In tema di responsabilità da reato degli enti

Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 4 marzo 2020, n. 8785

Massima estrapolata:

In tema di responsabilità da reato degli enti, ai fini della configurabilità della condotta riparatoria che esclude l’applicabilità delle sanzioni interdittive, devono ricorrere tutte le condizioni previste dall’art. 17 del d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, non essendo sufficiente la sola predisposizione di un modello organizzativo idoneo alla prevenzione dei reati.

Sentenza 4 marzo 2020, n. 8785

Data udienza 29 novembre 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSI Elisabetta – Presidente

Dott. CERRONI Claudio – Consigliere

Dott. GENTILI Andrea – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – rel. Consigliere

Dott. ZUNICA Fabio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
(OMISSIS) SRL;
avverso la sentenza del 07/01/2019 della CORTE APPELLO di MILANO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. ALESSIO SCARCELLA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FILIPPI PAOLA, che ha concluso chiedendo l’inammissibilita’ dei ricorsi di (OMISSIS) e (OMISSIS), il rigetto del ricorso (OMISSIS) e l’annullamento senza rinvio, limitatamente alla sanzione interdittiva, quanto al ricorso (OMISSIS) s.r.l., con rigetto, nel resto, del ricorso dell’Ente;
uditi i difensori presenti (Avv. (OMISSIS) per il ricorrente (OMISSIS); Avv. (OMISSIS), per il ricorrente (OMISSIS); Avv. (OMISSIS), in sostituzione dell’Avv. (OMISSIS), per il ricorrente (OMISSIS); Avv. (OMISSIS) jr., per la ricorrente soc. (OMISSIS) s.r.l.), che, nel riportarsi ai motivi dei rispettivi ricorsi, ne hanno chiesto l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza 7.01.2019, la Corte d’appello di Milano, in parziale riforma della sentenza 17.06.2016 del tribunale di Milano, appellata dagli imputati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e dalla societa’ (OMISSIS) s.r.l., per quanto qui di interesse, dichiarava non doversi procedere nei confronti del (OMISSIS) per essere i reati ascritti al medesimo estinti per prescrizione, revocando la confisca disposta nei suoi confronti; dichiarava non doversi procedere nei confronti dello (OMISSIS), in ordine ai reati al medesimo ascritti ai capi I), z) ed i), limitatamente alle annualita’ 2008, 2009 e 2010, per essere i medesimi ascritti per intervenuta prescrizione, rideterminando la pena inflitta al medesimo per le residue imputazioni in 3 anni, 6 mesi e gg. 15 di reclusione, revocando la confisca disposta fino alla concorrenza dell’importo di Euro 13.609.730,60, confermando le restanti statuizioni della sentenza a carico dello (OMISSIS); confermava, infine, nel resto, la sentenza appellata, con condanna dello (OMISSIS) e della societa’ (OMISSIS) s.r.l. al pagamento delle spese processuali; giova precisare, per migliore intelligibilita’ dell’impugnazione, che si procede, in sede di legittimita’, in relazione ai seguenti reati: a) quanto al (OMISSIS), la sentenza d’appello ha dichiarato n. d.p. per intervenuta prescrizione, revocando la confisca disposta nei suoi confronti; b) quanto allo (OMISSIS), lo stesso e’ stato ritenuto colpevole del reato di frode fiscale Decreto Legislativo n. 74 del 2000, ex articolo 2, (capo 3), esclusa la pluralita’ delle condotte, condannandolo alla pena condizionalmente sospesa di 1 anno e 6 mesi di reclusione, oltre alle pene accessorie di legge, con confisca di beni e valori fino alla concorrenza della somma di Euro 64.711,20; c) quanto allo (OMISSIS), lo stesso e’ stato ritenuto colpevole del solo capo a), ossia del reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di reati tributari (articolo 416 c.p., commi 1, 3 e 5) nonche’ per il delitto di frode fiscale di cui al capo i), limitatamente al periodo di imposta 2011, con rideterminazione della pena e limitazione della confisca nei termini di cui sopra; d) quanto alla soc. (OMISSIS) s.r.l., la stessa e’ stata ritenuta colpevole dell’illecito amministrativo di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 24-ter, e, riconosciuta l’attenuante di cui all’articolo 12, comma 2, lettera b) Decreto Legislativo citato, la stessa e’ stata condannata alla sanzione amministrativa di 300 quote nella misura di 500Euro per quota, cosi’ complessivamente in Euro 150.000,00, oltre alle pene accessorie di legge e alla confisca di beni e valori fino alla concorrenza di Euro 2.188.522,94.
2. Contro la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione tutti gli imputati nonche’ la persona giuridica, a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, iscritti all’Albo speciale previsto dall’articolo 613, c.p.p., articolando complessivamente quattordici motivi di ricorso (sette motivi di ricorso lo (OMISSIS), un unico motivo sia lo (OMISSIS) che il (OMISSIS) ed, infine, cinque motivi di ricorso la persona giuridica (OMISSIS) s.r.l.), di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex articolo 173 disp. att. c.p.p..
3. Ricorso (OMISSIS), con cui si articolano sette motivi.
3.1. Deduce lo (OMISSIS), con il primo motivo, il vizio di motivazione, sotto il profilo della motivazione apparente con riferimento all’elenco delle fonti di prova (assenza di vaglio critico), dell’omessa motivazione relativamente all’attendibilita’ intrinseca ed estrinseca della teste (OMISSIS) e alla pregnanza degli elementi di prova che confutano la sua deposizione, nonche’, infine, sotto il profilo della manifesta illogicita’ della motivazione in ordine alla ricostruzione della posizione di “amministratore di fatto” in capo allo (OMISSIS).
In sintesi, si sostiene che la Corte di appello non avrebbe valutato criticamente gli elementi di prova e le doglianze difensive compendiate nell’atto di impugnazione, limitandosi a riproporre l’elenco delle fonti di prova indicate nella decisione di primo grado, senza analizzare il loro apporto in ordine alla ricostruzione del ruolo effettivamente assunto dal ricorrente. Si configurerebbe, pertanto, una ipotesi di motivazione apparente, essendosi limitato il giudice del gravame a richiamare genericamente le dichiarazioni dei testi (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), senza vagliarne il contenuto in rapporto alla fattispecie concreta. Sarebbero state obliterate le argomentazioni difensive, nonche’ le dichiarazioni delle segretarie (in particolare di (OMISSIS)), con le quali si era evidenziato come non fosse possibile, da un lato, qualificare l’imputato (OMISSIS) come “amministratore di fatto” e, a fortiori, ritenere che egli fosse stato coinvolto nella commissione delle condotte in contestazione. Altrettanto ignorate sarebbero state le considerazioni circa i coimputati (OMISSIS) e (OMISSIS) che avrebbero smentito le dichiarazioni etero accusatorie della teste (OMISSIS). Relativamente a quest’ultima la Corte territoriale avrebbe omesso di vagliare le plurime contraddizioni interne al dichiarato, sebbene evidenziate in sede di impugnazione. Esempio riportato, e sottoposto dalla difesa in sede di appello, sarebbe il fatto che la (OMISSIS) aveva dichiarato di essere entrata in carica come amministratore dopo la morte del marito, mentre sarebbe emerso dal verbale di assemblea del 15.2.2008 che la sua nomina fosse antecedente al decesso. Il giudice di appello si sarebbe invece limitato a richiamare la sentenza di primo grado, osservando come fossero state rinvenute le firme scannerizzate di (OMISSIS) e della di lui moglie presso lo studio di (OMISSIS), il quale avrebbe apposto tali sigle sia sulle deleghe che sul verbale del 15.2.2008, dal quale emergerebbe la presenza della (OMISSIS). Tale circostanza sarebbe, ad avviso della difesa, indimostrata, sostenendo tra l’altro che il giudice di prime cure avrebbe invertito l’onere della prova, in mancanza di una consulenza o di una perizia finalizzata a valutare la corrispondenza fra le sottoscrizioni dei documenti de quibus e le sottoscrizioni salvate nel computer dello (OMISSIS). Tali profili non sarebbero stati esaminati dal giudice di secondo grado. Le propalazioni della teste assistita (OMISSIS) avrebbero dovuto essere valutate ex articolo 197bis c.p.p. e articolo 192 c.p.p., comma 3. La Corte avrebbe dovuto verificare l’attendibilita’ intrinseca della suddetta e, al contempo, provvedere ad individuare gli ulteriori elementi di prova idonei a confermarne la credibilita’. Cio’ avrebbe avuto nel caso di specie particolare rilevanza alla luce dell’interesse della (OMISSIS) ad attribuire la responsabilita’ dell’illecito allo (OMISSIS), allo scopo di alleggerire la propria posizione. La sentenza sarebbe viziata in punto di motivazione anche relativamente alle considerazioni volte a ricostruire la qualifica di “amministratore di fatto” in capo allo (OMISSIS) a fronte di dati documentali che, ad avviso della difesa, sarebbero neutri ed inidonei a configurare un’attivita’ gestoria. In particolare la sentenza valorizzerebbe l’assistenza e la tenuta della contabilita’, nonche’ la delega ad operare sui conti correnti di (OMISSIS). Tuttavia, applicando tali principi, si qualificherebbero come “amministratore di fatto” tutti quei professionisti che prestano ausilio negli adempimenti operativi societari. La sentenza ometterebbe di indicare quali tipologie di pagamenti sarebbero stati effettuati dall’imputato, il che sarebbe imprescindibile per giustificarne un suo eventuale coinvolgimento gestorio nell’attivita’ societaria. Nessun vaglio critico su tali aspetti sarebbe stato operato dalla Corte di appello, nonostante le censure sollevate in sede di impugnazione. Le lacune motivazionali minerebbero la tenuta dell’apparato giustificativo della decisione in ordine alla qualifica attribuita allo (OMISSIS). Sia il giudice di primo grado che di appello avrebbero errato nell’inferire un comportamento doloso preordinato a sottrarre la documentazione contabile rilevante ai fini dell’indagine nella mancata consegna della contabilita’ dell’impresa (OMISSIS) e nell’indicazione, a seguito di una nuova richiesta, dello studio (OMISSIS) come soggetto depositario a cui rivolgersi. I rilievi indicati nell’atto di gravame sarebbero stati tralasciati dall’organo giudicante, il quale non avrebbe affrontato le questioni poste dalla difesa.
3.2. Deduce lo (OMISSIS), con il secondo motivo, il vizio di motivazione, in particolare sotto il profilo dell’omessa motivazione con riferimento al mancato coinvolgimento dell’imputato nei fatti a lui addebitati e al suo ruolo marginale nella vicenda de qua (capo A).
In sintesi, sostiene la difesa che anche qualora si attribuisse allo (OMISSIS) la qualifica di “amministratore di fatto” cio’ non sarebbe sufficiente ai fini dell’affermazione di responsabilita’. Gia’ con l’atto di appello si sarebbero evidenziati elementi probatori comprovanti l’estraneita’ dell’imputato alle condotte contestate. Si richiamavano le dichiarazioni del prof. (OMISSIS) (consulente della Procura) il quale avrebbe inserito le frodi tributarie oggetto del procedimento de quo nell’ambito del commercio del rame e di altri metalli, non invece dell’acciaio. Dalle dichiarazioni dei testi ( (OMISSIS) in primis) sarebbe inoltre emerso che il rame era interamente gestito dalla (OMISSIS), occupandosi lo (OMISSIS) dell’acciaio a supporto di (OMISSIS) (incaricato all’uopo dall’amministratore di (OMISSIS)). La Corte territoriale non avrebbe tenuto conto delle argomentazioni difensive limitandosi ad accertare una responsabilita’ di posizione dell’imputato, senza valutare se il medesimo fosse coinvolto nelle frodi fiscali. In ogni caso, il contributo tecnico fornito dal ricorrente nell’ambito del commercio dell’acciaio avrebbe dovuto condurre ad una riqualificazione della fattispecie contestata ex articolo 416 c.p., comma 2. Le dichiarazioni dei testi avrebbero infatti dimostrato il ruolo preminente della (OMISSIS) proprio nel commercio del rame, escludendo invece l’apporto dello (OMISSIS). Tali elementi sarebbero incompatibili con un ruolo di promotore o organizzatore nell’ambito della societas sceleris. Tali rilievi, sottoposti al giudice dell’appello, sarebbero rimasti senza alcuna risposta. L’annullamento del provvedimento impugnato, quantomeno in relazione alla riqualificazione giuridica della fattispecie, avrebbe inoltre conseguenze in termini prescrizionali, essendo il delitto di dichiarazione fraudolenta di cui al capo i) risalente al (OMISSIS). Non essendo evincibili dalla sentenza ulteriori azioni criminose della consorteria successive al settembre 2011, ed essendo trascorsi 7 anni e 6 mesi dal dies commissi delicti, il reato sarebbe estinto il (OMISSIS).
3.3. Deduce lo (OMISSIS), con il terzo motivo, il vizio di motivazione, sotto il profilo dell’omessa motivazione con riferimento alla mancata individuazione di attivita’ dell’imputato di istigazione o di determinazione in rapporto alla dichiarazione fiscale del 2011 (capo i).
In sintesi, si osserva come il ricorrente, gia’ nell’atto di appello, aveva richiamato la giurisprudenza di legittimita’ circa la necessaria dimostrazione del concorso dell’imputato nella redazione dell’atto dichiarativo, sottoscritto nel caso di specie dalla (OMISSIS), ai fini della configurabilita’ del delitto di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2. Anche qualora si dovesse attribuire allo (OMISSIS) la responsabilita’ per il reato associativo, non potrebbe essere comunque riconosciuta una sua responsabilita’ per il capo i), relativamente all’anno 2011, mancando un suo contributo in sede dichiarativa. Il concorso nel reato tributario non potrebbe infatti concretizzarsi in una mera attivita’ preparatoria di acquisizione di fatture ed elementi fittizi, inseriti nelle scritture contabili, ovvero nella predisposizione di mezzi fraudolenti, richiedendo una concreta attivita’ di determinazione alla presentazione della dichiarazione. La doglianza sul punto avanzata dalla difesa non sarebbe stata valutata dalla Corte di appello, la quale avrebbe fondato la responsabilita’ dello (OMISSIS) sulla qualifica di “amministratore di fatto”, senza vagliare se il medesimo avesse esercitato in concreto una qualche attivita’ istigatoria o di determinazione con specifico riferimento alla dichiarazione discale del 2011.
