In tema di risoluzione del contratto

Corte di Cassazione, sezione prima civile, Sentenza 14 maggio 2020, n. 8943.

La massima estrapolata:

In tema di risoluzione del contratto, con particolare riferimento alla diffida ad adempiere, un termine inferiore ai 15 giorni trova fondamento solo in presenza delle condizioni di cui all’art. 1454, comma 2, c.c.. Di conseguenza, in presenza dell’assegnazione del termine inferiore, risultano irrilevanti i precedenti solleciti rivolti al debitore per l’adempimento, la mancata contestazione del termine da parte del debitore e anche la mancata indicazione del diverso termine, reputato congruo, da parte del debitore.

Sentenza 14 maggio 2020, n. 8943

Data udienza 6 febbraio 2020

Tag – parola chiave: Risoluzione del contratto – Diffida ad adempiere – Termine minore di 15 giorni – Illiceità

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente

Dott. MARULLI Marco – Consigliere

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 24214/2016 proposto da:
(OMISSIS) S.r.l., in Liquidazione, in persona del liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo (OMISSIS), rappresentata e difesa dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1532/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 19/04/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/02/2020 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato (OMISSIS) che ha chiesto l’accoglimento;
uditi, per la controricorrente, l’Avvocato (OMISSIS) e (OMISSIS) che si riportano.

