In tema di retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare

Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 6 luglio 2020, n. 20002.

Massima estrapolata:

In tema di retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, per l’anteriore “desumibilità” dagli atti del fatto oggetto della seconda ordinanza, emessa in un diverso procedimento e per fatti diversi e non legati da un rapporto di connessione qualificata con i primi, è necessario che il quadro legittimante l’adozione della misura cautelare sussista sin dal momento di emissione del primo provvedimento, non essendo sufficiente a tal fine la mera esistenza della notizia del fatto-reato, né che la successiva ordinanza si fondi su elementi probatori già presenti nella prima, potendo gli stessi non manifestare sin dall’inizio il loro significato in modo immediato ed evidente. (In applicazione del principio la Corte ha ritenuto immune da censure l’ordinanza del riesame che aveva ritenuto irrilevante, ai fini della pregressa conoscibilità degli elementi, l’iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen. e l’autorizzazione allo svolgimento di intercettazioni telefoniche).

Sentenza 6 luglio 2020, n. 20002

Data udienza 10 gennaio 2020

Tag – parola chiave: Sostanze stupefacenti – Art. 73, Dpr 309/90 – Custodia cautelare in carcere – Arresti domiciliari – Braccialetto elettronico – Termine di efficacia dell’ordinanza cautelare – Mancata retrodatazione – Adozione di più ordinanze applicative di misure cautelari in rapporto al medesimo fatto – Decorrenza unitaria dei termini di custodia in presenza di più titoli cautelari – Presupposti – Individuazione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IZZO Fausto – Presidente

Dott. GALTERIO Donatella – Consigliere

Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere

Dott. ACETO Aldo – rel. Consigliere

Dott. ANDRONIO Alessandro M. – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del 13/06/2019 del TRIB. LIBERTA’ di PALERMO;
udita la relazione svolta dal Consigliere ALDO ACETO;
sentite le conclusioni del PG ROBERTA MARIA BARBERINI che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito il difensore, AVV. (OMISSIS), che ha concluso riportandosi ai motivi ed insistendo per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1.Il sig. (OMISSIS) ricorre per l’annullamento dell’ordinanza del 13/06/2019 del Tribunale di Palermo che, in parziale accoglimento della richiesta di riesame dell’ordinanza del 17/05/2019 del GIP del medesimo tribunale, ha sostituito la misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari con applicazione consensuale del braccialetto elettronico, confermando nel resto.
1.1.Con il primo motivo deduce la violazione dell’articolo 297 c.p.p., comma 3 e articolo 303 c.p.p., comma 1, lettera a), e vizio di mancanza, contraddittorieta’ e manifesta illogicita’ della motivazione in relazione alla mancata “retrodatazione” del termine di efficacia dell’ordinanza cautelare del 17/05/2019 alla data di emissione dell’ordinanza del 26/05/2017 adottata dal medesimo GIP nell’ambito del procedimento penale n. 8415/2017 RGNR per il reato di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, reato nella cui flagranza era stato arrestato e per il quale era stato condannato alla pena di tre anni e due mesi di reclusione e 20.000,00 Euro di multa con sentenza divenuta irrevocabile l’11/12/2018.
Contesta la correttezza del ragionamento in base al quale il tribunale del riesame ha ritenuto non desumibili, dalla prima ordinanza applicativa della misura coercitiva, gli elementi idonei a giustificare l’ordinanza successiva e, per altro verso, ha escluso la sussistenza tra i delitti oggetto delle due ordinanze del vincolo della continuazione.
Quanto al primo profilo, afferma che il tribunale ha ritenuto che l’avvenuta iscrizione nel registro delle notizie di reato in data 10 aprile 2017 del reato di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73 dimostrerebbe l’insussistenza del presupposto della cosiddetta “desumibilita’ dagli atti”. Secondo il tribunale, inoltre, anche la redazione dell’informativa finale datata 25 maggio 2018 dimostrerebbe la insussistenza del predetto requisito. Orbene, quanto all’iscrizione nel registro delle notizie di reato, non assume alcuna rilevanza la circostanza che questa sia stata disposta esclusivamente per la fattispecie incriminatrice di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309, cit., articolo 73. La sussistenza del requisito in parola non puo’ infatti discendere dalla formale iscrizione per un determinato titolo di reato bensi’ dalla effettiva disponibilita’ da parte dell’autorita’ giudiziaria, sin dall’emissione dell’ordinanza precedente, degli elementi utili a contestare i fatti oggetto dell’ordinanza successiva. L’iscrizione del 10 aprile 2017, effettuata oltre un mese prima della consumazione del reato associativo contestato al capo 16) e del reato-fine contestato al capo 8), costituiva elemento sintomatico della “conoscibilita’ dagli atti”. La difesa aveva inutilmente evidenziato che i reati contestati tanto con la prima quanto con la seconda ordinanza erano stati “registrati” in diretta della polizia giudiziaria e come di conseguenza gli elementi posti a sostegno del secondo titolo genetico fossero ben conosciuti al momento dell’emissione del primo o, quantomeno, del decreto di giudizio immediato del 4 ottobre 2017 emesso nell’ambito del primo procedimento. Infine, nelle annotazioni di polizia giudiziaria allegate alle varie richieste di autorizzazione di proroga delle intercettazioni telefoniche avanzate dal pubblico ministero tra il 10 aprile 2017 e il 4 ottobre 2017 si faceva riferimento all’associazione contestata al capo 16), cosi’ togliendo alimento all’argomento secondo il quale l’informativa finale del 25 maggio 2018 dimostrerebbe l’insussistenza del presupposto in esame. Inoltre, a dispetto di quanto affermato dal tribunale, si era piu’ volte evidenziato, nella memoria difensiva depositata e trascurata dal tribunale, che i delitti contestati in entrambe le ordinanze erano stati commessi nell’esecuzione del medesimo disegno criminoso atteso che, secondo la ricostruzione operata dal pubblico ministero e dal giudice del secondo titolo genetico, il delitto contestato con la prima ordinanza rientrerebbe tra i reati scopo dell’associazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti contestato al capo 16, come si evince dalla pagina 101 dell’ordinanza applicativa della custodia cautelare del 17 maggio 2019. Appare pertanto evidente come la stessa impostazione accusatoria, pedissequamente recepita dal gip in seno al titolo genetico, ipotizzi di fatto la sussistenza del vincolo della continuazione tra reati oggetto delle due ordinanze cautelari. Ne consegue che i termini di durata dell’ordinanza resa il 17 maggio 2019 dovevano essere retrodatati al giorno in cui era stata eseguita la prima, con conseguente estinzione del termine di fase dell’articolo 303 c.p.p., comma 1, lettera a).
1.2.Con il secondo motivo deduce la genericita’ del fatto contestato al capo 8) della rubrica provvisoria ed eccepisce la nullita’ dell’ordinanza genetica per violazione dell’articolo 292 c.p.p., comma 2, lettera b), e vizio di motivazione mancante, contraddittoria e manifestamente illogica dell’ordinanza impugnata che ha respinto l’eccezione di nullita’.
Il capo 8) della rubrica gli addebita il delitto di cui agli articoli 81 cpv. e 110 c.p., Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, commi 1 e 6, perche’, in concorso con (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) e con piu’ azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, “illecitamente detenevano ad evidente fine di spaccio quantitativi non indifferenti di sostanza stupefacente del tipo hashish, ceduti dal (OMISSIS) e dal (OMISSIS) ai due (OMISSIS) in vista della successiva rivendita a terzi. Accertato in Palermo in epoca antecedente e prossima all’11 maggio 2017”.
Era stata censurata, deduce, l’assoluta genericita’ della contestazione in quanto disancorata da qualsivoglia specificazione in ordine alle cessioni e ai quantitativi trattati nonche’ l’assoluta genericita’ della collocazione temporale della condotta tale da non consentire neppure l’articolazione di una specifica linea difensiva. Non puo’ logicamente condividersi l’asserzione, utilizzata dal tribunale per confutare l’eccezione di nullita’, secondo la quale contestare la detenzione di “quantitativi non indifferenti” di sostanza stupefacente in “epoca antecedente e prossima all’11 maggio 2017″ costituisce un’indicazione utile a soddisfare i requisiti previsti dall’articolo 292 c.p.p., comma 2, lettera b). Tali indicazioni non consentono di comprendere quale” sia la condotta addebitata, se cioe’ il ricorrente abbia detenuto o acquistato lo stupefacente o ancora se abbia sia detenuto che acquistato, di individuare il quantitativo acquistato, di comprendere il motivo per il quale lo stupefacente sarebbe stato acquistato in vista della successiva rivendita piuttosto che per uso personale ed infine di individuare il tempo del commesso reato. Nel provvedimento del GIP manca del tutto un contenuto minimo integrante l’esposizione della condotta e degli atti con cui si sarebbe manifestata. Manca un’esposizione del fatto di reato idonea a consentire di individuare la fattispecie contestata nei suoi elementi strutturali ed in un determinato ambito spazio-temporale. Viene inoltre stigmatizzata la contraddittorieta’ e l’inconferenza dell’assunto secondo il quale “significativi profili di precisazione degli addebiti si rinvengono… nella parte motiva dell’ordinanza impugnata”. Osserva il ricorrente che laddove la contestazione dell’addebito fosse stata aderente al contenuto dell’articolo 292 c.p.p., comma 2, lettera b), non sarebbe stata necessaria alcuna precisazione della parte motiva dell’ordinanza cautelare. In secondo luogo, osserva che non aveva mancato di rilevare che, compulsando la motivazione stessa del provvedimento cautelare, non era possibile comprendere quali episodi diversi dal rinvenimento dello stupefacente del 23 maggio 2017 fossero completamente individuabili. Tanto le emergenze probatorie indicate dal GIP, quanto quelle indicate dal Tribunale del riesame nella parte di interesse, riguardano argomenti di vario genere e natura che non consentono di articolare in concreto un idonea linea difensiva proprio in ragione della genericita’ dell’ipotesi di reato. Sul punto, che rifluisce anche sotto il profilo della configurabilita’ dei gravi indizi di colpevolezza per il reato contestato al capo 8), deve registrarsi un totale vuoto motivazionale che vizia irrimediabilmente l’impugnata ordinanza.
1.3.Con il terzo motivo deduce la mancanza dei gravi indizi di colpevolezza del reato di cui al capo 8) della rubrica e vizio di motivazione mancante, contraddittoria e manifestamente illogica sul punto.
Il quadro indiziario sarebbe costituito dal contenuto di talune conversazioni telefoniche oggetto di intercettazione ma, come gia’ evidenziato in sede di illustrazione del motivo precedente, le emergenze processuali non consentono di ritenere che il ricorrente abbia posto in essere una condotta diversa da quella indicata al capo 9) della rubrica, oggetto della condanna irrevocabile di cui al primo motivo di ricorso. Il Tribunale del riesame ha omesso del tutto di spiegare le ragioni per le quali la doglianza difensiva andava disattesa.
1.4.Con il quarto motivo deduce la mancanza dei gravi indizi di colpevolezza del reato di cui al capo 16) della rubrica e vizio di motivazione mancante, contraddittoria e manifestamente illogica sul punto.
In sede di riesame era stato evidenziato che il GIP, a prescindere dalla labiale asserzione secondo la quale dagli elementi di indagine acquisiti (intercettazioni telefoniche, servizi di osservazione, sequestri di sostanze stupefacenti) sarebbe emersa la sussistenza di un’articolata organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti, non aveva individuato alcun concreto e specifico elemento dal quale poter ricavare l’esistenza della teorizzata associazione e comunque la partecipazione alla stessa del ricorrente. Il GIP, infatti, si era limitato a descrivere le condotte sintomatiche della commissione dei reati fine (al ricorrente ne viene contestato esclusivamente uno) omettendo di adottare qualsiasi argomento in ordine agli elementi indicativi della sussistenza di un accordo nel senso voluto dalla fattispecie legale di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 74. E’ sufficiente leggere l’ordinanza genetica che, con riferimento specifico alla posizione del ricorrente, adduce a sostegno della sua ritenuta partecipazione al sodalizio criminoso gli stessi elementi dedotti a sostegno della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del reato di cui al capo 8) della rubrica. Identico vizio inficia l’ordinanza impugnata. Si era eccepito, in sede di riesame, come difettassero i gravi indizi di colpevolezza tanto con riferimento all’accordo e all’accertamento di una struttura organizzata, quanto alla sussistenza dell’affectio societatis. Dalla lettura del provvedimento impugnato non si evince alcun elemento dimostrativo dell’esistenza di un accordo volto alla commissione di una serie indeterminata di reati, della sussistenza di una sia pur minima rudimentale struttura organizzativa della quale il ricorrente possa aver coscientemente fatto parte. Il ruolo attribuito al ricorrente mal si adatta alle emergenze procedimentali acquisite se si considera che non risulta affatto che il predetto abbia “stabilmente agito quale custode della sostanza stupefacente”. I rapporti intrattenuti con i correi in occasione della detenzione della sostanza stupefacente non dimostrano che l’attivita’ posta in essere al fine del compimento di tale operazione costituisse l’espressione della sussistenza di uno stabile accordo finalizzato alla commissione di un numero indeterminato di traffici di stupefacenti. Non si riesce pertanto a comprendere come possa ritenersi sussistente un grave compendio indiziario quantomeno con riferimento all’accordo associativo volto a creare un vincolo permanente. Va registrata sul punto l’assoluta carenza di elementi dimostrativi dell’accordo e della volonta’ di arrecare un contributo in favore dell’unione illecita. Del tutto erronea, ancora, risulta l’affermazione del Tribunale secondo il quale la commissione di “numerosi reati-fine” sarebbe sintomatica dell’organico inserimento del ricorrente nell’organizzazione criminale. All’odierno ricorrente infatti viene contestato un solo episodio specifico, laddove per quello di cui al capo 9) egli ha gia’ riportato la condanna definitiva ricordata nel primo motivo. Quanto all’argomento secondo il quale la partecipazione del ricorrente al sodalizio criminoso sarebbe dimostrato dal pagamento delle spese legali conseguenti al suo arresto da parte del (OMISSIS) e’ sufficiente evidenziare lo stretto vincolo di parentela che intercorre tra i due per rendere del tutto inconsistente tale argomentazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

2.Il ricorso e’ infondato.
3.Il primo motivo e’ infondato.