3.4. Deduce lo (OMISSIS), con il quarto motivo, il vizio di motivazione, sotto il profilo della manifesta illogicita’ della motivazione con riferimento al ruolo di mero prestanome della Sig.ra (OMISSIS) (capo i).
In sintesi, si osserva come gia’ nell’atto di appello il ricorrente aveva evidenziato che dal 12 settembre 2011 era stata nominata una nuova amministratrice di (OMISSIS), ossia la Sig.ra (OMISSIS). In tale rinnovato contesto, veniva presentata la dichiarazione dei redditi del (OMISSIS) che, tuttavia, era sottoscritta dalla (OMISSIS), ormai cessata dalla carica, e non invece dal nuovo rappresentante legale, come previsto dalla legge a pena di nullita’ Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, ex articolo 8. A fronte della nullita’ della dichiarazione, anche se fraudolenta, non potrebbe derivare dalla sua presentazione alcuna conseguenza penale, non esistendo la medesima secondo le leggi fiscali. A tali considerazioni la Corte di appello avrebbe risposto affermando che la Sig.ra (OMISSIS) fosse era un mero prestanome e pertanto “non avrebbe mai assunto di fatto la carica gestoria, ne’ ricevuto le consegne alla data della dichiarazione dei redditi ((OMISSIS)), sicche’ quest’ultima legittimamente risultava sottoscritta dalla (OMISSIS)”. Sul punto, tuttavia, la Corte territoriale richiama le pagg. 71 e ss. della sentenza di primo grado, ove il giudice farebbe riferimento alla sorella della summenzionata Sig.ra (OMISSIS) (ossia (OMISSIS)), accusata di essere stata “prestanome” della (OMISSIS) in relazione all’intestazione di alcuni appartamenti ubicati a (OMISSIS) (tra l’altro assolta nel merito). La motivazione sarebbe pertanto manifestamente illogica stante lo scambio di persone.
3.5. Deduce lo (OMISSIS), con il quinto motivo, il vizio di motivazione, sotto il profilo della manifesta illogicita’ della motivazione con riferimento all’origine illecita della provvista proveniente dalla societa’ Borgonovo, sotto il profilo dell’omessa motivazione sulla rilevanza del contratto di finanziamento fondiario con garanzia ipotecaria stipulato da (OMISSIS), sotto il profilo della manifesta illogicita’ in ordine alla finalita’ elusiva del contratto di locazione nonche’, infine, sotto il profilo dell’omessa motivazione circa il dolo specifico di reimpiego (capi z) ed a).
In sintesi, il ricorrente afferma di volere impugnare la sentenza ai sensi dell’articolo 607 c.p.p. anche relativamente al capo z), per cui lo (OMISSIS) veniva prosciolto in quanto prescritto. I vizi inficianti sul punto la decisione avrebbero infatti ripercussioni sulla fattispecie associativa di cui al capo a). Illogiche sarebbero le argomentazioni in merito alla provenienza delittuosa dei fondi con cui sarebbe stato acquistato l’immobile di (OMISSIS), riproducendo la motivazione quanto sostenuto dal giudice di prime cure, nonostante le censure contenute nell’atto di appello. Si sarebbe verificata un’inversione dell’onere probatorio, ponendo a carico dell’imputato la prova della legittimita’ dei fondi. Non esaminata sarebbe stata anche la doglianza difensiva per cui la somma di Euro 130.000, unico trasferimento di fondi da (OMISSIS) a (OMISSIS) costituirebbe un’anticipazione sulla locazione corrisposta a (OMISSIS) da parte di (OMISSIS) per la detenzione dell’immobile in via (OMISSIS). La ricostruzione fattuale sottoposta dalla difesa sarebbe stata tralasciata, recependo il giudice dell’appello le prospettazioni del Tribunale. In particolare la Corte di appello avrebbe omesso di analizzare la circostanza, incompatibile con la fittizia intestazione dell’immobile da parte dello (OMISSIS), ossia la stipulazione di un contratto di finanziamento fondiario con garanzia ipotecaria fra (OMISSIS) e (OMISSIS) contestuale al rogito del 17 luglio 2009. Tale questione non sarebbe stata affrontata nella sentenza impugnata. Ulteriore carenza sussisterebbe relativamente all’elemento soggettivo, ossia dell’intento elusivo. Secondo la Corte di appello ai fini della configurabilita’ del reato di trasferimento fraudolento di cui Decreto Legge n. 306 del 1992, articolo 12-quinquies non occorre la preventiva emanazione delle misure di prevenzione, ne’ la pendenza del relativo procedimento, “bastando soltanto che l’autore possa temerne l’instaurazione”. Tale principio di diritto affermato non sarebbe applicabile al caso di specie. Il timore sarebbe stato ritenuto sussistente a fronte della prossimita’ cronologica fra il contratto di locazione e le perquisizioni a carico di (OMISSIS). Cio’ non dimostrerebbe che all’epoca della stipulazione del predetto negozio gli imputati nutrissero una concreta preoccupazione in ordine ad un procedimento penale a proprio carico. Sarebbe pacifico, infatti, che il rogito (17 luglio 2009) ed il contratto di locazione (registrato 11 giugno 2010) fossero precedenti sia alla perquisizione a carico di (OMISSIS) del 21 giugno 2010 che alla notifica a (OMISSIS) del primo ordine di esibizione (25 giugno 2010). Veniva tralasciato il motivo di appello afferente il dolo specifico del reimpiego. Non sarebbe prospettabile nel caso di specie l’elusione di misure di prevenzione, sicche’ secondo la difesa non sarebbe integrato neanche il dolo specifico di reimpiego, non sussistendo alcuna prova della volonta’ degli imputati di agevolare una successiva circolazione dei proventi illeciti in seguito all’acquisto dell’appartamento. Dall’istruttoria sarebbe emerso che il (OMISSIS) intendesse utilizzare l’immobile come abitazione per la propria famiglia, non invece effettuare un investimento per rivendere il bene in futuro. La Corte di appello non affronterebbe tuttavia tale argomentazione difensiva, omettendo di confrontarvisi, limitandosi a trarre la finalita’ suddetta dalla partecipazione dei due imputati alla medesima compagnia associativa, senza vagliare quale fosse l’intento delle parti nell’ambito dell’operazione relativa all’immobile.
3.6. Deduce lo (OMISSIS), con il sesto motivo, il vizio di violazione di legge con riferimento all’articolo 240 c.p. e Decreto Legge n. 306 del 1992, articolo 12-sexies attesa la natura sanzionatoria della c.d. confisca allargata e la sua inapplicabilita’ per intervenuta prescrizione (capo z).
In sintesi, si osserva che, nonostante la dichiarata prescrizione del reato di cui al capo z), la Corte di appello avrebbe disposto ugualmente la confisca dell’immobile in via (OMISSIS) Decreto Legge n. 306 del 1992, ex articolo 12-sexies il quale permane, secondo il giudice, anche qualora il giudizio di impugnazione si concluda con la declaratoria di estinzione del reato e sempre che vi sia stata in precedenza una sentenza di condanna e l’accertamento relativo alla sussistenza del reato. Ad avviso del ricorrente, a fronte della natura afflittiva della confisca per equivalente, tale misura non sarebbe applicabile ove sia stato emesso un provvedimento di proscioglimento, dovendo essa essere distinta sotto tale aspetto dalla confisca diretta. La Corte avrebbe dovuto pertanto valutare la natura della c.d. confisca allargata di cui all’articolo 12-sexies sopracitato, essendo cio’ preliminare all’individuazione della disciplina applicabile. Il giudice avrebbe errato nel richiamare precedenti giurisprudenziali non riferibili alla confisca allargata, bensi’ a quella diretta, tenuto conto che l’unico precedente inerente alla questione de qua costituirebbe un caso isolato. Ad avviso del ricorrente sarebbe infatti prevalente un orientamento ermeneutico diverso. La confisca allargata di cui al Decreto Legge n. 306 del 1992, articolo 12-sexies presupporrebbe la non giustificabilita’ della provenienza delle utilita’ e la sproporzione rispetto ai redditi dichiarati, elementi che la disancorerebbero dal delitto per la quale e’ disposta. La natura sanzionatoria dell’istituto, pertanto, ne precluderebbe l’adozione pur in presenza di una sentenza di condanna in primo grado. Il giudice avrebbe pertanto dovuto disporre la restituzione del bene sequestrato a fronte dell’estinzione del reato.
3.7. Deduce lo (OMISSIS), con il settimo motivo, il vizio di omessa motivazione con riferimento al contenimento della pena nei minimi edittali.
In sintesi, si rileva come la difesa aveva chiesto alla Corte territoriale di rideterminare la pena, contenendola nei limiti edittali previsti per il delitto associativo. Anche la disamina di tale doglianza sarebbe stata omessa, confermando il trattamento sanzionatorio originariamente quantificato dal Tribunale di Milano e senza giustificare la mancata mitigazione della pena.
4. Ricorso (OMISSIS), con cui si articola un unico motivo.
4.1. Deduce lo (OMISSIS), con tale unico motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’articolo 546 c.p.p., comma 1, lettera e) ed il correlato vizio di omessa motivazione in ordine alla prescrizione del reato.
In sintesi, si osserva che, nonostante la richiesta espressa dalla difesa in sede di conclusioni, la Corte di appello non avrebbe fornito alcuna risposta, ne’ esplicitamente ne’ esplicitamente, in ordine all’intervenuta prescrizione del reato addebitato a (OMISSIS), diversamente invece da quanto sarebbe avvenuto per la posizione di (OMISSIS). In forza dell’articolo 546 c.p.p., comma 1, lettera e), il giudice sarebbe stato tenuto a enunciare le ragioni per le quali ha ritenuto non attendibili le prove contrarie sottoposte dalla difesa, dovendosi la motivazione raffrontare con le doglianze formulate dall’interessato con i motivi di appello. Non si configurerebbe neanche una ipotesi di motivazione implicita dal momento che l’esposizione delle ragioni sottese alla decisione dovrebbe comunque essere tale da fare emergere in termini immediati ed inequivoci l’implicita confutazione delle prospettazioni incompatibili con la sentenza adottata. Difetterebbe pertanto qualsivoglia statuizione, anche solo implicita, avente ad oggetto lo scrutinio della richiesta di declaratoria di non doversi procedere per intervenuta prescrizione.
5. Ricorso (OMISSIS), con cui si articola un unico motivo.
5.1. Deduce il (OMISSIS), con tale unico motivo, il vizio di mancanza e contraddittorieta’ della motivazione.
In sintesi, si osserva come nell’atto di appello il ricorrente aveva chiesto di valutare la sussistenza dei reati fiscali funzionali all’associazione per delinquere, della quale costituivano lo scopo. L’imputato era stato infatti prosciolto in udienza preliminare dal reato associativo, ed il dolo specifico dei reati fiscali avrebbe dovuto sovrapporsi, coincidendo con esso, con quello costituente la finalita’ dell’associazione. Su tale punto la Corte avrebbe omesso di pronunciarsi, facendo riferimento per relationem a quella espressa dal giudice di primo grado. Tuttavia anche quest’ultimo non si sarebbe pronunciato in merito alla questione, con conseguente elusione dell’obbligo motivazionale.
6. Ricorso societa’ (OMISSIS) s.r.l., con cui si articolano cinque motivi.
6.1. Deduce la societa’ (OMISSIS) s.r.l., con il primo motivo, il vizio di violazione di legge in riferimento al Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articoli 2, 24 e ss. e 24-ter.