FATTI DI CAUSA

1. – Con contratto sottoscritto il 1 settembre 1998 (OMISSIS) s.p.a. conferiva a (OMISSIS) s.r.l. l’incarico di assistere in esclusiva, sia per l’Italia che per l’estero, il proprio management nell’attivita’ di licensing del marchio (OMISSIS). Tale attivita’ comprendeva: l’assistenza e la consulenza nel definire la strategia generale di tutela, sviluppo e utilizzo del marchio; la valorizzazione e stima della potenzialita’ e della redditivita’ dei principali licenziatari del marchio; la gestione e il controllo, per conto e in collaborazione con (OMISSIS), delle future attivita’ di licensing.
Nel corso dell’anno 2007 i rapporti tra le parti si incrinavano a causa di dissensi emersi nella gestione del contratto con la societa’ (OMISSIS) S.L., licenziataria spagnola del settore calzature. Il contratto di licenza con quest’ultima societa’ veniva risolto di diritto da (OMISSIS) con lettera del 13 aprile 2007. Con missiva del 3 dicembre 2007 (OMISSIS) rivolgeva, poi, a (OMISSIS) la richiesta di un dettagliato rapporto sull’andamento delle licenze per l’anno in corso, anche con riferimento ai rapporti relativi al settore calzaturiero. A tale richiesta la societa’ incaricata dell’attivita’ di licensing del marchio replicava con corrispondenza del 17 dicembre 2007 con cui si assumeva che quanto richiesto era estraneo all’incarico conferitole. La richiesta era reiterata il 21 dicembre 2007, con lettera che intimava la trasmissione del nominato report entro la data del 10 gennaio 2008, pena la risoluzione di diritto del contratto. (OMISSIS) dava riscontro a tale corrispondenza il giorno 10 gennaio 2008 attraverso la trasmissione di una relazione che (OMISSIS) riteneva del tutto insoddisfacente, e tale da giustificare la risoluzione di diritto del contratto.
2. – Seguiva un giudizio che si concludeva con sentenza del 6 maggio 2014 del Tribunale di Milano: con tale pronuncia (OMISSIS) era condannata al pagamento dell’importo di Euro 421.674,16, oltre interessi, per royalties dovute in relazione all’ultimo periodo di vigenza del contratto e, in parziale accoglimento della domanda riconvenzionale svolta dalla societa’ conferente l’incarico, veniva dichiarato risolto di diritto il contratto di cui si e’ detto, mentre nulla era riconosciuto alla stessa (OMISSIS) a titolo di risarcimento del danno.
3. – Con sentenza del 19 aprile 2016, la Corte di appello di Milano rigettava gli appelli, principale ed incidentale, spiegati, rispettivamente, da (OMISSIS) e da (OMISSIS). Nell’occasione, in estrema sintesi, e per quanto qui rileva, il giudice distrettuale rilevava che l’assegnazione di un termine inferiore rispetto a quello di quindici giorni previsto dall’articolo 1454 c.c., comma 2, doveva ritenersi legittimo; osservava che (OMISSIS) era tenuta allo svolgimento di una attivita’ di costante reporting, che invece, nella specie, non aveva avuto luogo; riteneva sussistente, in base all’articolo 1455 c.c., la gravita’ dell’inadempimento dell’appellante principale; affermava dovesse escludersi che (OMISSIS), nel dar corso al rapporto contrattuale, avesse privato la controparte delle prerogative che le spettavano in base al contratto concluso.
4. – La sentenza della Corte milanese e’ impugnata per cassazione da (OMISSIS) con un ricorso basato su tre motivi; resiste con controricorso (OMISSIS). Sono state depositate memorie.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi di ricorso possono riassumersi come segue.
1.1. – Con il primo motivo e’ lamentata la violazione o falsa applicazione degli articoli 1362, 1366 e 1371 c.c., per avere la Corte di appello violato i criteri giuridici che presiedono all’interpretazione dei contratti e, conseguentemente, affermato il carattere dovuto di una prestazione non prevista dalla convenzione conclusa il 1 settembre 1998. Assume la ricorrente che la sentenza impugnata muoverebbe dal presupposto che la prescrizione intimata da (OMISSIS) fosse “pienamente riconducibile nel novero degli obblighi” su di essa gravanti “a mente dell’articolo 1.5 del contratto”. Una corretta lettura della detta clausola, ad avviso della (OMISSIS), avrebbe dovuto invece persuadere del fatto che essa ricorrente era tenuta a eseguire prestazioni diverse da quelle indicate da (OMISSIS) con le comunicazioni del 3 dicembre 2007 e del 21 dicembre 2007. La Corte di merito sarebbe incorsa quindi in errore nella individuazione del significato del contratto, e cio’ per effetto di un malgoverno delle regole legali di interpretazione: segnatamente, della norma che impone all’interprete di valorizzare l’elemento letterale, di quella che richiede di apprezzare il comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto (avendo specificamente riguardo al fatto che fino al 2007 l’obbligo di reporting assunto contrattualmente dalla societa’ istante era stato attuato attraverso la previa messa a disposizione, da parte di (OMISSIS), delle informazioni concernenti le vendite che prima erano state fornite dai licenziatari) e delle prescrizioni contenute negli articoli 1366 e 1371 c.c..