3.1.La misura cautelare e’ stata adottata nei confronti del (OMISSIS) il 17/05/2019 per i reati di cui ai capi 8) (articoli 81, cpv. e 110 c.p., Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, commi 1 e 6, accertato in (OMISSIS) in epoca antecedente e prossima all'(OMISSIS)) e 16 (Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 74). Gli si contesta, in particolare, l’illecita detenzione di quantitativi non indifferenti di sostanza stupefacente del tipo hashish, a lui ceduti dal (OMISSIS) e dal (OMISSIS) in vista della successiva rivendita a terzi (capo 8, contestato come accertato in Palermo in epoca anteriore e prossima all’11 maggio 2017), e di aver preso parte all’associazione per delinquere finalizzata alla consumazione di piu’ delitti di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, finanziata e diretta dal (OMISSIS) e dal (OMISSIS), con il ruolo di custodeldepositario delle sostanze stupefacenti (capo 16). Il fatto e’ contestato come commesso in Palermo, in epoca compresa tra il mese di settembre dell’anno 2016 ed il 23 maggio 2017, giorno nel quale era stato arrestato nella flagranza del reato di cui al capo 9 della rubrica (illecita detenzione di 300 chilogrammi di sostanza stupefacente del tipo hashish). Per il fatto di cui al capo 9 (attualmente ascritto ad altre persone in concorso con il (OMISSIS)) il, 26 maggio 2017 era stata applicata nei confronti del ricorrente la misura coercitiva personale della custodia cautelare in carcere ed il 4 ottobre 2017 era stato rinviato a giudizio, quindi processato e condannato alla pena di tre anni e due mesi di reclusione e 20.000,00 Euro di multa.
3.2.Il Tribunale ha qualificato come “generica” la deduzione difensiva della conoscenza dei fatti per i quali e’ stata applicata la attuale misura cautelare sin dal momento dell’emissione del decreto di giudizio immediato per il reato di cui al capo 9 (nella cui flagranza, come detto, il ricorrente era stato arrestato il 23 maggio 2017). Richiamata la giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di “contestazione a catena” e, in particolare, della necessaria desumibilita’, sin dalla prima ordinanza cautelare, degli elementi idonei a giustificare l’applicazione della seconda, il Tribunale afferma che la mera iscrizione nel registro delle notizie di reato di cui all’articolo 335 c.p.p. per il reato di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, non e’ sufficiente, non avendo la difesa “fornito alcuna prova del fatto che al momento dell’arresto in flagranza del (OMISSIS) per il reato di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73 e della successiva emissione della prima ordinanza cautelare, il PM avesse a disposizione gli elementi per contestare anche l’ulteriore episodio criminoso di cui al capo 8) dell’incolpazione, nonche’ il reato associativo la cui configurazione richiede l’acquisizione di elementi indiziari complessi, non parcellizzabili attraverso i dati desumibili da singole intercettazioni o conversazioni. Piuttosto l’unico elemento al riguardo evidenziato della difesa, costituito dall’avvenuta iscrizione del (OMISSIS) nel registro degli indagati in data 10 aprile 2017, dimostra il contrario, atteso che tale iscrizione e’ avvenuta per il delitto di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 31990, articolo 73 e non certo per il delitto associativo di cui all’articolo 74 D.P.R.. A cio’ deve aggiungersi che l’informativa finale posta a base dell’ordinanza oggi impugnata e’ stata redatta il 25 maggio 2018, cioe’ circa un anno dopo l’emissione del primo titolo custodiate (…) Deve, inoltre, osservarsi che la difesa non ha evidenziato alcun elemento fattuale da cui poter desumere che il delitto oggetto della prima ordinanza e quelli oggi contestati fossero stati commessi in esecuzione di un unico originario disegno criminoso”.
3.3.Non v’e’ dubbio che tutti i fatti contestati con la seconda ordinanza erano stati consumati in epoca precedente alla emissione della prima ordinanza e del rinvio a giudizio del ricorrente. Cio’, come si vedra’, non e’ sufficiente.
3.4.L’articolo 297 c.p.p., comma 3, come sostituito dalla L. 8 agosto 1995, n. 331, articolo 12, comma 1, disciplina il modo con cui calcolare i termini di durata delle misure cautelari quando nei confronti della stessa persona sono emesse piu’ ordinanze che dispongono la medesima misura: a) per uno stesso fatto, benche’ diversamente circostanziato o qualificato; ovvero b) per fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione qualificata ai sensi dell’articolo 12, comma 1, lettera b) (concorso formale e continuazione) o c), connessione teleologica limitata ai casi di reati commessi per eseguire gli altri. In questi casi i termini decorrono dal giorno in cui e’ stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione piu’ grave. Tale regola non si applica quando i fatti oggetto della seconda ordinanza, pur connessi con quelli oggetto della prima, non erano desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione qualificata.
3.5.La Corte costituzionale ha sensibilmente ampliato l’ambito applicativo della norma. In particolare, con sentenza n. 408 del 24/10-03/11/2005, ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 297 c.p.p., comma 3, nella parte in cui non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano gia’ desumibili dagli atti al momento della emissione della precedente ordinanza; con sentenza n. 233 del 22/06-19/07/2011, ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 297, comma 3, nella parte in cui – con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi – non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura.
3.6.La regola della retrodatazione degli effetti della seconda misura custodiale presuppone (e rafforza) il principio della necessaria precarieta’/eccezionalita’ della privazione della liberta’ personale disposta prima che una sentenza irrevocabile di condanna vinca la presunzione di innocenza stabilita dall’articolo 27 Cost., comma 2, (nel senso “che e’ la stessa Costituzione ad imporre la previsione di termini di durata delle misure cautelari e a presupporre, quindi, l’inconferenza delle esigenze che dovessero residuare al di la’ di un limite temporale certo e invalicabile”, cfr. Cort. Cost., sentenza n. 89 del 1996). Precarieta’ presidiata, in prima battuta, dalla indicazione di un termine di efficacia delle misure cautelari (articoli 303-305 c.p.p.) e, in seconda battuta, dalla previsione di meccanismi anti-elusivi di tali termini (articolo 297 c.p.p.). La “causa” del divieto delle cosiddette “contestazioni a catena” “e’ quella di impedire la diluizione dei termini (di durata massima delle misure cautelari) in ragione dell’episodico concatenarsi di piu’ fattispecie cautelari” (cosi’ Corte Cost., sentenza n. 89 del 1996, cit., secondo cui, se questa e’ la “causa” della norma non puo’ certo ritenersi incoerente allo scopo e, dunque, priva di ragione, la scelta di individuare alcune ipotesi che, piu’ di altre, presentano elementi di correlazione contenutistica di spessore tale da consentirne una valutazione unitaria agli effetti del trattamento cautelare sicche’ non puo’ neppure dirsi eterodossa rispetto ai fini perseguiti la “causa” che sostiene la deroga introdotta nel secondo periodo dell’articolo 297 c.p.p., comma 3 la quale esclude l’applicabilita’ del principio della retrodatazione dei termini in relazione alle ordinanze per fatti “nuovi” che, malgrado connessi a quelli oggetto della primitiva contestazione, emergano soltanto dopo il rinvio a giudizio disposto per il fatto cui si riferisce l’originaria ordinanza cautelare).
3.7.Con la sentenza n. 408 del 2005 la Corte costituzionale, come anticipato, ha ampliato l’applicazione della norma ai casi di connessione non qualificata desumibile dagli atti al momento della emissione della prima ordinanza. “La formula “contestazione a catena” – afferma la Corte – individua, in via generale, il fenomeno dell’adozione, in tempi successivi, di piu’ ordinanze applicative di misure cautelari in rapporto al medesimo fatto ovvero a una pluralita’ di fatti gia’ noti ab initio all’autorita’ giudiziaria. La diluizione nel tempo dei titoli custodiali puo’ avere l’effetto di aggirare la disciplina dei termini di durata della custodia cautelare, prolungandoli artificiosamente (…) (A tal fine) il legislatore ha introdotto un meccanismo di decorrenza unitaria dei termini di custodia, pur in presenza di piu’ titoli cautelari, che opera ove ricorrano tre condizioni relative segnatamente: a) alla data di commissione del fatto, nel senso che il reato oggetto della seconda ordinanza custodiale deve essere stato commesso anteriormente alla data di emissione della prima ordinanza; b) al rapporto di connessione qualificata fra i due fatti; c) alla data di emissione della seconda ordinanza custodiale, nel senso che questa deve essere anteriore al rinvio a giudizio per il primo reato (…) Sotto il vigore del codice di procedura penale del 1930 – che nella versione originaria ignorava la materia – la disciplina della contestazione a catena (era) rimasta affidata alla giurisprudenza, che aveva riconosciuto, in via interpretativa, l’esistenza di eccezioni al principio di autonoma decorrenza dei termini in rapporto a ciascun titolo cautelare, di cui all’articolo 271 c.p.p., comma 2 1930, intese specificamente ad arginare possibili abusi da parte dell’autorita’ giudiziaria, tanto nel caso di successive contestazioni del medesimo fatto, quanto nel caso di artificiose diluizioni delle contestazioni di piu’ fatti diversi. Nella prima ipotesi plurime contestazioni successive di fatto unico – la Corte di cassazione riteneva che la pluralita’ di titoli non avesse alcuna influenza sulla decorrenza dei termini di custodia, che restava comunque ancorata alla prima misura. Nella seconda ipotesi – contestazione successiva di fatti diversi – la Corte di cassazione subordinava la configurabilita’ di una “contestazione a catena” alla condizione che i fatti, oggetto di contestazione successiva, fossero conosciuti o conoscibili dall’autorita’ giudiziaria ordinaria gia’ al momento dell’adozione della prima misura: ipotesi nella quale il secondo titolo custodiale, pur valido, doveva considerarsi inidoneo a fare decorrere un nuovo termine di custodia preventiva. Rompendo il lungo silenzio normativo, il legislatore ritenne, peraltro, di dovere dare una regolamentazione positiva alla materia con la L. 28 luglio 1984, n. 398, nel quadro di una generale modifica, in senso garantista, della disciplina della custodia cautelare. L’articolo 271 c.p.p. 1930 venne modificato, introducendovi una disciplina che prevedeva l’automatica retrodatazione del dies a quo dei termini di custodia al momento di adozione della prima misura nel caso di contestazioni successive relative sia al medesimo fatto che a fatti integranti una ipotesi di concorso formale di reati, con la precisazione che, in questo secondo caso, il termine di custodia doveva comunque essere commisurato all’imputazione piu’ grave. In tale cornice, la giurisprudenza di legittimita’ continuo’ ad affermare, negli anni successivi, il proprio precedente indirizzo, in tema di contestazioni a catena per fatti diversi. Il codice di procedura penale del 1988 confermo’, sostanzialmente, l’impostazione della legge del 1984, con l’unica variante dell’espressa estensione della retrodatazione dei termini di custodia oltre che nei casi di contestazioni successive relative al medesimo fatto o ad ipotesi di concorso formale – anche ad ipotesi di aberratio delicti e aberratio ictus plurioffensive, le quali si traducono, peraltro, in fattispecie “qualificate” di concorso formale (originario articolo 297 c.p.p., comma 3). Con la riforma del 1995 e’ stata introdotta la disciplina in tema di divieto di contestazione a catena per fatti diversi, ma tale disciplina, risultando applicabile solo per fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione qualificata ai sensi dell’articolo 12 c.p.p., comma 1, lettera b) e c), limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri, puo’ determinare, in tema di reati non connessi, un illegittimo prolungamento dei termini di custodia cautelare se il pubblico ministero diluisce nel tempo le contestazioni dei singoli reati, anche allorche’ risulti che gli elementi per emettere la nuova misura fossero gia’ desumibili dagli atti al momento della emissione della precedente ordinanza. L’esclusione della retrodatazione dei termini di durata in relazione a reati diversi non avvinti da una connessione cosiddetta “qualificata”, risulta pertanto del tutto ingiustificata nelle ipotesi in cui, al momento dell’emissione della prima ordinanza, erano gia’ desumibili dagli atti gli elementi che hanno legittimato l’emissione delle ordinanze successive. In una cornice normativa, quale e’ quella dianzi delineata, attenta a calibrare l’intera disciplina dei termini di durata delle misure limitative della liberta’ personale, e di quelle custodiali in particolare, sulla falsariga dei valori della adeguatezza e proporzionalita’, nessuno spazio puo’ residuare in capo agli organi titolari del “potere cautelare” di scegliere il momento a partire dal quale possono essere fatti decorrere i termini custodiali in caso di pluralita’ di titoli e di fatti reato cui essi si riferiscono. Se dunque il legislatore; in perfetta aderenza con i valori di certezza e di “durata minima” della custodia cautelare (v. articolo 13 Cost., comma 1 ed u.c., nonche’ articolo 5, comma 3, Convenzione Europea dei diritti dell’uomo), ha ritenuto di dover stabilire – come si e’ dianzi accennato – meccanismi legali di retrodatazione automatica dei termini, in presenza di certe condizioni, nel caso in cui tra i diversi titoli sussista l’indicato nesso di connessione qualificata, a fortiori l’identico regime di garanzia dovra’ operare in tutti i casi in cui, pur potendo i diversi provvedimenti coercitivi essere adottati in un unico contesto temporale, per qualsiasi causa l’autorita’ giudiziaria abbia invece prescelto momenti diversi per l’adozione delle singole ordinanze. La durata della custodia viene cosi’ a dipendere non da un fatto obiettivo (rispettoso, dunque, del canone dell’uguaglianza e della ragionevolezza), quale quello dell’acquisizione di elementi idonei e sufficienti per adottare i diversi provvedimenti cautelari, ma da una imponderabile valutazione soggettiva degli organi titolari del “potere cautelare””. La pronuncia additiva della Corte e’ di poco successiva alla sentenza di questa Corte di cassazione, Sez. U, n. 21957 del 22/03/2005, Rahulia, che aveva affermato il seguente principio di diritto: “Nel caso di emissione nei confronti di un imputato di piu’ ordinanze che dispongono la medesima misura cautelare per fatti diversi, tra i quali non sussiste la connessione prevista dall’articolo 297 c.p.p., comma 3, i termini delle misure disposte con le ordinanze successive decorrono dal giorno in cui e’ stata eseguita o notificata la prima, se al momento dell’emissione di questa erano desumibili dagli atti gli elementi che hanno giustificato le ordinanze successive” (Rv. 231059 – 01; infra).
