Corte di Cassazione, sezione quinta penale, Sentenza 28 gennaio 2019, n. 4025.

La massima estrapolata:

Per l’individuazione del soggetto passivo del reato di diffamazione a mezzo stampa, in mancanza di indicazione specifica, e’ sufficiente il riferimento inequivoco a fatti e circostanze di notoria conoscenza, attribuibili ad un determinato soggetto: l’individuazione del soggetto passivo del reato di diffamazione a mezzo stampa, in mancanza di indicazione specifica, ovvero di riferimenti inequivoci a fatti e circostanze di notoria conoscenza, attribuibili ad un determinato soggetto, deve dunque essere deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione oggettiva dell’offesa, quale si desume anche dal contesto in cui e’ inserita; in altri termini, essa deve avvenire attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali e simili, i quali devono, unitamente agli altri elementi che la vicenda offre, essere valutati complessivamente, cosi’ che possa desumersi, con ragionevole certezza, l’inequivoca individuazione dell’offeso, sia in via processuale che come fatto preprocessuale, cioe’ come piena e immediata consapevolezza dell’identita’ del destinatario che abbia avuto chiunque abbia letto l’articolo diffamatorio, o, nel caso di specie, il testo pubblicato su Facebook.

Sentenza 28 gennaio 2019, n. 4025

Data udienza 19 dicembre 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MICCOLI Grazia – Presidente

