupposti e nelle condizioni (economiche, sociali, organizzative, topografiche, culturali) nelle quali il terzo si sia concretamente trovato ad operare (cfr. Cass., Sez. VI, 3/05/2012, n. 6686; Cass., Sez. I, 4/11/2003, n. 16512; 26/01/1999, n. 684). A tal fine, il giudice e’ tenuto innanzitutto a selezionare analiticamente gli elementi indiziari provvisti di potenziale efficacia probatoria, e successivamente a sottoporli ad una valutazione complessiva, volta ad accertarne la concordanza, in modo tale da appurare se la loro combinazione risulti idonea ad integrare una valida prova presuntiva (cfr. Cass., Sez. I, 12/11/2019, n. 29257; 18/02/2005, n. 3390).

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A tali principi, costantemente ribaditi dalla giurisprudenza di legittimita’, si e’ correttamente attenuta la sentenza impugnata, la quale, nel confermare l’individuazione dell’epoca a partire dalla quale era divenuto conoscibile lo stato d’insolvenza della (OMISSIS), ha conferito rilievo ad una serie di indizi, valutati ex ante, dai quali ha desunto che fino al mese di settembre 2004 la societa’ successivamente collocata in amministrazione straordinaria appariva in una “situazione di severa ma ancor transitoria e superabile difficolta’ economica”: a tal fine, la Corte territoriale ha richiamato l’ampio accertamento compiuto dalla sentenza di primo grado, conferendo rilievo, oltre che all’andamento del conto corrente intrattenuto dalla societa’ con la Banca, ritenuto privo di dati significativamente sospetti, ai dati emergenti dai bilanci, alla ricapitalizzazione della societa’, mediante apporti dei soci ed ingresso di importanti partners finanziari ed industriali, alla riduzione dei debiti a breve verso le banche ed alla prosecuzione del processo di ristrutturazione aziendale precedentemente avviato; sulla base di tali elementi, valutati globalmente, essa ha confermato che soltanto con la pubblicazione del bilancio relativo all’anno 2003 era emerso in modo chiaro ed incontrovertibile che la produzione aziendale produceva grandi perdite, senza alcuna seria e fondata prospettiva di rilancio nel mercato, concludendo quindi che soltanto da quella epoca poteva ritenersi dimostrata la scientia decoctionis a carico della Banca.

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Nel censurare il predetto apprezzamento, la ricorrente non e’ in grado di individuare lacune argomentative o carenze logiche del ragionamento seguito dalla Corte territoriale, talmente gravi da impedire di ricostruire il percorso logico-giuridico attraverso il quale la stessa e’ pervenuta alla decisione, ma si limita ad insistere sull’omessa valutazione di altri indizi di segno a suo avviso contrario a quello degli elementi presi in considerazione dalla sentenza impugnata, senza considerare che, in tema di prova per presunzioni, spetta al giudice di merito non solo la valutazione dell’opportunita’ di fare ricorso alla stessa, ma anche l’individuazione dei fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e l’accertamento della rispondenza degli stessi ai prescritti requisiti di gravita’, precisione e concordanza: il relativo apprezzamento costituisce un giudizio di fatto, censurabile in sede di legittimita’ esclusivamente per vizio di motivazione, la cui denuncia non puo’ peraltro risolversi, come nella specie, nella mera prospettazione di un convincimento diverso da quello espresso nel provvedimento impugnato, ma deve far emergere l’assoluta illogicita’ e contraddittorieta’ del ragionamento decisorio, restando comunque escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (cfr. Cass., Sez. VI, 26/02/2020, n. 5279; 17/01/2019, n. 1234; Cass., Sez. V, 26/01/2007, n. 1715).