1.2. – Il secondo motivo oppone la violazione o falsa applicazione degli articoli 1454 e 1455 c.c., oltre che dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per avere il giudice di appello affermato che la diffida ad adempiere di (OMISSIS) era idonea a determinare la risoluzione di diritto del contratto “in assenza dei presupposti giuridici per l’operativita’ del meccanismo risolutorio”. Rileva la ricorrente che l’errore interpretativo posto in essere dalla Corte lombarda si era riverberato sul giudizio relativo all’inadempimento di essa istante. In particolare, nella sentenza impugnata sarebbe stata assente una valutazione circa la scarsa importanza della inadempienza e la Corte di Milano avrebbe dovuto considerare: in primo luogo, che la medesima ricorrente non era rimasta inerte a fronte della richiesta di report; che il rapporto di licenza relativo alle calzature si era esaurito nell’aprile 2007 ed essa istante non aveva ricevuto, ne’ dal licenziatario, ne’ dalla controparte, “alcun dato da poter elaborare o trasmettere”; che il giudice del gravame avrebbe dovuto considerare che la diffida ad adempiere concerneva dati e informazioni gia’ acquisiti o comunque agevolmente acquisibili da parte di (OMISSIS). Inoltre, la pronuncia impugnata risulterebbe essere, secondo (OMISSIS), erronea ed illegittima, stante il mancato rispetto, da parte di (OMISSIS), del termine di quindici giorni previsto dall’articolo 1454 c.c., comma 2.
1.3. – Con il terzo mezzo la societa’ ricorrente prospetta la violazione o falsa applicazione dell’articolo 1363 c.c., per avere la Corte territoriale interpretato il contratto omettendo la considerazione di una delle sue clausole. Viene contestato che (OMISSIS) avesse avuto il diritto di svolgere in proprio, o mediante societa’ controllate, le medesime attivita’ affidate a (OMISSIS). In base all’articolo 2 del contratto, infatti, la controparte conservava una tale prerogativa “per i settori merceologici diversi da quelli oggetto dell’accordo (…) ovvero per il periodo successivo alla scadenza dell’accordo medesimo”.
2. – Il primo e il terzo motivo sono inammissibili.
2.1. – Il primo e’ carente di autosufficienza, in quanto non reca l’integrale riproduzione della clausola di cui all’articolo 1 del contratto (da cui e’ estrapolato un piccolo stralcio, che non possibile coordinare con la restante parte del pertinente testo contrattuale), ne’ spiega da dove emerga la circostanza per cui fino al 2007 l’obbligo di reporting contrattualmente previsto era stato posto in atto con le modalita’ descritte dalla ricorrente. Ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici si impone la trascrizione del testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto o della parte in contestazione, e cio’ ancorche’ la sentenza abbia fatto ad essa riferimento, riproducendone solo in parte il contenuto, qualora cio’ non consenta una sicura ricostruzione del diverso significato che ad essa il ricorrente pretenda di attribuire (Cass. 3 settembre 2010, n. 19044; Cass. 12 luglio 2007, n. 15604; Cass. 7 marzo 2007, n. 5273; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178; nel senso, sostanzialmente conforme, che ove venga fatta valere la inesatta interpretazione di una norma contrattuale, il ricorrente per cassazione e’ tenuto, in ossequio al principio dell’autosufficienza del ricorso, a riportare nello stesso il testo della fonte pattizia invocata, al fine di consentirne il controllo al giudice di legittimita’, che non puo’ sopperire alle lacune dell’atto di impugnazione con indagini integrative: Cass. 8 marzo 2019, n. 6735; Cass. 11 luglio 2007, n. 15489). Un analogo onere si impone, evidentemente, con riguardo agli elementi interpretativi extratestuali rilevanti sul piano dell’apprezzamento del comportamento tenuto dalle parti nel dare esecuzione al contratto: nel caso in cui si faccia questione della corretta applicazione dell’articolo 1362 c.c., comma 2, e’ infatti anzitutto necessario che il ricorrente per cassazione indichi puntualmente le acquisizioni processuali su cui si fonda la censura, in conformita’ di quanto previsto dall’articolo 366 c.p.c..