3.8.In modo ancor piu’ icastico, la citata sentenza n. 233 del 2011 ricorda che la disciplina delle “contestazioni a catena” “raccordandosi in modo diretto ai parametri costituzionali ora evocati trova la sua ratio fondante nell’esigenza di evitare che prassi artificiose o colpevoli inerzie dell’autorita’ giudiziaria possano incidere in senso negativo sulla permanenza in vinculis dell’imputato, determinando uno spostamento in avanti del dies a quo per il computo dei termini massimi di durata delle misure cautelari (…) il nucleo di disvalore del fenomeno delle “contestazioni a catena” risieda nell’impedimento, ad esso conseguente, al contemporaneo decorso dei termini relativi a plurimi titoli custodiali nei confronti del medesimo soggetto. Il “ritardo” nell’adozione della seconda ordinanza cautelare non vale, ovviamente, a prolungare i termini di durata massima della prima misura – essendo gli stessi predeterminati per legge, ai sensi dell’articolo 303 c.p.p. – ma, in difetto di adeguati correttivi, avrebbe l’effetto di espandere la restrizione complessiva della liberta’ personale dell’imputato, tramite il “cumulo materiale” – totale o parziale – dei periodi custodiali afferenti a ciascun reato. Cio’, col risultato di porre l’interessato in situazione deteriore rispetto a chi, versando nella medesima situazione sostanziale, venga invece raggiunto da provvedimenti cautelari coevi, e di rendere, al tempo stesso, aggirabile la predeterminazione legale dei termini di durata massima delle misure, imposta dall’articolo 13 Cost., comma 5″. E tuttavia, “in luogo (…) di far perno sulla “rimproverabilita’” all’autorita’ giudiziaria della frammentazione temporale delle misure, il legislatore ha preferito individuare talune relazioni tra i reati oggetto dei plurimi provvedimenti cautelari, reputandole di per se’ giustificative della retrodatazione dei termini (…) (concorso formale, continuazione o connessione teleologica) (…) in presenza delle condizioni ora ricordate la retrodatazione opera automaticamente: senza, cioe’, che occorra accertare che i fatti oggetto del secondo provvedimento cautelare fossero desumibili dagli atti acquisiti dall’autorita’ giudiziaria al momento dell’emissione della prima ordinanza e, tanto meno, che dagli atti emergessero elementi gia’ idonei a giustificare l’adozione della misura cautelare (…) tale disciplina opera non soltanto quando le ordinanze cautelari siano emesse nello stesso procedimento, ma anche quando (…) (a seguito della intervenuta separazione dei procedimenti) – le misure vengano adottate nell’ambito di procedimenti distinti. Cio’, a evitare che la separazione dei procedimenti si traduca in un meccanismo elusivo: prospettiva nella quale, peraltro, l’operativita’ della regola di computo dei termini di cui si discute resta subordinata all’ulteriore condizione – stabilita dal secondo periodo dello stesso articolo 297 c.p.p., comma 3, – che i fatti oggetto del diverso procedimento e del secondo titolo custodiale risultino desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio per i fatti contestati con la prima ordinanza (in caso contrario, infatti, lo svolgimento separato dei procedimenti dovrebbe ritenersi imposto da ragioni oggettive)”.
3.9.In questo contesto si inseriscono tre pronunce di questa Corte: Sez. U, Rahulia, n. 21957 del 2005, cit., Sez. U. n. 14535 del 19/12/2006, dep. 2017, Librato, Sez. U, n. 20780 del 23/04/2009, Iaccarino.
3.10.La prima sentenza ha affermato i seguenti principi di diritto: “Nel caso di emissione nei confronti di un imputato di piu’ ordinanze che dispongono la medesima misura cautelare per fatti diversi, tra i quali non sussiste la connessione prevista dall’articolo 297 c.p.p., comma 3, i termini delle misure disposte con le ordinanze successive decorrono dal giorno in cui e’ stata eseguita o notificata la prima, se al momento dell’emissione di questa erano desumibili dagli atti gli elementi che hanno giustificato le ordinanze successive” (Rv. 231059); “Nel caso di emissione nei confronti di un imputato di piu’ ordinanze che dispongono la medesima misura cautelare per fatti diversi, commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza, legati da concorso formale, da continuazione o da connessione teleologica, la retrodatazione della decorrenza dei termini delle misure disposte con le ordinanze successive, prevista dall’articolo 297 c.p.p., comma 3, opera indipendentemente dalla possibilita’, al momento dell’emissione della prima ordinanza, di desumere dagli atti l’esistenza dei fatti oggetto delle ordinanze successive, e, a maggior ragione, indipendentemente dalla possibilita’ di desumere dagli atti l’esistenza degli elementi idonei a giustificare le relative misure” (Rv. 231057); “Quando nei confronti di un imputato sono emesse piu’ ordinanze cautelari per fatti diversi in relazione ai quali esiste una connessione qualificata, opera la retrodatazione prevista dall’articolo 297 c.p.p., comma 3, anche rispetto ai fatti oggetto di un “diverso” procedimento, se questi erano desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio per il fatto o i fatti oggetto della prima ordinanza. Questo e’ l’unico caso in cui opera la regola della retrodatazione per fatti oggetto di procedimenti diversi” (Rv. 231058).
3.11 In motivazione, la Corte ha ricordato che gia’ prima della previsione codicistica del divieto di contestazioni a catena (divieto positivizzato per la prima volta con L. 28 luglio 1984, n. 398, il cui articolo 2 aveva sostituito l’articolo 271 c.p.p. del 1930) “la giurisprudenza di legittimita’ (…) riteneva che nell’ipotesi di provvedimenti custodiali emessi nello stesso procedimento e riguardanti, oltre che lo stesso fatto, anche una pluralita’ di fatti, dovesse operare una regola di retrodatazione, con l’effetto di far decorrere i termini di custodia cautelare dal momento dell’esecuzione del primo provvedimento quando da parte dell’autorita’ giudiziaria vi era stato un “artificioso ritardo” o una “colpevole inerzia” nell’applicazione della misura cautelare perche’ gia’ in precedenza dagli atti emergevano gli elementi che la giustificavano. Si trattava di un orientamento giurisprudenziale nato per contrastare la prassi della emissione di successivi provvedimenti cautelari per nuovi fatti in prossimita’ della scadenza dei termini di custodia cautelare, allo scopo di farne iniziare nuovamente la decorrenza e prolungarne cosi’ artificiosamente la durata”. Gia’ allora si era affermato che il giudice del merito dovesse stabilire “in quale momento fossero stati processualmente acquisiti gli elementi probatori in ordine ai nuovi reati successivamente contestati, valutare il tempo indispensabile alla loro elaborazione e trasfusione nel provvedimento di cattura, escludendo dal computo il tempo trascorso nella colpevole inerzia dell’autorita’ giudiziaria competente ad emettere il provvedimento contenente le nuove contestazioni” (…) con la precisazione che ai fini della decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare e delle cosiddette contestazioni a catena, non va confuso il fatto storico oggetto della contestazione con la prova del medesimo”. L’articolo 297 c.p.p., comma 3, vigente, nella sua precedente formulazione, “aveva sostanzialmente riprodotto l’articolo 271 c.p.p. 1930, comma 3, estendendo la regola della retrodatazione, oltre all’ipotesi gia’ prevista dell’articolo 81 c.p., comma 1 (concorso formale), a quelle dell’articolo 82 c.p., comma 2 e articolo 83 c.p., comma 2 (aberratio ictus e aberratio delicti plurilesive), pero’ era rimasto fermo il precedente orientamento, giurisprudenziale che riconosceva la retrodatazione in tutti gli altri casi di “contestazione a catena”. Anche nei casi non rientranti nelle previsioni dell’articolo 81 c.p., comma 1, articolo 82 c.p., comma 2 e articolo 83 c.p., comma 2 aveva continuato a operare la retrodatazione, perche’ – come e’ stato affermato – “l’ingiustificata scissione delle diverse contestazioni con emissione “a catena” di successivi provvedimenti cautelari, nonostante i fatti contestati fossero noti sin dall’inizio, comporta conseguenze identiche a quelle di cui all’articolo 297 c.p.p., comma 3 (identico all’articolo 271 c.p.p. abrogato, comma 3), cioe’ la decorrenza del termine di custodia cautelare dal giorno della esecuzione del primo provvedimento” (…) Intanto pero’ poteva avere luogo la retrodatazione nei casi non espressamente previsti dall’articolo 297 c.p.p., comma 3, in quanto “gli indizi originariamente a disposizione dell’autorita’ giudiziaria fossero gia’ tali da consentire l’emissione di un unico provvedimento” (…), con la precisazione che “la data in rapporto alla quale occorreva stabilire se fossero stati acquisiti o no (tenuto conto anche del tempo necessario alla loro elaborazione) gli elementi posti a base dell’ordinanza successiva non era quella di emanazione dell’ordinanza precedente, ma quella in cui era stata avanzata dal p.m. la relativa richiesta” (…) Questa condizione riguardava solo i casi che non rientravano nella specifica previsione dell’articolo 297 c.p.p., comma 3, perche’ si riteneva che “nel caso di un unico fatto, cui si ricolleghi una pluralita’ di reati in concorso formale o la realizzazione di una delle ipotesi di cui all’articolo 82 c.p., comma 2 e articolo 83 c.p., comma 2” la decorrenza della custodia dal primo provvedimento fosse “automatica, prescindendo da ogni valutazione in ordine alla ragione della pluralita’ di contestazioni” (…) In questo quadro e’ intervenuta la sostituzione dell’articolo 297 c.p.p., comma 3 ad opera della L. 8 agosto 1995, n. 335, articolo 12 il quale ha ampliato le ipotesi espressamente previste di retrodatazione, comprendendo i fatti “commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione ai sensi dell’articolo 12, comma 1, lettera b) e c), limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri”, e cosi’ ha aggiunto all’ipotesi del concorso formale, che figurava nella disposizione originaria, quelle del reato continuato e dei reati legati dal nesso teleologico”. La nuova disposizione ricorda la Corte – aveva dato luogo ad alcune questioni in gran parte determinate dall’inserimento della fattispecie del reato continuato. In questa fattispecie infatti possono rientrare anche numerosi reati commessi in un arco di tempo non particolarmente contenuto e oggetto nel corso delle indagini di accertamenti successivi, sicche’ ci si e’ interrogati sulle condizioni perche’ gli effetti dei provvedimenti cautelari adottati in tempi diversi possano decorrere dal giorno in cui e’ stata emessa la prima ordinanza. Si e’ subito posto un quesito: se per la retrodatazione occorra che i fatti oggetto dei provvedimenti successivi, e gli elementi che giustificano la misura cautelare, siano gia’ a conoscenza del pubblico ministero quando richiede la prima ordinanza oppure sia sufficiente l’esistenza della connessione qualificata, essendone la retrodatazione una conseguenza automatica (…) Per altro verso ci si e’ chiesti se, oltre che nei casi espressamente previsti dalla nuova disposizione, la retrodatazione potesse continuare ad operare in tutti gli altri tradizionalmente individuati dalla giurisprudenza, in quelli cioe’ in cui, pur mancando una connessione qualificata, fin dal momento dell’emissione del primo provvedimento cautelare esistevano negli atti gli elementi che erano poi stati posti a base dei provvedimenti successivi. Il quesito si e’ posto in modo particolare in vari casi in cui era in discussione l’esistenza della continuazione, essendo controverso che i reati oggetto dei successivi provvedimenti fossero tutti compresi; fin dall’inizio, in un medesimo disegno criminoso. Ed e’ anche accaduto che nella fase delle indagini sia stata esclusa la retrodatazione, negando la continuazione, e questa pero’ sia stata successivamente riconosciuta dal giudice del dibattimento. Sono per lo piu’ venuti in questione i rapporti tra il reato associativo e i reati fine, che secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente non danno di per se’ luogo a uno dei casi di connessione previsti dall’articolo 297 c.p.p., comma 3, perche’ “fra reato associativo e singoli reati fine non e’ ravvisabile un vincolo rilevante ai fini della continuazione e meno ancora della connessione teleologica, posto che, normalmente, al momento della costituzione dell’associazione i reati fine sono previsti solo in via generica. Questo vincolo – secondo la giurisprudenza – potra’ ritenersi sussistente soltanto nella eccezionale ipotesi in cui risulti che, fin dalla costituzione del sodalizio criminoso o dalla adesione ad esso, un determinato soggetto, nell’ambito del generico programma criminoso, abbia gia’ individuato uno o piu’ specifici fatti di reato, da lui poi effettivamente commessi” (Sez. 1, 18 dicembre 1998, n. 6530, Zagaria, rv. 212348; nello stesso senso Sez. 6, 15 ottobre 1997, n. 3960, Tagliamento, rv. 208833; Sez. 1, 26 marzo 1998, n. 1815, Cavallo, rv. 210391; Sez. 6, 1 luglio 1999, n. 2526, Novella, rv. 214928; Sez. 5, 21 dicembre 1999, n. 6237, Formica, rv. 216244; Sez. 5, 25 gennaio 2000, n. 495, Battaglia, rv. 216498; Sez. 1, 21 marzo 2003, n. 16573, Zuppardo, rv. 224002)”. La sentenza richiama anche i principi affermati da Sez. U, n. 9 del 25/06/1997, Atene, Rv. 208167, secondo cui “il divieto della cosiddetta “contestazione a catena” di cui all’articolo 297 c.p.p., comma 3 trova applicazione in tutte le situazioni cautelari riferibili allo stesso fatto o a fatti diversi tra cui sussista connessione ai sensi dell’articolo 12 c.p.p., comma 1, lettera b) e c), limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri, a nulla rilevando che esse emergano nell’ambito di un unico procedimento o di piu’ procedimenti, pendenti dinanzi allo stesso giudice, e quindi innanzi ad esso cumulabili, ovvero a diversi giudici, e quindi cumulabili nella sede giudiziaria da individuare a norma degli articoli 13, 15 e 16 c.p.p.. Tale divieto si applica a condizione che siano desumibili dagli atti, entro i limiti temporali rispettivamente previsti dal primo e dal secondo periodo del citato articolo 297, comma 3, per le diverse situazioni in essi previste, tutti gli elementi apprezzabili come presupposti per l’emissione delle successive ordinanze cautelari i cui effetti sono da retrodatare, non essendo sufficiente, ai fini della sua operativita’, la mera notizia del fatto-reato”. Secondo tale pronuncia, “la “desumibilita’ dagli atti”, espressamente richiamata nel secondo periodo del comma 3, (costituisce) criterio applicativo dell’intera previsione dell’articolo 297, comma 3 ad essa conferendo razionalita’ e certezza, e nel contempo costituisce garanzia verso applicazioni improntate ad un irragionevole automatismo (…) Poiche’ il legislatore del 1995 ha adottato, ai fini dell’applicabilita’ del divieto delle contestazioni a catena, criteri caratterizzati da oggettivita’, con riguardo al suo ambito di applicazione (stesso fatto o fatti diversi; connessione dei procedimenti riguardanti fatti diversi; unicita’ e pluralita’ dei procedimenti), subordinandone per giunta l’operativita’ alla condizione della “desumibilita’ degli atti”, qualsiasi riferimento all’artificio od alla malizia per connotare l’inerzia o la manipolazione dell’autorita’ procedente appare, percio’, una “superfetazione”, del tutto inutile e fuorviante (…) D’altra parte, e sempre in linea con il dato letterale e con il significato complessivo della norma rispetto alla sua finalita’, appare evidente che le situazioni apprezzabili come presupposti per l’emissione delle successive ordinanze, la cui efficacia va retrodatata, debbano avere caratteristiche e consistenza tali da legittimare l’adozione della misura cautelare sin dall’epoca della prima ordinanza. Non e’ sufficiente, pertanto, che, entro i limiti temporali di cui all’articolo 297, al primo ed al secondo periodo comma 3 sia stata acquisita e risulti dagli atti la mera notizia del fatto-reato, essendo invece indispensabile che sussista il quadro legittimante l’adozione della misura cautelare sin dall’epoca dell’emissione della prima ordinanza, (ovvero dall’epoca del rinvio a giudizio: articolo 297 c.p.p., comma 3, u.p.) (…) richiamando nel contempo la parte all’onere di allegazione degli elementi donde desumere l’applicabilita’ della disposizione dell’articolo 297, comma 3″. La Sez. U, Atene, e’ richiamata, in motivazione dalla Sez. U, Rahulia, che, come sopra visto, ne ha disatteso il principio della necessaria desumibilita’ dagli atti anche del reato in rapporto di connessione qualificata con quello oggetto della prima ordinanza emessa nell’ambito dello stesso procedimento. Secondo Sez. U, Rahulia, “l’articolo 297 c.p.p., il comma 3 non e’ di lettura agevole e in dottrina ha fatto parlare di “prosa contorta”, ma se lo si legge con attenzione si comprende che la prima parte richiede, perche’ possa operare la retrodatazione, solo che ci si trovi in presenza di “uno stesso fatto, benche’ diversamente circostanziato o qualificato”, o di “fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione ai sensi dell’articolo 12, comma 1, lettera b) e c), limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri”. Non richiede nulla di piu’; in particolare non richiede che i fatti diversi, oltre che anteriori, siano desumibili dagli atti al momento della emissione della prima ordinanza, e a maggior ragione non richiede che siano desumibili dagli atti gli elementi idonei a giustificare l’adozione per tali fatti della misura cautelare (…) Il legislatore nel tempo ha assunto alcune relazioni tra i reati come fattispecie di per se’ giustificative della retrodatazione, senza la necessita’ di accertare se al momento dell’emissione della prima ordinanza negli atti esistessero o meno gli elementi per emettere anche le successive (…) Non si tratta, come spesso si e’ detto, di una presunzione di conoscenza dell’esistenza di tali condizioni, ma si tratta, piu’ semplicemente, di una regola diretta a far decorrere gli effetti della custodia in carcere dal momento della cattura anche per i fatti connessi a norma dell’articolo 297 c.p.p., comma 3, conosciuti o meno che questi fossero da parte del pubblico ministero, esistenti o meno che fossero all’epoca le condizioni per l’emissione anche rispetto ad essi della misura cautelare; e la ratio della disposizione e’ verosimilmente quella (individuata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 89 del 1996) di mantenere la durata della custodia cautelare nei limiti stabiliti dalla legge, anche quando nel corso delle indagini emergono fatti diversi legati da connessione qualificata”. La desumibilita’ dagli atti al momento della emissione della prima ordinanza costituisce criterio applicabile in caso di reati non in rapporto di connessione qualificata tra loro.
