In tema di vizio della sentenza di primo grado

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 2 settembre 2019, n. 21953.

La massima estrapolata:

Qualora venga dedotto il vizio della sentenza di primo grado per avere il tribunale deciso la causa nel merito prima ancora che le parti avessero definito il “thema decidendum” e il “thema probandum”, l’appellante che faccia valere tale nullità non può limitarsi a dedurre detta violazione, ma deve specificare quale sarebbe stato il “thema decidendum” sul quale il giudice di primo grado si sarebbe dovuto pronunciare, ove fosse stata consentita la richiesta appendice di cui all’art. 183 c.p.c., e quali prove sarebbero state dedotte, con l’evidenziazione del concreto pregiudizio derivato dalla loro mancata ammissione.

Ordinanza 2 settembre 2019, n. 21953

Data udienza 10 maggio 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere

Dott. VARRONE Luca – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 29432/2015 proposto da:
(OMISSIS), rappresentata e difesa dagli Avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS) ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo in (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), rappresentati e difesi dagli Avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo, in (OMISSIS);
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 1647/2015 della CORTE d’APPELLO di BOLOGNA, pubblicata il 6/10/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/05/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 783/2014, depositata in data 2.7.2014, il Tribunale di Parma respingeva la domanda proposta da (OMISSIS) nei confronti di (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), quali eredi di (OMISSIS), titolare dell’impresa (OMISSIS), di ripetizione delle somme allo stesso versate in piu’ rispetto al dovuto da (OMISSIS) (ex marito dell’attrice) in relazione al contratto di appalto avente a oggetto i lavori, asseritamente non completati, di ristrutturazione di un immobile ad uso abitativo, in comproprieta’ tra gli ex coniugi (OMISSIS).
In particolare, il Tribunale dichiarava il difetto di legittimazione dell’attrice ad agire ai sensi dell’articolo 2033 c.c., non avendo ella corrisposto alla (OMISSIS) le somme di cui richiedeva la ripetizione e non essendo stata parte del contratto di appalto concluso tra il suo ex marito e la (OMISSIS), rilevando che se la (OMISSIS) lamentava di aver sofferto un danno per somme corrisposte dall’ (OMISSIS) all’impresa in piu’ oltre il dovuto, era all’ (OMISSIS) che avrebbe dovuto rivolgersi e non all’impresa esecutrice delle opere, con cui non aveva avuto alcun rapporto. Evidenziava altresi’ che la domanda proposta dall’attrice non avesse carattere risarcitorio, ma fosse relativa al contratto di appalto inter partes, alla restituzione a suo favore di indebito (o in subordine di arricchimento senza causa) per somme corrisposte dall’ (OMISSIS) in piu’ oltre al dovuto.
Avverso la sentenza proponeva appello la (OMISSIS), deducendone, con il primo motivo, la nullita’ per avere il Tribunale, all’esito della prima udienza di comparizione, separato la causa da lei proposta contro gli eredi (OMISSIS) da quella contestualmente proposta contro il suo ex marito, (OMISSIS), denunciando la violazione dell’articolo 183 c.p.c. e degli articoli 102, 103, 273 e 274 c.p.c., in assenza di idonei presupposti per mantenere le cause separate. Quale altro motivo di nullita’, censurava il provvedimento collegiale di rigetto del reclamo dalla medesima proposto avverso l’ordinanza di separazione delle cause per avere il Tribunale deciso nonostante il deposito all’udienza di discussione di memorie avversarie non autorizzate. Quale ulteriore vizio in procedendo l’appellante lamentava che il Tribunale avesse di fatto soppresso la prima udienza di comparizione, disponendo la separazione delle cause e fissando l’udienza di precisazione delle conclusioni per la causa proposta nei confronti degli eredi (OMISSIS) senza darle corretta possibilita’ difensiva, anche ai sensi dell’articolo 183 c.p.c., comma 6. Con il secondo motivo la (OMISSIS) contestava la sentenza nel merito definendola “ingiusta”, con richiamo ad alcuni precedenti di legittimita’.
Previa richiesta di rimessione in termini per integrare deduzioni e produzioni indispensabili a suffragio dell’iniziale domanda ex articolo 183 c.p.c., l’appellante concludeva per la dichiarazione di illegittimita’ e nullita’ del provvedimento collegiale del 20.1.2014 di rigetto del reclamo e di nullita’ della sentenza impugnata con richiesta di riunione delle due cause. Nel merito, chiedeva la condanna solidale degli eredi (OMISSIS) a indennizzarla della perdita di valore subita dal suo patrimonio in dipendenza delle iniziative concordate tra (OMISSIS) e (OMISSIS).
