Interdittiva antimafia determina una particolare forma di incapacità giuridica

Consiglio di Stato, sezione terza, Sentenza 4 marzo 2019, n. 1500.

La massima estrapolata:

Il provvedimento di cd. interdittiva antimafia determina una particolare forma di incapacità giuridica, e dunque la insuscettività del soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che determinino (sul proprio cd. lato esterno) rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione riconducibili a quanto disposto dall’art. 67 d.lgs. 2011 n. 159.

Sentenza 4 marzo 2019, n. 1500

Data udienza 31 gennaio 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Terza
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8424 del 2015, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Gi. Ca., con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Ar. Gu. in Roma, via (…);
contro
Ministero dell’Interno e U.T.G. – Prefettura di Catanzaro, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici domiciliano ex lege in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria Sezione Prima n. -OMISSIS-, resa tra le parti
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno e dell’U.T.G. – Prefettura di Catanzaro;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 31 gennaio 2019 il Cons. Ezio Fedullo e uditi l’Avvocato Ar. Gu. su delega di Gi. Ca., per la parte appellante, e l’Avvocato dello Stato Wa. Fe.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO e DIRITTO

Mediante la sentenza appellata, il T.A.R. Catanzaro ha accolto il ricorso proposto dall’odierno appellante avverso l’informativa interdittiva antimafia di cui alla nota prefettizia prot. -OMISSIS- del -OMISSIS-, fasc. -OMISSIS-, nonché avverso l’ordinanza consequenziale n. -OMISSIS-, con la quale il Comune di -OMISSIS- aveva disposto la revoca della SCIA prot. n. -OMISSIS- del -OMISSIS-, presentata dall’appellante e concernente l’avvio di un’attività commerciale di vendita al pubblico di frutta e verdura.
In particolare, premesso che il Comune di -OMISSIS-, interessato da un provvedimento di commissariamento adottato ai sensi dell’art. 143 d.lvo n. 267/2000, aveva inoltrato alla Prefettura di Catanzaro richiesta di informativa antimafia a carico della ditta del ricorrente, ai sensi dell’art. 100 d.lgs. n. 159/2011 (il quale così dispone: “l’ente locale, sciolto ai sensi dell’articolo 143 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 e successive modificazioni, deve acquisire, nei cinque anni successivi allo scioglimento, l’informazione antimafia precedentemente alla stipulazione, all’approvazione o all’autorizzazione di qualsiasi contratto o subcontratto, ovvero precedentemente al rilascio di qualsiasi concessione o erogazione indicati nell’articolo 67 indipendentemente dal valore economico degli stessi”), il giudice di primo grado rilevava la fondatezza della censura intesa a sostenere che la citata disposizione non poteva essere applicata alla fattispecie in esame: ciò perché, premesso che l’attività esercitata dal ricorrente era un’attività commerciale il cui titolo abilitativo era costituito dalla SCIA prot. -OMISSIS- del -OMISSIS-, sostitutiva ai sensi dell’art. 19 l. n. 241/1990 della corrispondente autorizzazione commerciale, la norma citata circoscrive la richiesta dell’informazione antimafia ai contratti o subcontratti o concessione o erogazioni indicate all’art. 67 d.lvo n. 159/2011, mentre non prevede la sua acquisizione per le fattispecie previste dal capo a) del medesimo art. 67, ovvero per le licenze ed autorizzazioni di commercio.
Quanto al titolo legittimante che, secondo l’Amministrazione resistente, il provvedimento impugnato rinverrebbe nell’art. 100 T.U.L.P.S., il T.A.R., dopo aver evidenziato che la disposizione prevede che “oltre i casi indicati dalla legge, il questore può sospendere la licenza di un esercizio nel quale siano avvenuti tumulti o gravi disordini, o che sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose o che, comunque, costituisca un pericolo per l’ordine pubblico, per la moralità pubblica e il buon costume o per la sicurezza dei cittadini. Qualora si ripetano i fatti che hanno determinato la sospensione, la licenza può essere revocata”, rilevava che la nota prefettizia non chiariva se le frequentazioni del ricorrente con esponenti della criminalità organizzata, in esse menzionate, “siano reiterate, o comunque ripetute, costanti e non meramente occasionali e, soprattutto, non chiarisce affatto che queste frequentazioni avvengano all’interno dell’esercizio commerciale del ricorrente”, concludendo che “né la Prefettura prima, né il Comune hanno denunciato il verificarsi di episodi in grado di turbare l’ordine pubblico all’interno della struttura commerciale”.