3.12.La Sez. U, Librato, ha affermato, per quanto qui rileva, i seguenti principi di diritto: “In tema di “contestazione a catena”, quando nei confronti di un imputato sono emesse in procedimenti diversi piu’ ordinanze cautelari per fatti diversi in relazione ai quali esiste una connessione qualificata, la retrodatazione prevista dall’articolo 297 c.p.p., comma 3, opera per i fatti desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio nel procedimento in cui e’ stata emessa la prima ordinanza. Nel caso in cui le ordinanze cautelari adottate in procedimenti diversi riguardino invece fatti tra i quali non sussiste la suddetta connessione e gli elementi giustificativi della seconda erano gia’ desumibili dagli atti al momento della emissione della prima, i termini della seconda ordinanza decorrono dal giorno in cui e’ stata eseguita o notificata la prima, solo se i due procedimenti sono in corso davanti alla stessa autorita’ giudiziaria e la loro separazione puo’ essere frutto di una scelta del pubblico ministero” (Rv. 235909); “Ai fini della retrodatazione dei termini di decorrenza della custodia cautelare ai sensi dell’articolo 297 c.p.p., comma 3, il presupposto dell’anteriorita’ dei fatti oggetto della seconda ordinanza coercitiva, rispetto all’emissione della prima, non ricorre allorche’ il provvedimento successivo riguardi un reato di associazione (nella specie di tipo mafioso) e la condotta di partecipazione alla stessa si sia protratta dopo l’emissione della prima ordinanza” (Rv. 235910); “Nel caso di emissione nello stesso procedimento di piu’ ordinanze che dispongono nei confronti di un imputato la medesima misura cautelare per lo stesso fatto, diversamente circostanziato o qualificato, o per fatti diversi, legati da concorso formale, da continuazione o da connessione teleologica, commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza, la retrodatazione della decorrenza dei termini delle misure disposte con le ordinanze successive opera automaticamente, ovvero senza dipendere dalla possibilita’ di desumere dagli atti, al momento dell’emissione della prima ordinanza, l’esistenza degli elementi idonei a giustificare le successive misure (articolo 297 c.p.p., comma 3, prima parte). Nel caso in cui le ordinanze cautelali adottate nello stesso procedimento riguardino invece fatti tra i quali non sussiste la connessione prevista dall’articolo 297 c.p.p., comma 3, la retrodatazione opera solo se al momento dell’emissione della prima esistevano elementi idonei a giustificare le misure applicate con le ordinanze successive” (Rv. 235911).
3.13.La sentenza si e’ posta in linea di continuita’ con la Sez. U, Rahulia precisandone, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 408 del 2005, l’ambito applicativo: “Resta ora da stabilire – afferma la Corte di cassazione – se per effetto della pronuncia di illegittimita’ costituzionale contenuta nella sentenza n. 408 del 2005 la retrodatazione debba operare anche nel caso di ordinanze cautelari emesse in procedimenti diversi per fatti non legati da connessione qualificata, se al momento della emissione della prima ordinanza esistevano elementi idonei a giustificare le misure adottate con la seconda”, cio’ sul rilievo che non era chiaro se la pronuncia di incostituzionalita’ concernesse solo i fatti oggetto dello stesso procedimentb o anche quelli oggetto di procedimenti diversi”, tanto che sul punto si era creato un contrasto di giurisprudenza. Orbene, afferma la Corte, “non vi sono elementi per affermare che la Corte costituzionale abbia inteso la regola della retrodatazione in modo diverso da quello indicato dalle Sezioni unite, anzi la motivazione della sentenza fa pensare il contrario, sia per l’adesione alla decisione delle Sezioni unite, sia perche’ tutto il suo sviluppo argomentativo sembra riferirsi a un’ipotesi di successione di provvedimenti cautelari nell’ambito dello stesso procedimento. E’ a questa ipotesi infatti che ben si attaglia il rilievo che se non operasse la retrodatazione si potrebbe “determinare, in tema di reati non connessi, un illegittimo prolungamento della custodia cautelare”. Rispetto invece a una misura adottata in un altro procedimento l’effetto della retrodatazione sarebbe diverso, quello cioe’ di ridurne la possibile durata (o addirittura di impedirla), mentre contemporaneamente la misura adottata nel primo procedimento (qualora i termini non fossero decorsi) potrebbe proseguire senza alcun prolungamento indebito. A ben vedere di retrodatazione si parla correttamente quando, essendo in Orso l’esecuzione di una misura cautelare, sono emesse nello stesso procedimento altre ordinanze e i termini si fanno decorrere dal momento in cui e’ iniziata l’esecuzione della misura, anziche’, come prevede l’articolo 297 c.p.p., comma 2, dal momento in cui e’ stata notificata la successiva ordinanza. Se invece i procedimenti sono diversi e i termini del secondo si fanno decorrere dall’inizio dell’esecuzione della misura adottata nel primo la situazione e’ diversa: la durata della misura disposta nel primo viene imputata al secondo (che in molti casi non era neppure iniziato), dando luogo a un fenomeno concettualmente differente da quello della retrodatazione, benche’ per consuetudine e’ definito con lo stesso vocabolo (…) se e’ vero che la retrodatazione concerne di regola misure adottate nello stesso procedimento e’ anche vero che l’autorita’ giudiziaria non puo’ “scegliere” momenti diversi dai quali far decorrere i termini delle relative misure quando si trova in presenza di piu’ fatti per i quali i provvedimenti restrittivi potrebbero essere adottati contemporaneamente. Se ne deve dedurre che non si puo’ escludere la retrodatazione nei casi in cui i procedimenti avrebbero potuto essere riuniti e risultano separati per una scelta del pubblico ministero. In questo caso si verifica una situazione per vari aspetti analoga a quella regolata dall’ultima parte dell’articolo 297 c.p.p., comma 3, disposizione che prevede la retrodatazione anche rispetto a procedimenti diversi, connessi, che avrebbero potuto essere riuniti. Al di fuori dell’automatismo previsto dall’articolo 297 c.p.p., comma 3, per l’ipotesi della connessione qualificata, acquista valore il riferimento soggettivo, in quanto, come ha affermato la Corte costituzionale, l’autorita’ giudiziaria non puo’ procrastinare la decorrenza della misura cautelare con una scelta che ne ritarda l’adozione. La scelta e’ inibita e deve essere vanificata attraverso il meccanismo della retrodatazione. Cio’ posto, e’ chiaro che la retrodatazione non ha ragione di operare, come invece e’ stato talvolta sostenuto, quando la seconda misura viene disposta in un procedimento pendente davanti a un diverso ufficio giudiziario. In questo caso infatti la diversita’ delle autorita’ giudiziarie procedenti indica una diversita’ di competenza, e fa ritenere che i procedimenti non avrebbero potuto essere riuniti e che quindi la sequenza dei provvedimenti cautelari non e’ il frutto di una scelta per ritardare la decorrenza della seconda misura (…) Se per i fatti oggetto del secondo provvedimento cautelare il procedimento aveva gia’ avuto inizio, o avrebbe dovuto averlo (con la relativa iscrizione nel registro delle notizie di reato), ben puo’ ritenersi che l’adozione della misura cautelare dopo l’emissione del primo provvedimento sia il frutto di una scelta dell’autorita’ giudiziaria, nel caso in cui gli elementi per emettere la nuova ordinanza fossero gia’ desumibili dagli atti”. In questi casi, “la retrodatazione, come ha riconosciuto la Corte costituzionale, costituisce un rimedio rispetto a una scelta indebita dell’autorita’ giudiziaria, sia nel caso in cui la scelta sia avvenuta procrastinando, nell’ambito di uno stesso procedimento, l’adozione della misura, sia nel caso in cui essa sia avvenuta procrastinando l’inizio del secondo procedimento o tenendolo separato dal primo, come puo’ avvenire per esempio non iscrivendo tempestivamente o separando alcune delle notizie di reato, ricevute o acquisite di propria iniziativa dal pubblico ministero”.
3.14.Quanto alla “desumibilita’”, la sentenza precisa che: “Non giustifica di per se’ la retrodatazione, perche’ non e’ di per se’ indicativo di una scelta indebita, il fatto che l’ordinanza, emessa nel secondo procedimento, si fondi su elementi gia’ presenti nel primo, perche’ in molti casi gli elementi probatori non manifestano immediatamente e in modo evidente il loro significato: essi spesso devono essere interpretati, specie quando si tratta, come di frequente accade, di colloqui intercettati e avvenuti in modo criptico. Percio’ il solo fatto che essi fossero gia’ in possesso degli organi delle indagini non dimostra che questi ne avessero individuato tutta la portata probatoria e fossero venuti a conoscenza delle notizie di reato per le quali si e’ proceduto, in un secondo momento, separatamente. A volte infatti la presa di conoscenza e la elaborazione degli elementi probatori da parte degli organi delle indagini richiede tempi non brevi, che danno ragione dell’intervallo di tempo trascorso tra l’acquisizione della fonte di prova e l’inizio del procedimento penale (si pensi ai casi in cui ci si trova in presenza di una grande quantita’ di documenti sequestrati o di complessi documenti contabili, da sottoporre all’esame di un consulente tecnico, o di numerose intercettazioni, protrattesi per lungo tempo). In conclusione, quando in differenti procedimenti, non legati da connessione qualificata, vengono emesse piu’ ordinanze cautelari per fatti diversi e gli elementi giustificativi della seconda erano gia’ desumibili dagli atti al momento della emissione della prima, e’ da ritenere che i termini della seconda ordinanza debbano decorrere dal giorno in cui e’ stata eseguita o notificata la prima, se i due procedimenti sono in corso davanti alla stessa autorita’ giudiziaria e la loro separazione puo’ essere frutto di una scelta del pubblico ministero”.
3.15.Quanto ai reati associativi, la sentenza afferma che: “(deve) condividersi l’affermazione della giurisprudenza prevalente (…) che la retrodatazione prevista dall’articolo 297 c.p.p., comma 3, “presuppone che i fatti oggetto dell’ordinanza rispetto alla quale operare la retrodatazione siano stati commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza e tale condizione non sussiste nell’ipotesi in cui l’ordinanza successiva abbia ad oggetto la contestazione del reato di associazione di stampo mafioso con descrizione del momento temporale di commissione mediante una formula cosiddetta aperta, che faccia uso di locuzioni tali da indicare la persistente commissione del reato pur dopo l’emissione della prima ordinanza” (Sez. II, 16 marzo 2006, n. 17575, Cardella, rv. 233833; nello stesso senso, tra le piu’ recenti, ved. Sez. II, 16 febbraio 2006, n. 12984, Locorotondo, rv. 233807; Sez. II, 9 febbraio 2006, n. 7615, Motta, rv. 233162; Sez. II, 9 febbraio 2006, n. 6252, Anfuso, rv. 233857; Sez. V, 14 dicembre 2005, n. 3098/06, Lanzino, rv. 233746). E’ solo rispetto a condotte illecite anteriori all’inizio della custodia cautelare disposta con la prima ordinanza che puo’ ragionevolmente operarsi la retrodatazione di misure adottate in un momento successivo, come si desume dalla lettera dell’articolo 297 c.p.p., comma 3, che prende in considerazione solo i “fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza”. Nella fattispecie delineata dalla disposizione in questione l’ordinanza cautelare segna il momento entro il quale la condotta illecita deve essere cessata, perche’ il provvedimento non puo’ “coprire”, attraverso la retrodatazione, fatti o parti di fatti successivi alla sua emissione. Se si ritenesse il contrario si dovrebbe giungere alla conclusione che, una volta Subita la custodia in carcere per il tempo massimo stabilito per un reato permanente e in particolare per un reato associativo, sarebbe preclusa l’applicazione di una nuova misura cautelare qualora la condotta illecita, protraendosi senza interruzione, proseguisse anche dopo la scadenza del termine della custodia in carcere”. Tale insegnamento e’ stato ripreso e ribadito da Sez. 6, n. 52015 del 17/10/2018, Rv. 27451; Sez. 6, n. 15821 del 03/04/2014, Rv. 259771; Sez. 6, n. 31441 del 24/04/2012, Rv. 253237; Sez. 1, n. 20882 del 21/04/2010, Rv. 247576; Sez. 1, n. 27785 del 12/06/2008, Rv. 240873; Sez. 6, n. 37952 del 26/04/2007, Rv. 237857, quest’ultima relativa al reato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti).