In sintesi, si sostiene che la Corte di appello sarebbe incorsa nella violazione del principio di legalita’ della sanzione penale nel rigettare le tesi difensive incentrate sull’inapplicabilita’ del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 alla fattispecie concreta. Il giudice a quo avrebbe affrontato la questione circa l’inclusione o meno nel catalogo dei “reati presupposto” anche dei c.d. reati scopo, propri dell’associazione per delinquere, allorquando essi siano diversi da quelli indicati dal medesimo testo legislativo. Di fatto, tuttavia, la Corte non avrebbe risolto alcuna questione giuridica (nonostante la citazione della sentenza Riva del 2013), richiamandosi integralmente alla motivazione della sentenza appellata. Sarebbe stata trascurata la portata non solo letterale della rubrica dell’articolo 24-ter Decreto Legislativo sopra citato, ma anche elusa l’esegesi sulla potenzialita’ applicativa dell’articolo 416 c.p., il quale consente di qualificare come reati associativi anche quelle societas sceleris protese a realizzare c.d. reati nani, ossia illeciti meno gravi e distanti da quelli sui quali la ratio punitiva delle persone giuridiche sarebbe fondata. La sentenza avrebbe utilizzato l’ubi ta cuit (in contrasto con la sentenza delle S.U. Scurato) per rigettare gli argomenti difensivi sull’ampliamento “in maniera del tutto indefinita” del novero dei delitti che sarebbe operato dall’articolo 24-ter con il rinvio “a carattere aperto a qualsivoglia reato-fine dell’associazione a delinquere”. La tesi sostenuta dal ricorrente era diretta ad affermare la necessita’ di una stretta interpretazione, dovendosi fare riferimento esclusivamente alle fattispecie concrete configuranti i delitti-scopo della societas riconducibili al contempo a quelli elencati nella sezione III del capo I del Decreto Legislativo n. 231 del 2001. Una interpretazione meramente letterale dell’articolo 24-ter condurrebbe ad includere qualsivoglia delitto, ancorche’ estraneo al c.d. catalogo dei delitti-presupposto. Cio’ comporterebbe un vulnus del canone di tassativita’ e determinatezza. La motivazione della sentenza sarebbe manifestamente irragionevole in quanto: a) sottoporrebbe al medesimo trattamento giuridico e sanzionato-rio fatti delittuosi di diversa gravita’, senza alcuna giustificazione razionale; b) imporrebbe a ciascuna persona giuridica il ruolo di tutela preventiva di una legalita’ cosi’ estesa ed indeterminata da coincidere con la funzione dei precetti giuridici del neminem laedere e dell’honeste vivere, il che contrasterebbe con i principi di legalita’, tassativita’ e determinatezza della fattispecie penale; c) dilaterebbe oltre ogni ragionevole misura i compiti, gli oneri e gli obblighi che debbono essere adempiuti a proposito di realizzazione di modelli di organizzazione dell’ente, a norma del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 6 il che comporterebbe una violazione del canone di ragionevolezza e del principio di esigibilita’, il quale concretizza il criterio della personalita’ della responsabilita’ penale; d) violerebbe i presupposti ai quali e’ subordinata la responsabilita’ dell’ente in quanto traviserebbe per eliminazione il risultato delle prove dichiarative, rese da (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), e perche’ evocherebbe la sentenza di applicazione della pena concernete (OMISSIS), attribuendole implicitamente, ma erroneamente, la natura di sentenza “di accertamento”, essendo invece la stessa una decisione “acognitiva”, priva di efficacia vincolante in ordine all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua antigiuridicita’ e della responsabilita’ penale dell’imputato; e) violerebbe le regole stabilite dal Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 5, commi 1 e 2 allorquando non considera i risultati probatori discendenti dalle dichiarazioni di (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), specificamente citate nei motivi di appello, e le informazioni decisive contenute nei documenti dei quali si chiese l’acquisizione nel giudizio di appello, sebbene la richiesta sia stata rigettata. A tali critiche non potrebbe obbiettarsi la “legalita’ intrinseca” della fattispecie descritta dall’articolo 416 c.p. Cio’ che si censura sono gli effetti che scaturirebbero dall’accoglimento della tesi estensiva sul sistema delineato dal Decreto Legislativo sopracitato, minandone la coerenza, la ragionevolezza e la conformita’ ai canoni di legalita’ e determinatezza, con violazione anche dei principi costituzionali in materia penale. Il giudice avrebbe dovuto privilegiare una posizione ermeneutica rispondente ai summenzionati principi, procedendo mediante una interpretazione di tipo sistematico, escludente dall’articolo 24-ter qualsivoglia delitto-scopo e imponendo piuttosto che il programma finalistico dell’associazione per delinquere abbia ad oggetto esclusivamente uno o piu’ delitti elencati nella sez. III, capo I, del Decreto Legislativo n. 231 del 2001.
6.2. Deduce la societa’ (OMISSIS) s.r.l., con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione al Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articoli 2 e 5 laddove il vantaggio ascritto all’ente e’ fatto derivare da reati-fine estranei al numerus clausus del medesimo testo legislativo. Conseguente illegittimita’ della confisca.
In sintesi, la Corte di appello avrebbe individuato il vantaggio di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 5 in relazione ai reati-fine dell’illecito associativo, il che configurerebbe una violazione dell’articolo 24-ter medesimo decreto, essendosi fatto riferimento a delitti estranei da quelli indicati dal legislatore come presupposto della responsabilita’ della persona giuridica. Vi sarebbe sul punto una contraddizione interna alla sentenza, tenuto conto che l’affermazione dell’autonomia dell’articolo 416 c.p. non si concilierebbe con il contestuale rimando ai reati-fine, rinvenendo in questi una componente della responsabilita’ dell’ente (il vantaggio) altrimenti non configurabile. La decisione si porrebbe in contrasto con la sentenza Riva, fondando la responsabilita’ su reati non previsti tra quelli presupposto, recuperandoli indirettamente, ai fini dell’individuazione del profitto confiscabile, in ragione del loro carattere di delitti-scopo del reato associativo. Relativamente alla confisca per equivalente di beni appartenenti alla societa’, per reati tributari commessi dai suoi organi, il ricorrente richiama la giurisprudenza di legittimita’ secondo la quale essa sarebbe possibile soltanto qualora l’ente giuridico abbia costituito un mero schermo della persona fisica, tenuto conto che la responsabilita’ amministrativa degli enti conseguente a reato non contempla i reati tributari tra quelli presupposto all’affermazione della medesima (Cass., S.U., 10561/2014). Il Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 2 impone di limitare la confisca al solo profitto derivante dalla commissione di reati ricompresi nell’elenco predisposto dal legislatore, dovendosi individuare nell’articolo 416 c.p. un reato suscettibile di generare un profitto autonomo e proprio, sebbene sul punto vi sia un contrasto dottrinale. Nell’ambito giurisprudenziale e’ stata invece determinante la sentenza delle Sezioni Unite Iavarazzo (n. 25191/2014) la quale ha riconosciuto che alla sola associazione mafiosa e’ riconoscibile l’autonoma idoneita’ di generare ricchezza illecita a prescindere dalla realizzazione di specifici delitti, rientrando tra gli scopi della stessa anche quello di trarre profitti da attivita’ lecite per mezzo del metodo mafioso. Tale capacita’ e’ dunque stata esclusa per l’associazione semplice. Tale orientamento ermeneutico acclarerebbe l’illogicita’ della pretesa di spostare la capacita’ di produrre ricchezza sui reati-fine. Ne conseguirebbe l’illegittimita’ della confisca.
6.3. Deduce la societa’ (OMISSIS) s.r.l., con il terzo motivo, il vizio di mancata assunzione di prova decisiva e vizio di motivazione, sotto il profilo della manifesta illogicita’, nel punto in cui la richiesta di assunzione di nuove prove e’ stata rigettata. In sintesi, si osserva che la societa’ ricorrente aveva avanzato in sede di impugnazione la richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ex articolo 603 c.p.p., comma 2, ovvero, in subordine, ex articolo 603 c.p.p., commi 1 e 3, ritenendo i documenti da acquisire di rilevanza fondamentale ed idonei a scardinare la tenuta logica e giuridica della decisione. Nello specifico era stata richiesta l’acquisizione: a) della richiesta di archiviazione parziale presentata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Vicenza, in data 19.10.2015, nell’ambito del procedimento penale a carico di (OMISSIS) e (OMISSIS), in relazione al reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti; b) il decreto di accoglimento parziale del GIP del 3.11.2015; c) gli atti di conciliazione stipulati tra la societa’ e l’Agenzia delle entrate nei quali la P.A. riconosceva l’estraneita’ della persona giuridica al sistema fraudolento delle fatture soggettivamente inesistenti e quindi la detraibilita’ dell’IVA, mantenendo unicamente il rilievo della sovrafatturazione; d) la certificazione dell’avvenuto pagamento di quanto dovuto in forza della summenzionata conciliazione; e) le quietanze di pagamento della maggiore Irpef in capo a (OMISSIS) e (OMISSIS), determinata dalla retrocessione, direttamente alle persone fisiche, del maggior costo di cui alla sovrafatturazione; f) la sentenza di applicazione della pena pronunciata in data 27.7.2016 dal GUP del Tribunale di Vicenza nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS) per le condotte di sovrafatturazione, in uno con il decreto di revoca del sequestro preventivo sui beni del primo. La richiesta sarebbe stata illogicamente respinta, rilevando i suddetti documenti ai fini del requisito del profitto-vantaggio (individuato dalla Corte di appello nelle forme delle indebite detrazioni di crediti IVA non spettanti e dell’indebita deduzione dei costi inesistenti) che, le prove da assumere avrebbero escluso. La detraibilita’ dell’IVA sarebbe infatti pacifica, tenuto conto dell’accordo conciliativo con l’Amministrazione finanziaria. Relativamente ai costi inesistenti dedotti, dalla documentazione de qua si sarebbe ricavato l’intervenuto effettivo pagamento, in termini Irpef, dalla retrocessione non alla societa’ bensi’ alle persone fisiche. Ne conseguirebbe l’inesistenza di un vantaggio patrimoniale in capo all’ente. L’ente avrebbe al piu’ beneficiato della condotta di sovrafatturazione. Che la retrocessione del sovraprezzo avvenisse non verso la societa’ ma direttamente verso le persone fisiche, andrebbe a delineare un interesse, nelle azioni, di singoli e non della societa’. Quanto detto rileverebbe anche ai fini della confisca. Il Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 12-bis, comma 2, impone che la confisca non operi per la parte che il contribuente si impegna a versare all’Erario in presenza di sequestro. La restituzione al danneggiato, ossia il versamento all’erario di quanto dovuto, osterebbe all’applicazione della misura ablativa. Dalla documentazione si ricaverebbe inequivocabilmente l’avvenuto pagamento del debito tributario, con evidente illogicita’ della ritenuta irrilevanza dei documenti oggetto della richiesta avanzata dalla difesa con l’appello. I giudici di merito avrebbero riconosciuto rilevanza al solo processo verbale di constatazione, ma non anche all’epilogo del procedimento tributario (richiesto al punto 3), con illogica par-cellizzazione del quadro complessivo. La documentazione includeva anche atti inerenti i reati-scopo. Sul punto non si rinverrebbe alcun cenno argomentativo nella sentenza impugnata, risultando la sentenza viziata anche sotto il profilo motivazionale. Il ricorrente evidenzia inoltre che l’imputazione elevata nei confronti della societa’ (OMISSIS) coprirebbe un periodo temporale piu’ ristretto (2009 – 2011) rispetto all’ipotesi associativa (2004 ad oggi), il che configurerebbe un ulteriore vizio motivazionale: mancherebbe infatti una motivazione in relazione agli specifici vantaggi tributari eventualmente accertati in via definitiva con riferimento alla parentesi temporale agosto 2009-2011. La confisca disposta per somme sottratte alla verificazione risulterebbe pertanto illegittima.
6.4. Deduce la societa’ (OMISSIS) s.r.l., con il quarto motivo, il vizio di violazione di legge sotto il profilo dell’inosservanza del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 17, lettera b).
In sintesi, si rileva che alla societa’ e’ stata applicata l’attenuante di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 12, comma 2, lettera b) per avere adottato e reso operativo, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi. Ne e’ conseguita la riduzione della sanzione pecuniaria. Tuttavia, tale condotta della (OMISSIS) avrebbe integrato il requisito normativamente previsto dall’articolo 17 medesimo testo legislativo, escludente l’applicabilita’ delle sanzioni interdittive. La Corte avrebbe dunque errato nell’applicare solo l’articolo 12 prefato e non anche l’articolo 17, con illegittimita’ della sanzione interdittiva applicata alla societa’.
6.5. Deduce la societa’ (OMISSIS) s.r.l., con il quinto motivo, il vizio di motivazione, sotto il profilo della manifesta illogicita’ in punto di cumulo delle sanzioni penali ed amministrative (da procedimento tributario) nonche’ sotto il profilo della mancanza della motivazione in relazione alle censure sul quantum sottoposto a confisca (in sintesi, al fine di giustificare il cumulo di sanzioni penali ed amministrative, la Corte di appello ha applicato i criteri della connessione e della proporzionalita’ delle sanzioni, affermando che tale punto della decisione non era stato censurato dalla difesa. Tuttavia nel quinto motivo dell’atto di appello sarebbe stata espressamente criticata l’illegittimita’ della duplicazione degli importi pretesi, con illegittima ablazione di beni in danno alla societa’, nonche’ l’applicazione della confisca a fronte dell’intervenuta definizione del debito tributario verso l’Erario. La censura concernente la illegittimita’ della duplicazione della pretesa pecuniaria avrebbe incluso anche la determinazione quantificativa della stessa, involgendo la doglianza sul quantum anche l’applicazione del criterio della proporzionalita’. La sentenza sarebbe pertanto viziata da illogicita’ ove sostiene il tacito assenso del ricorrente circa il quantum sottoposto a confisca, nonche’ in relazione al rilievo difensivo in ordine al fatto che la (OMISSIS) avrebbe gia’ provveduto a versare le somme richiestele dall’Erario, con l’effetto di un’indebita duplicazione delle imposizioni sanzionatorie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
7. Ritiene il Collegio che debbano essere dichiarati inammissibili i ricorsi di (OMISSIS) e di (OMISSIS), mentre meritano rigetto, perche’ complessivamente infondati, i ricorsi di (OMISSIS) e della societa’ (OMISSIS) s.r.l.
8. Seguendo l’ordine suggerito dalla struttura delle impugnazioni proposte in questa sede, conviene muovere dall’esame del ricorso (OMISSIS), che, come anticipato, deve essere rigettato.
8.1. Il primo ed il secondo motivo meritano congiunto esame, attesa l’omogeneita’ delle doglianze ad essi sottesa e l’intima connessione dei profili di censura svolti. La soluzione ai temi sollevati dal ricorrente, comporta l’esame della questione giuridica della responsabilita’ dell’amministratore di fatto.