La constatata inammissibilita’ delle censure sollevate nella prima parte del motivo rende inammissibile quella di violazione e falsa applicazione degli articoli 1366 e 1371 c.c., dal momento che i criteri interpretativi posti da queste due norme non possono operare se – come nella fattispecie e’ accaduto – l’applicazione delle regole di interpretazione soggettiva (o storica), siano ritenute sufficienti, dal giudice del merito, a chiarire il significato della pattuzione. Infatti, le regole legali di ermeneutica contrattuale sono governate da un principio di gerarchia, in forza del quale i criteri degli articoli 1362 e 1363 c.c., prevalgono su quelli integrativi degli articoli 1365-1371 c.c., posto che la determinazione oggettiva del significato da attribuire alla dichiarazione non ha ragion d’essere quando la ricerca soggettiva conduca ad un utile risultato ovvero escluda da sola che le parti abbiano posto in essere un determinato rapporto giuridico (Cass. 24 gennaio 2012, n. 925; Cass. 22 marzo 2010, n. 6852).
Va osservato, da ultimo, che, per come svolte, le deduzioni della ricorrente col primo motivo di ricorso si risolvono in censure non proponibili nella presente sede. Infatti, il sindacato di legittimita’ non puo’ investire il risultato interpretativo in se’, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, sicche’ e’ inammissibile ogni critica alla ricostruzione della volonta’ negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Cass. 26 maggio 2016, n. 10891; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465); in tal senso, non e’ consentito muovere una critica al risultato interpretativo, raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (Cass. 16 febbraio 2007, n. 3644; Cass. 25 ottobre 2006, n. 22899): e va del resto ricordato, in tema, che per sottrarsi al sindacato di legittimita’, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni (Cass. 17 marzo 2014, n. 6125; Cass. 25 settembre 2012, n. 16254, Cass. 20 novembre 2009, n. 24539).
2.2. – Analoghe carenze prospetta il terzo mezzo: esso non contiene la trascrizione della clausola di cui all’articolo 1 (semplicemente richiamato nel corpo del motivo, ancorche’ venga in questione proprio la divisata necessita’ di leggere tale articolo alla luce di quanto prescritto dal successivo articolo 2) e la censura appare comunque orientata a una revisione del giudizio di fatto speso, sul piano interpretativo, dalla Corte di appello: infatti, dalla lettura della sentenza emerge che la Corte regolatrice abbia bensi’ preso in considerazione l’articolo 2 del contratto e che la stessa abbia poi ricavato, dall’esame congiunto di esso con l’articolo 1, la conclusione per cui le parti intesero riservare, in via generale a (OMISSIS) “prerogative decisionali, di collaborazione e di controllo”.
3. – La censura vertente sulla illegittimita’ dell’assegnazione di un termine inferiore ai quindici giorni e’ invece fondata.
Va anzitutto disattesa, con riferimento alla richiamata doglianza, l’eccezione di inammissibilita’ della controricorrente, che e’ basata sulla violazione del principio di autosufficienza. Posto, infatti, che la verifica dell’osservanza di quanto prescritto dall’articolo 366 c.p.c., n. 6), deve compiersi con riguardo ad ogni singolo motivo di impugnazione, la mancata specifica indicazione (ed allegazione) dei documenti sui quali ciascuno di essi, eventualmente, si fondi puo’ comportarne la declaratoria di inammissibilita’ solo quando si tratti di censure rispetto alle quali uno o piu’ specifici atti o documenti fungano da fondamento, e cioe’ quando, senza l’esame di quell’atto o di quel documento, la comprensione del motivo di doglianza e degli indispensabili presupposti fattuali sui quali esso si basa, nonche’ la valutazione della sua decisivita’, risulterebbero impossibili (Cass. Sez. U. 5 luglio 2013, n. 16887). Ebbene, con riferimento al tema dell’assegnazione di un termine inferiore a quello di quindici giorni e’ del tutto pacifico che la convenzione non prevedesse un termine diverso rispetto a quello indicato dall’articolo 1454 c.c.: cio’ e’ tanto vero che la Corte di appello si e’ preoccupata di affrontare la questione della conformita’ al diritto della concessione di un termine inferiore (e questo non sarebbe evidentemente accaduto se il contratto inter partes lo avesse previsto).