Si costituivano in giudizio (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), i quali contestavano il fondamento e l’ammissibilita’ del gravame.
Con sentenza n. 1647/2015, depositata in data 6.10.2015, la Corte d’Appello di Bologna respingeva l’appello;dichiarava inammissibili le domande ex articoli 89 e 96 c.p.c., proposte dagli appellati; condannava l’appellante alle spese di lite del grado.
In particolare, la Corte riteneva che non fosse impugnabile davanti al Giudice superiore il provvedimento di separazione delle cause avente contenuto ordinatorio, evidenziando che l’appellante non aveva neppure allegato copia dell’ordinanza collegiale di rigetto del reclamo avverso il provvedimento di separazione. Inoltre, la (OMISSIS) non si poteva lamentare del mancato rispetto dell’articolo 183 c.p.c., comma 2, per non avere il Tribunale fissato nuova udienza di trattazione, in quanto il provvedimento di separazione non rientrava nelle ipotesi indicate nel comma 1 della citata norma. Infine, con riferimento alla mancata concessione dei termini ex articolo 183 c.p.c., comma 6, la Corte rilevava che la (OMISSIS) nell’atto di appello non avesse indicato le consentite modificazioni o integrazioni che avrebbe apportato al thema decidendum, ove fossero stati concessi i termini ex articolo 183 c.p.c., limitandosi a censurare la mancata concessione dei termini con richiesta di rimessione in termini, senza indicare il concreto pregiudizio subito. Nel merito, la domanda veniva rigettata, trattandosi non gia’ di domanda risarcitoria o di indennizzo, ma di ripetizione di indebito, alla quale era legittimato solo l’ (OMISSIS).
Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione (OMISSIS) sulla base di quattro motivi; resistono (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, la ricorrente deduce la “Nullita’ della sentenza”, per violazioni di diritto cosi’ enucleate: a) violazione del concetto di causa petendi, che i Giudici di merito avevano attribuito alla domanda di indebito arricchimento nei confronti dei (OMISSIS) – (OMISSIS) e di risarcimento dei danni nei confronti dell’ (OMISSIS). Secondo la ricorrente – che richiama Cass. n. 9177/1997, secondo cui per causae petendi idonee a identificare la domanda devono intendersi l’insieme delle circostanze di fatto; laddove, il “fatto” della consegna di un immobile non terminato e dopo un decennio non abitabile, e’ da ritenere unico e inscindibile – si sarebbe trattato di un litisconsorzio unitario; b) mancata fissazione di nuova prima udienza di trattazione dopo il provvedimento di separazione, avendo ritenuto la Corte di merito che le ipotesi di cui all’articolo 183 c.p.c., comma 1, fossero tassative e non esemplificative; c) violazione del diritto di difesa della ricorrente, privata della facolta’ di modificare domande ed eccezioni e formulare richieste istruttorie sulla questione. L’appellante aveva insistito nella rimessione in termini ex articolo 183 c.p.c., per integrare deduzioni e produzioni indispensabili a suffragio della domanda iniziale.
1.1. – Il motivo e’ inammissibile, con riferimento alla censura sub a), poiche’ la denunciata nullita’ della sentenza impugnata – non derivante, in parte qua, da un vizio in procedendo – risulta riferita alla presunta violazione del concetto di causa petendi derivante da una pretesa errata qualificazione della domanda da parte di entrambi i giudici di merito.
Al di la’ di una evidente carenza di specificita’ della censura (Cass. n. 24773 del 2018), riferita ad entrambi i gradi di giudizio, costituisce, infatti, principio consolidato quello secondo cui, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, il giudice di merito non e’ condizionato dalla formulazione letterale adottata dalla parte (Cass. n. 26159 del 2014; Cass. n. 21087 del 2015), dovendo egli tener conto del contenuto sostanziale della pretesa come desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del medesimo, nonche’ del provvedimento in concreto richiesto, non essendo condizionato dalla mera formula adottata dalla parte (Cass. n. 5442 del 2006; n. 27428 del 2005). L’interpretazione della domanda costituisce, dunque, operazione riservata al giudice del merito (Cass. sez. un. 4617 del 2011), il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, non e’ censurabile in sede di legittimita’, quando (come nella fattispecie, v. sentenza impugnata pagine 5-6) sia motivato in maniera congrua ed adeguata avuto riguardo all’intero contesto dell’atto e senza che ne risulti alterato il senso letterale (Cass. n. 18842 del 2018; Cass. n. 22893 del 2008).