Orbene, ritiene il Collegio che, sul punto, le censure difensive, volte a contestare il ruolo di amministratore di fatto, non colgono nel segno, a fronte di una motivazione adeguata e congrua, che risulta assolutamente conforme ai principi elaborati in materia dalla Suprema Corte. Nella giurisprudenza di legittimita’ prevale invero il c.d. paradigma della tipicita’ sostanziale, in forza del quale, valorizzando la dimensione fattuale, si definisce amministratore di fatto il soggetto il quale agisce, nella e per la societa’, attraverso comportamenti concreti, costituenti esplicazione del potere gestorio del medesimo agente. Si pone pertanto l’accento non unicamente sulla formale assegnazione della qualifica di amministratore, ma anche sulla sostanziale allocazione interna all’organizzazione societaria delle competenze proprie di tale figura. Lo svolgimento di fatto di funzioni gestorie puo’ derivare non solo dal caso in cui il soggetto eserciti, pur in assenza di una formale investitura, le funzioni ed i poteri tipici delle corrispondenti figure di diritto, ma anche dalle ipotesi in cui l’atto di nomina sia per qualsiasi ragione invalido (ad esempio perche’ adottato in presenza di cause di ineleggibilita’) oppure revocato. Amministratore di fatto e’ dunque colui che, in modo continuativo e significativo esercita poteri tipici inerenti alla qualifica, sebbene non si richieda l’accertamento dell’esercizio di tutte le prerogative tipiche dell’organo di gestione ovvero l’esclusivita’ (potendosi anche verificare un’ipotesi di cogestione). E’ necessaria invece la sussistenza di una apprezzabile attivita’ gestoria, svolta non in modo episodico o occasionale, tale da fornire elementi sintomatici dell’organico inserimento del soggetto quale intraneus titolare di funzioni gerarchiche e direttive relativamente a qualsiasi momento dell’iter di organizzazione, produzione e commercializzazione dei beni e servizi, in qualsiasi branca aziendale, produttiva, amministrativa, contrattuale e disciplinare Vengono riconosciuti come indici dimostrativi di tale posizione di fatto la diretta partecipazione alla gestione della vita societaria, la generalizzata identificazione nelle funzioni amministrative da parte dei dipendenti e dei terzi, l’intervento nella declinazione delle strategie d’impresa e nelle fasi nevralgiche dell’ente economico. Il relativo apprezzamento, costituente un accertamento di fatto, con i connessi limiti in ordine alla sindacabilita’ in sede di legittimita’, non potrebbe essere limitato alla fisionomia delineata dal codice civile, che ne declina lo status nella dimensione fisiologica dell’attivita’ d’impresa, dovendosi avere riguardo anche al piu’ ampio contesto delle ingerenze in termini di regia e di strategia nella gestione dell’ente, in violazione del complesso dei doveri posti a presidio dell’interesse dei creditori, dei terzi e del mercato (Cass., Sez. V., 14 giugno 2019, n. 32447). Si sottolinea, infatti, che il principio dell’equiparazione dell’amministratore di fatto a quello di diritto e’ stato positivamente recepito in occasione della riforma del diritto societario: l’articolo 2639 c.c., introdotto con il Decreto Legislativo n. 6 del 2003, dispone che per i reati previsti dal titolo 15 del libro V del codice civile, e’ equiparato al soggetto formalmente investito della qualifica, ovvero titolare della funzione prevista dalla legge, chi esercita, non episodicamente ne’ occasionalmente, i poteri propri di tale qualifica/funzione. Sebbene la disposizione normativa faccia esplicito riferimento ai soli reati societari previsti nel codice civile, essa puo’ configurarsi come la codificazione di un principio generale, la cui applicabilita’ e’ estensibile anche ad altri settori dell’ordinamento penale. Tale equiparazione incide non solo sulla configurabilita’ del concorso dell’amministratore di fatto nei reati commissivi, ma anche in quelli omissivi propri del titolare di diritto, nel senso che autore principale del reato e’ da individuarsi nel primo, fatta salva l’ipotesi del concorso di estranei (quale viene ritenuto anche il prestanome) ex articolo 110 c.p. (Cass., Sez. III, 11 giugno 2019, n. 36619). L’amministratore di fatto e’ infatti gravato dell’intera gamma dei doveri cui e’ soggetto l’amministratore di diritto, motivo per cui, in concorso con le condizioni di ordine oggettivo o soggettivo, egli assume la penale responsabilita’ per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili (Cass., Sez. V, 2 marzo 2016, n. 1279). In altri termini, il soggetto il quale abbia assunto, in base all’articolo 2639 c.c., la qualifica di amministratore di fatto, essendo tenuto ad impedire ai sensi articolo 40 c.p., comma 2, le condotte illecite riguardanti la gestione della societa’ o a pretendere l’esecuzione degli adempimenti previsti dalla legge, e’ responsabile di tutti i comportamenti, sia omissivi che commissivi, posti in essere dall’amministratore di diritto, al quale e’ sostanzialmente equiparato (Cass., Sez. III, 5 luglio 2012, n. 33385). Analoga conclusione e’ sostenibile a parti invertite, ove il titolare formale della qualifica non rappresenti in seno alla societa’ un mero “prestanome” (testa di legno), e lo stesso possa esercitare un controllo sull’operato del gestore de facto, con il potere di impedire eventuali condotte penalmente rilevanti. Si precisa infatti che, alla luce dell’irrilevanza delle “etichette”, con privilegio del c.d. criterio dell’effettivita’ del dato fattuale, per i reati omissivi propri, formalmente imputabili al prestanome, rispondera’ colui il quale effettivamente gestisca la societa’ e che, pertanto, e’ nella condizione di compiere l’azione dovuta, ponendosi invece il prestanome nella posizione dell’extraneus. A quest’ultimo una corresponsabilita’ puo’ essere imputata solo in base alla posizione di garanzia di cui all’articolo 2392 c.c., in forza della quale l’amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la societa’ e per i terzi. (Cass., Sez. V, 7 giugno 2019, n. 40011).
8.1.1. Tanto premesso in diritto, i motivi dedotti prestano il fianco ad un giudizio di inammissibilita’.
8.1.2. Ed invero, le censure del ricorrente non solo sono generiche, non confrontandosi con le argomentazioni poste alla base della decisione impugnata, ma si traducono in una sostanziale richiesta di riesame del compendio probatorio, il che in sede di legittimita’ e’ indiscutibilmente escluso.
Dal testo della sentenza della Corte di appello di Milano e’ possibile constatare che la condanna dello (OMISSIS), in qualita’ di amministratore di fatto, nonche’ del suo ruolo in seno alla societas sceleris, e’ stata fondata non facendo riferimento alle sole dichiarazioni etero-accusatorie della (OMISSIS), ma su plurimi elementi, testimoniali e documentali i quali, rileva il giudice di secondo grado, non erano stati smentiti dalle argomentazioni esposte nell’atto di appello. La Corte rinvia infatti alla documentazione sequestrata presso lo studio e l’abitazione dell’imputato, dalla quale e’ stato possibile affermare la riconducibilita’ al medesimo degli artifici contabili posti in essere nell’ambito del meccanismo fraudolento facente capo alla societa’ (OMISSIS) s.r.l. ed alle altre cartiere discoperte. A conferma della credibilita’ ed attendibilita’ della (OMISSIS), il giudice richiama la documentazione rinvenuta presso lo studio dello (OMISSIS) relativa all’assemblea del febbraio 2008, comprese le bozze di delega a firma (OMISSIS) e (OMISSIS), il che, appunto, costituisce per la Corte un riscontro della veridicita’ delle dichiarazioni di quest’ultima circa la sua assenza alla summenzionata assemblea, laddove le veniva conferita la carica di amministratrice. Incontestato e’ anche il fatto che lo (OMISSIS), fino al 2011, ha esercitato la delega ad operare sui conti di (OMISSIS), disposto pagamenti e bonifici, e compiuto comunque atti indicativi del suo ruolo di organizzatore e promotore in seno all’organizzazione. Dato fattuale, quest’ultimo, confermato dalle testimonianze assunte (pag. 19 sentenza). Relativamente alla posizione di (OMISSIS), afferma il giudice di appello che la medesima risultava essere un mero prestanome, non avendo mai assunto di fatto la carica gestoria, ne’ ricevuto le consegne alla data di dichiarazione dei redditi, sicche’ la dichiarazione del 2011 e’ stata legittimamente sottoscritta dalla (OMISSIS).
Deve, peraltro, precisarsi che la sinteticita’ della motivazione della sentenza impugnata costituisce un effetto diretto della sostanziale riproposizione delle tesi difensive sostenute in primo grado e disattese dal Tribunale con motivazione insuscettibile di censure sul piano logico-giuridico, il che ha consentito alla Corte di appello, valutato criticamente il materiale probatorio, di condividere la posizione assunta dal giudice di grado inferiore.
8.1.3. Da ultimo, infine, non ha pregio l’eccezione di prescrizione sollevata dalla difesa, secondo cui il delitto di dichiarazione fraudolenta di cui al capo i), risalente al (OMISSIS), sarebbe estinto per prescrizione alla data del (OMISSIS), essendo trascorsi 7 anni e 6 mesi dal dies commissi delicti.
Sul punto, la difesa non considera quanto disposto dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 17, comma 1-bis, secondo cui “i termini di prescrizione per i delitti previsti dagli articoli da 2 a 10 presente decreto sono elevati di un terzo”, norma sicuramente applicabile alla fattispecie in esame, stante il disposto del Decreto Legge n. 138 del 2011, articolo 2, comma 36-vicies bis, conv. con modd. in L. n. 148 del 2011, secondo cui “Le norme di cui al comma 36-vicies bis si applicano ai fatti successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, ossia in data 17.09.2011.
Dunque, essendo stato commesso il reato in data (OMISSIS), si applicava il nuovo regime di prescrizione introdotto dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 17, comma 1-bis, con conseguente individuazione del termine di prescrizione massima decennale: il reato si prescrivera’, pertanto, in data (OMISSIS).
8.2. Il terzo motivo proposto dalla difesa (OMISSIS), impone al Collegio di esaminare la questione giuridica della disciplina del concorso nel reato tributario di dichiarazione fraudolenta.
In linea con la giurisprudenza di legittimita’, in ambito societario si ritiene configurabile il concorso nel reato di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2 di coloro che, pur essendo estranei e non rivestendo cariche nella societa’ a cui si riferisce la condotta illecita (rectius dichiarazione fraudolenta), abbiano partecipato, in qualsivoglia modo, a creare il meccanismo fraudolento che ha consentito all’amministratore della societa’, sottoscrittore della dichiarazione, di avvalersi della documentazione fiscale fittizia (Cass., Sez. III, 10 marzo 2016, n. 28720; Cass., Sez. III, 2 dicembre 2015, n. 9853; Cass.,Sez. F, 1 agosto 2012, n. 35729). Il reato consistente nella presentazione di una dichiarazione c.d. fraudolenta configura un reato proprio, ossia, per usare una definizione coniata dalla dottrina, “a soggettivita’ ristretta”. Soggetto attivo del reato puo’ essere infatti soltanto il contribuente obbligato nei confronti dell’Amministrazione fiscale, considerato che l’obbligo dell’adempimento costituisce il presupposto della condotta tipica sanzionata dalle norme contenute nel testo legislativo sopracitato. Tuttavia anche soggetti diversi dal contribuente (ad es. i commercialisti, i consulenti contabili nonche’ gli avvocati e in generale quei soggetti che prestano assistenza in materia tributaria) possono occupare una posizione penalmente rilevante relativamente ai soggetti “qualificati” a favore dei quali prestano la propria attivita’ professionale. Si precisa in ogni caso che, per ritenere il professionista compartecipe nei reati tributari perpetrati dal proprio cliente, e’ necessario che sia integrato il dolo specifico dell’illecito e, pertanto, che l’apporto prestato sia intriso di volonta’ fraudolenta finalizzata all’evasione. L’indagine dovra’ essere tesa ad accertare che il professionista abbia agito scientemente ed unitamente al cliente, al fine di realizzare lo scopo da quest’ultimo prefigurato. Irrilevante si ritiene percio’ il fatto che l’imputato non avrebbe beneficiato dell’utilizzo delle false fatture, elemento assorbito dall’istituto di cui all’articolo 110 c.p. per effetto del quale l’azione dell’autore materiale del fatto viene ricondotta all’estraneo (non effettivo autore dell’illecito), la cui responsabilita’ e’ affermata mediante la valorizzazione di condotte atipiche compiute dal medesimo, finalisticamente collegate al risultato finale che esprime ed attua l’accordo dei concorrenti. Il punto di riferimento resta sempre l’azione conforme al tipo legale dell’autore materiale del reato, essa costituendo la base comune di imputazione dell’evento a tutti coloro che, in un modo o nell’altro, hanno materialmente e volontariamente concorso a produrlo (Cass., Sez. III, 30 novembre 2016, n. 14815). Si esclude invece la responsabilita’ a titolo di concorso nel caso in cui il professionista abbia operato sulla base dei dati fornitigli dal cliente, la cui veridicita’ sia stata da quest’ultimo garantita, e non vi siano, comunque, elementi dai quali poterne desumere la mendacita’. Immune da censure sara’ l’operato del professionista anche qualora lo stesso si sia limitato a prestare una mera consulenza, informando il proprio cliente delle possibili conseguenze, anche penali, derivanti da determinate scelte. Tali limitazioni riflettono la necessita’ di escludere dal perimetro del penalmente rilevante tutte quelle condotte che rientrano nell’attivita’ tipica (e ovviamente lecita) del professionista. Sono tuttavia necessarie alcune precisazioni. Nessun dubbio puo’ essere sollevato circa il fatto che il reato di dichiarazione fraudolenta si consumi nel momento di presentazione della dichiarazione (Cass., Sez. III, 20 maggio 2014, n. 52752), con esclusione della rilevanza penale dell’attivita’ che sia meramente preparatoria. E’ conseguentemente non configurabile il tentativo del delitto in questione, considerandosi perfezionata la fattispecie solo con la presentazione della dichiarazione, e non gia’ nel momento in cui i documenti vengano registrati in contabilita’ (Cass., Sez. III, 20 maggio 2014, n. 52752; Cass., Sez. III, 19 dicembre 2011, n. 14855). E’ tuttavia possibile concepire in capo ad un extraneus il concorso nel reato proprio in caso di determinazione od istigazione alla presentazione della dichiarazione, non apparendo ostarvi, in via di principio, la natura di reato istantaneo (Cass., Sez. III, 10 ottobre 2016, n. 14497; Cass., Sez. III, 27 aprile 2012, n. 23229) La responsabilita’ a titolo concorsuale puo’ essere fondata anche su una condotta precedente la presentazione della dichiarazione, preparatoria rispetto ad esse e penalmente irrilevante, la quale diviene ex post oggetto di valutazione del giudice non al fine di affermare meramente la punibilita’ di tali condotte ex se considerate, bensi’ per accertare il concorso (materiale o morale) ai sensi dell’articolo 110 c.p. nell’illecito del contribuente, unico fatto punibile.