3.16.La Sez. U, Iaccarino, ha affermato il seguente principio di diritto: “In tema di cosiddetta “contestazione a catena”, la disciplina prevista dall’articolo 297 c.p.p., comma 3, per il computo dei termini di durata della custodia cautelare non e’ applicabile nell’ipotesi in cui per i fatti contestati con la prima ordinanza l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato ancor prima dell’adozione della seconda misura” (Rv. 243322). Si tratta di principio ormai superato alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 233 del 2011.
3.17.Successivamente a tali pronunce Sez. U, n. 45246 del 19/07/2012, Polcino, Rv. 253549, ha affermato il seguente principio di diritto: “In tema di contestazione a catena, la questione relativa alla retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare puo’ essere dedotta anche nel procedimento di riesame solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) termine interamente scaduto, per effetto della retrodatazione, al momento del secondo provvedimento cautelare; b) desumibilita’ dall’ordinanza applicativa della misura coercitiva di tutti gli elementi idonei a giustificare l’ordinanza successiva”. Si era dubitato della possibilita’ di dedurre in sede di riesame la perdita di efficacia della seconda ordinanza sul rilievo, evidenziato anche da altre pronunce delle sezioni unite (sentenze n. 26/1995 e n. 7/1996), che “”le cause che determinano la perdita di efficacia dell’ordinanza impositiva della misura cautelare si risolvono in vizi processuali che non intaccano l’intrinseca legittimita’ dell’ordinanza, ma agiscono sul diverso piano dell’efficacia della misura, per cui vanno fatte valere nell’ambito di un procedimento appositamente promosso con l’istanza di revoca ex articolo 306 c.p.p. “e non direttamente con la richiesta di riesame o addirittura con il ricorso per cassazione”. Richiamata la “ratio” dell’istituto (evitare che, rispetto a una custodia cautelare in corso, intervenga un nuovo titolo che, senza adeguata giustificazione, determini di fatto uno spostamento in avanti del termine iniziale della misura) e la giurisprudenza costituzionale e di legittimita’ in gran parte sopra gia’ illustrata, la sentenza ribadisce che “e’ dovere di ogni giudice investito del problema cautelare quello di tutelare nella sua massima estensione la liberta’ personale, protetta come bene primario dalla Costituzione (articolo 13) e dalle norme delle convenzioni internazionali che sanciscono il diritto di ogni persona sottoposta ad arresto o detenzione a ricorrere al giudice per ottenere, “entro brevi termini” (articolo 5, comma 4, Convenzione Europea dei diritti dell’uomo) o “senza indugio” (articolo 9, comma 4, Patto internazionale sui diritti civili e politici), una decisione sulla legalita’ della misura e sulla liberazione” sicche’ la questione della retrodatazione degli effetti della seconda misura cautelare puo’ essere oggetto di riesame e ha precisato, tuttavia, che “l’intervento dell’organo del riesame deve (…) essere coordinato con le particolari caratteristiche della relativa procedura incidentale, che non prevede l’esercizio di poteri istruttori, incompatibili con la speditezza del procedimento incidentale de libertate e che si basa esclusivamente sugli elementi emergenti dagli atti trasmessi dal pubblico ministero e su quelli eventualmente addotti dalle parti nel corso dell’udienza (…) pertanto, qualsiasi richiesta che comporti l’esercizio di poteri istruttori puo’ soltanto costituire l’oggetto di questioni da proporre al giudice competente su eventuali istanze di revoca della misura cautelare”, cio’ sul rilievo che “la deduzione della questione della sussistenza della c.d. contestazione a catena puo’ introdurre argomenti di notevole complessita’ ai fini del relativo accertamento e del conseguente giudizio. Anche nel caso di emissione nello stesso procedimento di piu’ ordinanze che dispongono nei confronti di un imputato la medesima misura custodiale per lo stesso fatto, diversamente circostanziato o qualificato, pur apparentemente semplice, possono sorgere notevoli questioni, come quando la contestazione concerna un’associazione a delinquere di stampo mafioso (…) ancor piu’ complesso puo’ rivelarsi il tema della sussistenza di una connessione qualificata, ad esempio con riferimento ai rapporti tra associazione per delinquere e reati-fine (…) La complessita’ aumenta in progressione allorquando debba valutarsi la sussistenza del requisito della “desumibilita’ dagli atti”. Infatti, la giurisprudenza ha chiarito che il concetto di desumibilita’, presupposto che legittima il ricorso all’istituto della retrodatazione, non va confuso con la mera conoscenza o conoscibilita’ di determinati fatti”. Sicche’, prosegue la Corte, “se la ratio dell’istituto consiste nell’evitare un prolungamento artificioso dei termini di custodia cautelare, e’ evidente che la retrodatazione puo’ teoricamente ipotizzarsi, e l’istituto concretamente operare, come istituto di garanzia, solo se il secondo provvedimento custodiale gia’ poteva concretamente essere adottato al momento dell’emissione della prima ordinanza e cio’ puo’ affermarsi solo nei casi in cui gia’ vi era un quadro indiziario di tale gravita’ e completezza, conoscibile dall’autorita’ giudiziaria procedente e apprezzabile in tutta la sua valenza probatoria, da integrare tutti i presupposti legittimanti l’adozione della misura”. Ha quindi aggiunto che i “presupposti di applicazione della retrodatazione ex articolo 297 c.p.p., comma 3, costituiscono una quaestio facti la cui soluzione e’ rimessa di volta in volta all’apprezzamento del giudice di merito (Sez. 5, n. 44606 del 18/10/2005, Traina, Rv. 232797; Sez. 6, n. 12676 del 20/12/2006, dep. 2007, Barresi, Rv. 236829; Sez. 4, n. 9990 del 18/01/2010, Napolitano, Rv. 246798), e in quanto tale richiede l’esame e la valutazione degli atti ed una ricostruzione dei fatti, attivita’ precluse al giudice di legittimita’, il quale deve solo verificare che il convincimento espresso in sede di merito sia correttamente e logicamente motivato”. Di qui la conclusione secondo la quale “il Tribunale del riesame possa pronunciarsi in materia solo quando elementi incontrovertibili emergenti dall’ordinanza impugnata consentano di ritenere sussistenti i suddetti presupposti. In qualsiasi altro caso, la mancanza di poteri istruttori del giudice del riesame e le esigenze di speditezza del procedimento incidentale de libertate devono condurre ad escludere una pronuncia dello stesso giudice, la quale, se favorevole all’indagato, potrebbe basarsi sulla sola prospettazione difensiva non sufficientemente verificata nel piu’ ampio contraddittorio e con la completezza degli elementi di fatto e documentali utili per la decisione; se sfavorevole all’indagato, potrebbe essere suggerita da una superficiale e non completa disamina di tutti i dati rilevanti, non rimediabile in sede di legittimita’, in considerazione dei limiti del relativo sindacato, con le negative conseguenze correlate al prodursi del c.d. giudicato cautelare. Pertanto deve ribadirsi che soltanto nel caso in cui dalla stessa ordinanza impugnata emergano in modo incontrovertibile e completo gli elementi utili e necessari per la decisione e’ possibile dare spazio ai principi di economia processuale e di rapida definizione del giudizio in vista della piu’ ampia tutela del bene primario della liberta’ personale”. Come conseguenza pratica dell’applicazione del principio resta al soggetto sottoposto a misura restrittiva della propria liberta’ la via alternativa della richiesta di revoca della seconda ordinanza e dell’appello avverso cautelare l’ordinanza di rigetto.
3.18.Successivamente alla Sez. U, Polcino, ed in “reazione” al principio da essa affermato, la Corte costituzionale, con sentenza n. 293 del 2013, ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 309 c.p.p., in quanto interpretato nel senso che la deducibilita’, nel procedimento di riesame, della retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure cautelari, prevista dall’articolo 297 c.p.p., comma 3, sia subordinata – oltre che alla condizione che, per effetto della retrodatazione, il termine sia gia’ scaduto al momento dell’emissione dell’ordinanza cautelare impugnata – anche a quella che tutti gli elementi per la retrodatazione risultino da detta ordinanza. La Corte specifica che oggetto di incidente di costituzionalita’ (e dunque di pronuncia) e’ solo la condizione della desumibilita’ dall’ordinanza applicativa della misura coercitiva di tutti gli elementi idonei a giustificare l’ordinanza successiva: “non e’ dunque in contestazione, in questa sede, la prima condizione, che – in linea con il carattere impugnatorio del mezzo – circoscrive la cognizione del giudice del riesame all’ipotesi in cui la retrodatazione implichi un “vizio” (lato sensu) originario del titolo coercitivo, a fronte del quale la misura da esso disposta non avrebbe dovuto essere applicata fin dall’inizio”. Osserva il Giudice delle leggi che i due strumenti di tutela (riesame; ricorso per cassazione richiesta di revoca/appello/ricorso per cassazione) non possono essere considerati equivalenti. La regola di diritto pronunciata dalle Sez. U, Polcino, “si presta (…) a determinare disparita’ di trattamento tra soggetti che versano in situazioni identiche in correlazione a fattori puramente accidentali, avulsi dalla ratio degli istituti che vengono in rilievo. A parita’ di situazione, infatti, la fruibilita’ del riesame ai fini considerati finisce per dipendere dall’ampiezza e dalla puntualita’ delle indicazioni contenute nella motivazione del provvedimento coercitivo che il soggetto in vinculis intende contestare. Il livello della tutela viene ad essere determinato, in altre parole, dal maggiore o minore scrupolo con il quale il giudice della cautela assolve all’onere di motivare l’ordinanza restrittiva e, prima ancora, dal fatto che egli sia o non sia a conoscenza degli elementi che impongono la retrodatazione (…) le questioni sulle quali il tribunale del riesame e’ chiamato ordinariamente a pronunciarsi, ai fini della verifica dei requisiti di validita’ del provvedimento restrittivo, possono risultare e sovente risultano malgrado la ristrettezza dei tempi e la mancanza di poteri istruttori – non meno complesse dell’accertamento della sussistenza di una “contestazione a catena” (…) si deve poi osservare come, in base alla regula iuris in discussione, non basti neppure – per legittimare l’intervento del tribunale del riesame, ovviando alle allegate sue difficolta’ nel misurarsi con la tematica – che la sussistenza di una “contestazione a catena” risulti “evidente”, ma occorra che la dimostrazione piena e inconfutabile dell’inefficacia originaria del titolo cautelare promani da una singola e specifica fonte documentale, rappresentata dallo stesso provvedimento impugnato”. Il tribunale del riesame, prosegue la Corte costituzionale, “dispone, ai fini della sua decisione, sia degli atti trasmessigli dall’autorita’ giudiziaria procedente ai sensi dell’articolo 309 c.p.p., comma 5, sia degli ulteriori elementi eventualmente addotti dalle parti nel corso dell’udienza, ai sensi del comma 9 del medesimo articolo. Non e’ certo impossibile, dunque, che le condizioni per la retrodatazione emergano in modo del tutto piano da fonti diverse dall’ordinanza sottoposta a riesame. Basti pensare al caso emblematico in cui la sussistenza di una “contestazione a catena” si desuma in termini inequivocabili, anziche’ dall’ordinanza impugnata, dalla prima ordinanza cautelare (la quale potrebbe risultare, ad esempio, palesemente emessa per lo stesso fatto contestato con la seconda). La previsione di un trattamento differenziato – e meno favorevole – per questa e consimili ipotesi risulta, dunque, inevitabilmente lesiva del principio di eguaglianza”.
3.19.In conclusione, ai fini della retrodatazione dei termini di durata della misura cautelare disposta o notificata nei confronti della stessa persona successivamente ad un’altra, devono ricorrere i seguenti presupposti:
3.19.1.L’identita’ del fatto (ipotesi qui non sussistente); oppure, in caso di reati diversi:
3.19.2.Il diverso reato oggetto della seconda ordinanza e’ stato interamente consumato in epoca anteriore alla prima;
3.19.3.Il reato e’ stato commesso: i) con la medesima azione od omissione con cui e’ stato commesso il primo (concorso formale); oppure ii) in esecuzione di un medesimo disegno criminoso (continuazione); oppure ancora iii) per eseguire il primo reato (connessione teleologica); in questi casi, la retrodatazione degli effetti della seconda ordinanza: i) opera automaticamente, se emessa nell’ambito del medesimo procedimento (salva la prova della connessione qualificata); ii) e’ subordinata alla prova della desumibilita’ dagli atti alla data del rinvio a giudizio, se emessa in procedimento diverso;
3.19.4.i fatti, tra loro diversi e non legati da un rapporto di connessione qualificata, non devono essere desumibili dagli atti gia’ al momento della adozione della prima ordinanza, anche se emessa in procedimento diverso purche’ pendente dinanzi allo stesso ufficio giudiziario. Non osta alla applicazione della retrodatazione il fatto che per i reati oggetto della prima ordinanza sia intervenuta condanna irrevocabile anteriormente alla emissione della seconda.
3.20.Della sussistenza di tali fatti (connessione qualificata e desumibilita’ dagli atti) e’ necessaria la prova (articolo 187 c.p.p., comma 2) della quale, si puo’ anticipare, deve farsi carico la parte che nel procedimento di riesame invoca l’applicazione della retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare (Sez. 3, n. 18671 del 15/01/2015, Rv. 263511; Sez. 2, n. 6374 del 28/01/2015, Rv. 262577; Sez. 5, n. 49793 del 05/06/2013, Rv. 257827). La relativa decisione puo’ essere sindacata in sede di legittimita’ nei limiti stabiliti dall’articolo 606 c.p.p..
3.21.Ai fini della “desumibilita’ dagli atti”: a) il fatto storico oggetto di contestazione non va confuso con la prova dello stesso; b) non e’ sufficiente la mera notizia del fatto-reato, essendo indispensabile che sussista il quadro legittimante l’adozione della misura cautelare sin dall’epoca dell’emissione della prima; c) non e’ nemmeno sufficiente che l’ordinanza emessa successivamente si fondi su elementi gia’ presenti nel primo, perche’ in molti casi gli elementi probatori non manifestano immediatamente e in modo evidente il loro significato.
3.22.In sede di riesame e’ possibile porre la questione relativa alla retrodatazione del termine di custodia cautelare purche’ sia interamente scaduto. In tal caso il giudice deve esaminare tutti gli atti trasmessi ai sensi dell’articolo 309 c.p.p., comma 5, e quelli prodotti dalle parti.