La sentenza suindicata è stata appellata dall’originario ricorrente nella parte in cui omette immotivatamente ogni pronuncia sulla domanda risarcitoria articolata con il ricorso introduttivo del giudizio, lamentando l’appellante che dall’esecuzione del provvedimento impugnato, e fino al suo annullamento da parte del giudice amministrativo, sono derivati danni di ordine patrimoniale e non patrimoniale, la cui quantificazione è stata operata nel corso del giudizio di primo grado e viene ribadita nel presente grado di appello.
La Sezione, con l’ordinanza n. -OMISSIS- del -OMISSIS- 2018, emessa nell’ambito del presente giudizio, ha deferito all’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., la seguente questione di diritto: “se, qualora il giudice di primo grado abbia omesso del tutto la pronuncia su una delle domande del ricorrente (nella specie l’azione di risarcimento del danno, conseguente all’annullamento dei provvedimenti impugnati), la controversia debba essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado, in coerenza con l’effetto devolutivo dell’appello e con la regola della tassatività delle ipotesi di rinvio al primo giudice, oppure, in alternativa, la causa debba essere rimessa al TAR, valorizzando la portata anche sostanziale della nozione di “violazione del diritto di difesa” e il principio costituzionale del doppio grado, anche alla luce della circostanza che la radicale e immotivata omissione di pronuncia avrebbe effetti equivalenti a quelli di una decisione adottata d’ufficio, in violazione del contraddittorio con le parti, stabilito dall’art. 73, comma 3, del CPA”.
Sulla questione devoluta l’Adunanza Plenaria si è espressa con la sentenza n. -OMISSIS-, formulando i seguenti principi di diritto: a) in coerenza con il generale principio dell’effetto devolutivo/sostitutivo dell’appello, le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado previste dall’art. 105 cod. proc. amm. hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive; b) la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, anche quando si sia tradotta nella mancanza totale di pronuncia da parte del giudice di primo grado su una delle domande del ricorrente, non costituisce un’ipotesi di annullamento con rinvio; pertanto, in applicazione del principio dell’effetto sostitutivo dell’appello, anche in questo caso, ravvisato l’errore del primo giudice, la causa deve essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado”.
Si impone a questo punto, a seguito della restituzione degli atti a questa Sezione e conformemente ai principi sanciti dall’Adunanza Plenaria, verificare la sussistenza dei presupposti della fattispecie risarcitoria, a cominciare da quello, sul quale si appuntano le argomentazioni difensive dell’Amministrazione, attinente all’elemento soggettivo dell’illecito, da quella negato sulla scorta della predicata configurabilità di un cd. errore scusabile.
Prima di affrontare funditus la questione, è però opportuno richiamare le più recenti acquisizioni giurisprudenziali in materia, quali si trovano compendiate nella sentenza di questa Sezione n. -OMISSIS- del -OMISSIS- 2018, nel senso che “il risarcimento del danno non è una conseguenza diretta e costante dell’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo, in quanto richiede la positiva verifica, oltre che della lesione della situazione giuridica soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento, anche del nesso causale tra l’illecito e il danno subito, nonché della sussistenza della colpa o del dolo dell’amministrazione. Come più volte rilevato da questa Sezione, l’illegittimità del provvedimento amministrativo, ove acclarata, costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, da considerare unitamente ad altri, quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato della statuizione amministrativa, l’ambito più o meno ampio della discrezionalità dell’amministrazione. Con specifico riferimento all’elemento psicologico – secondo la giurisprudenza della Sezione – la colpa della pubblica amministrazione viene individuata nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ovvero in negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in ragione dell’interesse giuridicamente protetto di colui che instaura un rapporto con l’amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. III, Consiglio di Stato, sez. III, 15/05/2018, n. 2882; 30/07/2013, n. 4020). Pertanto, la responsabilità deve essere negata quando l’indagine conduce al riconoscimento dell’errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 7 gennaio 2013, n. 23; Sez. V, 31 luglio 2012, n. 4337). Per la configurabilità della colpa dell’Amministrazione, in altri termini, occorre avere riguardo al carattere della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell’elemento psicologico nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all’Autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità . Ed, infatti, a fronte di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità dell’Amministrazione potrà essere affermata nei soli casi in cui l’azione amministrativa ha disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e dell’imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell’errore scusabile (cfr. ex multis Cons. St., sez. IV., 31 marzo 2015, n. 1683; 28/07/2015, n. 3707)”.
La formulazione del surriportato principio di diritto, per la sua chiarezza ed esaustività, non richiede ulteriori precisazioni, se non di mero contorno.
