In tema di reati tributari

Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 17 ottobre 2019, n. 42567.

Massima estrapolata:

In tema di reati tributari, ai sensi del combinato disposto dell’art. 2 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 e dell’art. 43 c.c., è obbligato a presentare una delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto colui che ha la residenza fiscale in Italia, per la maggior parte del periodo d’imposta, il suo domicilio, inteso come la sede principale degli affari ed interessi economici, nonché delle relazioni personali.

Sentenza 17 ottobre 2019, n. 42567

Data udienza 7 giugno 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LIBERATI Giovanni – Presidente

Dott. GENTILI Andrea – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere

Dott. CORBO Antonio – Consigliere

Dott. ZUNICA Fabio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato ad (OMISSIS);
avverso la sentenza del 24-09-2018 della Corte di appello di Genova;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Zunica Fabio;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Corasaniti Giuseppe, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente l’avvocato (OMISSIS), che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 24 settembre 2018, la Corte di appello di Genova confermava la sentenza del 22 dicembre 2017, con cui il Tribunale di Genova aveva condannato (OMISSIS) alla pena di anni 2 di reclusione, in quanto ritenuto colpevole di tre distinti episodi (capi A, B e C), tra loro unificati sotto il vincolo della continuazione, del delitto di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 4.
Tale reato veniva contestato a (OMISSIS) per avere, al fine di evadere le imposte sui redditi, in veste di intermediario finanziario, fittiziamente residente all’estero, omesso di indicare i compensi percepiti, nelle dichiarazioni annuali relative agli anni 2010 (capo A), 2011 (capo B) e 2012 (capo C), per un imponibile accertato pari, rispettivamente, a Euro 1.456.860 (2010), Euro 1.330.033,86 (2011) ed Euro 1.013.469,91 (2012), realizzando cosi’ un’evasione d’imposta sui redditi pari, nel 2010, a Euro 619.619,80, nel 2011 a Euro 565.084,55 e, nel 2012, a Euro 428.926,06; fatti commessi in (OMISSIS) (capo A), (OMISSIS) (capo B) e il (OMISSIS) (capo C).
2. Avverso la sentenza della Corte di appello ligure, (OMISSIS), tramite il suo difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando tre motivi.
Con il primo, la difesa lamenta l’erronea applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 32, comma 1 e la carenza assoluta di motivazione, evidenziando che la pronuncia di colpevolezza di (OMISSIS) si era basata esclusivamente sulle indagini bancarie esperite dalla Guardia di Finanza, che tuttavia si erano rivelate incomplete, non essendo stata accertata la provenienza degli assegni versati sui conti correnti dell’imputato e della consorte; ne’ poteva ritenersi esauriente nel caso di specie la presunzione tributaria di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 32, comma 1, essendo quest’ultima applicabile al processo penale solo a condizione che il giudice non si limiti a constatarne l’esistenza e provveda a una autonoma valutazione degli elementi evidenziati nel processo verbale di contestazione, il che nel caso di specie non era avvenuto, fondandosi la condanna solo sulla deposizione del teste (OMISSIS), il cui apporto si era limitato all’illustrazione delle risultanze dell’accertamento induttivo fiscale.
Parimenti, non poteva attribuirsi valenza dimostrativa al silenzio serbato da (OMISSIS) in sede di contraddittorio con l’amministrazione finanziaria prima e in sede penale successivamente, gravando soltanto sull’accusa l’onere della prova.
Con il secondo motivo, viene dedotta l’erronea applicazione della Convenzione di Roma del 9 marzo 1976 e successive modifiche, con particolare riferimento all’articolo 4 e al principio convenzionale di individuazione della residenza fiscale del ricorrente, osservandosi che sia il Tribunale che la Corte di appello, rigettando l’eccezione difensiva relativa al difetto della giurisdizione italiana, avevano disatteso l’applicazione del divieto di doppia imposizione fiscale convenzionalmente ratificato tra Italia e Svizzera, la cui esistenza e’ pregiudiziale per verificare se sussista o meno la violazione penale consistente nella mancata indicazione di ricavi da riportare nella dichiarazione dei redditi italiana.
Nel respingere la doglianza difensiva, la Corte territoriale si era affidata a valutazioni statistiche, come i consumi medi familiari di energia elettrica, senza specificare quali fossero, in concreto, gli elementi in base ai quali poter affermare che (OMISSIS) fosse realmente residente in Italia e non in Svizzera.