Non appare concludente nemmeno il rilievo, svolto da (OMISSIS) a pagg. 32 ss. del controricorso, per cui essa non avrebbe affatto assegnato un termine al di sotto dei quindici giorni (e cio’ in quanto – e’ spiegato – la diffida sarebbe stata data con lettera inoltrata il 21 dicembre 2007 e il termine assegnato per adempiere sarebbe scaduto il 10 gennaio 2008). La diffida ad adempiere e’, infatti, atto recettizio (per tutte: Cass. 2 settembre 1978, n. 4014; Cass. 6 aprile 1973, n. 953), onde il termine di quindici giorni non puo’ che decorrere dal momento in cui l’atto e’ pervenuto nella sfera di conoscenza del destinatario (operando naturalmente, anche per essa, la presunzione di conoscenza di cui all’articolo 1335 c.c.). Non e’ dunque decisiva la data di invio della comunicazione scritta contenente la diffida; lo e’, invece, quella in cui l’atto e’ pervenuto al recapito cui era indirizzato: e la Corte di appello non ha affatto accertato che cio’ sia avvenuto quindici giorni prima del 10 gennaio 2008. E’ da rilevare, al contrario, che le argomentazioni svolte dal giudice distrettuale circa la ritenuta legittimita’ dell’assegnazione di un termine inferiore ai quindici giorni trovano ragione proprio nella constatazione dell’inosservanza del termine legale di cui all’articolo 1454 c.c.: e quindi nella implicita – ma incontrovertibile – assunzione del fatto che la diffida fosse giunta a conoscenza della ricorrente solo il 31 dicembre 2007 (come sostenuto, in appello, dalla stessa (OMISSIS): pag. 8 della sentenza impugnata).
Cio’ posto, l’articolo 1454 c.c., prevede, al comma 2, che il termine assegnato con la diffida ad adempiere non possa essere inferiore a quindici giorni, “salvo diversa pattuizione delle parti o salvo che, per la natura del contratto o secondo gli usi, risulti congruo un termine minore”. Al di fuori di queste ipotesi, la fissazione di un termine inferiore determina l’inidoneita’ della diffida alla produzione di effetti estintivi nei riguardi del rapporto costituito tra le parti (Cass. 30 gennaio 1985, n. 542; nel senso che l’assegnazione del termine inferiore produca tale risultato, cfr. pure Cass. 5 aprile 1982, n. 2089).
L’assegnazione di un termine siffatto e’ dunque ammessa ove ricorra una specifica pattuizione derogatoria e nei casi in cui essa risulti congrua avendo riguardo alla natura del contratto e agli usi. Questa S.C. ha poi precisato che l’accertamento della congruita’ del termine costituisce un accertamento di fatto (Cass. 3 settembre 2019, n. 22002; Cass. 6 novembre 2012, n. 19105; Cass. L. settembre 1990, n. 9085), che e’ incensurabile in sede di legittimita’ se esente da errori logici e giuridici (Cass. 6 novembre 2012, n. 19105 cit.; Cass. 1 settembre 1990, n. 9085 cit.). A seguito della modifica dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, attuatasi con Decreto Legge n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, in L. n. 134 del 2012, deve ritenersi che il profilo della congruita’ sia censurabile, oltre che per un vero e proprio errore di diritto, per il solo omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, e per l’assenza di motivazione (nel senso precisato da Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054: e cioe’ per mancanza assoluta della motivazione, per motivazione apparente, per motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile). Quel che preme rilevare e’, pero’, che la riduzione del termine di quindici giorni debba essere giustificata dalla presenza di una delle tre condizioni previste dall’articolo 1454, comma 2, cit.: in assenza di esse, non ha senso dibattere della congruita’ del termine. Infatti, il giudizio di congruita’, in base alla norma codicistica, non entra in gioco con riferimento all’eventualita’ della pattuizione di un termine ridotto rispetto a quello legale, mentre in tanto puo’ rilevare, con riferimento alle altre due ipotesi, in quanto la restrizione del detto termine trovi ragione nella natura del contratto o negli usi.
Ora, la Corte di appello ha osservato che il termine assegnato doveva ritenersi congruo avendo riguardo a cio’: per un verso, “le medesime richieste di informazioni di cui alla missiva in data 21 dicembre 2007 erano gia’ state oggetto di richiesta di report inviata alla controparte in data 3 dicembre 2007, richiesta da quest’ultima illegittimamente inevasa”, onde nella circostanza non poteva ravvisarsi un comportamento in malafede di (OMISSIS), giacche’ l’iniziativa risultava essere stata dettata dalla precedente condotta inadempiente dell’odierna istante, la quale, solo quattro giorni prima, aveva comunicato alla controparte di non voler fornire le indicazioni che le erano state domandate; per altro verso, (OMISSIS) non aveva “in alcun modo contestato la ristrettezza del termine concessole (esercitando la facolta’ di chiederne il differimento a uno ritenuto piu’ congruo) ne (aveva) indicato quale sarebbe stato un termine congruo per adempiere, astenendosi peraltro dall’adempiere alle richieste di informazioni relative al licenziatario del settore calzature anche successivamente allo scadere del termine”.
