In pendenza di un procedimento penale che riguarda un proprio dipendente

Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza 19 marzo 2019, n. 7657.

La massima estrapolata:

In pendenza di un procedimento penale che riguarda un proprio dipendente, le pubbliche amministrazioni hanno la facoltà di disporne la sospensione cautelare dal servizio. Si tratta di una facoltà espressione del potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro, che trova il suo fondamento nell’articolo 97 della Costituzione e che è concessa per garantire l’efficienza e l’imparzialità della Pa.

Sentenza 19 marzo 2019, n. 7657

Data udienza 13 febbraio 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 20695-2013 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
REGIONE CAMPANIA;
– intimata –
avverso la sentenza n. 1001/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata l’11/03/2013, R.G.N. 4954/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/02/2019 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per accoglimento parziale del terzo motivo, rigetto nel resto;
udito l’Avvocato (OMISSIS).

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Napoli ha respinto l’appello di (OMISSIS) avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato la domanda, proposta nei confronti della Regione Campania, volta ad ottenere la condanna dell’ente convenuto al pagamento delle differenze fra il trattamento retributivo dovuto in relazione alla qualifica ricoperta e l’assegno alimentare corrisposto durante la sospensione cautelare dal servizio, protrattasi dal 27 maggio 1994 al 26 maggio 2003 in pendenza di procedimento penale.
2. La Corte, rilevato che per il periodo antecedente al 1 luglio 1998 era passata in giudicato la statuizione di primo grado che aveva dichiarato il difetto di giurisdizione, ha premesso in punto di fatto che il (OMISSIS), era stato sospeso dal servizio ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957, articoli 91 e 92 con delibera della Giunta Regionale del 27 maggio 1994. I processi penali avviati a suo carico erano stati definiti con sentenza del Tribunale di Napoli n. 3103/1999, di estinzione del reato per prescrizione, e con sentenza n. 31402/2003, con la quale la Corte di Cassazione l’aveva assolto da altro titolo di reato. Aveva, quindi, domandato la riammissione in servizio e l’istanza era stata accolta dall’amministrazione che, pero’, aveva rigettato la richiesta di restitutio in integrum.
3. Il giudice d’appello ha ritenuto che correttamente il primo giudice aveva “evidenziato il difetto di un comportamento collaborativo del dipendente, il quale non aveva notiziato tempestivamente l’amministrazione della causa di cessazione della sospensione, cioe’ l’emissione della sentenza del Tribunale di Napoli (con cui era stato dichiarato estinto il reato per prescrizione), sebbene divenuta irrevocabile sin dal 25.11.1999”. Ne ha tratto la conseguenza che non poteva essere imputata “alla sola Amministrazione la mancata corresponsione della retribuzione, stante la concorrente inerzia del lavoratore nel comunicare il venir meno dell’ostacolo al regolare svolgimento del rapporto e nell’offrire la propria prestazione sinallagmatica”.
4. Quanto poi all’istanza del 27 aprile 1995, con cui il (OMISSIS) aveva richiesto la riammissione in servizio per cessazione della misura cautelare, la Corte ha evidenziato che si trattava di un fatto non prospettato in primo grado ne’ tempestivamente documentato in quella fase processuale e che comunque negli anni successivi e fino al 2003 il ricorrente aveva tenuto un comportamento concludente incompatibile con la richiesta, non avendo coltivato in alcun modo l’istanza.
5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso (OMISSIS) sulla base di un unico motivo, articolato in piu’ punti, al quale la Regione Campania non ha opposto difese, rimanendo intimata.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso denuncia con un unico motivo, formulato ex articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5 ed articolato in una pluralita’ di censure, “violazione e/o falsa applicazione articoli 112 e 437 c.p.c.; nonche’: Decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957, articolo 97, comma 3 e 4; nonche’: articolo 24 e articolo 27, comma 8, CCNL enti locali; nonche’: articolo 97 Cost., comma 1, L. n. 241 del 1990, articolo 1; motivazione insufficiente e contraddittoria circa un fatto decisivo per il giudizio”. Il ricorrente addebita innanzitutto alla Corte territoriale di avere erroneamente ritenuto nuova e inammissibile la prospettazione relativa alla costituzione in mora dell’Amministrazione, avvenuta con l’istanza del 27 aprile 1995. Richiama giurisprudenza di questa Corte per sostenere che, al contrario, doveva essere ammessa la produzione documentale, perche’ nel rito del lavoro e’ consentita al giudice d’appello l’acquisizione di documenti, allorquando gli stessi siano indispensabili ai fini della decisione della causa.