In particolare, da esso è ricavabile il corollario secondo cui, così come la colpa non costituisce il necessario pendant della illegittimità del provvedimento lesivo, pur consacrata da una pregressa o contestuale statuizione giurisdizionale di annullamento, in ana modo, la riconoscibilità dell’errore scusabile non scaturisce automaticamente dalla costatazione della natura discrezionale del provvedimento all’origine del pregiudizio, ma dal grado di “rimproverabilità ” del vizio riscontrato (ovvero della lacuna istruttoria, della carenza motivazionale o della distonia valutativa che ne è alla base): sì che, anche in costanza di una determinazione provvedimentale discrezionalmente connotata (ed a fortiori nell’ipotesi di provvedimento vincolato), il carattere colposo del comportamento lesivo dell’Amministrazione può nondimeno essere rilevato, qualora il vizio invalidante sia la conseguenza di una violazione grave dei doveri di approfondimento istruttorio e/o di ponderazione comparativa degli interessi compresenti, di cui si sostanzia la scelta amministrativa discrezionale.
Venendo alla fattispecie oggetto di giudizio, la sentenza appellata ha ravvisato la fondatezza della censura con la quale veniva dedotto che il Comune di -OMISSIS- aveva inoltrato alla Prefettura di Catanzaro richiesta antimafia a carico della ditta del ricorrente ai sensi dell’art. 100 d.lvo n. 159/2011, benché la disposizione circoscrivesse l’adempimento alla “stipulazione, all’approvazione o all’autorizzazione di qualsiasi contratto o subcontratto, ovvero precedentemente al rilascio di qualsiasi concessione o erogazione indicati nell’articolo 67 indipendentemente dal valore economico degli stessi”) e la SCIA presentata dal ricorrente fosse sostitutiva dei (diversi) provvedimenti abilitativi di cui al capo a) dell’art. 67, ovvero licenze ed autorizzazioni di commercio, risultando conseguentemente estranea al perimetro applicativo della norma menzionata.
Deve premettersi che il vizio afferisce ai presupposti di legittimità, di carattere vincolato, dei provvedimenti impugnati in primo grado: cionondimeno, esso si inserisce in un contesto normativo che, come hanno chiarito gli sviluppi giurisprudenziali successivi, è compatibile con una lettura fluida, e non rigidamente scriminante, dei confini applicativi degli istituti della comunicazione e della informazione antimafia.
Invero, come ha chiarito questa Sezione con la recentissima sentenza n. -OMISSIS- del 18 aprile 2018, “infondata è anche la seconda doglianza, stando alla quale l’informativa antimafia non può condurre all’inibizione del rilascio di autorizzazioni e licenze e di contributi pubblici. Sul punto questo Consiglio di Stato ha già chiarito – sia in sede consultiva (con il parere della sez. I, 17 novembre 2015, n. 497), sia soprattutto, in sede giurisdizionale (con le sentenze della sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565 e 8 marzo 2017, n. 1109) – che anche le attività soggette al rilascio di autorizzazioni, licenze o a s.c.i.a. soggiacciono alle informative antimafia e che è pertanto superata la rigida bipartizione e la tradizionale alternatività tra comunicazioni antimafia, applicabili alle autorizzazioni, e informazioni antimafia, applicabili ad appalti, concessioni, contributi ed elargizioni. Nel parere del Consiglio di Stato, sez. I, n. 3088 del 17 novembre 2015, si è in particolare evidenziato che “le perplessità di ordine sistematico e teleologico sollevate in ordine all’applicazione di tale disposizione anche alle ipotesi in cui non vi sia un rapporto contrattuale – appalti o concessioni – con la pubblica amministrazione non hanno ragion d’essere, posto che anche in ipotesi di attività soggette a mera autorizzazione l’esistenza di infiltrazioni mafiose inquina l’economia legale, altera il funzionamento della concorrenza e costituisce una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubbliche”. Il chiaro indirizzo ermeneutico seguito dal Consiglio di Stato ha trovato poi l’autorevole conforto della Corte costituzionale che, nel respingere la questione di costituzionalità sollevata dal T.A.R. per la Sicilia, sezione staccata di Catania, ha chiarito, nella recente sentenza n. 4 del 18 gennaio 2018, che “nel contesto del d.lgs. n. 159 del 2011, e sulla base della legge delega n. 136 del 2010, nulla autorizza quindi a pensare che il tentativo di infiltrazione mafiosa, acclarato mediante l’informazione antimafia interdittiva, non debba precludere anche le attività di cui all’art. 67, oltre che i rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione, se così il legislatore ha stabilito”. Peraltro, i dubbi circa la ragionevolezza di una anticipazione della soglia di tutela preventiva anche nell’ambito dell’economia privata (al quale afferiscono i titoli autorizzatori all’esercizio di attività commerciali), oltre che nel settore dei rapporti contrattuali con la PA (oggetto privilegiato dell’informativa antimafia), si rivelano malriposti proprio in relazione a fattispecie, come quella qui in esame, in cui l’interesse pubblico esige di evitare l’erogazione di finanziamenti in favore di imprese attinte da concreti indizi di vicinanza alla criminalità organizzata. Come di recente ribadito sul punto dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato (nella decisione n. 3 del 6 aprile 2018):