4.Tanto premesso, il ricorrente, sulla premessa della perenzione del termine di durata della custodia cautelare, deduce che alla data della prima ordinanza cautelare del 26/05/2017 sussistevano gli elementi dai quali desumere gli altri due reati, quello associativo e quello rubricato al capo 8, entrambi contestati come commessi in epoca precedente al 23/05/2017, ed aggiunge, a conforto di tale affermazione, di essere stato iscritto nel registro degli indagati il 10/04/2017 esclusivamente per il reato di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, osservando che cio’ costituiva dato sintomatico della (testualmente) “conoscibilita’” degli atti aggiungendo che gli elementi posti a sostegno della seconda ordinanza erano stati “registrati” in diretta in virtu’ di operazioni di intercettazioni chieste ed ottenute dal PM ipotizzando proprio l’esistenza del sodalizio. Conclude affermando che il delitto contestato con la prima ordinanza rientrerebbe tra i delitti-scopo dell’associazione.
4.1.Si tratta di deduzioni infondate e, per certi versi, anche inammissibilmente fattuali.
4.2.Si e’ gia’ detto che, per i delitti in rapporto di connessione qualificata, la desumibilita’ dagli atti non rileva se prima non si fornisce la prova della suddetta connessione, prova che, come anticipato, deve essere fornita da chi deduce la inefficacia della seconda misura per il decorso dei termini.
4.3.Orbene, il fatto che un reato rientri nel programma criminoso dell’associazione per delinquere non prova di per se’ che quello specifico episodio fosse stato programmato sin dall’inizio. L’unicita’ del disegno criminoso di cui all’articolo 81 cpv. c.p., non puo’ essere confusa con il generico programma associativo (in questo caso) di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 74 poiche’ l’articolo 81 cpv. c.p., richiede che le varie azioni siano concepite e volute dall’agente, nei loro termini essenziali, sin dall’inizio, sicche’ detta identita’ manca quando i vari delitti, anche se attuano un indistinto e generico proposito di delinquere, sono effetto di determinazioni distinte; ne’ il programma criminoso puo’ identificarsi con la violazione della legge in quanto tale (Sez. 1, n. 15955 del 08/01/2016, Eloumari, Rv. 266615; Sez. 1, n. 39222 del 26/02/2014, Rv. 260896; Sez. 1, n. 6553 del 13/12/1995, Bagnara, Rv. 203690, secondo cui la unicita’ del disegno criminoso necessaria per configurabilita’ del reato continuato e per l’applicazione della continuazione in fase esecutiva non puo’ identificarsi con la generale tendenza a porre in essere determinati reati o comunque da una scelta di vita che implica la reiterazione di determinate condotte criminose, ma le singole violazioni devono costituire parte integrante di un unico programma deliberato nelle linee essenziali per conseguire un determinato fine). La violazione della legge rileva quale strumento per il conseguimento del fine unificante, non puo’ costituire essa stessa il fine da raggiungere. E’ necessario, piuttosto, che si dimostri puntualmente che i reati-fine sono stati programmati sin dal momento in cui il partecipe si e’ determinato a fare ingresso nel sodalizio, altrimenti ragionando si finirebbe per riconoscere una sorta di automatismo, con il conseguente beneficio sanzionatorio, per effetto del quale tutti i reati commessi in ambito associativo dovrebbero ritenersi in continuazione con la fattispecie associativa stessa (Sez. 1, n. 1534 del 09/11/2017, Rv. 271984; Sez. 6, n. 13085 del 03/10/2013, dep. 2014, Rv. 259481; Sez. 1, n. 40318 del 04/07/2013, Rv. 257253; Sez. 1, n. 8451 del 21/01/2009, Rv. 243199; si vedano anche le pronunce citate in motivazione dalla citata Sez. U, Rahulia).
4.4.Ne consegue (e deve essere precisato) che, ai fini della esistenza dell’unico disegno criminoso al quale ricondurre sia il reato associativo che il reato-scopo, non rileva il rapporto tra reati, ma tra i singoli reati e l’atteggiamento antidoveroso dell’associato. L’affermazione del Tribunale del riesame secondo cui “la difesa non ha evidenziato alcun elemento fattuale da cui poter desumere che il delitto oggetto della prima ordinanza e quelli oggi contestati fossero stati commessi in esecuzione di un unico disegno criminoso”, non e’ contestata dal ricorrente e tanto basta per ritenere la mancanza di prova della connessione qualificata.
4.5.Sotto altro profilo, la mera iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’articolo 335 c.p.p. costituisce elemento neutro ai fini della dimostrazione della conoscibilita’ degli elementi necessari e sufficienti a consentire l’emissione di un’ordinanza cautelare; la prima (iscrizione) presuppone la mera notizia di un reato e cioe’, la astratta corrispondenza di un fatto ad un’ipotesi di reato (Sez. U, n. 40538 del 24/09/2009, Lattanzi, 244378, secondo cui “l’espressione (notizia di reato) evoca un quid minus di cio’ che rappresenta la base fattuale per elevare l’imputazione; ma e’ anche un quid pluris rispetto ad una indefinita “ipotesi” di reato, che (…) la giurisprudenza di questa Corte individua nella figura del semplice sospetto. Tra questi due termini, in ipotesi estremi, regna, pero’, un’area, tutta da perscrutare sul piano contenutistico, giacche’ e’ evidente che la configurabilita’, anche solo in termini di “notizia di reato,” di una complessa fattispecie associativa, evoca un “lavorio” definitorio che puo’ comportare (ed e’ cio’ che qui interessa) spazi temporali non comparabili rispetto a quelli che, invece, consuetamente richiedono fatti ictu oculi sussumibili nell’ambito di una determinata fattispecie di reato”); la seconda (adozione di un’ordinanza cautelare) presuppone il possesso, da parte del pubblico ministero, di informazioni ben piu’ complete e pregnanti di quelle desumibili dagli “elementi essenziali del fatto” che normalmente accompagnano la trasmissione della notizia di reato (articolo 347 c.p.p.). Cio’ non esclude che la notizia di reato sia trasmessa insieme con gli elementi di prova sufficienti a supportare una domanda di misura cautelare personale, ma si tratta di un’eventualita’ che il codice di rito non prevede e non pretende.
4.6.Ne’ ha rilevanza il fatto che le condotte oggetto dell’ordinanza successivamente emessa fossero state “registrate” in diretta nel corso delle intercettazioni autorizzate ipotizzando proprio l’esistenza di un’associazione per delinquere. Il ricorrente non spiega innanzitutto se, alla data di “registrazione” delle condotte, sussistessero gli elementi necessari e sufficienti alla adozione di una misura cautelare. Si aggiunga, quale ulteriore argomento, che ai fini dell’applicazione della disciplina derogatoria delle norme codicistiche prevista dal Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 13 convertito dalla L. n. 203 del 1991, per procedimenti relativi a delitti di criminalita’ organizzata devono intendersi quelli elencati nell’articolo 51 c.p.p., commi 3-bis e 3-quater, nonche’ quelli comunque facenti capo ad un’associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato (Sez. U, n. 26889 del 28/04/2016, Rv. 266906). Ne consegue che ai fini dell’autorizzazione delle intercettazioni telefoniche e ambientale per reati associativi sono richiesti i sufficienti, non i gravi indizi di reato, con conseguente impossibilita’ logica di accostare l’avvio di tali operazioni alla desumibilita’ dagli atti dei gravi indizi di colpevolezza della partecipazione del ricorrente al sodalizio. Un ulteriore argomento milita a favore della infondatezza della deduzione difensiva; le operazioni di intercettazione sono autorizzabili quando sono necessarie per lo svolgimento delle indagini in materia di criminalita’ organizza (Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 13, comma 1; negli altri casi quando sono assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini; articolo 267 c.p.p.). Si tratta di strumento investigativo finalizzato all’acquisizione della prova del reato ipotizzato e che, proprio in caso di reati associativi, puo’ comportare settimane, anche mesi, di ascolto e di ulteriori indagini, nel corso delle quali singole operazioni di sequestro e/o di arresto in flagranza di reato costituiscono singoli tasselli la cui riconducibilita’ al programma delinquenziale necessita di una verifica complessiva dell’intero materiale acquisito. In questi casi, le singole condotte delittuose accertate grazie all’ascolto delle conversazioni intercettate, pur potendo costituire reati, il piu’ delle volte non possono che essere valutate quali indizi dell’esistenza di un sodalizio che per poter essere valutate quale prova devono essere gravi, precisi e concordanti. Sicche’ non e’ giuridicamente, ne’ logicamente corretto affermare che durante le operazioni di intercettazione telefonica erano state “registrate” in diretta condotte che, solo con valutazione “ex post”, si sarebbero rivelate poste in essere in esecuzione del programma criminoso e, dunque, costituire prova dell’esistenza del sodalizio. Si aggiunga, quale ulteriore argomento, che la prova dell’esistenza del sodalizio non esaurisce il thema probandum, dovendo essere fornita anche la prova della partecipazione ad esso dell’imputato e del ruolo associativo svolto.
4.7.In estrema sintesi, il ricorrente: a) non ha mai fornito la prova della esistenza di una connessione qualificata tra i fatti contestati con le due ordinanze; b) non ha mai fornito la prova della desumibilita’ dei fatti oggetto della seconda ordinanza gia’ alla data di adozione della prima.
5.Il secondo ed il terzo motivo, comuni per l’oggetto, possono essere esaminati congiuntamente.
5.1.Il capo 8) provvisoriamente contestato cosi’ recita: “del reato di cui agli articoli 81 cpv. e 110 c.p., Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, commi 1 e 6, perche’, in concorso tra loro e con piu’ azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, illecitamente detenevano ad evidente fine di spaccio, quantitativi non indifferenti di sostanza stupefacente del tipo hashish ceduti dal (OMISSIS) e dal (OMISSIS) ai due (OMISSIS) in vista della successiva rivendita a terzi. Accertato in (OMISSIS)”.
5.2.L’articolo 292 c.p.p., comma 2, lettera b), prescrive a pena di nullita’ rilevabile anche d’ufficio, “la descrizione sommaria del fatto con l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate”. Il confronto con i requisiti che la contestazione del fatto deve possedere ai fini della validita’ della richiesta di rinvio a giudizio (articolo 417 c.p.p., lettera b), del decreto che dispone il giudizio ordinario o immediato (articolo 429 c.p.p., comma 1, lettera c e articolo 456 c.p.p., comma 1), del decreto di citazione diretta a giudizio (articolo 552 c.p.p., comma 1, lettera c), rende palese che mentre negli atti che cristallizzano l’accusa e’ richiesta l’indicazione “chiara e precisa” del fatto, ai fini cautelari e’ sufficiente la sua sommaria descrizione.
5.3.Secondo l’autorevole insegnamento di Sez. U, n. 16 del 14/07/1999, Ruga, Rv. 214004, “il requisito della descrizione sommaria del fatto con l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate, imposto a pena di nullita’ dall’articolo 292 c.p.p., comma 2, lettera b), come contenuto minimo dell’ordinanza che dispone la misura cautelare, ha la funzione di informare l’indagato o l’imputato circa il tenore delle accuse che gli vengono mosse, al fine di consentirgli l’esercizio del diritto di difesa. Ne consegue che esso puo’ dirsi soddisfatto quando i fatti addebitati siano indicati in modo tale che l’interessato ne abbia immediata e compiuta conoscenza, a nulla rilevando che risultino richiamati esclusivamente gli articoli di legge relativi all’oggetto della contestazione”. Precisa in motivazione la Corte che “in sede cautelare, al fine di ritenere contestati un determinato fatto o una specifica circostanza, non sono necessarie particolari formalita’ o l’espresso richiamo ad articoli di legge, ma e’ sufficiente (e necessario) che la contestazione risulti chiaramente dal contesto dell’ordinanza dispositiva della misura cautelare” (si veda anche Sez. U, n. 10 del 25/03/1998, Savino, n. m. sul punto, secondo cui “l’ordinanza che dispone la misura cautelare richiede soltanto, ai sensi di legge, “la descrizione sommaria del fatto”, cioe’ una sintetica e schematica precisazione delle linee esterne della contestazione, atta a consentire all’indagato di conoscere il fatto nelle sue linee generali e di esercitare il diritto di difesa. L’indicazione della data in cui si assume essere stato commesso un determinato reato e’ un elemento non indispensabile alla descrizione del fatto, particolarmente quando, come nella fattispecie, si tratti di reato permanente associativo che copra un lungo arco di tempo, la cui individuazione risulti dall’indicazione degli elementi strutturali della “societas sceleris”, sia pure schematicamente enunciati”). L’ordinanza che applica la misura cautelare personale, infatti, deve dare conto dei gravi indizi di colpevolezza che giustificano in concreto la applicazione della misura con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza. E’ evidente che la sommaria descrizione del fatto si lega a doppio filo con la necessaria illustrazione degli elementi di fatto dai quali sono desunti i gravi indizi di colpevolezza per il fatto stesso. Questo non vuol dire che l’autonomo requisito della sufficienza dell’addebito provvisorio possa essere superato dall’adempimento dell’obbligo di motivazione di cui all’articolo 292 c.p.p., lettera c). Tuttavia nemmeno puo’ sostenersi una lettura a compartimenti stagni dei due diversi requisiti fatta propria dal ricorrente. Questi cita a sostegno della propria tesi Sez. 3, n. 23978 del 15/05/2014, Alleva, Rv. 259671, che ha affermato il seguente principio di diritto: “In tema di misure cautelari, il requisito della “descrizione sommaria del fatto con l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate”, previsto a pena di nullita’ dall’articolo 292 c.p.p., comma 2, lettera b), puo’ essere soddisfatto con una enunciazione dell’accusa anche riassuntiva, ma che deve presentare un minimo di specificita’ quanto alle concrete modalita’ di realizzazione della condotta rispetto alla norma violata e al suo tempo di commissione, cosi’ da porre l’interessato in condizione di difendersi”. In quel caso, pero’, la contestazione era cosi’ formulata: “perche’ con piu’ azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso e in tempi diversi, in concorso con altri e senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17 e fuori dalle ipotesi di cui all’articolo 75 del medesimo decreto, compravendevano quantitativi imprecisati di sostanze stupefacenti del tipo eroina e cocaina”. La Corte ha avuto buon gioco ad osservare che non era specificata in fatto nemmeno la destinazione della cessione a terzi delle sostanze ricevute dall’Alleva. Una situazione di fatto non comparabile a quella oggetto di odierno scrutinio nella quale la contestazione attribuisce al ricorrente una condotta specifica (la cessione) di cui sono indicati l’oggetto (hashish), le modalita’ (il concordo con il (OMISSIS)), i destinatari (i due (OMISSIS)). Tali requisiti sono stati ritenuti sufficienti, da ultimo, da Sez. 6, n. 50593 del 19/09/2014, Rv. 261372, che, nell’affermare il principio di diritto secondo il quale “in tema di misure cautelari, il requisito della descrizione sommaria del fatto con l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate, previsto dall’articolo 292 c.p.p., comma 2, lettera b), ha la funzione di informare l’indagato circa il tenore delle accuse, al fine di consentirgli il pieno esercizio del diritto di difesa, con la conseguenza che esso puo’ dirsi soddisfatto allorche’ le condotte addebitate siano indicate in modo tale che l’interessato ne abbia immediata e sicura conoscenza, in cio’ essendo sufficiente una sintetica e sommaria enunciazione dei lineamenti essenziali della contestazione, senza la necessita’ di specificare eventuali elementi di dettaglio”, ha spiegato in motivazione che “il requisito di cui all’articolo 292 c.p.p., comma 2, lettera b) ha la funzione di informare l’indagato circa il tenore delle accuse, al fine di consentire il pieno esercizio del diritto di difesa. Esso puo’ dirsi soddisfatto allorche’ i fatti addebitati siano indicati in modo tale che l’interessato ne abbia immediata e sicura conoscenza (Sez U. 14-7-1999, Ruga; Sez 1, 4-5-1998, Barbaro, Rv. 210564). E’ percio’ sufficiente una sintetica e sommaria enunciazione dei lineamenti essenziali della contestazione, senza la necessita’ di specificare eventuali elementi di dettaglio. Al riguardo, e’ significativa la netta alterita’ tra il tenore testuale dell’articolo 417 c.p.p., che, nel disciplinare i requisiti della richiesta di rinvio a giudizio, prescrive l’enunciazione “in forma chiara e precisa” dell’addebito, e quello dell’articolo 292 c.p.p., comma 2, lettera b), che si limita a richiedere la “descrizione sommaria” del fatto. E’ dunque soltanto a seguito dell’esercizio dell’azione penale che l’imputazione si cristallizza in una formulazione definitiva, salva l’eventualita’ di modifiche. Cio’ e’ del resto coerente ad una logica di progressivita’ dell’accertamento giudiziale, alla quale e’ connaturale un certo grado di fluidita’ dell’addebito nella fase procedimentale antecedente all’esercizio dell’azione penale, in cui le indagini sono in itinere ed e’ quindi fisiologico che i lineamenti fattuali dell’accusa possano non risultare ancora del tutto nitidi. Ai fini cautelari e’ pertanto sufficiente una enunciazione dell’addebito tale da consentire all’incolpato di comprenderne il fulcro e le coordinate cronologiche, topografiche e modali essenziali, si’ da poter esercitare il diritto di difesa. Non e’ dunque nemmeno necessario che le ipotesi di reato contestate siano formalmente trasfuse in autonomi e specifici capi di imputazione, potendo esse risultare anche dal contesto della motivazione (Cass. 4-7- 95, Tomasello, rv n. 202206; Cass. 20-8-1992, Sciortino, rv. n. 192232). E’ quanto si riscontra nel caso sub iudice, in cui significativi profili di precisazione degli addebiti si rinvengono laddove, nella parte motiva dell’ordinanza impugnata, vengono analizzati (…) gli elementi indiziari a supporto dell’accusa, anche attraverso la riproduzione di ampi stralci dell’ordinanza genetica. Non e’ d’altronde indispensabile, per quanto attiene alle imputazioni inerenti a reati in materia di stupefacenti, come quella in esame, l’indicazione del nominativo del cessionario, del tipo di sostanza e del quantum di essa, ben potendo accadere che tali dati non emergano dalle risultanze indiziarie allo stato acquisite, senza che cio’ possa assumere rilievo preclusivo della formulazione dell’imputazione cautelare. Nel caso di specie, la contestazione formulata soddisfa appieno gli anzidetti requisiti, mediante l’indicazione della condotta oggetto dell’addebito (acquisto e successiva cessione a terzi di stupefacente)”.