8.2.1. Tanto premesso, il motivo si palesa inammissibile.
Come evidenziato per i primi due motivi del ricorso, infatti, la Corte di appello meneghina risulta aver posto l’accento sulla documentazione rinvenuta e sequestrata presso l’abitazione e lo studio dello (OMISSIS), dalla quale era stato possibile evincere il suo pieno coinvolgimento negli artifici contabili e, dunque, nel meccanismo fraudolento creato. Tenuto conto che la punibilita’ e’ affermata a titolo di concorso nel reato tributario, ex articolo 110 c.p., nessun rilievo puo’ assumere la non materiale presentazione da parte dell’imputato della dichiarazione fraudolenta e la non punibilita’ della mera attivita’ preparatoria. In linea con la giurisprudenza di legittimita’, infatti, la condotta precedente alla effettiva consumazione del delitto viene in rilievo non in quanto isolatamente considerata, ma al fine di valutare l’apporto dell’imputato nella commissione dell’illecito, venendo essa assorbita nella fattispecie di cui all’articolo 110 c.p.
8.3. Il quarto motivo della difesa (OMISSIS), e’ inammissibile.
Ed invero, a pagina 20 della sentenza impugnata (come anche sopra riportato per il primo ed il secondo motivo del ricorso) la Corte di appello ha ritenuto non condivisibile la tesi difensiva circa la nullita’ della dichiarazione del 2011 in quanto sottoscritta dalla (OMISSIS) e non dalla nuova amministratrice, nominata nel 2008. Dagli atti (pagg. 71 ss. decisione di primo grado) e’ possibile evincere il mero ruolo di prestanome della (OMISSIS), la quale non aveva neanche ricevuto le consegne alla data della dichiarazione dei redditi, legittimamente firmata, pertanto, dalla (OMISSIS). La censura, peraltro, laddove ritiene violato il Decreto del Presidente della Repubblica n. n. 600 del 1973, articolo 8, opera un errato riferimento normativo, atteso che detta disposizione e’ stata abrogata oltre venti anni or sono dal Decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, articolo 9, comma 9, pubblicato in G.U. 7.9.1998 n. 208. La relativa disciplina e’ infatti oggi contenuta nel Decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, articolo 1, comma 4, (G.U. 7.9.1998 n. 208), che in materia stabilisce che “la dichiarazione dei soggetti diversi dalle persone fisiche e’ sottoscritta, a pena di nullita’, dal rappresentante legale, e in mancanza da chi ne ha l’amministrazione anche di fatto, o da un rappresentante negoziale. La nullita’ e’ sanata se il soggetto tenuto a sottoscrivere la dichiarazione vi provvede entro trenta giorni dal ricevimento dell’invito da parte del competente ufficio dell’Agenzia delle entrate”. Orbene, da tale disposizione emerge, come, in base al Decreto del Presidente della Repubblica n. 322 del 1998, articolo 1, comma 4 la dichiarazione dei soggetti diversi dalle persone fisiche debba essere sottoscritta, a pena di nullita’, dal rappresentante legale e, “in mancanza”, da chi ne ha l’amministrazione anche di fatto o da un rappresentante negoziale. Il rappresentante legale e’ da reputare mancante non solo in assenza di nomina, ma anche in presenza di un prestanome che non abbia alcun potere ovvero alcuna possibilita’ di ingerenza nella gestione della societa’; e, quindi, non e’ in condizione di presentare la dichiarazione perche’ non dispone dei documenti contabili (detenuti dall’amministratore di fatto). In tal caso e’ evidente come l’in-traneo sia colui che, sia pure di fatto, ha l’amministrazione della societa’, mentre al prestanome l’eventuale reato potrebbe essere addebitato a titolo di concorso, ex articoli 2392 c.c. e articolo 40 c.p., comma 2, a condizione che ricorra il necessario elemento soggettivo. Tale principio si riscontra anche in materia di sanzioni tributarie amministrative, dove il Decreto Legislativo n. 472 del 1997, articolo 11 parifica il legale rappresentante all’amministratore di fatto.
E, nel caso di specie, proprio lo sviluppo argomentativo delle sentenze di merito, rendeva evidente come la (OMISSIS) non avesse svolto alcuna attivita’ gestoria, donde nel caso di specie, era assolutamente coerente la sottoscrizione della dichiarazione da parte della (OMISSIS). Ne discende, pertanto, che l’asserito travisamento probatorio che avrebbe riguardato la sorella della (OMISSIS), non rileva, atteso che e’ pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che, in tema di motivi di ricorso per cassazione, il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo purche’ specificamente indicati dal ricorrente, e’ ravvisabile ed efficace solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio, fermi restando il limite del “devolutum” in caso di cosiddetta “doppia conforme” e l’intangibilita’ della valutazione nel merito del risultato probatorio (tra le tante: Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014 – dep. 03/02/2014, Del Gaudio e altri, Rv. 258774).
8.4. Il quinto motivo (OMISSIS), investe l’esame della disciplina dettata dal Decreto Legge 8 giugno 1992, n. 306, articolo 12-quinquies, comma 1, (abrogato dal Decreto Legislativo n. 21 del 2018, ed oggi reinserito dall’articolo 512-bis c.p.) che punisce il delitto di “trasferimento fraudolento di valori”, applicando, salvo che il fatto costituisca piu’ grave reato, a chiunque attribuisce fittiziamente ad altri la titolarita’ o disponibilita’ di denaro, beni o altre utilita’ al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali o di contrabbando, ovvero di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli articoli 648, 648 bis e 648 ter, la pena della reclusione da due a sei anni”. Esso e’ configurato dalla giurisprudenza come un reato istantaneo con effetti permanenti, che si consuma nel momento in cui viene realizzata consapevolmente la difformita’ tra titolarita’ formale, meramente apparente, e titolarita’ di fatto dei beni, senza che possa assumere rilevanza il permanere della situazione antigiuridica conseguente alla condotta criminosa. (Cass., Sez. III, 8 maggio 2019, n. 23097; Cass., Sez. III, 6 marzo 2018, n. 11881). La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 253/2008, richiesta sulla conformita’ o meno alla Carta fondamentale del suddetto comma 1, ha negato innanzitutto l’assimilazione sostenuta dal giudice remittente della fattispecie in esame con quella di cui al comma 2, colpita da dichiarazione di illegittimita’ con la sentenza n. 48 del 1994 (il comma 2 conteneva infatti una presunzione, fortemente limitativa dei diritti di difesa, di illecito accumulo di beni a carico di soggetto reputato pericoloso. Tale disposizione e’ stata ritenuta contraria al principio costituzionale di non colpevolezza in quanto ancorava la presunzione di pericolosita’ soggettiva a meri sospetti e a pendenze che avrebbero potuto risolversi anche in decreti di archiviazioni). Il comma 1, invece, non e’ concepito secondo tale schema. La qualita’ di indagato o di soggetto sottoposto o sottoponibile a misura di prevenzione rilevano, ai fini di tale precetto, non gia’ come qualita’ soggettive dell’autore ma soltanto per definire l’ambito temporale di operativita’ del divieto sanzionato penalmente. La Corte ha precisato che la giurisprudenza “ha avuto modo di delineare la fattispecie di reato del trasferimento di valori in termini tali da soddisfare il petitum dell’odierna questione, in quanto e’ stato evidenziato che la posizione di indagato o imputato non e’ elemento caratterizzante la rilevanza penale della condotta, venendo solo a definire l’ambito temporale di operativita’ del divieto, cosi’ da ritenere che la portata incriminatrice della norma si estende anche nei confronti di chi non e’ sottoposto ad alcuna misura di prevenzione ma puo’ prevedere che sia imminente una tale evenienza. (Cass. Pen., Sez. I, 2 marzo 2004, n. 19537). La Corte ha escluso inoltre che l’articolo 12-quinquies, comma 1 consentirebbe un’inversione dell’onere della prova, dando atto dell’orientamento giurisprudenziale in merito secondo il quale spetta alla pubblica accusa provare, sia nei confronti di colui che si rende fittiziamente titolare di beni, sia nei confronti di chi opera la fittizia attribuzione, tutti gli elementi costitutivi del reato, vale a dire il carattere fittizio di tale attribuzione e il dolo specifico di elusione delle misure di prevenzione o di contrabbando ovvero di agevolazione della commissione di uno dei delitti di cui agli articoli 648, 648-bis e 648-ter c.p. Dall’esame della disposizione normativa e’ possibile individuare la condotta penalmente rilevante sotto il profilo oggettivo e soggettivo. La condotta deve tradursi in una interposizione fittizia la quale si configura in tutte quelle situazioni in cui il bene, nonostante risulti formalmente intestato a terzi, ricada sul piano sostanziale nella sfera di disponibilita’ dell’indagato o del condannato. Ricondotta alla fattispecie e’ anche l’ipotesi della c.d. interposizione fiduciaria, la quale ricorre ogniqualvolta l’interponente il trasferimento si accompagni ad un accordo fiduciario sottostante, in forza del quale i beni saranno detenuti, gestiti ed amministrati nell’interesse del disponente e secondo le sue direttive. Ne consegue che, sebbene l’interposto risulti essere all’esterno titolare delle medesime res, lo stesso e’ di fatto legato da un rapporto fiduciario con l’interponente. Il legislatore mira a punire sia colui che effettua l’intestazione fittizia, che il soggetto il quale accetti il ruolo di interposto, configurandosi una fattispecie delittuosa di concorso necessario. Per tale ragione si richiede che tutti i concorrenti nel reato abbiano agito con il dolo specifico richiesto dalla norma, ossia quello di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale. Caratteristica fondamentale e’ dunque che la condotta di consapevole creazione di una situazione di difformita’ tra titolarita’ formale dei beni e titolarita’ di fatto, sia qualificata dalla specifica finalizzazione. E’ proprio la finalita’ di elusione delle misure di prevenzione patrimoniale che la distingue da una, altrimenti, lecita ipotesi di contratto simulato ex articoli 1414 c.c. A fronte della “neutralita’” dell’amplissima gamma di negozi giuridici utilizzabili per la realizzazione della finalita’ elusiva, l’elemento soggettivo rappresenta l’elemento qualificante l’antigiuridicita’ della condotta. La Cassazione (Sez. II, 20 gennaio 2015, n. 2483) ha inoltre precisato che lo scopo elusivo caratterizzante il necessario dolo specifico prescinde dalla concreta possibilita’ dell’adozione di misure di prevenzione patrimoniali all’esito del relativo procedimento (non richiedendo anche la pendenza dello stesso), essendo l’elemento soggettivo integrato anche dal mero fondato timore dell’inizio di esso, indipendentemente da quello che potrebbe esserne il concreto esito. La valutazione circa il pericolo di elusione della misura va compiuta ex ante, alla stregua delle circostanze che, al momento della condotta, erano conosciute o conoscibili da un uomo medio in quella determinata situazione spazio – temporale, ed essendo sufficiente che l’autore ne possa temere l’instaurazione. Solo la totale inconsapevolezza da parte del terzo del fine illecito, in base al quale agisca la persona sottoposta o sottoponibile a misure patrimoniali, puo’ assumere rilievo al fine di escluderne il dolo e, dunque, il concorso nel reato.
8.4.1. Tanto premesso, il motivo e’ inammissibile.
La Corte di appello ha dato innanzitutto atto della mancata contestazione da parte dello (OMISSIS) delle risultanze processuali relative all’operazione economica. All’esito del giudizio di impugnazione non era stata chiarita (costituendo cio’ un onere gravante sull’interessato) l’origine della provvista e dei rapporti economici giustificanti il pagamento del prezzo da parte di (OMISSIS), non avendo essa alcun rapporto di debito/credito con la (OMISSIS) (entrambe le societa’ erano ricondotte all’imputato). La finalita’ elusiva veniva acclarata dal momento in cui il trasferimento era stato attuato, ossia a ridosso delle attivita’ investigative che avrebbero portato alle perquisizioni a carico di (OMISSIS) del 21.6.2010. Si rammenta, sul punto, la giurisprudenza di legittimita’ sopra citata circa la non necessita’ che la misura di prevenzione sia stata emanata, ne’ che risulti pendente il relativo procedimento, essendo sufficiente, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo, il timore dell’autore della sua instaurazione. L’operazione era stata posta in essere dal (OMISSIS) attraverso il contributo consapevole di (OMISSIS) mediante il ricorso a due societa’ ( (OMISSIS) e (OMISSIS)) entrambe riconducibili a quest’ultimo. Ulteriore conferma della responsabilita’ dell’imputato veniva individuata nella partecipazione dello stesso, insieme al (OMISSIS), alla medesima compagine associativa, cio’ consentendo di ricondurre anche tale operazione alla comune finalita’ elusiva (pagg. 20-21 sentenza).
8.5. Il sesto motivo della difesa (OMISSIS) comporta invece l’esame della questione giuridica afferente il tema della necessita’ di una condanna formale o sostanziale ai fini di poter disporre la confisca.