1.2. – Quanto alle censure sub b) e c) del medesimo primo motivo, da valutarsi congiuntamente data la loro stretta connessione e consequenzialita’ logico-giuridica, ne va ritenuta la non fondatezza.
La Corte distrattuale ha, da un lato, correttamente rilevato ed analiticamente motivato in ordine al fatto che la ricorrente non potesse dolersi (dopo la separazione delle cause) del mancato rispetto da parte del Tribunale dell’articolo 183 c.p.c., comma 2 (nella formulazione applicabile ratione temporis alla fattispecie), giacche’ la previsione della fissazione della nuova udienza di trattazione trova applicazione nelle ipotesi di cui dello stesso articolo 183, comma 1, alle quali e’ palesemente non sussumibile quella in discussione. Dall’altro lato, ha affermato che – seppure legittimamente la ricorrente si sia lamentata della mancata concessione dei termini di cui all’articolo 183 c.p.c., comma 6, richiesta da entambe le parti all’udienza di prima comparizione – tuttavia tale vizio non puo’ produrre gli effetti voluti dalla appellante.
1.3. – Osserva infatti la Corte di merito che, ai sensi dell’articolo 183 c.p.c., comma 6, qualora le parti ne facciano richiesta alla prima udienza, il giudice “concede” i termini perentori previsti dalla stessa disposizione per consentire la definitiva determinazione del thema probandum e del thema decidendum. E che “la chiara lettura della norma” non da spazio (nella specie) all’esercizio di un potere “discrezionale” da parte del primo giudice, tanto piu’ in presenza di richiesta congiunta del termine, disattesa senza motivazione.
Ma, altrettanto correttamente, il giudice di appello ha affermato che il dedotto error in procedendo non potesse portare alla dichiarazione di nullita’ della sentenza (Cass. n. 23162 del 2014; conf. Cass. n. 24402 del 2018).
1.4. – E’ principio consolidato che, qualora venga dedotto il vizio della sentenza di primo grado per avere il tribunale deciso la causa nel merito prima ancora che le parti avessero definito il thema decidendum e il thema probandum (o, cio’ che e’ lo stesso, senza che esse, pur avendolo chiesto, siano state poste in condizioni di definirli), l’appellante che faccia valere tale nullita’ una volta escluso che la medesima comporti la rimessione della causa al primo giudice – non puo’ limitarsi a dedurre tale violazione, ma deve specificare sia quale sarebbe stato il thema decidendum sul quale il giudice di primo grado si sarebbe dovuto pronunciare ove fosse stata consentita la richiesta appendice di cui all’articolo 183 c.p.c., comma 6, sia quali prove sarebbero state dedotte, poiche’ in questo caso il giudice d’appello e’ tenuto soltanto a rimettere le parti in termini per l’esercizio delle attivita’ istruttorie non potute svolgere in primo grado (Cass. n. 17436 del 2011; Cass. n. 27128 del 2011; Cass. n. 9169 del 2008). Tale principio risponde a quello piu’ generale, in forza del quale l’ordinamento non appresta alcuna tutela all’interesse alla mera regolarita’ formale del processo, sicche’ l’interesse a denunciare la violazione di una norma processuale in tanto sussiste in quanto cio’ abbia comportato un pregiudizio alla sfera giuridica della parte (Cass. n. 3712 del 2012; Cass. sez. un. 15763 del 2011), la quale e’ pertanto tenuta ad allegare e dimostrare quali specifiche attivita’ avrebbe svolto, che tanto aveva sottoposto invano al giudice del merito e quali i danni sarebbero derivati dalla mancata osservanza delle norme sulla regolarita’ formale (Cass. n. 12812 del 2012). La denuncia di vizi di attivita’ del giudice garantisce, quindi, solo l’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa, in dipendenza del denunciato error in procedendo; sicche’, ove la parte ricorrente non indichi lo specifico e concreto pregiudizio subito, l’addotto error in procedendo non acquista rilievo idoneo a determinare la cassazione della sentenza impugnata (Cass. n. 9722 del 2013; Cass. n. 4020 del 2013; Cass. n. 19992 del 2012).
1.5. – La Corte di merito ha, quindi, legittimamente affermato che a siffatti principi giurisprudenziali la ricorrente non si fosse attenuta, attesa la mancanza di indicazione, nell’atto di appello, di quali consentite modificazioni o integrazioni avrebbe apportato al thema decidendum (ove in primo grado fossero stati concessi i richiesti termini), ne’ di quali prove ulteriori (cioe’ diverse da quelle documentali, gia’ indicate in citazione) avrebbe invocato o dedotto nel prosieguo; senza quindi indicare lo specifico e concreto pregiudizio subito (sentenza impugnata, pagina 5).
2. – Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta “Ex articolo 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione”, in quanto alla Corte distrettuale sarebbero sfuggiti i motivi per la rifissazione della prima udienza di trattazione per non avere letto bene, nel verbale del 13.1.2015, ne’ la memoria di replica di primo grado ne’ il reclamo al Collegio, contenenti le ragioni a sostegno della richiesta. Ed in quanto il giudizio della Corte territoriale si sarebbe rilevato superficiale e parziale, la’ dove gli appellati, da un lato, ritenevano che la (OMISSIS) fosse estranea al rapporto con l’Impresa (OMISSIS); dall’altro, invece, intervenivano nell’esecuzione immobiliare pendente contro la ricorrente, dopo aver iscritto ipoteca sull’appartamento coniugale, facendo valere un decreto ingiuntivo, notificato al solo (OMISSIS), ma assumendone il valore di giudicato implicito nei confronti della (OMISSIS) che non lo avrebbe impugnato.
2.1. – Il motivo e’ inammissibile.
2.2. – L’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella nuova formulazione adottata dal Decreto Legge n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 6 ottobre 2015) consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioe’, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).
Nel rispetto delle previsioni dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e articolo 369 c.p.c., comma 2, n. 4, la ricorrente avrebbe, dunque, dovuto specificamente e contestualmente indicare il “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisivita’” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).
2.3. – Viceversa, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (che sono sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui al n. 5 dell’articolo 360 c.p.c., non v’e’ in atti idonea indicazione. Laddove – in disparte il rilievo della genericita’ delle deduzioni rese, non meglio specificate (ne’ riprodotte nel ricorso in ossequio al principio di autosufficienza), che renderebbero comunque le asserite omissioni, di per se’, prive della necessaria decisivita’ (in considerazione soprattutto delle spiegate ragioni sottese al rigetto delle censure sub b) e c) del primo motivo) – le censure riguradano, non gia’ l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, bensi’ la mera richiesta di rivalutazione di deduzioni difensive, non riferibili all’ambito di applicazione del riformato paradigma dell’articolo 360 c.p.c., n. 5 (Cass. sez. un. 8053 del 2014; cfr. Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017).
3. – Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la “Violazione e falsa applicazione delle norme di cui all’articolo 1669 c.c. e degli articoli 2041, 2033 e segg., articolo 2946 c.c.”, avendo nell’atto di citazione invocato l’articolo 1669 c.c. nei confronti dell’ (OMISSIS) e gli articoli 2033-2041 c.c., nei confronti dell’appaltatore con il quale non aveva avuto rapporti diretti. Ove il G.I. avesse rifissato la prima udienza di trattazione, l’attrice avrebbe modificato le norme invocate, ponendo in primo piano l’articolo 1669 c.c., per entrambi i convenuti e gli articoli 2033 e 2041 c.c., in via subordinata.
3.1. – Il motivo non e’ fondato.
3.2. – La ricorrente svolge le proprie censure nuovamente muovendo dalla critica svolta in ordine alle conseguenze derivanti dalla mancata rifissazione da parte del G.I. della prima udienza di trattazione ex articolo 183 c.p.c., comma 2, che non le avrebbe consentito di modificare la domanda.
La non applicabilita’, nella specie, dell’articolo 183 c.p.c., comma 2, in ragione della insussistenza delle ipotesi di cui al precedente comma 1, nonche’ gli effetti della mancata concessione alle parti dei termini ex articolo 183 c.p.c., comma 6, sono gia’ stati oggetto di esame del primo motivo (v. sub 1.2. – 1.5.) cui si rinvia, con particolare riferimento al non adempiuto onere delle ricorrente di specificare quale sarebbe stato il thema decidendum ove fosse stata accolta la richiesta dei termini.
4. – Con il quarto motivo, la ricorrente deduce la “Violazione e falsa applicazione dell’articolo 2909 c.c.”, in quanto il decreto ingiuntivo, emesso contro l’ (OMISSIS) e a lui notificato era diventato definitivo per mancata opposizione, e si sarebbe convertito in giudicato implicito nei confronti della (OMISSIS), con seguente iscrizione di ipoteca per l’ammontare del credito azionato con il decreto ingiuntivo.
4.1. – Il motivo e’ inammissibile, in quanto non motivato e completamente carente quanto ai requisiti di specificita’ e di autosufficienza, nonche’ privo del rilievo necessario per la definizione della res litigiosa qui in esame.
5. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa altresi’ la dichiarazione di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento in favore dei controricorrenti delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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