5.4.A non diversi risultati si perviene richiamando l’articolo 5 §2 della Convenzione E.D.U. che riconosce il diritto di ogni persona arrestata di essere informata al piu’ presto “dei motivi dell’arresto e di ogni accusa formulata a suo carico”. La Corte E.D.U. ha affermato, al riguardo, che l’informazione sulle ragioni dell’arresto potrebbe anche essere omessa in caso di arresto posto in essere in esecuzione di un precedente mandato perche’ in tal caso l’informazione e’ contenuta nel mandato stesso. In ogni caso l’informazione deve essere fornita in modo semplice, a-tecnico e comprensibile, cosi’ che la persona arrestata possa comprendere le ragioni di fatto e di diritto della privazione della sua liberta’ ed eventualmente agire ai sensi del § 4 dello stesso articolo 5 (diritto a presentare ricorso ad un tribunale del riesame), deve essere fornita nel minor tempo possibile e deve essere possibilmente completa anche se non e’ necessario che la persona arrestata venga informata seduta stante e dettagliatamente di tutti i motivi dell’arresto (GC, Khlaifia e altri c/Italia, § 115; Fox, Campbell e Hartley c. Regno Unito, 30 agosto 1990, § 40, serie A n. 182, § 40; GC, Murray c/Regno Unito, n. 14310/88 del 28/10/1994, § 72; Sez. IV, Saadi c/Regno Unito, n. 13229/03 dell’11/07/2006, § 51; Sez. II, Z.H. c/Ungheria, n. 28973/11 del 08/11/2012, § 41). Non e’ dunque richiesta l’informazione “in modo dettagliato”, della natura e dei motivi dell’accusa nei termini imposti dall’articolo 6, § 3 – a.
5.5.Peraltro, la idoneita’ delle informazioni contenute nel capo provvisorio di accusa e’ dimostrata dalla natura delle censure sollevate dal ricorrente nel merito di tali accuse.
5.6.Quanto a queste ultime (oggetto del terzo motivo) l’ordinanza impugnata richiama a sostegno dell’accusa alcune conversazioni telefoniche dalle quali si desume che il ricorrente veniva utilizzato quale custode delle sostanze movimentate dal sodalizio e del denaro. Si tratta di conversazioni tutte antecedenti al 23/05/2017 nelle quali il riferimento a condotte passate e non solo future priva di fondamento il rilievo difensivo secondo il quale: a) esse sarebbero prodromiche alla consumazione del reato accertato il 23/05/2017; b) il tribunale non avrebbe motivato sulla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza del reato sub 8).
5.7.Il ricorrente, oltre a sostenere infondatamente la mancanza di motivazione sul punto, sollecita sostanzialmente una lettura diversa delle conversazioni intercettate. Questa Corte ha piu’ volte spiegato che l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni oggetto di intercettazioni telefoniche costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, il cui apprezzamento non puo’ essere sindacato in sede di legittimita’ se non nei limiti della manifesta illogicita’ ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715; Sez. 5, n. 35680 del 10/06/2005, Rv. 232576; Sez. 6, n. 15396 del 11/12/2007, Rv. 239636; Sez. 6, n. 17619 del 08/01/2008, Rv. 239724; Sez. 6, n. 11794 del 11/12/2013, Rv. 254439; Sez. 6, n. 46301 del 30/10/2013, Rv. 258164; Sez. 3, n. 35593 del 17/05/2016, Rv. 267650; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, Rv. 268389). In sede di legittimita’, inoltre, e’ possibile prospettare una interpretazione del significato di una intercettazione diversa da quella proposta dal giudice di merito solo in presenza del travisamento della prova, ovvero nel caso in cui il giudice di merito ne abbia indicato il contenuto in modo difforme da quello reale, e la difformita’ risulti decisiva ed incontestabile (Sez. 5, n. 7465 del 28/11/2013, Rv. 259516; Sez. 6, n. 11189 del 08/03/2012, Rv. 252190; Sez. 2, n. 38915 del 17/10/2007, Rv. 237994).
5.8.Nulla di tutto cio’ ha fatto il ricorrente con la conseguenza che le sue deduzioni sono, al riguardo, inammissibili.
6.A non diversi rilievi si espone il quarto motivo.
6.1.Il ricorrente ne fa una questione di diritto ma non concilia il suo dire con quello che risulta dalla lettura dell’ordinanza impugnata la quale, dopo un’ampia disamina della giurisprudenza di legittimita’ sull’argomento, elenca in modo preciso ed analitico i fatti e le condotte dai quali ha desunto la sussistenza, a livello gravemente indiziario, del sodalizio ipotizzato e della appartenenza ad esso dell’odierno ricorrente. In particolare, il tribunale, indicati i mezzi di prova (conversazioni intercettate, servizi di osservazione posti in essere dalla polizia giudiziaria, sequestri di sostanza stupefacente, effettuati a riscontro del contenuto delle conversazioni) dai quali ha tratto le informazioni necessarie al decidere, ha illustrato i risultati acquisiti descrivendoli nel seguente modo: a) circolarita’ delle conversazioni intercettate fra i sodali e oggetto dei dialoghi (qualita’, quantita’, costi di acquisto, prezzi di vendita, luoghi di custodia, fornitori, acquirenti); b) disponibilita’ dei luoghi adibiti a custodia degli stupefacenti e incontri tra i sodali (tra questi l’autorimessa gestita dal (OMISSIS)); c) l’esecuzione di numerosi reati-fine riconducibili al programma criminoso; d) la prosecuzione dell’attivita’ illecita nonostante i sequestri e gli arresti (indice di una struttura stabile destinata a “sopravvivere” agli associati di volta in volta arrestati o impossibilitati a proseguire l’attivita’); e) l’esistenza di una “cassa comune” e di una “contabilita’” gestita da (OMISSIS); f) forme di mutua assistenza in caso di arresto di un sodale a causa dell’esecuzione del programma criminale (assistenza della quale aveva goduto anche (OMISSIS)); g) plurimi canali di approvvigionamento delle sostanze; h) la ripartizione dei ruoli ( (OMISSIS) e (OMISSIS) si occupavano di custodire la droga; (OMISSIS) si occupava del trasporto della stessa e del denaro provento delle cessioni; (OMISSIS) agiva come contabile e custode del denaro; (OMISSIS) operava come stabile fornitore); i) l’utilizzo di utenze riservate dedicate alle comunicazioni tra i soci. Quanto all’organico e consapevole inserimento del ricorrente nel sodalizio, il tribunale indica varie conversazioni intercettate (puntualmente ripotate e sintetizzate a pag.14 e che si aggiungono a quelle illustrate a supporto della prova indiziaria del reato sub 8), dalle quali ha desunto l’atteggiamento di chiara e piena collaborazione del ricorrente e di adesione agli ordini del (OMISSIS) e del (OMISSIS).
6.2.Il (OMISSIS) non contesta l’esistenza dei fatti sopra indicati, di alcuni di essi (la sua assistenza in carcere) fornisce una possibile (quanto inammissibile) lettura alternativa, decontestualizzata dal contesto, e preferisce rifugiarsi in generiche deduzioni sui requisiti necessari alla configurazione giuridica dell’associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti che, pur astrattamente fondate, in concreto legittimano proprio l’uso che ne ha fatto il tribunale del riesame.
6.3.E’ fin troppo evidente che, in considerazione dell’autonomia tra reato associativo e reato-fine, derivante dal fatto che il primo prescinde dalla commissione degli illeciti oggetto del programma criminoso, la commissione di reati di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73 non puo’, da sola ed automaticamente, costituire prova della commissione del reato associativo, costituendo al piu’ indice sintomatico dell’esistenza dell’associazione (cosi’ Sez. 4, n. 23518 del 29/04/2008, Saracini, Rv. 240843, citata anche dal ricorrente; nello stesso senso anche Sez. 6, n. 9898 del 21/06/1995, Tolone, Rv. 202646), e tuttavia e’ altrettanto vero che, da un lato, la ripetuta commissione, in concorso con i partecipi al sodalizio criminoso, di reati-fine integra, per cio’ stesso, gravi, precisi e concordanti indizi in ordine alla partecipazione al reato associativo, superabili solo con la prova contraria che il contributo fornito non e’ dovuto ad alcun vincolo preesistente con i correi e fermo restando che detta prova, stante la natura permanente del reato “de quo”, non puo’ consistere nell’allegazione della limitata durata dei rapporti intercorsi (Sez. 3, n. 42228 del 03/02/2015, Prota, Rv. 265346; Sez. 2, n. 5424 del 22/01/2010, Sindyal, Rv. 246441; Sez. 5, n. 6026 del 25/03/1997, Puglia, Rv. 208088); dall’altro che anche il coinvolgimento in un solo reato-fine puo’ integrare l’elemento oggettivo della partecipazione, laddove le connotazioni della condotta dell’agente, consapevolmente servitosi dell’organizzazione per commettere il fatto, ne riveli, secondo massime di comune esperienza, un ruolo specifico in funzione delle dinamiche operative e della crescita criminale dell’associazione (Sez. 6, n. 1343 del 04/11/2015, Policastri, Rv. 265890; Sez. 1, n. 43850 del 03/07/2013, Durand, Rv. 257800; Sez. 4, n. 45128 del 11/11/2008, Buccheri, Rv. 241927, che ha precisato che l’elemento oggettivo del reato d’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti prescinde dal numero di volte in cui il singolo partecipante ha personalmente provveduto allo spaccio; nello stesso senso Sez. 5, n. 9457 del 24/09/1997, Gaceres, Rv. 209073, secondo cui la partecipazione al reato di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti va desunta da una serie di condotte significative che, complessivamente valutate, denotino l’organico inserimento in una struttura criminosa a carattere associativo; l’accertamento deve essere particolarmente rigoroso quando la prova dell’accordo sia desunta da condotte svolte nell’ambito di un solo episodio criminoso o da comportamenti che possono anche essere il frutto di un aiuto episodico).
6.4.E’ dunque una questione di motivazione che, in quanto tale, riguarda la sistemazione razionale dei fatti a conoscenza del giudice e la logica che presiede alla loro ricostruzione.
6.5.Il Tribunale del riesame non si e’ fermato, nel caso di specie, al solo dato storico-statico della consumazione dei singoli reati-fine, ma li ha contestualizzati e analizzati nella loro proiezione dinamica quali espressione di un rapporto di collaborazione collaudato, stabile, duraturo, destinato a produrre effetti, ben oltre i singoli episodi delittuosi, che da’ linfa ad un programma potenzialmente indefinito di forniture e acquisti.