Il giudice del gravame non ha dunque individuato alcuna delle richiamate condizioni legittimanti la restrizione del termine di quindici giorni, ma si e’ soffermato sulla sola congruita’ del termine: e, come si e’ detto, tale congruita’ non rileva in se’ e per se’, ma solo in rapporto alla natura del contratto o agli usi. E’ il caso di sottolineare, in proposito, come non sia giustificata l’assegnazione di un termine minore ai quindici giorni con riferimento a precedenti solleciti rivolti al debitore per l’adempimento, in quanto tale circostanza non attiene alla natura del contratto ma ad un comportamento omissivo del debitore (Cass. 30 gennaio 1985, n. 542; cfr. pure Cass. 18 maggio 1987, n. 4535, secondo cui la valutazione in ordine alla congruita’ del termine assegnato dal creditore al debitore con la diffida ad adempiere ex articolo 1454 c.c., va compiuta con esclusivo riferimento alla diffida stessa e al periodo in essa indicato, senza che possa avere rilievo il fatto che in precedenza vi siano state altre diffide rimaste infruttuose; in tal senso, anche in caso di reiterazione di atti di diffida ad adempiere, il termine previsto dall’articolo 1454 c.c., decorre dall’ultimo di essi, sicche’ lo spatium agendi di quindici giorni, che necessariamente deve intercorrere tra il ricevimento della diffida e l’insorgenza della fattispecie risolutoria, deve essere rispettato a far data dall’ultima diffida: Cass. 3 marzo 2016, n. 4205; Cass. 6 luglio 2011, n. 14877). E’ necessario rilevare, ancora, come la mancata contestazione dell’adeguatezza del termine da parte del debitore destinatario della diffida sia evenienza non significativa, sempre che non assurga a elemento costitutivo di un accordo in deroga alla disposizione che fissa in quindici giorni il termine minimo da assegnare per conseguire l’adempimento dell’obbligazione: profilo – questo – che la sentenza impugnata non affronta e che, del resto, implicherebbe un accertamento di fatto, circa il valore negoziale da assegnare alla condotta tenuta dalle parti nella circostanza, di cui il giudice del merito non risulta essersi fatto carico. Da ultimo, va osservato come, ai fini che qui interessano, si riveli irrilevante sia la mancata indicazione di un diverso termine da parte del debitore, giacche’ un onere siffatto e’ estraneo alla previsione di legge, sia la condotta tenuta dallo stesso obbligato dopo la scadenza del termine assegnato: la valorizzazione di tale comportamento presuppone, infatti, la sostituzione automatica della previsione del termine di quindici giorni a quello inferiore, laddove, come si e’ visto, in assenza delle condizioni di legge l’assegnazione di quest’ultimo termine rende la diffida radicalmente inidonea alla produzione di effetti estintivi nei riguardi del rapporto costituito tra le parti.
In conclusione, quanto affermato dalla Corte di appello con riguardo alla legittimita’ del termine assegnato non puo’ ritenersi conforme alla disciplina dettata dall’articolo 1454 c.c..
Il profilo relativo all’apprezzamento della gravita’ dell’inadempimento, fatto valere sempre col secondo motivo, resta assorbito.
4. – Va dunque accolto, per quanto di ragione, il secondo motivo, mentre il primo e il terzo sono da dichiarare inammissibili.
La sentenza e’ cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Milano che, in diversa composizione, dovra’ statuire sulle spese del giudizio di legittimita’.
Il giudice del rinvio dovra’ fare applicazione del seguente principio di diritto: “In tema di diffida ad adempiere, un termine inferiore ai quindici giorni trova fondamento solo in presenza delle condizioni di cui all’articolo 1454 c.c., comma 2; in conseguenza, in presenza dell’assegnazione del termine inferiore, risultano irrilevanti: i precedenti solleciti rivolti al debitore per l’adempimento, in quanto tale circostanza non attiene alla natura del contratto, ma ad un comportamento omissivo del debitore; la mancata contestazione del termine da parte del debitore, sempre che, in base a un accertamento rimesso al giudice del merito, tale mancata contestazione non assuma significato ai fini della conclusione, in forma tacita, dell’accordo in deroga; la mancata indicazione del diverso termine, reputato congruo, da parte del debitore, che presuppone un onere non contemplato dalla norma; il protrarsi dell’inadempienza del debitore oltre il termine assegnato, giacche’ la diffida illegittimamente intimata per un termine inferiore ai quindici giorni e’ di per se’ inidonea alla produzione di effetti estintivi nei riguardi del rapporto costituito tra le parti”.

P.Q.M.

La Corte;
accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il secondo motivo e dichiara inammissibili gli altri due; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimita’.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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