– il provvedimento di cd. “interdittiva antimafia” determina una particolare forma di incapacità giuridica, e dunque la insuscettività del soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che determinino (sul proprio cd. lato esterno) rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione riconducibili a quanto disposto dall’art. 67 d.lgs. -OMISSIS- 2011 n. 159 (Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2016 n. 3247);
– ai sensi dell’art. 67, co. 1, lett. g) del d.lgs. -OMISSIS- 2011 n. 159, è quindi preclusa al soggetto colpito dall’interdittiva antimafia ogni possibilità di ottenere “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”, stante l’esigenza di evitare ogni “esborso di matrice pubblicistica” in favore di imprese soggette ad infiltrazioni criminali”.
In tale quadro, in cui la linea distintiva – quanto a fattispecie applicative – della comunicazione e dell’informazione antimafia assume toni particolarmente sfumati, la decisione dell’Amministrazione comunale appellata (e quella della Prefettura di Catanzaro di darvi seguito) di richiedere l’informazione antimafia anche in una ipotesi di presentazione, successivamente al commissariamento dell’ente locale, di una SCIA, non si pone in frontale conflitto con i canoni di legge, come sarebbe richiesto al fine di escludere la configurabilità, a fondamento del vizio riscontrato dal T.A.R., di un cd. errore scusabile: ciò tanto più in quanto la delicatezza degli interessi pubblici coinvolti e la stessa intrinseca connotazione anticipatrice dell’interdittiva antimafia giustificano in certa misura, ai fini del giudizio risarcitorio, un particolare rigore dell’Amministrazione nell’applicazione dell’istituto.
La conclusione attinta non muta ove si consideri che l’art. 100 d.lvo n. 159/2011 circoscrive puntualmente e, apparentemente, senza lasciare residuare dubbi interpretativi, l’obbligo per l’ente locale, sciolto ai sensi dell’articolo 143 d.lvo n. 267/2000, di acquisire, nei cinque anni successivi allo scioglimento, l’informazione antimafia, con riferimento “alla stipulazione, all’approvazione o all’autorizzazione di qualsiasi contratto o subcontratto, ovvero precedentemente al rilascio di qualsiasi concessione o erogazione indicati nell’articolo 67 indipendentemente dal valore economico degli stessi”: basti osservare che il succitato orientamento giurisprudenziale, nel dilatare (sostanzialmente) i limiti applicativi dell’informazione antimafia, non può non condizionare l’interpretazione di tutte le norme che alla sua rigida e netta differenziazione applicativa dalla comunicazione antimafia si richiamino, accreditando soluzioni ermeneutiche con esso coerenti (ciò, inevitabilmente, anche con riferimento al periodo antecedente alla espressa affermazione giurisprudenziale di quei principi).
Del resto, una volta acclarata la generale applicabilità anche ai titoli autorizzatori dell’istituto dell’informazione antimafia, assume rilievo secondario l’impulso dato in concreto alla attivazione del relativo procedimento (e quindi la sussistenza dei presupposti atto a renderlo obbligatorio, secondo la specifica disciplina concernente i Comuni interessati da scioglimento ex art. 143 d.lvo n. 267/2000), trovando il legittimo perfezionamento del titolo abilitativo ostacolo nell’esistenza di una informazione interdittiva comunque (e doverosamente, secondo la disciplina generale dell’istituto) acquisita.
Va a questo punto evidenziato che un ulteriore vizio ravvisato dal T.A.R. a fondamento dei provvedimenti impugnati (recte, del provvedimento comunale di revoca) attiene alla inidoneità dell’informazione antimafia ad esprimere una chiara e coerente valutazione di pericolosità “oggettiva” dell’attività assentita con la SCIA prot. n. -OMISSIS- del -OMISSIS-, come richiesto dall’art. 100 R.D. n. 773/1931, ai sensi del quale “oltre i casi indicati dalla legge, il questore può sospendere la licenza di un esercizio, anche di vicinato, nel quale siano avvenuti tumulti o gravi disordini, o che sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose o che, comunque, costituisca un pericolo per l’ordine pubblico, per la moralità pubblica e il buon costume o per la sicurezza dei cittadini”.