6.6.Questa Corte ha costantemente affermato il principio, che deve essere qui ribadito, che ai fini della configurabilita’ del delitto di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e’ sufficiente l’esistenza tra i singoli partecipi di una durevole comunanza di scopo, costituito dall’interesse ad immettere sostanza stupefacente sul mercato del consumo, non essendo di ostacolo alla costituzione del rapporto associativo nemmeno la diversita’ degli scopi personali e degli utili che i singoli partecipi, fornitori ed acquirenti si propongono di ottenere dallo svolgimento della complessiva attivita’ criminale (Sez. 4, n. 4497 del 16/12/2015, Addio, Rv. 265945; Sez. 6, n. 4800 del 15/02/1993, Barlow, Rv. 194539; Sez. 1, n. 825 del 02/11/1995, Marino, Rv. 203489; Sez. 1, n. 7758 del 10/06/1996, Timpani, Rv. 205531; Sez. 5, n. 1291 del 17/03/1997, Barj, Rv. 208231; Sez 5, n. 10077 del 23/09/1997, Bruciati, Rv. 208822; Sez. 6, n. 3509 del 10/01/2012, Ambrosio, Rv. 251574; Sez. 6, n. 41612 del 19/06/2013, Manta, Rv. 257798).
6.7.Sicche’ anche l’accordo di almeno tre persone per organizzare e finanziare un’operazione d’importazione di ingente quantita’ di stupefacenti, per le attivita’ delittuose consecutive di ciascuna di esse anche nel commercio in proprio, determina un programma associativo ai sensi della previsione di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 74 la quale non richiede che le successive condotte delittuose dei singoli, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, ivi compreso il commercio, siano compiute in nome e per conto dell’associazione, ma solo che rientrino nel predetto programma (Sez. 5, n. 28528 del 15/06/2010, Cucumazzo, Rv. 247905).
6.8.Non sussiste la violazione del divieto del “bis in idem”, perche’ la partecipazione dell’imputato al sodalizio criminoso puo’ ben essere desunta anche dalla commissione di singoli episodi criminosi, purche’ siffatte condotte, per le loro connotazioni, siano in grado di attestare, al di la’ di ogni ragionevole dubbio e secondo massime di comune esperienza, un ruolo specifico della persona, funzionale all’associazione e alle sue dinamiche operative e di crescita criminale, e le stesse siano espressione non occasionale della adesione al sodalizio criminoso e alle sue sorti, con l’immanente coscienza e volonta’ dell’autore di farne parte e di contribuire al suo illecito sviluppo (Sez. 6, n. 44102 del 21/10/2008, Cannizzo, Rv. 242397; Sez. 6, n. 50965 del 02/12/2014, D’Aloia, Rv. 261379; Sez. 6, n. 1343 del 04/11/2015, Policastri, Rv. 265890, cit.).
6.9.Quanto al requisito strutturale organizzativo e’ necessario svolgere alcune considerazioni aggiuntive.
6.10.Secondo la giurisprudenza di questa Corte il delitto di associazione per delinquere si distingue dal concorso di persone nel reato disciplinato dagli articoli 110 e segg. c.p. poiche’ l’accordo criminoso (il quale puo’ intervenire anche tra due persone soltanto) e’ circoscritto alla commissione di uno o piu’ reati singolarmente individuati, anche quando siano concepiti nell’ambito di un disegno criminoso unitario, si esaurisce dopo che questi sono stati commessi ed e’ caratterizzato dalla mancanza di una struttura organizzativa piu’ o meno complessa e dei mezzi necessari all’attuazione del programma, a tutti comune (Sez. 1, n. 6204 del 11/03/1991, Controsceri, Rv. 188025; Sez. 1, n. 6684 del 12/05/1995, Cortinovis, Rv. 201541; Sez. 1, n. 10107 del 14/07/1998, Rossi, Rv. 211403, che ha ulteriormente precisato che l’associazione per delinquere si caratterizza per tre fondamentali elementi, costituiti: a)- da un vincolo associativo tendenzialmente permanente, o comunque stabile, destinato a durare anche oltre la realizzazione dei delitti concretamente programmati; b)-dall’indeterminatezza del programma criminoso che distingue il reato associativo dall’accordo che sorregge il concorso di persone nel reato; c)- dall’esistenza di una struttura organizzativa, sia pur minima, ma idonea e soprattutto adeguata a realizzare gli obiettivi criminosi presi di mira).
6.11.Si e’ piu’ recentemente precisato che il discrimine tra la fattispecie plurisoggettiva e quella concorsuale va individuato nella necessaria finalizzazione dell’accordo associativo alla costituzione di una struttura (almeno tendenzialmente) permanente, nella quale i singoli associati divengono ciascuno nell’ambito dei propri compiti, assunti od affidati – parti di un tutto, e si propongono di commettere una serie indeterminata di delitti (cosi’, in motivazione, Sez. 2, n. 20451 del 03/04/2013, Ciaramitaro, Rv. 256054).
6.12.L’elemento “strutturale-organizzativo” assurge, cosi’, ad elemento tipizzante-selettivo della fattispecie associativa destinato a fornire “materialita’” al fatto, in ossequio al principio di necessaria (quantomeno) potenziale offensivita’ del reato, sotto il profilo della idoneita’ e adeguatezza dell’azione a ledere in modo permanente il bene protetto.
6.13.Occorre pero’ considerare che il fattore organizzativo non e’ un’esclusiva dei reati associativi. Esso puo’ costituire anche modalita’ esecutiva dei reati a concorso eventuale di persone nel reato (articolo 112 c.p., comma 1, n. 2) ed e’ elemento costitutivo di altri (per esempio, il reato di attivita’ organizzate per il traffico illecito di rifiuti di cui al Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 260; cfr., sul punto, Sez. 3, n. 5773 del 17/01/2014, Napolitano, Rv. 258906, secondo cui e’ persino configurabile il concorso tra i reati di associazione per delinquere e di attivita’ organizzate per il traffico illecito di rifiuti, in quanto tra le rispettive fattispecie non sussiste un rapporto di specialita’, trattandosi di reati che presentano oggettivita’ giuridiche ed elementi costitutivi diversi, caratterizzandosi il primo per una organizzazione anche minima di uomini e mezzi funzionale alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti in modo da turbare l’ordine pubblico, e il secondo per l’allestimento di mezzi e attivita’ continuative e per il compimento di piu’ operazioni finalizzate alla gestione abusiva di rifiuti cosi’ da esporre a pericolo la pubblica incolumita’ e la tutela dell’ambiente).
6.14.Sicche’ l’elemento organizzativo deve essere valutato non solo e non tanto nel suo aspetto statico (comune, come visto, anche a reati monosoggettivi), quanto – sopratutto – nella sua dimensione dinamica, dimostrativa dell’esistenza di una “affectio societatis” destinata a perpetuarsi nel tempo e che sopravvive al singolo episodio criminoso.
6.15.Coglie questo aspetto la definizione di “Gruppo criminale organizzato” di cui all’articolo 2, lettera a) e c) della Convenzione ONU sul crimine organizzato transnazionale formalizzata a Palermo nel dicembre 2000, ratificata in Italia con L. 16 marzo 2006, n. 146, secondo cui esso indica “un gruppo strutturato, esistente per un periodo di tempo, composto da tre o piu’ persone che agiscono di concerto al fine di commettere uno o piu’ reati (gravi o reati stabiliti dalla presente Convenzione, al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o un altro vantaggio materiale)” (lettera a), laddove per “”Gruppo strutturato” s’intende un gruppo che non si e’ costituito fortuitamente per la commissione estemporanea di un reato e che non deve necessariamente prevedere ruoli formalmente definiti per i suoi membri, continuita’ nella composizione o una struttura articolata” (lettera c).
6.16.Nello stesso senso si colloca la definizione di “organizzazione criminale” effettuata dall’articolo 1 della Dec. 24/10/2008, n. 2008/841/GAI – DECISIONE QUADRO DEL CONSIGLIO relativa alla lotta contro la criminalita’ organizzata secondo cui si intende si intende per tale “un’associazione strutturata di piu’ di due persone, stabilita da tempo, che agisce in modo concertato allo scopo di commettere reati punibili con una pena privativa della liberta’ o con una misura di sicurezza privativa della liberta’ non inferiore a quattro anni o con una pena piu’ grave per ricavarne, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o un altr6 vantaggio materiale”, laddove per “”associazione strutturata” si intende un’associazione che non si e’ costituita fortuitamente per la commissione estemporanea di un reato e che non deve necessariamente prevedere ruoli formalmente definiti per i suoi membri, continuita’ nella composizione o una struttura articolata”.
6.17.E’ percio’ condivisibile la recente riaffermazione (Sez. 5, n. 16737 del 18/12/2015, dep. il 21/04/2016, Salvatore, n. m.) del principio secondo il quale, sulla premessa che ne’ il codice penale (articoli 416 e 416 bis), ne’ il t.u. delle leggi sugli stupefacenti (Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 74) recano nozioni definitorie dell’associazione che intendono reprimere, ma rimandano all’interprete per l’individuazione del concetto, elemento essenziale dei reati previsti dalle norme suindicate e’ l’accordo associativo il quale crea un vincolo permanente a causa della consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio e di partecipare, con contributo causale, alla realizzazione di un duraturo programma criminale. Tale essendo la caratteristica del delitto, ne discende a corollario la secondarieta’ degli elementi organizzativi che si pongono a substrato del sodalizio, elementi la cui sussistenza e’ richiesta nella misura in cui dimostrano che l’accordo puo’ dirsi seriamente contratto, nel senso cioe’ che l’assoluta mancanza di un supporto strumentale priva il delitto del requisito dell’offensivita’. Tanto sta pure a significare che, sotto un profilo ontologico, e’ sufficiente un’organizzazione minima perche’ il reato si perfezioni, e che la ricerca dei tratti organizzativi non e’ diretta a dimostrare l’esistenza degli elementi costitutivi del reato, ma a provare, attraverso dati sintomatici, l’esistenza di quell’accordo fra tre o piu’ persone diretto a commettere piu’ delitti, accordo in cui il reato associativo di per se’ si concreta (Sez. 6, n. 10725 del 25/09/1998, Villani, Rv. 211743; Sez. 6, n. 15158 del 14/02/2001, Enea, Rv. 218953).
6.18.Il principio cosi’ espresso muove dalla giusta constatazione che le associazioni per delinquere, poiche’ sono illecite nella causa e nell’oggetto, sfuggono a tipizzazioni e regolamentazioni legislative, espressamente previste quando invece l’interesse perseguito sia ritenuto meritevole di tutela, e sfuggono per antonomasia a requisiti descrittivi tipici del loro modo di essere e di manifestarsi.
6.19.Un’associazione per delinquere non e’ tale se rispecchia determinate caratteristiche strutturali (che non possono ovviamente essere predeterminate per legge); e’ tale se, a prescindere dalle forme organizzative scelte (eventualmente lecite e ad essa preesistenti o sovrapponibili), persegue il fine di commettere piu’ delitti. E’ dunque lo scopo che qualifica il delitto; l’eletnento organizzativo, quando c’e’, ne prova l’esistenza, ma essa puo’ essere desunta anche dall’esistenza di regole comunemente osservate volte proprio a consentire il perseguimento dello scopo, dall’esistenza, cioe’, di un programma delinquenziale.
6.20.Le associazioni per delinquere, in disparte la loro suscettibilita’ ad essere definite alla stregua di “ordinamenti giuridici” anch’esse (e cio’ proprio perche’ dotate di regole proprie), vivono e si muovono nella realta’ fattuale, secondo regole e meccanismi insuscettibili di creare rapporti giuridici e, dunque, diritti e doveri riconosciuti e sanzionati come tali dall’ordinamento giuridico statale. Ma l’insuscettibilita’ della regola ad essere fonte di rapporti giuridicamente riconosciuti non equivale alla sua indifferenza per il legislatore penale quando essa costituisca strumento per indirizzare gli accoliti verso il perseguimento del comune programma illecito per consentire, appunto, il “pactum sceleris”.
6.21.Oltretutto, quando si parla di requisito organizzativo occorre intendersi perche’ non si puo’ certamente pretendere che i mezzi utilizzati da un’associazione criminale abbiano la stessa visibilita’ fisica e siano contraddistinti da quell’autonomia patrimoniale che, con diversi gradi di intensita’, caratterizza quelle lecite (una sede, un patrimonio, un fondo). Del resto ogni azione, sia essa lecita o illecita, assume giuridica rilevanza solo se appartiene al mondo sensibile; anche il pensiero, per essere comunicato, ha bisogno di strumenti che lo rendano percepibile al suo destinatario (una lettera, una mail, un telefono, un computer), e cosi’ un mezzo di trasporto per muoversi, un’abitazione dove alloggiare.
6.22.Quando si evoca il requisito strutturale-organizzativo occorre tenere presente che il concetto di organizzazione comporta l’esistenza di una volonta’ “organizzante” di persone e cose che non necessariamente devono essere dedicate in via esclusiva allo scopo sociale, come se si trattasse, appunto, di un’azienda o del capitale sociale o di beni strumentali dell’impresa; peraltro nel caso di associazioni per delinquere i beni possono essere (e normalmente sono) quelli di uso comune, indifferentemente utilizzati a scopi leciti o illeciti. Quel che rileva, appunto, e’ che il loro uso denoti l’esistenza della regola unificante che li organizza, quando necessario, in vista dello scopo.
6.23.Le associazioni per delinquere di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 74 non sono, dal punto di vista del requisito organizzativo, “speciali” rispetto al tipo comune di cui all’articolo 416 c.p..
6.24.Costituisce una declinazione dei principi sin qui illustrati l’affermazione che, in questi casi, ai fini della configurabilita’ del delitto associativo, l’elemento dell’organizzazione assume un rilievo secondario, poiche’ cio’ non si spiega con lo “svilimento” di tale elemento (come sostiene il ricorrente), bensi’ con il fatto che la sua sussistenza e’ richiesta nella misura in cui serve a dimostrare che l’accordo illecito permanente teso alla realizzazione di un numero indeterminato di reati (che costituisce l’essenza della fattispecie associativa e l’elemento distintivo di questa rispetto al concorso di persone nel reato) puo’ dirsi seriamente contratto, giacche’, non diversamente dagli altri fenomeni associativi, la mancanza assoluta di un supporto strumentale priverebbe il delitto del requisito dell’offensivita’. Ne consegue che, non diversamente da quanto gia’ visto, la ricerca dei tratti organizzativi e’ essenzialmente diretta a provare, attraverso tale dato sintomatico, l’esistenza dell’accordo indeterminato a commettere piu’ delitti che di per se’ concreta il reato associativo (Sez. 4, n. 22824 del 21/04/2006, Qose, Rv. 234576; Sez. 2, n. 16540 del 27/03/2013, Piacentini, Rv. 255491).
6.25.L’ordinanza impugnata fa corretta applicazione di tali principi nella misura in cui, dall’esame dei fatti sopra indicati, ha desunto l’esistenza dell’ipotizzato sodalizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
La Corte inoltre dispone che copia del presente provvedimento sia trasmessa al Direttore dell’Istituto Penitenziario competente a norma dell’articolo 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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