Con il terzo motivo, il ricorrente censura, sotto il profilo del difetto di motivazione, il diniego delle attenuanti generiche, non avendo la Corte di appello operato alcuna disamina dei parametri individuati dall’articolo 133 c.p., omettendo di commisurare la pena all’entita’ della vicenda e non considerando, in particolare, la sostanziale condizione di incensurato di (OMISSIS), gravato da un unico precedente penale risalente a oltre venti anni prima.
In data 23 maggio 2019, la difesa ha depositato una memoria con la quale, nello sviluppare le argomentazioni dei primi due motivi di ricorso, ha ribadito le lacune probatorie circa le movimentazioni bancarie del ricorrente, rimarcando la inutilizzabilita’ delle presunzioni tributarie in assenza di adeguati riscontri, non potendo ritenersi tale il contratto di locazione di un immobile a Milano, di cui era ignoto l’oggetto, fermo restando che lo stesso faceva riferimento a un arco temporale, l’aprile 2012, successivo agli anni di imposta 2010 e 2011.
Richiamando il secondo motivo di ricorso, la difesa ha poi insistito nell’eccepire la violazione del divieto di doppia imposizione fiscale, sia per la gia’ evidenziata insufficienza del riferimento della Corte territoriale al contratto di locazione dell’aprile 2012, sia in ragione della documentazione fiscale svizzera, non presa in considerazione dai giudici di merito, da cui era emerso che, negli anni cui si riferisce il presente procedimento penale, l’Ufficio circondariale di tassazione di (OMISSIS) aveva correttamente richiesto a (OMISSIS) il pagamento delle tasse, considerandolo, a tutti gli effetti, produttore di reddito tassabile in Svizzera.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso e’ infondato.
1. Iniziando dai primi due motivi di ricorso, suscettibili di essere trattati in maniera unitaria, in quanto concernenti il giudizio di colpevolezza dell’imputato, sotto aspetti diversi ma tra loro pienamente sovrapponibili, deve escludersi che sul punto siano ravvisabili vizi di legittimita’ rilevabili in questa sede.
E invero le due conformi decisioni di merito, le cui argomentazioni sono destinate a integrarsi reciprocamente per formare un corpus motivazionale unitario, hanno operato in primo luogo un’adeguata ricostruzione dei fatti di causa, richiamando a tal fine innanzitutto gli esiti dell’attivita’ investigativa compiuta dalla Guardia di Finanza di Rapallo nei confronti dell’odierno ricorrente (OMISSIS).
I risultati della verifica fiscale sono stati veicolati nel giudizio sia attraverso l’acquisizione dei documenti prodotti dalle parti, sia mediante l’escussione del teste (OMISSIS), il quale ha evidenziato come (OMISSIS), pur essendo formalmente residente in Svizzera, svolgeva in realta’ in Italia l’attivita’ di intermediario finanziario, avendo effettuato nel 2011 una consulenza per la societa’ (OMISSIS) di (OMISSIS) per la durata di sei mesi, essendo state rinvenute fatture emesse dall’imputato per un importo complessivo di circa 400.000 Euro. L’affermazione che l’imputato svolgesse stabilmente la sua attivita’ lavorativa in Italia e’ stata invero fondata su una serie di ulteriori elementi di fatto, tra cui la stipula da parte di (OMISSIS) del contratto di locazione di un immobile nel capoluogo lombardo per un anno, a partire dall’aprile 2012, circostanza questa emersa a una visura eseguita presso l’Ufficio del Registro di (OMISSIS).
Sono stati ritenuti inoltre significativi gli esiti degli accertamenti bancari sugli oltre dieci conti correnti nella disponibilita’ del ricorrente, su cui sono transitate negli anni contestati (2010, 2011 e 2012) le somme oggetto di imputazione. In particolare, tra il 2009 e il 2012, sono stati accertati sul conto -11843- della banca (OMISSIS) di (OMISSIS) accreditamenti non giustificati di importi significativi (Euro 1.376.860 nel 2010, Euro 1.330.033,86 nel 2011, ed Euro 1.013.469,91 nel 2012); Inoltre, sono stati riscontrati movimenti con la carta di credito o con il bancomat in Italia per 190 giorni ed e’ risultato che l’imputato ha effettuato nel 2012 operazioni bancarie allo sportello in 275 giorni diversi. Ulteriore circostanza ritenuta sintomatica della presenza stabile in Italia di (OMISSIS), a dispetto della sua residenza formale in Svizzera, e’ stata inoltre individuata nel fatto che la moglie e il figlio dell’imputato fossero residenti a (OMISSIS), dove dimoravano in maniera continuativa, come peraltro desumibile dalla verifica sui consumi di KW annui dell’abitazione, che, tra il 2010 e il 2012, sono risultati mediamente superiori a 7.000 kw annui, ovvero quasi il doppio del consumo medio annuo di un nucleo familiare di tre/quattro persone.