Ebbene, la così operata individuazione del parametro normativo da cui il T.A.R., in accoglimento della corrispondente censura attorea, ha fatto discendere il vizio riscontrato impone di escludere che da esso siano ricavabili elementi ulteriori a conforto e dimostrazione della qualificazione colposa dell’azione amministrativa all’origine del danno lamentato.
Deve invero rilevarsi che il T.A.R. ha fondato la sua conclusione sul presupposto interpretativo secondo cui la revoca di un esercizio commerciale, ai sensi della disposizione citata, “non è connessa alla persona del gestore, ma dipende dalla “pericolosità ” riscontrata nell’ambito del locale: tumulti, commissione di reati, riunioni tra pregiudicati, incontri e frequentazioni sospette. La finalità perseguita, infatti, non è quella di sanzionare la condotta del gestore di un pubblico esercizio, bensì quella di impedire, attraverso la chiusura del locale, il protrarsi di una situazione di pericolosità sociale; ragion per cui si ha riguardo esclusivamente all’esigenza obiettiva di tutelare l’ordine e la sicurezza dei cittadini, indipendentemente da ogni responsabilità dell’esercente”: ciò si evince chiaramente dal rilievo critico, contenuto nella suddetta sentenza, secondo il quale “nella nota prefettizia non vi è alcun cenno all’attuale pericolosità sociale del locale né può trovare ingresso alcuna presunzione sulla pericolosità sociale del locale derivante ex se dalla dedotta pericolosità sociale del ricorrente, trattandosi di provvedimenti che vanno a incidere sul diritto costituzionalmente garantito della libertà d’iniziativa economica. Ebbene, né la Prefettura prima, né il Comune hanno denunciato il verificarsi di episodi in grado di turbare l’ordine pubblico all’interno della struttura commerciale: nessun reato svoltosi all’interno, nessuna cattiva frequentazione; né è formulato un giudizio prognostico di pericolo che il locale possa costituire luogo idoneo al possibile verificarsi di reati di impatto sociale, nonché ambiente favorevole all’aggregazione di persone socialmente pericolose”.
In tale contesto, dai surriportati passaggi motivazionali della statuizione di annullamento non è dato ricavare alcun profilo di illegittimità a carico della informazione antimafia prefettizia, nei suoi intimi contenuti discrezionali, ma solo del provvedimento comunale adottato in applicazione dell’art. 100 R.D. n. 773/1931: né la parte appellante allega profili ulteriori, alla luce dei quali possa ritenersi dimostrata la derivazione del provvedimento prefettizio, per sé considerato, da una attività istruttoria e/o valutativa carente o illogica.
Ebbene, poiché, quantomeno nell’ottica ricostruttiva dell’elemento soggettivo della fattispecie risarcitoria, i provvedimenti impugnati in primo grado trovano plausibile (nel senso, pertinente al tema in questa sede affrontato, di “non rimproverabile”) fondamento nel combinato disposto degli artt. 67 e 100 d.lvo n. 159/2011, così come applicabili alla luce dell’invalso (ma non ininfluente ai fini della regolazione delle fattispecie pregresse) orientamento giurisprudenziale dianzi citato, non incide sulla soluzione della presente controversia l’eventuale inescusabilità dell’azione amministrativa sotto il concorrente profilo potestativo riconducibile all’art. 100 R.D. n. 773/1931: i principi causalistici che presiedono all’accertamento dell’evento dannoso impongono infatti di affermare che il pregiudizio lamentato si connette ad una assorbente fonte produttiva, qual è l’informativa antimafia richiesta ed emessa ai sensi dell’art. 100 d.lvo n. 159/2011, che relega in secondo piano gli eventuali ulteriori titoli legittimanti in cui l’azione amministrativa ha potuto trovare fondamento (come quello connesso, appunto, all’art. 100 T.U.L.P.S.).
L’appello in conclusione, per le ragioni illustrate, deve essere respinto.
L’originalità dell’oggetto della controversia giustifica infine la compensazione delle spese del giudizio di appello.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese del giudizio di appello compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 31 gennaio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Marco Lipari – Presidente
Pierfrancesco Ungari – Consigliere
Giovanni Pescatore – Consigliere
Raffaello Sestini – Consigliere
Ezio Fedullo – Consigliere, Estensore

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