Sul punto e’ opportuno richiamare la vicenda giurisprudenziale che ha interessato la questione relativa alla applicabilita’ della confisca ove il reato, in ragione del quale la misura ablativa e’ applicata, sia stato dichiarato estinto. La materia e’ stata oggetto di una diatriba interpretativa tra la Corte di Strasburgo e la Corte Costituzionale. in modo particolare, con la sentenza della Corte EDU sul caso Varvara c. Italia, del 29 ottobre 2013, era stata ravvisata una violazione dell’articolo 7 della Convenzione in quanto la confisca era stata inflitta unitamente ad una sentenza dichiarativa della prescrizione. Ritenuto di ricondurre la misura alla categoria della “pena”, secondo i giudici sovranazionali sarebbe stata necessaria, per la sua applicazione all’imputato, la previa pronuncia di una sentenza di condanna “in senso proprio”, e cio’ nonostante la formale qualificazione della confisca come sanzione avente natura amministrativa. Alla luce di tale sentenza, la Corte di Cassazione ritenne necessario sottoporre la questione di legittimita’ costituzionale del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 44, comma 2, (confisca-lottizzazione abusiva) rispetto alla posizione ermeneutica assunta dai giudici di Strasburgo. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 49/2016 dichiaro’ inammissibile la questione. L’interpretazione del giudice remittente circa la incostituzionalita’ della norma nei limiti in cui preveda l’applicazione della confisca anche ove il reato, sebbene prescritto, sia stato oggetto di accertamento sul piano soggettivo ed imputabile psicologicamente all’imputato, costituiva un superamento del diritto vivente in base al quale la misura in questione deve essere disposta non solo a seguito di una sentenza definitiva di condanna, ma anche alla dichiarazione di prescrizione del reato qualora la responsabilita’ penale sia stata accertata. Una diversa interpretazione avrebbe comportato, a fronte della tutela del diritto di proprieta’, il sacrificio di principi costituzionali di rango superiore. In tale occasione la Corte Costituzionale evidenzio’ il dovere del giudice di interpretare il diritto interno in senso conforme alla Cedu ma subordinatamente ad una lettura costituzionalmente conforme del medesimo, riflettendo tale modus operandi il “predominio assiologico” della Costituzione sulla Convenzione. Laddove il contrasto non sia risolvibile in via interpretativa, il giudice e’ tenuto innanzitutto al rispetto della Carta Costituzionale, con conseguente dovere sollevare questione di legittimita’ costituzionale della legge di adattamento. La questione e’ tornata all’esame della Corte Edu. Con la sentenza GIEM c. Italia (28 giugno 2018), in conformita’ con la giurisprudenza del precedente caso Varvara del 2013, e’ stato ribadito che l’articolo 7 CEDU esclude la possibilita’ di irrogare una sanzione penale nei confronti di una persona senza che sia stata previamente accertata e, dunque, dichiarata la sua responsabilita’ (nel caso esaminato, in forza del principio della personalita’ della responsabilita’ penale, la Corte ha accertato tale violazione nell’applicazione della confisca a soggetti, rectius le societa’, che non erano state parti del procedimento penale, sebbene le medesime, in linea con il diritto interno e, nello specifico, del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, non avrebbero potuto esserlo, non contemplando il summenzionato decreto i reati edilizi). La Corte ha affermato (e qui si individua la “novita’” rispetto alla pronuncia precedente del 2013) che nel caso in cui tutti gli elementi del reato siano sostanzialmente evincibili dagli atti, ed il procedimento si sia concluso con declaratoria di intervenuta prescrizione, tali risultanze possono essere valorizzate in termini di condanna “sostanziale”, ai sensi dell’articolo 7 CEDU, con conseguente esclusione di una violazione del principio di legalita’ con riferimento alla posizione del ricorrente persona fisica. Evidente e’ pertanto il mutamento di posizione della Corte EDU: mentre nella sentenza Varvara si enunciava la necessita’ di una condanna in senso formale perche’ potesse legittimamente essere applicata una misura costituente (sul piano sostanziale e secondo gli Engel’s criteria) una pena, a conclusioni e’ invece giunta con la pronuncia sul caso GIEM. In linea con la sentenza n. 49/2015 della Corte Costituzionale, i giudici di Strasburgo si sono espressi positivamente la possibilita’ che la confisca (nel caso in esame urbanistica) venga disposta successivamente ad una pronuncia che, sebbene non possa formalmente definirsi “condanna”, ne presenti i caratteri sostanziali, essendo stata accertata la responsabilita’ penale del reo, potendo dunque guardare oltre il dispositivo del provvedimento, e tenere conto della sua sostanza, essendo la motivazione una parte integrante della sentenza. Non di scarso rilievo e’ anche l’orientamento seguito dai giudici di Strasburgo rispetto al profilo soggettivo dell’illecito penale: la regola e’ quella enunciata nel caso Sud Fondi (20 gennaio 2009), tenuto conto dello stretto legame tra legalita’ (nullum crimen sine lege) e prevedibilita’ del disvalore della condotta e delle relative conseguenze, con il principio di colpevolezza. Ne consegue che l’applicazione di una pena richiede la sussistenza di un nesso di natura psicologica tra il soggetto ed il fatto. Nel caso Varvara, tuttavia, la Corte EDU ha ritenuto non contrastanti con la Convenzione eventuali previsioni interne di “responsabilita’ oggettive”, ergo fondate su presunzioni di colpevolezza. Punto fondamentale ed indefettibile e’ la garanzia, per l’imputato, di difendersi dalle accuse nei suoi confronti, escludendo pertanto la compatibilita’ con le disposizioni convenzionali di presunzioni iuris et de iure. Le presunzioni di colpevolezza devono, in sostanza, ammettere prova contraria e consentire al soggetto agente di esercitare il proprio diritto di difesa (articolo 6 CEDU). L’impatto del dialogo tra le Corti sul legislatore si puo’ rinvenire nella novella legislativa rappresentata dal Decreto Legislativo n. 21 del 2018, successivamente modificato dalla L. 9 gennaio 2019, n. 3, articolo 1, comma 4, lettera f), con il quale e’ stato introdotto l’articolo 578-bis c.p.p.: “quando e’ stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dall’articolo 240 bis c.p., comma 1 e da altre disposizioni di legge o la confisca prevista dall’articolo 322 ter c.p. , il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilita’ dell’imputato”. In sintesi, dunque, puo’ affermarsi che il concetto di condanna necessario e sufficiente per procedere alla confisca, anche qualora sia stata successivamente il reato sia stato dichiarato prescritto, deve essere modulato rispetto alla tesi secondo la quale l’accertamento della responsabilita’ deve confluire in una pronuncia che, non solo sostanzialmente, ma anche formalmente, la dichiari. L’esistenza del reato, la circostanza che l’autore dello stesso abbia conseguito un vantaggio patrimoniale devono aver formato oggetto di una condanna, i cui termini essenziali non abbiano, nel corso del giudizio, subito mutazioni quanto alla sussistenza di un accertamento al di la’ di ogni ragionevole dubbio (accertamento della responsabilita’ penale sul piano sostanziale). L’intervento della prescrizione, dunque, per poter consentire il mantenimento della confisca, deve rivelarsi quale formula terminativa di un giudizio che, sostanzialmente, abbia confermato la preesistente (e necessaria) pronuncia di condanna (Cass., Sez. III, 4 ottobre 2018, n. 6348). Sul punto, infine, e’ opportuno infine richiamare la nota sentenza Lucci (Cass., S.U., 26 giugno 2015) in forza della quale e’ possibile per il giudice, il quale abbia dichiarato il reato addebitato prescritto, disporre “a norma dell’articolo 240 c.p., comma 2, n. 1, la confisca del prezzo e, ai sensi dell’articolo 322ter c.p., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato, a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilita’ dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio”.
8.5.1. Tanto premesso, il motivo e’ infondato.
Si consideri, infatti, che il legislatore ha espressamente disciplinato la possibilita’ di applicare la confisca con una sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione all’articolo 578 bis c.p.p. Tale possibilita’ e’ stata prevista per la confisca c.d. “allargata” che trova oggi la sua disciplina nell’articolo 240 bis c.p. ed e’ stata recentemente estesa – con la L. 9 gennaio 2019, n. 3 – a tutte le ipotesi di confisca previste dall’articolo 322 ter c.p. (compresa, si noti, la confisca per equivalente). Essendo stato inserito l’articolo 578-bis, c.p.p. dal Decreto Legislativo n. 21 del 2018, la decisione dei giudici di appello, intervenuta in data 7.01.2019, di disporre la confisca “allargata” in relazione al reato sub z), dichiarato estinto per prescrizione, era pienamente legittima. L’articolo 578-bis c.p.p. e’ infatti norma di carattere processuale per cui vige il principio tempus regit actum.
8.5.2. In ogni caso, gia’ in precedenza, la giurisprudenza di questa Corte era pervenuta ad analogo approdo, affermando che la confisca Decreto Legge 8 giugno 1992, n. 306, ex articolo 12-sexies convertito in L. 7 agosto 1992, n. 356, permane anche qualora il giudizio di impugnazione si concluda con la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, sempre che vi sia stata in precedenza una sentenza di condanna e l’accertamento relativo alla sussistenza del reato ed alla penale responsabilita’ dell’imputato rimanga inalterato (Sez. 5, n. 1012 del 29/11/2017 – dep. 12/01/2018, D’Agostino e altri, Rv. 271923). L’applicazione della confisca da parte della Corte di appello di Milano si presenta conclusivamente incensurabile in quanto aderente all’orientamento espresso sia in sede nazionale che sovranazionale in merito alla possibilita’ di applicare la confisca anche successivamente alla dichiarata prescrizione del reato determinante la misura ablatoria. Nel caso di specie, e’ possibile rilevare, infatti, che la riconducibilita’, sul piano oggettivo e soggettivo, dell’illecito all’imputato era stata oggetto di una precedente pronuncia di condanna, sicche’, nonostante il reato sia stato dichiarato prescritto in appello, l’accertamento sostanziale della responsabilita’ penale consentiva la conservazione della confisca a carico dello (OMISSIS) ai sensi dell’articolo 578-bis, c.p.p.
8.6. Quanto al settimo ed ultimo motivo della difesa (OMISSIS), ne e’ evidente l’inammissibilita’.
Come si evince dal testo della sentenza (pag. 21) la Corte di appello di Milano risulta aver motivato sul punto, evidenziando la gravita’ e la pluralita’ dei fatti accertati, l’intensita’ del dolo, nonche’ il ruolo preminente svolto dall’imputato nella compagine associativa, senza che in sede di impugnazione fosse stato possibile riscontrare una rivisitazione critica della condotta (resipiscenza). E’ ben vero che la predetta motivazione e’ relativa al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, ma e’ pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che e’ sufficiente a giustificare il potere discrezionale del giudice in ordine alla misura della pena il rilievo dato, sia pure ad altri fini (nella specie, diniego delle attenuanti generiche), alle modalita’ del fatto e alla personalita’ dell’imputato. (Sez. 5, n. 1747 del 10/01/1983 – dep. 28/02/1983, Romano, Rv. 157655).
9. Ricorso (OMISSIS), con cui si articola un unico motivo.
9.1. Il ricorso e’ inammissibile.
Ed invero, nonostante l’identita’ della condotta addebitata al ricorrente ed a (OMISSIS), risulta dal capo di imputazione relativo a quest’ultimo che la dichiarazione integrante la fattispecie criminosa era stata presentata per l’anno 2010, donde per il reato a quest’ultimo ascritto era maturata la prescrizione alla data del (OMISSIS). Diversamente per il ricorrente (OMISSIS) era stato fatto riferimento all’anno 2011 (22.7.2010 data della prima fattura annotata; 30.9.2011 data della dichiarazione), donde la prescrizione non era maturata alla data della sentenza d’appello (7.01.2019), ma e’ intervenuta alla data del (OMISSIS).
L’inammissibilita’ del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilita’ di rilevare e dichiarare le cause di non punibilita’ a norma dell’articolo 129 c.p.p. (Nella specie la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso: Sez. U, n. 32 del 22/11/2000 – dep. 21/12/2000, D. L, Rv. 217266).
10. Ricorso (OMISSIS), con cui si articola un unico motivo.
10.1. Il ricorso e’ inammissibile.
Il ricorrente aveva infatti impugnato la decisione di primo grado limitatamente ai reati fiscali di cui ai capi 0) e 01) e rispetto ai quali la Corte di appello ha accertato essere maturata la prescrizione. Il venire meno della punibilita’ per i reati-fine non consente, tuttavia, di escludere la responsabilita’ del ricorrente per il reato-mezzo, ossia la societas sceleris. Il motivo presentato si traduce in una sostanziale confusione dei due piani penalmente rilevanti tenuti in considerazione dal legislatore: quello attinente al reato di cui all’articolo 416 c.p.; quello degli illeciti tributari.
Tali fattispecie sono dirette alla tutela di distinti beni giuridici e presentano connotati propri alla cui sussistenza in concreto e’ subordinata l’integrazione della fattispecie. Il reato associativo non richiede l’effettiva realizzazione del programma criminoso il cui perseguimento (in astratto) mediante la predisposizione di una idonea organizzazione costituisce il nucleo dell’elemento soggettivo, il quale non e’ assolutamente sovrapponibile con quello richiesto per i reati tributari (finalita’ elusiva). Ad ulteriore conferma dell’errore interpretativo, si rammenta che il singolo sodale non e’ punito esclusivamente in ragione dell’appartenenza alla societas sceleris, ma anche, e distintamente, per i singoli reati-fine che il medesimo abbia posto in essere o concorso a realizzare. La doglianza si presenta, pertanto, in modo evidente errata sul piano giuridico, rendendo vieppiu’ evidente l’insussistenza del censurato vizio motivazionale.
10.1.1. A cio’, peraltro, va aggiunto che l’intervenuta declaratoria di prescrizione e di revoca delle statuizioni accessorie, attesa l’esclusivita’ del vizio motivazionale denunciato, precluderebbe a questa Corte qualsivoglia statuizione di annullamento con rinvio al fine di sanare l’omissione motivazionale denunciata, ostandovi la prescrizione dichiarata. Pacifico e’ nella giurisprudenza di questa Corte, infatti, che in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimita’ vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009 – dep. 15/09/2009, Tettamanti, Rv. 244275).