1.1. Aggiunge che, in ogni caso, non poteva essere ritenuta tardiva l’istanza di riammissione in servizio dell’agosto 2003, in quanto la sospensione facoltativa era stata disposta in relazione alla pendenza di piu’ procedimenti penali e solo il 6 giugno 2003 la Corte di Cassazione aveva definito il processo iniziato dinanzi al Tribunale di Salerno, assolvendo l’imputato dal reato ascrittogli per insussistenza del fatto.
1.2. Addebita, inoltre, al giudice d’appello di avere violato il Decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957, articolo 97, commi 3 e 4, e l’articolo 24 del CCNL 1995 per il personale del comparto degli enti locali e rileva che il datore di lavoro pubblico e’ tenuto ad attivare il procedimento disciplinare nel rispetto dei termini perentori previsti dal legislatore e dalla contrattazione collettiva, sicche’ la mancata attivazione non puo’ certo essere addebitata al dipendente e legittima la richiesta di restitutio in integrum.
Sottolinea al riguardo che “in virtu’ dei principi costituzionali di legalita’ dell’azione amministrativa e di buon andamento che presiede all’organizzazione, nonche’ all’attivita’ degli uffici amministrativi (articolo 97 Cost.), deve assumersi, da un alto, che l’amministrazione di appartenenza debba attivarsi ai fini del tempestivo esercizio dell’azione disciplinare e non possa far ricadere sul dipendente le conseguenze della propria inerzia; dall’altro, che l’amministrazione della giustizia sia tenuta a trasmettere alla prima la notizia dell’irrevocabilita’ delle sentenze di proscioglimento, cio’ proprio nello stesso interesse della stessa titolare del potere-dovere di esercizio dell’azione disciplinare”.
2. La prima censura e’ inammissibile, perche’ non coglie l’effettiva ratio della decisione e, quindi, svolge argomentazioni non specificamente riferibili al decisum.
La Corte territoriale, infatti, non ha escluso la decisivita’ della documentazione tardivamente prodotta in grado di appello ne’ ha ritenuto che nel rito del lavoro debba essere in ogni caso negata la possibilita’ di un’integrazione istruttoria in sede di impugnazione, avendo, invece, affermato, che detta integrazione non puo’ mai essere finalizzata ad “ampliare la materia del contendere introducendo un elemento nuovo del tutto estraneo al contraddittorio”, evenienza, questa, verificatasi nella fattispecie, in quanto il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado non faceva cenno ad un’offerta della prestazione lavorativa, antecedente all’atto di messa in mora del 2003.
La pronuncia gravata e’ conforme sul punto all’orientamento consolidato di questa Corte secondo cui nel rito del lavoro, poiche’ occorre contemperare il principio dispositivo con quello di verita’, il deposito in appello di documenti non prodotti in prime cure non e’ oggetto di preclusione assoluta ed “il giudice puo’ ammettere, anche d’ufficio, detti documenti ove li ritenga indispensabili ai fini della decisione, in quanto idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, purche’ allegati nell’atto introduttivo, seppure implicitamente, e sempre che sussistano significative “piste probatorie” emergenti dai mezzi istruttori, intese come complessivo materiale probatorio, anche documentale, correttamente acquisito agli atti del giudizio di primo grado” (Cass. n. 11845/2018). L’acquisizione non e’, invece, consentita allorquando la stessa sia finalizzata ad ampliare il thema probandum in relazione a fatti non allegati nel giudizio di primo grado e non oggetto in quella sede di contraddittorio fra le parti (cfr. fra le tante Cass. n. 9226/2018; Cass. n. 23652/2016).
Il ricorso fa leva sull’efficacia dimostrativa della produzione e sulla necessita’ di scongiurare il contrasto tra decisione e verita’ materiale, ma non svolge argomenti idonei a contrastare la ritenuta novita’ dell’allegazione del fatto, sufficiente ad escludere l’ammissibilita’ della produzione.
3. E’ invece fondata la censura con la quale si assume che il diritto alla restitutio in integrum, in relazione al periodo di sospensione facoltativa, non poteva essere negato a fronte della pacifica mancata riattivazione del procedimento disciplinare, dopo la definizione di quello penale.
Questa Corte e’ stata piu’ volte chiamata a pronunciare sulla natura della sospensione cautelare (fra le piu’ recenti Cass. nn. 5147/2013, 15941/2013, 26287/2013, 13160/2015, 9304/2017, 18849/2017, 10137/2018, 20708/2018) e, in linea con i principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale, ha evidenziato che la sospensione, in quanto misura cautelare e interinale, “ha il carattere della provvisorieta’ e della rivedibilita’, nel senso che solo al termine e secondo l’esito del procedimento disciplinare si potra’ stabilire se la sospensione preventiva applicata resti giustificata e debba sfociare nella destituzione o nella retrocessione, ovvero debba venire caducata a tutti gli effetti” (Corte Cost. 6.2. 1973 n. 168).
Si e’ sottolineato in relazione alla sospensione facoltativa che la stessa e’ solo finalizzata a impedire che, in pendenza di procedimento penale, la permanenza in servizio del dipendente inquisito possa pregiudicare l’immagine e il prestigio dell’amministrazione di appartenenza, la quale, quindi, e’ tenuta a valutare se nel caso concreto la gravita’ delle condotte per le quali si procede giustifichi l’immediato allontanamento dell’impiegato.