Orbene, la lettura incrociata di tali elementi probatori ha consentito ai giudici di merito di pervenire alla conclusione, tutt’altro che irragionevole, che (OMISSIS) svolgesse la sua attivita’ professionale in Italia, senza dichiarare nulla al Fisco.
Peraltro, la Corte territoriale non ha sottaciuto l’incompletezza delle indagini bancarie, stigmatizzando il fatto che la Guardia di Finanza non abbia eseguito alcun accertamento sulla provenienza del denaro, almeno sui titoli tracciabili. Tuttavia, tale lacuna investigativa e’ stata colmata dalla disamina unitaria degli ulteriori elementi probatori, rivelatosi convergenti nell’attestare la continuativa presenza di (OMISSIS) in Italia, sede dei suoi interessi professionali, economici e personali, come rivelato anche dal luogo di stabile dimora della sua famiglia.
Dunque, come correttamente affermato dalla Corte di appello, non puo’ affermarsi che il giudizio di colpevolezza sia stato fondato esclusivamente sulle presunzioni tributarie, essendo invece scaturita l’affermazione della penale responsabilita’ dell’imputato dalla correlazione logica di una serie di elementi fattuali di indubbia pregnanza dimostrativa, cio’ in sintonia con il costante orientamento della giurisprudenza di legittimita’ (cfr. Sez. 3, n. 7078 del 23/01/2013, Rv. 254853), secondo cui le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per se’ fonte di prova della commissione del reato, assumono tuttavia il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente a elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa, come e’ appunto avvenuto nell’odierna vicenda processuale, non avendo l’accertamento induttivo costituito l’unico presupposto ai fini della ritenuta sussistenza del reato contestato.
In ogni caso, i giudici di merito non hanno mancato di confrontarsi con le deduzioni difensive, in particolare con le considerazioni della consulente della difesa (OMISSIS), osservando che non poteva ritenersi condivisibile, anche perche’ non adeguatamente provata, la tesi difensiva secondo cui dovevano considerarsi costi di produzione del reddito il 50% degli utilizzi di carte di creduti e il 50% dei prelievi in contanti, dovendosi ritenere, in mancanza di eventuali allegazioni contrarie, nel caso di specie mancanti, che un’entrata di denaro sul conto sia frutto di attivita’ lavorativa, non avendo trovato conforto probatorio neanche l’ulteriore affermazione secondo cui l’incasso di alcune somme avveniva per conto di alcuni clienti, difettando le relative autorizzazioni degli interessati. Peraltro, il Tribunale, con valutazione condivisa dalla Corte di appello, alla luce di talune univoche acquisizioni documentali di cui si e’ correttamente tenuto conto, ha ridimensionato l’entita’ dei profitti transitati annualmente sui conti correnti, osservando che, rispetto al 2010, dalla somma di Euro 1.456.860, dovevano sottrarsi gli importi di Euro 20.000 per un assegno depositato ma stornato e di Euro 82.000 per un sostanziale giroconto, per cui il reddito e’ stato ridotto a Euro 1.354.860; analogamente, il reddito del 2011 e’ stato rideterminato in Euro 1.166.033,86 poiche’ dall’ammontare rilevato di Euro 1.330.033,86 sono stati sottratti Euro 114.000, relativi ad assegni versati ma poi stornati perche’ insoluti, ed Euro 50.000, frutto di un giroconto tra due conti; infine, quanto al 2012, l’imponibile per redditi e’ risultato pari a Euro 899.969,91, essendo stati sottratti dall’importo iniziale di Euro 1.013.469,91 le somme di Euro 41.000, relativi a un assegno stornato come insoluto e di Euro 72.500 relativi a giroconti, risultando in ogni caso superate le relative soglie di punibilita’, mentre, nell’ordinare la confisca per equivalente, il giudice monocratico ha demandato all’Amministrazione competente il compito d rideterminare il valore del debito tributario, alla luce dell’importo dei redditi annuali rideterminati in motivazione.
Le deduzioni difensive sono state dunque prese in considerazione dai giudici di merito, solo laddove siano state supportate da idonee allegazioni documentali, mentre sono state coerentemente disattese le valutazioni meramente assertive circa la ricostruzione alternativa delle restanti movimentazioni dei conti correnti, legittimamente interpretate, secondo criteri non illogici, alla luce dei molteplici dati fattuali disponibili circa l’attivita’ professionale svolta dal ricorrente in Italia.