11. Ricorso societa’ (OMISSIS) s.r.l., con cui si articolano cinque motivi.
11.1. Il primo ed il secondo motivo della difesa dell’Ente – da esaminarsi congiuntamente attesa 1″intima connessione dei profili di doglianza ad essi sottesi e l’omogeneita’ delle censure svolte – impongono l’esame della questione giuridica del rapporto intercorrente tra l’illecito amministrativo di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 24-ter il principio di legalita’ e la conseguente possibilita’ di disporre la confisca del profitto del reato presupposto.
Sul punto, si ricorda che la L. n. 94 del 2009 ha inserito nel corpus del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 l’articolo 24-ter, cosi’ ampliando l’elenco di reati-presupposto con la previsione di delitti di criminalita’ organizzata. L’articolo 24-ter individua due diverse ipotesi, sottoposte a trattamenti sanzionatori distinti: a) il comma 1 disciplina gli illeciti connotati da maggiore gravita’, ossia i delitti di cui all’articolo 416, comma 6, articolo 416-bis c.p., nonche’ quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, ovvero al fine di agevolare l’attivita’ di tali peculiari societas sceleris, e agli articoli 416ter e 630 c.p. e Decreto Legislativo n. 309 del 1990, articolo 74; b) il comma 2, invece, incrimina condotte la cui minore gravita’ si riflette anche sul piu’ tenue trattamento sanzionatorio, includendo gli illeciti previsti agli articoli 416 c.p. (ad esclusione del comma 6) ed i delitti concernenti l’illegale fabbricazione, l’introduzione nello Stato, la messa in vendita, la cessione, la detenzione e il porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, di esplosivi, di armi clandestine nonche’ di piu’ armi comuni da sparo, escluse quelle prevista dalla L. n. 110 del 1975, articolo 2, comma 3. Il Decreto Legislativo n. 231 del 2001 gia’ contemplava come reato presupposto le fattispecie associative, ma limitatamente all’ipotesi di delitti connotati da tratti di transnazionalita’, come previsti dalla L. n. 146 del 2006, articolo 3 (di ratifica della Convenzione Onu sulla lotta alla criminalita’ organizzata transnazionale). La novella legislativa ha sollevato alcune perplessita’ in ordine alla sua compatibilita’ con il principio di tassativita’ di cui all’articolo 2 medesimo D.Lgs.. Si e’ censurata, infatti, l’introduzione di una di “clausola aperta”, utilizzabile quale strumento per dilatare i limiti definiti dal Decreto Legislativo n. 231 del 2001, con accrescimento indeterminato del novero dei reati-presupposto. Laddove si sposasse la tesi dell’estensione della responsabilita’ della persona giuridica non solo al reato-mezzo (illecito associativo) ma anche ai reati-fine, non previsti nell’elenco di cui al decreto de quo, si realizzerebbe un vulnus circa la certezza dei confini delle aree di rischio per i soggetti interessati, in quanto diretti destinatari del testo normativo. Una linea esegetica maggiormente estensiva, infatti, ha escluso la ravvisabilita’ di argomenti teorici ostativi alla possibilita’ di contestare all’ente la responsabilita’ amministrativa per reati non contemplati nel catalogo dei reati-presupposto di cui alla parte speciale del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, che diventerebbero comunque rilevanti in quanto reati-fine dell’associazione per delinquere. Permarrebbero tuttavia le problematicita’ connesse alla costruzione del Modello di cui al medesimo decreto da parte dell’ente, soprattutto con riferimento alla fase del risk assessment, dovendo in teoria considerare qualsiasi reato-fine suscettibile di essere incluso nel programma criminoso dell’associazione, con la conseguenza di una pressoche’ impossibile mappatura dei rischi. Secondo un’altra impostazione i reati-fine dell’associazione potrebbero essere considerati reati-presupposto della responsabilita’ da reato dell’ente solo in forza del richiamo che agli stessi viene fatto dal reato associativo, con la conseguenza che la fattispecie di cui all’articolo 24-ter potrebbe operare soltanto qualora il reato-fine commesso in forma associata rientri nel novero dei reati-presupposto positivamente indicati dal Decreto Legislativo n. 231 del 2001. In questo modo, si eliminerebbe il rischio di mappature dei rischi vaghe e procedure parimenti indefinite, essendo l’ente tenuto a mappare il rischio di reato associativo con riferimento ai soli reati-presupposto espressamente previsti. Anche in giurisprudenza e’ stato seguito un approccio fondato su una visione restrittiva dell’articolo 24-ter, cui fondamento e’ stato individuato in due ordini di ragioni: 1) il reato di associazione a delinquere e’ un reato-mezzo autonomo rispetto agli illeciti che la societas sceleris si propone di realizzare, integrandosi la fattispecie al momento della creazione di una organizzazione (di persone e di mezzi) idonea alla concretizzazione del programma criminoso, violandosi la disposizione penale anche ove i sodali non abbiano ancora posto in essere alcun reato-fine. La consumazione del delitto avviene pertanto a prescindere dall’esecuzione concreta degli illeciti programmati; 2) Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 2 prevede che l’ente non possa essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilita’ amministrativa, in relazione a quel reato, non e’ prevista espressamente da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto illecito. Pertanto, l’ente potra’ essere imputato per il reato di cui all’articolo 416 c.p. qualora vi sia per lo stesso una concomitante imputazione per reati-fine rientranti nel novero di quelli previsti dal suddetto decreto. Diversamente l’autore-persona fisica dovra’ rispondere per tutti gli illeciti al medesimo imputati, mentre la persona giuridica potra’ vedersi contestati solo quelli ricompresi nella elencazione tassativa del Decreto Legislativo n. 231 del 2001. Con la sentenza n. 3635 del 24 gennaio 2014, la Suprema Corte aveva rimarcato come “qualora si proceda per associazione per delinquere e per reati non previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilita’ dell’ente collettivo, la rilevanza di questi ultimi non puo’ essere indirettamente recuperata (…) per il loro carattere di delitti scopo del reato associativo contestato”. L’articolo 416 c.p. non avrebbe pertanto potuto fungere da fattispecie aperta ed elastica (da taluni definita “cavallo di Troia”), e rendere rilevanti per gli enti anche reati non considerati dal legislatore. Il Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 24-ter non avrebbe potuto essere invocato per ribaltare il principio di tassativita’ alla base del sistema punitivo anche delle persone giuridiche. La dottrina ha tuttavia evidenziato come tale conclusione ermeneutica delle Corte sia stata successivamente “aggirata” dalla giurisprudenza mediante la individuazione nel vantaggio conseguito mediante la realizzazione dei reati-fine del profitto confiscabile a carico dell’ente. La “via patrimoniale” avrebbe pertanto consentito di ricondurre in capo alla persona giuridica le conseguenze penali anche di illeciti non inclusi nella “lista nera”. Si tiene a precisare tuttavia che l’associazione per delinquere, in quanto lesiva dell’incolumita’ pubblica, si astrae dai reati-fine, che vengono in luce solo in quanto costituenti lo svolgimento del programma criminoso perseguito dagli associati. Non si verificherebbe alcun vulnus al principio di legalita’ sia sul piano formale, tenuto conto che e’ il combinato disposto del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 24-ter e articolo 416 c.p. a determinare la permeabilita’ della situazione patrimoniale dell’ente all’attingimento dei reati-fine attraverso il filtro della formula associativa, sia su quello sostanziale, in quanto l’ente risponde non gia’ dei reati-fine, ma delle “proiezioni patrimoniali” del programma criminoso, venendo gli illeciti avvinti dal vincolo associativo. La responsabilita’ dell’ente resta limitata all’associazione. Non si tratta, infatti, di aprire alla possibilita’ di raggiungere, mediante la misura ablatoria, un profitto derivante da un reato “non presupposto”, imputandolo formalmente a profitto del reato associativo, ma piuttosto di individuare un vantaggio patrimoniale derivante ex se dal reato associativo, suscettibile di essere oggetto di ablazione anche qualora i delitti-scopo non siano inclusi nei reati-presupposto. Realizzatosi il rischio in evento, l’ente sopporta le conseguenze patrimoniali della fattispecie associativa in funzione delle sue caratteristiche di fenomeno complesso, autonomo ma collegato ai reati-fine.
Cio’ esplica i suoi riflessi anche in tema di confisca. In base al Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 19 infatti, “nei confronti dell’ente e’ sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che puo’ essere restituita al danneggiato. Sono fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede” e che “quando non e’ possibile eseguire la confisca a norma del comma 1, la stessa puo’ avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilita’ di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato”. Il profitto del reato al quale fa riferimento l’articolo 19 si identifica con il vantaggio economico di diretta ed immediata derivazione causale rispetto al reato presupposto. Il legislatore ha previsto una ipotesi di confisca obbligatoria avente ad oggetto il prezzo o il profitto del reato, ma non anche il prodotto di esso, ne’ i mezzi utilizzati per commetterlo. Tale disposizione si pone quindi su un piano differente rispetto a quello di cui alla L. n. 146 del 2006, articolo 11 ai sensi del quale, per i reati transnazionali, ex articolo 3, “qualora la confisca delle cose che costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo del reato non sia possibile, il giudice ordina la confisca di somme di denaro, beni od altre utilita’ di cui il reo ha la disponibilita’, anche per interposta persona fisica o giuridica, per un valore corrispondente a tale prodotto, profitto o prezzo”. L’articolo 11 non si limita a menzionare anche il prodotto ma soprattutto paventa la praticabilita’ della confisca per equivalente anche nel caso di interposizione fittizia, che ben puo’ coinvolgere un ente. Anche l’articolo 19 contempla la confisca per equivalente, nel caso classico di ineseguibilita’ della confisca diretta (perche’ le res da apprendere non esistono, in quanto derivanti da un semplice risparmio, o non sono individuabili, in quanto confuse, o non piu’ nella disponibilita’ dell’ente, in quanto alienate). Tale misura, analogamente alla confisca “in forma specifica”, e’ da ritenere altrettanto obbligatoria (Cass., Sez. Un., 25 settembre 2014, n. 11170, secondo cui, “il ricorso da parte del legislatore, nel comma 2…, alla locuzione puo’, non esprime l’intenzione di riconoscere ad essa natura facoltativa, ma la volonta’ di vincolare il dovere del giudice di procedervi alla previa verifica dell’impossibilita’ di provvedere alla confisca diretta del profitto del reato e dell’effettiva corrispondenza del valore dei beni oggetto di ablazione al valore di detto profitto”). Il punto di partenza per giungere ad attribuire all’ente il conseguimento di un profitto a partire dall’illecito associativo, e’ rappresentato dalla considerazione che il profitto del reato di associazione per delinquere, sequestrabile ai fini della successiva confisca per equivalente, e’ costituito dal complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall’insieme dei reati-fine, dai quali e’ del tutto autonomo e la cui effettiva realizzazione e’ agevolata dall’organizzazione criminale. Pertanto, a prescindere dal fatto che i reati-fine producano di per se’ vantaggi, l’interprete deve porre l’accento sul reato nel suo “complesso”, concentrandosi sull’associazione, la quale manifesta una capacita’ produttiva di profitto proiettata ad oltrepassare il singolo reato-fine, con accresciuta potenzialita’ di vantaggio (Cass., Sez. III, 4 marzo 2015, n. 26725: “il delitto di associazione per delinquere e’ idoneo a generare un profitto, che e’ sequestrabile ai fini della successiva confisca per equivalente… in via del tutto autonoma rispetto a quello prodotto dai reati fine, e che e’ costituito dal complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall’insieme di questi ultimi, siano essi attribuibili ad uno o piu’ associati, anche non identificati, posto che l’istituzione della societas sceleris e’ funzionale alla ripartizione degli utili derivanti dalla realizzazione del programma criminoso”). I partecipi agiscono nella consapevolezza che le attivita’ sono volte alla realizzazione del comune programma criminale e dei profitti che ne derivano, e dunque dei vantaggi che l’associazione otterra’ concretamente e periodicamente in maniera duratura e permanente, anche e soprattutto attraverso la consumazione dei reati programmati. Profitto questo, si tiene a precisare, che non e’ destinato a recare un vantaggio uti singuli, se non limitatamente alla divisione degli utili conseguiti dall’organizzazione, il che consente di distinguere quanto ottenuto dal sodale mediante la realizzazione del reato-fine e quanto al medesimo deriva dalla qualita’ stessa di partecipe. Ben possono emergere ulteriori benefici che, nella prospettiva dell’associato, assurgono ad autentici “guadagni”, derivanti dalla partecipazione all’associazione (si veda, in tal senso, Cass., Sez. II, 20 gennaio 2015, n. 6507, che ha confermato la legittimita’ della confisca per equivalente di somme non coincidenti con quelle riferibili ai reati-fine di natura fiscale, erogate ad una societa’ posseduta dall’indagato, a sua volta chiamato a rispondere di partecipazione ad un’associazione per delinquere transazionale finalizzata alla commissione di detti reati, affermando che “il delitto di associazione per delinquere puo’ essere considerato in se’ idoneo a generare profitto illecito come tale suscettibile di confisca in via del tutto autonoma da quello conseguito dai reati-fine perpetrati in esecuzione del programma criminoso – con riferimento alle utilita’ percepite dagli associati per il contributo da essi prestato per assicurare il regolare funzionamento del sodalizio”). L’aggregazione criminale di cui alle fattispecie associative, in virtu’ proprio della sua articolazione organizzativa, facilita la commissione dei reati-fine, e mutua da questi il proprio profitto. Anche in ipotesi di reato associativo, dunque, e’ applicabile la confisca di quanto alla medesima societas derivi per il tramite dei reati fine, i quali rappresentano – mutuando il lessico aziendale – il suo “oggetto sociale”. Dunque effettivamente sono i singoli reati a monte a generare materialmente le entrate, ma queste si fanno profitto divisibile solo per il tramite della sovrastruttura costituita dall’associazione per delinquere. Il necessario passaggio dalle casse dell’associazione e dalle decisioni dei suoi vertici rende dunque il profitto dei reati-fine il profitto proprio dell’associazione.