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Nella specie, d’altronde, alcuni degli indizi asseritamente trascurati dalla sentenza impugnata, e segnatamente la riduzione dei fidi accordati dalle banche alla societa’ debitrice e la negativita’ dei risultati esposti nei bilanci della stessa relativi agli esercizi anteriori al 2003, erano stati presi specificamente in esame da quella di primo grado, la quale li aveva posti in relazione con gli altri dati relativi alla gestione sociale, quali la ricapitalizzazione, la riduzione dell’indebitamento e la ristrutturazione dell’attivita’ produttiva, oltre che con le notizie diffuse dalla stampa, concludendo per la non univocita’ del quadro economico e finanziario dagli stessi emergente, il cui peggioramento era apparso evidente, ad avviso del Tribunale, soltanto a seguito della pubblicazione del bilancio relativo all’anno 2003: tali osservazioni sono state testualmente richiamate dalla sentenza impugnata, la cui valutazione, in quanto integrata dall’accertamento in fatto compiuto da quella di primo grado, non puo’ quindi ritenersi priva di una solida base argomentativa. E’ noto infatti che la sentenza d’appello puo’ essere motivata anche per relationem, a condizione che il giudice del gravame non si limiti ad aderire acriticamente a quella di primo grado, ma dia conto, sia pur sinteticamente, delle ragioni della conferma in relazione ai motivi d’impugnazione ovvero dell’identita’ delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle gia’ esaminate in primo grado, in modo tale che dalla lettura della parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un percorso argomentativo esaustivo e coerente (cfr. Cass., Sez. I, 5/08/2019, n. 20883; 19/07/2016, n. 14786; Cass., Sez. lav., 5/11/2018, n. 28139). Quanto poi allo stato di crisi in cui versava l’intero comparto produttivo, e’ appena il caso di rilevare che la relativa valutazione avrebbe potuto contribuire a delineare le prospettive di sviluppo dell’attivita’ sociale, la cui irreversibile compromissione e’ stata ritenuta peraltro evidente soltanto a partire dalla data indicata, ma non avrebbe potuto rivestire portata determinante ai fini dell’affermazione della conoscibilita’ dello stato d’insolvenza, da riferirsi necessariamente alla concreta situazione economica e finanziaria della debitrice.

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2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione degli articoli 2697 e 2784 c.c., degli articoli 110, 112, 113, 115 e 116 c.p.c. e della L. Fall., articolo 67, comma 2, nonche’ l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata per aver escluso la revocabilita’ delle rimesse effettuate sul conto corrente dai terzi garanti, in virtu’ della mancata contestazione dell’avvenuto accredito delle stesse senza creazione di una corrispondente disponibilita’, senza considerare che essa ricorrente non aveva interesse a censurare sul punto la sentenza di primo grado, la quale aveva riconosciuto la revocabilita’ dell’accredito. Sostiene che in tal modo la Corte territoriale ha invertito l’onere della prova, trascurando inoltre l’accertamento compiuto al riguardo dal c.t.u., senza considerare che, consistendo l’eventus damni nel fatto stesso della lesione della par condicio creditorum, essa ricorrente era tenuta a dimostrare soltanto la conoscenza dello stato d’insolvenza da parte della convenuta.
2.1. Il motivo e’ infondato.
Non merita infatti censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha escluso la revocabilita’ delle rimesse effettuate sul conto corrente mediante il ricavato della vendita di titoli costituiti in pegno dai terzi che avevano concesso pegni in favore della Banca a garanzia degli affidamenti concessi alla societa’ debitrice, rilevando che il relativo importo non era stato posto nella disponibilita’ giuridica e materiale di quest’ultima, ma impiegato per l’adempimento dell’obbligazione di garanzia nei confronti della Banca, senza l’utilizzazione di provvista propria della debitrice e senza l’esercizio della rivalsa confronti della stessa prima del fallimento.
In proposito, la Corte territoriale ha correttamente richiamato il principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimita’ in riferimento alle rimesse effettuate dal fideiussore sul conto corrente bancario dell’imprenditore successivamente fallito, secondo cui le stesse non sono revocabili, ai sensi della L. Fall., articolo 67, comma 2, quando risulti che non sia stata utilizzata provvista del debitore e non vi sia stata rivalsa nei confronti dello stesso prima della dichiarazione di fallimento, dal momento che in tale ipotesi il pagamento effettuato dal terzo garante costituisce adempimento di un’obbligazione propria ed autonoma, ancorche’ accessoria, ed e’ volto ad evitare le conseguenze cui egli resterebbe esposto in conseguenza dell’inadempimento del debitore principale (cfr. Cass., Sez. I, 30/07/2012, n. 13549; 14/02/2011, n. 3583).