2. Parimenti immune da censure risulta il rigetto dell’eccezione difensiva relativa all’asserita violazione del divieto di doppia imposizione fiscale convenzionalmente ratificato tra Italia e Svizzera, avendo i giudici di merito operato un pertinente richiamo alla condivisa affermazione di questa Corte (cfr. in termini cfr. Sez. 3, n. 37849 del 29/03/2017 Rv. 270739), in forza della quale, in tema di reati tributari, ai sensi del combinato disposto del Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, articolo 2 e dell’articolo 43 c.c., e’ obbligato a presentare una delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto colui che ha la residenza fiscale in Italia, per tale dovendosi intendere anche chi, pur risiedendo all’estero, stabilisca in Italia, per la maggior parte del periodo d’imposta, il suo domicilio, inteso come la sede principale degli affari ed interessi economici, nonche’ delle relazioni personali.
In applicazione di tale premessa ermeneutica, i giudici di merito hanno rimarcato la circostanza che (OMISSIS) ha evitato di denunciare in Svizzera i redditi da lui prodotti in Italia, non essendo peraltro provato che l’imputato abbia pagato le sue tasse in Svizzera, essendo stati allegati non i pagamenti, ma le sole richieste di versamento delle imposte da parte dell’Ufficio circondariale di tassazione.
In ogni caso, sia il Tribunale che la Corte di appello hanno osservato che la residenza in Svizzera del ricorrente era legata piu’ ad aspetti formali che sostanziali, deponendo tutti gli elementi probatori prima indicati nel senso di collegare l’attivita’ professionale di (OMISSIS) esclusivamente all’Italia, tanto che il Comune indicato quale residenza in Svizzera, (OMISSIS), e’ molto vicino al confine italiano e ai luoghi frequentati dall’imputato per esigenze professionali e familiari e che non sono state provate movimentazioni su conti correnti elvetici.
In definitiva, in quanto sorretta da argomentazioni razionale, fondate a loro volta su una disamina coerente e non frammentaria delle fonti dimostrative disponibili, la motivazione delle sentenze di merito resiste alle obiezioni difensive, che invero prospettano sostanzialmente una valutazione alternativa del materiale probatorio non consentita in questa sede, e cio’ senza considerare che tardivamente (cioe’ con la memoria del 23 maggio 2019) la difesa ha posto rimedio alle lacune di allegazione dell’originario ricorso, contraddistinto da seri limiti di autosufficienza nel richiamo a prove documentali il cui contenuto non era stato riportato.
Di qui l’infondatezza dei primi due motivi di ricorso relativi alla formulazione del giudizio di colpevolezza dell’imputato.
3. Venendo infine al motivo riguardante il diniego delle attenuanti generiche, deve rilevarsi che, anche rispetto a questo profilo, il percorso motivazionale delle sentenze di merito non presta il fianco alle censure difensive.
In proposito occorre premettere che, secondo il costante orientamento di questa Corte (cfr. Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269), in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione e’ insindacabile in sede di legittimita’, purche’ sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’articolo 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione.
E’ stato inoltre precisato (cfr. ex multis Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv. 259899) che, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non e’ necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma e’ sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione.
Orbene, in applicazione di tale premessa interpretativa, deve ritenersi non configurabile il difetto di motivazione lamentato dalla difesa, avendo i giudici di merito ragionevolmente rimarcato, in senso ostativo al riconoscimento delle attenuanti generiche, il comportamento elusivo dell’imputato, finalizzato a una evasione fiscale sistematica e di grande consistenza, non essendo di contro emersi concreti elementi suscettibili di essere apprezzati positivamente, non potendosi qualificare come tale la risalenza nel tempo dell’unico ma significativo precedente penale a carico di (OMISSIS), concernente l’attivita’ di riciclaggio.
Non puo’ sottacersi comunque che la pena base e’ stata fissata dal giudice di primo grado in misura pari al minimo edittale (anni 1 di reclusione), con aumenti contenuti (6 mesi) per ciascun reato in continuazione, per cui non puo’ affermarsi che il trattamento sanzionatorio sia stato ispirato da criteri di particolare rigore.
2. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto nell’interesse di (OMISSIS) deve essere rigettato, con conseguente onere per il ricorrente, ex articolo 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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