11.1.1. Tanto premesso, il motivo e’ infondato.
Come correttamente evidenziato dal giudice di secondo grado, l’ente risponde nel caso di specie non per i reati-fine (non inclusi in quelli costituenti il presupposto della responsabilita’ amministrativa da reato), bensi’ del reato associativo, espressamente previsto al Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 24 ter. La realizzazione del programma criminoso, e dunque degli illeciti effettivamente posti in essere, viene in rilievo non al fine di valutare la responsabilita’ della persona giuridica per ciascuno di essi, ma solo nei limiti in cui i medesimi abbiano apportato un vantaggio patrimoniale alla societas sceleris e, dunque, possano consentire di individuare il profitto conseguito ai fini della confisca. Sotto questo profilo, il quale non interessa la responsabilita’ “a monte” della societa’ (sussistente in forza dell’articolo 24-ter sopra-citato), non assume alcun rilievo che gli illeciti realizzati dai sodali non siano riconducibili ai reati-presupposto. Correttamente il giudice di secondo grado ha affermato che (pag. 26) “se l’ente non potesse essere ritenuto responsabile ex articolo 24-ter perche’ l’associazione posta in essere e’ finalizzata al compimento di reati extra catalogo, l’articolo in esame sarebbe totalmente svuotato di qualsiasi capacita’ punitiva, nell’ipotesi in cui sussista comunque una associazione criminosa come cosi’ come configurata dall’articolo 416 c.p. (…) la societa’ (OMISSIS) s.r.l. (gia’ (OMISSIS) S.p.A.) e’ stata ritenuta responsabile non per i delitti fiscali commessi (reati fine), bensi’ per aver preso attivamente parte all’associazione criminale a monte di tali attivita’, attraverso il suo amministratore di fatto, integrando quindi l’ipotesi prevista dal Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 24-ter”.
11.1.2. Infondate devono, pertanto, ritenersi anche le doglianze attinenti la confisca, essendo essa fondata legittimamente sulla commissione di un reato-presupposto. La giurisprudenza sopra richiamata – cui questo Collegio reputa di dover dare continuita’ – ha infatti evidenziato la capacita’ del reato associativo di produrre profitto ex se, non potendosi negare come la realizzazione effettiva del programma criminoso non sia separabile dalla organizzazione, costituendo essa l’apparato a monte indispensabile per il raggiungimento del conseguente profitto. Una separazione sotto tale profilo risulterebbe pertanto priva di una ragionevole giustificazione. In definitiva, deve pervenirsi all’affermazione che la circostanza stessa che la societa’ sia gestita da soggetto diverso dal legale rappresentante, mero prestanome, ed il potere gestorio sia esercitato dall’amministratore di fatto, estraneo all’ente, quest’ultimo diviene una societa’ fittizia e, dunque, uno schermo utilizzato per porre in essere l’attivita’ illecita, donde appare evidente la responsabilita’ dell’Ente per il reato associativo, dimostrando la etero-direzione della societa’ in se’ una “mala gestio” che integra la colpa organizzativa dell’Ente medesimo.
11.2. Quanto al terzo motivo della difesa dell’Ente, lo stesso attiene alla consueta questione giuridica dell’individuazione dei presupposti della rinnovazione dell’istruttoria in appello.
Ora, come e’ noto, l’istruzione dibattimentale nel giudizio di appello costituisce una eccezione, operando la presunzione che l’indagine istruttoria sia stata esauriente con le acquisizioni del dibattimento di primo grado, sicche’ il potere del giudice di disporre la rinnovazione e’ subordinato alla rigorosa condizione che egli ritenga, contro la predetta presunzione, di non essere in grado di decidere allo stato degli atti (Cass. S. U, 17 dicembre 2015, n. 12602). Ove non vi provveda d’ufficio ma su richiesta di parte, sono necessarie delle precisazioni. Nell’ipotesi di cui all’articolo 603 c.p.p., comma 1 la riassunzione delle prove gia’ acquisite ovvero l’assunzione di quelle nuove (gia’ esistenti nella fase di primo grado) e’ subordinata alla condizione che i dati probatori raccolti in precedenza siano incerti e che l’incombente processuale richiesto rivesta carattere di decisivita’. Diversamente, nel caso previsto dal comma 2, il giudice e’ tenuto a disporre l’ammissione delle prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado negli stessi termini di cui all’articolo 495 c.p.p., con il solo limite costituito dalle richieste concernenti prove vietate dalla legge o manifestamente superflue o irrilevanti. Ne consegue che l’assunzione di queste ultime deve sempre essere vagliata dal giudice di appello sotto il profilo dell’utilita’ processuale, sicche’ le parti non possono far valere il diritto alla rinnovazione dell’istruzione anche per l’assunzione di prove nuove sopravvenute o scoperte successivamente, spettando in ogni caso all’organo giudicante la valutazione in ordine alla necessita’ della loro acquisizione (Cass., Sez. VI, 21 maggio 2019, n. 37901). Questa Corte ha sottolineato che, nella prima ipotesi, le ragioni del rigetto della richiesta possono essere anche implicite nell’apparato motivazionale della decisione mentre, nel secondo caso, la giustificazione deve risultare in modo espresso e compiuto dal testo (Cass., Sez. III, 13 settembre 2016, n. 47963). In sede di legittimita’, infatti, il sindacato e’ limitato alla correttezza della motivazione sulla richiesta di rinnovazione, ma non puo’ mai essere svolto sulla concreta rilevanza della prova oggetto dell’istanza.
11.2.1. Tanto premesso, il motivo e’ inammissibile.
La Corte di appello ha infatti legittimamente rigettato la richiesta di riapertura dell’istruttoria, difettando i requisiti necessari per l’ammissione della stessa, da valutare anche ove le prove risultino in concreto sopravvenute, ossia la rilevanza, conferenza e non superfluita’. Del resto, la Corte territoriale (pag. 27) aggiunge che non risultano rilevanti ne’ pertinenti gli esiti dei procedimenti tributari richiamati dall’appello, poiche’ riferiti a fattispecie diverse (illeciti amministrativi-tributari), con differenti presupposti rispetto al delitto associativo in contestazione. Insindacabile in sede di legittimita’, pertanto, si rivela la decisione dei giudici territoriali di non disporre la rinnovazione istruttoria.
11.2.2. Quanto, poi, alla questione, sollevata nel ricorso, circa l’asserito vizio di mancanza della motivazione in relazione agli specifici vantaggi tributari eventualmente accertati in via definitiva con riferimento alla parentesi temporale agosto 2009-2011, e’ sufficiente rilevare che tale questione non risulta essere stata dedotta espressamente davanti al giudice di appello, donde correttamente quest’ultimo non ha motivato sul punto. Non possono infatti essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunziarsi perche’ non devolute alla sua cognizione (Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017 – dep. 21/03/2017, Bolognese, Rv. 269745).
11.3. Quanto al quarto motivo della difesa dell’Ente, anche questo non si sottrae al giudizio di inammissibilita’.
Sul punto merita di essere ricordato che, diversamente da quanto e’ previsto per le sanzioni pecuniarie al Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 12 con riferimento alle sole sanzioni interdittive, l’articolo 17 prevede che l’ente possa evitarne l’applicazione, e dunque essere assoggettato alle sole sanzioni pecuniarie, attraverso il risarcimento integrale del danno, la eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, l’eliminazione delle carenze organizzative che hanno agevolato la commissione del reato, l’adozione e l’attuazione dei modelli organizzativi idonei a prevenire i reati, la messa a disposizione del profitto conseguito illecitamente. Orbene, e’ pacifico che solo la contestuale ricorrenza di queste condizioni (“….le sanzioni interdittive non si applicano quando, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, concorrono le seguenti condizioni:…”), e non la sola predisposizione di un modello organizzativo idoneo alla prevenzione dei reati, determina l’inapplicabilita’ delle sanzioni interdittive.
Le ulteriori condizioni richieste dal legislatore non sono state oggetto di allegazione da parte dell’Ente ricorrente, sicche’ deve escludersi l’applicabilita’ dell’articolo 17.
11.4. Quanto al quinto ed ultimo motivo dedotto dalla difesa dell’Ente, lo stesso si rivela parimenti inammissibile.
La Corte di appello non risulta aver negato la sottoposizione della questione dei motivi di impugnazione, rispondendo piuttosto espressamente alla doglianza sollevata (pag. 28: “Quanto all’argomento che censura la confisca applicata a carico dell’Ente per dedotta violazione del principio del ne bis in idem a fronte dell’irrogazione delle sanzioni in ambito tributario-amministrativo…”). Sul punto i giudici di appello, dopo aver richiamato l’evoluzione giurisprudenziale sul tema (SSUU Muci, rv. 232164; SSUU Lucci, rv. 264437) e la indubbia natura punitiva della confisca di valore o per equivalente, evidenziano come, con riferimento alla possibilita’ di cumulare tale misura con le sanzioni amministrative derivate dal procedimento tributario, la giurisprudenza di questa Corte abbia fornito risposta al problema. Sul punto, dirimente e’ quanto affermato ad esempio, in tema di manipolazione del mercato, laddove questa Corte ha affermato che l’irrogazione per il medesimo fatto sia di una sanzione penale che di una sanzione amministrativa definitiva – ai sensi del Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, articoli 185 e 187-ter, – non determina la violazione del principio del ne bis in idem, a condizione che il cumulo delle sanzioni risulti proporzionale alla gravita’ del fatto commesso, in conformita’ ai principi di cui agli articoli 49, 50 e 52 CDFUE, nonche’ 4 Prot. n. 7 CEDU, cosi’ come interpretati dalle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea C-524/15, Menci; C-537/16, Garlsson Real Estate, nonche’ dalla sentenza della Corte EDU del 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia (Sez. 5, n. 45829 del 16/07/2018 – dep. 10/10/2018, F, Rv. 274179-02; in senso conforme: Sez. 3, n. 6993 del 22/09/2017 – dep. 14/02/2018, Servelio, Rv. 272588 – 01).
11.4.1. La risposta fornita sul punto dai giudici territoriali si presenta pertanto immune da vizi, tenuto conto della aderenza della medesima alla giurisprudenza di questa Corte, nonche’ della Corte di Strasburgo, circa il criterio condizionante l’ammissibilita’ del doppio binario sanzionatorio, ossia quello della “sufficiently dose connnection in substance and time”. Nel caso di specie, e’ stato rilevato che la celebrazione dei due procedimenti autonomi (penale ed amministrativo) e’ avvenuta parallelamente. La sussistenza della stretta connessione sostanziale e temporale tra i due procedimenti consente di escludere la illegittimita’ della sanzione cumulativa, non censurando del resto la difesa, non solo in appello, ma nemmeno dinanzi a questa Corte, la sussistenza della connessione ne’ la proporzionalita’ delle sanzioni inflitte. Quanto alla censura, proposta in ricorso, secondo cui la censura proposta nel quinto motivo di appello, concernente la illegittimita’ della duplicazione della pretesa pecuniaria, avrebbe incluso anche la determinazione quantificativi della stessa, involgendo la doglianza sul quantum anche l’applicazione del criterio della proporzionalita’, si tratta di affermazione non rispondente alla realta’, atteso che la contestazione della illegittimita’ della duplicazione della pretesa pecuniaria, legittimava il giudice di appello a pronunciarsi esclusivamente sulla violazione del divieto del ne bis in idem (che costituiva del resto l’oggetto specifico della censura del quinto motivo di appello), non essendo stata espressamente mossa una doglianza sul quantum e sulla violazione del principio di proporzionalita’ (valutazione, nella specie, nemmeno esercitabile da questa Corte, non essendo nemmeno stata indicata la sanzione tributaria-amministrativa inflitta), che, attesa la natura del principio devolutivo e il requisito della specificita’ dei motivi (gia’ prima delle modifiche apportate all’articolo 581 c.p.p., lettera c), ad opera della L. n. 103 del 2017), avrebbe imposto l’enunciazione dei motivi, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto a sostegno della richiesta. Costituisce, del resto, principio consolidato quello secondo cui anche nel nuovo codice di procedura penale l’appello ha carattere di mezzo di impugnazione limitatamente devolutivo (articolo 597 c.p.p., comma 1). Pertanto il potere discrezionale dato al giudice di appello di superare, entro certi limiti, lo spazio della cognizione devolutogli, non risolve l’onere della parte di proporre le richieste e i motivi specificamente, ne’ rende ammissibile il ricorso per Cassazione sulla base di motivi e richieste non dedotte in appello, sempre che non si tratti di violazione di legge implicanti nullita’ rilevabili di ufficio (Sez. 1, n. 4031 del 25/02/1991 – dep. 12/04/1991, Pace ed altri, Rv. 187950).
Circostanza, quest’ultima, da escludersi nel caso in esame.
12. Alla dichiarazione di inammissibilita’ dei ricorsi (OMISSIS) e (OMISSIS), segue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi e’ ragione di ritenere che il ricorso sia stata presentata senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’”, si dispone che ciascuno dei ricorrenti versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
13. Al rigetto dei ricorsi (OMISSIS) e societa’ (OMISSIS) s.r.l., segue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibili i ricorsi di (OMISSIS) e (OMISSIS) e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila ciascuno a favore della Cassa delle Ammende. Rigetta i ricorsi di (OMISSIS) e societa’ (OMISSIS) S.r.l. e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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