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Tale principio, com’e’ noto, ha trovato applicazione anche alle rimesse effettuate dal terzo datore di pegno, relativamente alle quali e’ stato affermato che, ove il terzo abbia dato ordine alla banca di vendere titoli da lui costituiti in pegno a garanzia delle obbligazioni assunte dal fallito e di accreditare il relativo controvalore sul conto corrente del debitore, l’operazione realizza una mera annotazione contabile, cioe’ un atto neutro rispetto al conto corrente, che riduce l’esposizione passiva senza avere, ai fini predetti, natura solutoria con riguardo al patrimonio del fallito, non acquisendo quest’ultimo la disponibilita’ economica e giuridica della somma stessa (cfr. Cass., Sez. I, 20/03/2018, n. 6913; 12/08/2009, n. 18234).
Non puo’ condividersi, in contrario, il richiamo della ricorrente ad un altro precedente di legittimita’, secondo cui la rimessa in conto corrente bancario effettuata con denaro proveniente dalla vendita di un bene costituito in pegno, ormai consolidatosi in favore della banca, e’ revocabile ai sensi della L. Fall., articolo 67, senza che assuma alcun rilievo la circostanza che il ricavato della vendita sia destinato a soddisfare un credito privilegiato, non potendosi escludere a priori il pregiudizio delle ragioni di altri creditori privilegiati, insinuati in seguito al passivo, o piu’ in generale della massa, per mancato concorso del creditore soddisfatto alle spese di procedura (cfr. Cass., 26/02/2010, n. 4785). Tale principio, ribadito da questa Corte anche in seguito e da ultimo anche a Sezioni Unite (cfr. Cass., Sez. Un., 16/02/2022, n. 5049; Cass., Sez. I, 22/06/2018, n. 16565), si riferisce infatti ad una fattispecie diversa da quella presa in esame dalla sentenza impugnata, e precisamente all’ipotesi in cui il pagamento sia stato effettuato con denaro proveniente dalla vendita di titoli costituiti in pegno dallo stesso debitore, e risulti pertanto incidente direttamente sul patrimonio di quest’ultimo, con effetto depauperativo, nonche’ idoneo ad avvantaggiare il creditore pignoratizio ai danni degli altri creditori insinuati al passivo: soltanto in riferimento a tale ipotesi puo’ ritenersi appropriata la considerazione, svolta al riguardo da questa Corte ed avente il suo fondamento nella funzione distributiva della revocatoria fallimentare, secondo cui l’eventus damni deve considerarsi in re ipsa, consistendo nella lesione della par condicio creditorum ricollegabile all’uscita del bene dalla massa in forza dell’atto dispositivo, con la conseguenza che sul curatore grava soltanto l’onere di dimostrare la conoscenza dello stato d’insolvenza da parte del beneficiario del pagamento conseguente alla vendita della cosa data in pegno, restando invece irrilevante il consolidamento della causa di prelazione, formatasi in data anteriore al periodo sospetto, cosi’ come la destinazione del ricavato della vendita a soddisfare le ragioni del creditore privilegiato. Qualora invece, come nel caso in esame, la rimessa venga effettuata con denaro proveniente dalla vendita di beni costituiti in pegno dal terzo, il quale non abbia esercitato la rivalsa nei confronti del debitore prima dell’apertura del concorso, viene meno lo stesso presupposto oggettivo della revocatoria fallimentare, rappresentato dalla lesione della par condicio creditorum, trattandosi di un pagamento che, in quanto eseguito dal terzo in adempimento di una propria obbligazione e mediante l’utilizzazione di denaro proprio, non spiega alcuna incidenza sul patrimonio del debitore.
Poco chiara risulta infine l’affermazione della ricorrente, secondo cui, dando atto della mancata contestazione dell’avvenuta effettuazione delle rimesse senza costituzione di una corrispondente disponibilita’ sul conto corrente in favore della debitrice, la sentenza impugnata avrebbe determinato un’inversione dell’onere della prova: la stessa ricorrente ammette infatti, anche in questa sede, che l’accreditamento dell’importo ricavato dalla vendita dei titoli costituiti in pegno ebbe luogo a copertura del saldo debitore del conto corrente, a seguito della revoca degli affidamenti concessi alla societa’ debitrice e dell’escussione delle garanzie, sicche’ non puo’ dubitarsi della natura solutoria dello stesso. In tema di azione revocatoria, questa Corte ha poi affermato ripetutamente che l’effettuazione del pagamento da parte del terzo costituisce oggetto di un’eccezione in senso proprio, per effetto della quale il creditore che ne ha beneficiato e’ tenuto esclusivamente a provare la provenienza del pagamento da parte del terzo, mentre incombe al curatore, una volta accertata l’avvenuta effettuazione di detto pagamento, l’onere di provare, anche mediante presunzioni semplici, che la corrispondente somma sia stata fornita dal fallito o che il terzo abbia esercitato la rivalsa prima del fallimento (cfr. Cass., Sez. I, 9/10/2017, n. 23597; 7/12/2012, n. 22247). In quest’ottica, essendo pacifico che i titoli costituiti in pegno appartenevano ai terzi garanti, ed essendo stato accertato che l’importo ricavato dalla vendita degli stessi era affluito sul conto corrente della societa’ debitrice, incombeva all’attrice l’onere di allegare e dimostrare la diversa provenienza del denaro accreditato o l’avvenuto esercizio della rivalsa da parte dei terzi, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la circostanza che in primo grado essa fosse risultata vittoriosa in ordine alla questione della revocabilita’ delle rimesse in esame, dal momento che la proposizione dell’appello incidentale da parte della Banca aveva comportato la riapertura del dibattito processuale al riguardo.