Dott. BELMONTE Maria Teresa – Consigliere

Dott. ROMANO Michele – Consigliere

Dott. CAPUTO Angelo – rel. Consigliere

Dott. BORRELLI Paola – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 11/02/2016 della CORTE APPELLO di ANCONA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. ANGELO CAPUTO
Udito in pubblica udienza il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione Dott. Seccia Domenico, che ha concluso l’inammissibilita’ dei ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza deliberata in data 11/02/2016, la Corte di appello di Ancona ha confermato la sentenza del 26/06/2014 con la quale, all’esito del giudizio abbreviato, il Tribunale di Pesaro aveva dichiarato (OMISSIS) responsabile dei reati di diffamazione e minaccia commessi il (OMISSIS) in danno del querelante (OMISSIS), condannando l’imputata alla pena pecuniaria di giustizia e al risarcimento dei danni in favore della parte civile liquidate in Euro 500.
2. Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Ancona ha proposto personalmente ricorso per cassazione l’imputata, articolando due motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’articolo 173 disp. att. c.p.p., comma 1.
Il primo motivo denuncia, con riguardo all’imputazione di diffamazione, vizi di motivazione in ordine all’individuabilita’ del soggetto passivo.
Il secondo motivo denuncia mancanza di motivazione in relazione all’imputazione di minaccia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ solo in parte fondato.
1.1. In premessa, mette conto rilevare che la Corte di appello ha esaminato la questione della individuabilita’ del soggetto passivo con riferimento ad entrambe le imputazioni, cosi’ come, del resto, aveva fatto l’appellante nel primo motivo di gravame. La questione e’ stata risolta dal giudice di appello nel senso che nei testi pubblicati dall’imputata su Facebook risultava con chiarezza descritta la vicenda (la contravvenzione elevata nei confronti di (OMISSIS) dai Vigili Urbani di (OMISSIS)) e identificabile sia l’episodio, sia, con sicurezza, l’unico componente di sesso maschile della pattuglia: nonostante la mancata identificazione nominativa, la narrazione dell’episodio, la specificita’ della vicenda, la pubblicazione di commenti sul social network accessibile ad una pluralita’ di persone ha reso esattamente conoscibile il destinatario a soggetti in grado di risalire da quegli elementi all’identita’ della persona offesa, tanto che la notizia raggiungeva (OMISSIS) grazie all’informazione dei colleghi (OMISSIS) e (OMISSIS), che gia’ il giorno successivo ne avevano avuto conoscenza.
2. Le censure relative all’imputazione di diffamazione sono fondate.
2.1. Come questa Corte ha avuto modo di precisare, per l’individuazione del soggetto passivo del reato di diffamazione a mezzo stampa, in mancanza di indicazione specifica, e’ sufficiente il riferimento inequivoco a fatti e circostanze di notoria conoscenza, attribuibili ad un determinato soggetto (Sez. 5, n. 28661 del 09/06/2004, Sinn, Rv. 229313): l’individuazione del soggetto passivo del reato di diffamazione a mezzo stampa, in mancanza di indicazione specifica, ovvero di riferimenti inequivoci a fatti e circostanze di notoria conoscenza, attribuibili ad un determinato soggetto, deve dunque essere deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione oggettiva dell’offesa, quale si desume anche dal contesto in cui e’ inserita (Sez. 5, n. 2135 del 07/12/1999 – dep. 2000, Pivato, Rv. 215476); in altri termini, essa deve avvenire attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali e simili, i quali devono, unitamente agli altri elementi che la vicenda offre, essere valutati complessivamente, cosi’ che possa desumersi, con ragionevole certezza, l’inequivoca individuazione dell’offeso, sia in via processuale che come fatto preprocessuale, cioe’ come piena e immediata consapevolezza dell’identita’ del destinatario che abbia avuto chiunque abbia letto l’articolo diffamatorio (Sez. 5, n. 33442 del 08/07/2008, De Bortoli, Rv. 241548; conf. Sez. 5, n. 15643 del 11/03/2005, Scalfari, Rv. 232135), o, nel caso di specie, il testo pubblicato su Facebook.
2.2. La Corte di appello non ha fatto buon governo dei princi’pi di diritto richiamati. Escluso, alla luce delle sentenze di merito, che la vicenda relativa alla multa irrogata all’imputata abbia assunto caratteri di notorieta’, l’identificabilita’ del destinatario delle espressioni offensive in termini di affidabile o ragionevole certezza da parte di chiunque abbia letto il testo pubblicato su Facebook e’ escluso dalla stessa sentenza impugnata che ha evidenziato come detto destinatario fosse conoscibile (non gia’ a qualsiasi lettore, bensi’) ai soli soggetti in grado di risalire dagli elementi della vicenda riportati nel testo all’identita’ della persona offesa: il che esclude l’inequivoca individuazione dell’offeso. Pertanto, in parte qua, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, perche’ il fatto non sussiste.
3. A diverse conclusioni deve giungersi con riferimento al reato di minaccia: diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, il capo e’ stato esaminato dal giudice di appello nei termini “unitari”, rispetto al reato di diffamazione, sopra indicati, sicche’ il motivo si rivela infondato.
D’altra parte, mette conto comunque ribadire che ai fini della configurabilita’ del delitto di minaccia non occorre che le espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa, potendo quest’ultima venirne a conoscenza anche attraverso altre persone, purche’ cio’ si verifichi in un contesto dal quale possa desumersi che il soggetto attivo abbia avuto la volonta’ di produrre l’effetto intimidatorio (Sez. 6, n. 8898 del 03/12/2010 – dep. 2011, Licursi, Rv. 249634; conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 38387 del 01/03/2017, Dardo, Rv. 271202): contesto, questo, del quale la Corte di appello ha dato atto, evidenziando come il giorno dopo la pubblicazione del fatto due colleghi della persona offesa ne erano venuti a conoscenza e ne informarono (OMISSIS).
4. Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente al reato di diffamazione, perche’ il fatto non sussiste, mentre il ricorso deve essere rigettato con riferimento all’imputazione di minaccia.
Questa Corte, considerata la comminatoria edittale del reato di minaccia semplice all’epoca del fatto (anteriore alla modifica introdotta dal Decreto Legge 14 agosto 2013, n. 93, articolo 1, comma 2-ter, convertito con modificazioni, con la L. 15 ottobre 2013, n. 119, prima della quale la pena prevista dall’articolo 612 c.p.p., comma 1, era la multa fino ad Euro 51; successivo all’articolo 24 c.p., comma 1, come modificato dalla L. 15 luglio 2009, n. 94, articolo 3, comma 60, in forza del quale la pena della multa non e’ inferiore ad Euro 50, limite, questo, inderogabile anche quando il giudice applica le riduzioni di pena per le attenuanti e per il rito speciale: Sez. 5, n. 7453 del 16/10/2013 – dep. 2014, Bertuzzi, Rv. 259530), puo’ procedere alla rideterminazione della pena nella misura di Euro 50 multa.
Quanto al risarcimento del danno morale, la sentenza di primo grado lo ha liquidato unitariamente in Euro 500, sicche’ deve ritenersi che la “quota” relativa a ciascuno dei due reati per i quali era intervenuta condanna era uguale all’altra; pertanto, a seguito dell’annullamento senza rinvio limitatamente all’imputazione di diffamazione, il danno liquidato va rideterminato in Euro 250.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di diffamazione, perche’ il fatto non sussiste. Rigetta nel resto il ricorso e ridetermina la pena in Euro 50 di multa e il danno liquidato in Euro 250,00 (duecentocinquanta/00).

Avv. Renato D’Isa

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