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3. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione dell’articolo 92 c.p.c., comma 2, nel testo anteriore alle modificazioni introdotte dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, sostenendo che, nel condannarla al pagamento delle spese processuali, la sentenza impugnata non ha considerato che, ai sensi della predetta disposizione, applicabile ratione temporis al giudizio in esame, la compensazione puo’ aver luogo anche in presenza di giusti motivi, la cui valutazione, rimessa alla discrezionalita’ del giudice, consente di disporla anche nei confronti della parte totalmente vittoriosa. Precisa che nella specie la compensazione era giustificata non solo dalla complessita’ in fatto ed in diritto delle questioni affrontate, ma anche dalla parziale soccombenza della Banca e dalla qualita’ soggettiva della parte attrice, operante nel perseguimento di un interesse di rango pubblicistico.
3.1. Il motivo e’ fondato.
La sentenza impugnata, pur avendo ridotto l’importo dovuto dalla Banca, in accoglimento dell’appello incidentale proposto dalla stessa, ne ha infatti confermato la condanna alla restituzione delle somme corrispondenti alle rimesse revocate, pronunciata dal Giudice di primo grado in parziale accoglimento della domanda proposta dall’attrice, la quale, non potendo considerarsi soccombente, non avrebbe pertanto potuto essere condannata al pagamento delle spese del giudizio di secondo grado.
Ai fini dell’imposizione dell’obbligo di rifondere le spese processuali, il criterio della soccombenza non puo’ essere infatti frazionato in relazione all’esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito unitariamente all’esito finale della lite, non assumendo alcun rilievo la circostanza che in qualche grado o fase del processo la parte risultata infine soccombente abbia conseguito un risultato a se’ favorevole (cfr. Cass., Sez. VI, 18/05/2021, n. 13356; 13/03/2013, n. 6369; Cass. Sez. III, 29/09/2011, n. 19880). Pertanto, in caso di accoglimento parziale del gravame, il giudice di appello puo’ disporre la compensazione, in tutto o in parte, delle spese processuali, ma non puo’ porle, neppure parzialmente, a carico della parte risultata comunque vittoriosa, sebbene in misura inferiore a quella risultante dalla sentenza di primo grado (cfr. Cass., Sez. VI, 23/03/2016, n. 5820; 28/09/2015, n. 19122).
4. La sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dall’accoglimento del terzo motivo, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa puo’ essere decisa nel merito, ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., comma 2, con l’integrale compensazione delle spese del giudizio di appello, avuto riguardo alla reciproca soccombenza delle parti.
L’esito della lite, contraddistinto dall’accoglimento parziale del ricorso per cassazione, giustifica l’integrale compensazione anche delle spese del giudizio di legittimita’.

P.Q.M.

rigetta i primi due motivi di ricorso, accoglie il terzo motivo, cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e, decidendo nel merito, compensa integralmente le spese del giudizio di appello. Compensa integralmente le spese del giudizio di legittimita’.

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In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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