Ove l’amministrazione, valutati i contrapposti interessi in gioco, opti per la sospensione, in difetto di una diversa espressa previsione di legge o di contratto, opera il principio generale secondo cui “quando la mancata prestazione dipenda dall’iniziativa del datore di lavoro grava su quest’ultimo soggetto l’alea conseguente all’accertamento della ragione che ha giustificato la sospensione” (Corte Cost. n. 168/1973).
La verifica dell’effettiva sussistenza di ragioni idonee a giustificare l’immediato allontanamento e’ indissolubilmente legata all’esito del procedimento disciplinare, perche’ solo qualora quest’ultimo si concluda validamente con una sanzione di carattere espulsivo potra’ dirsi giustificata la scelta del datore di lavoro di sospendere il rapporto, in attesa dell’accertamento della responsabilita’ penale e disciplinare.
Sulla base di detti principi il diritto alla restitutio in integrum e’ stato riconosciuto nell’ipotesi di annullamento della sanzione inflitta (Cass. n. 26287/2013), di mancata conclusione del procedimento disciplinare a causa del decesso del dipendente (Cass. n. 13160/2015), di irrogazione di una sanzione meno afflittivi rispetto alla sospensione cautelare sofferta (Cass. nn. 5147/2013 e 9304/2017), di omessa riattivazione del procedimento in conseguenza delle dimissioni (Cass. n. 20708/2018) o del pensionamento (Cass. n. 18849/2017) e cio’ a prescindere dalla espressa previsione della legge o della contrattazione collettiva.
3.1. Alle medesime conclusioni e’ pervenuta la giurisprudenza amministrativa nel suo massimo consesso (Cons. Stato Ad. Plen. 28.2.2002 n. 2) che, evidenziata la necessita’ di interpretare il Decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957, articoli 96 e 97 alla luce dei principi affermati dalla Corte Costituzionale sulla natura della sospensione, ha ritenuto che in caso di omissione del procedimento disciplinare, anche l’eventuale condanna penale, intervenuta nei confronti dell’impiegato, non e’ suscettibile di tenere ferma la sospensione cautelare dal servizio, disposta in corso di procedimento penale e stabilita dall’amministrazione in via discrezionale, non potendosi ammettere una conversione della misura in una sanzione di identico contenuto.
Si e’ aggiunto che essendo la sospensione cautelare dal servizio adottata in base ad una valutazione discrezionale dell’Amministrazione (con eccezione della ipotesi della emissione del mandato o ordine di cattura nei confronti del dipendente) non e’ corretto ritenere la non imputabilita’ dell’interruzione del rapporto sinallagmatico all’Amministrazione medesima, posto che e’ la stessa Amministrazione che valuta i presupposti per l’adozione della misura e ne determina i contenuti. Quando poi nella sede propria degli accertamenti definitivi emerga che la sospensione non era giustificata, in tutto o in parte, non puo’ essere addebitabile al dipendente l’interruzione del rapporto di servizio ed il mancato adempimento della prestazione (Cons. Stato Ad. plen. 2.5.2002 n. 4).
3.2. Ai richiamati principi, qui ribaditi perche’ condivisi dal Collegio, si deve aggiungere che il diritto alla restitutio in integrum ha natura retributiva e non risarcitoria.
Il potere del datore di lavoro di estromettere temporaneamente dall’azienda o dall’ufficio il dipendente sottoposto a procedimento penale e’ espressione del generale potere organizzativo e direttivo e trova fondamento costituzionale, quanto all’impiego privato, nell’articolo 41 Cost. e in relazione all’impiego pubblico nell’articolo 97 Cost., perche’ finalizzato a garantire, in pendenza del procedimento penale, la corretta gestione dell’impresa o l’efficienza e l’imparzialita’ della Pubblica Amministrazione.
La misura cautelare, per il suo carattere unilaterale, non fa venir meno l’obbligazione retributiva che, nei casi in cui la stessa sia oggetto di disciplina da parte della legge o della contrattazione collettiva, e’ solo in tutto o in parte sospesa ed e’ sottoposta alla condizione dell’accertamento della responsabilita’ disciplinare del dipendente.
Solo qualora il procedimento si concluda sfavorevolmente per il dipendente con la sanzione del licenziamento, il diritto alla retribuzione viene definitivamente meno, in quanto gli effetti della sanzione retroagiscono al momento dell’adozione della misura cautelare; viceversa qualora la sanzione non venga inflitta o ne sia irrogata una di natura tale da non giustificare la sospensione sofferta, il rapporto riprende il suo corso dal momento in cui e’ stato sospeso, con obbligo per il datore di lavoro di corrispondere le retribuzioni arretrate, dalle quali dovranno essere detratte solo quelle relative al periodo di privazione della liberta’ personale perche’ in tal caso, anche in assenza dell’atto datoriale, il dipendente non sarebbe stato in grado di rendere la prestazione.
3.3. Occorre ancora aggiungere che il legislatore, prima, e le parti collettive, poi, nel prevedere la tempestiva riattivazione del procedimento disciplinare, all’esito della definizione di quello penale che ha dato causa alla misura cautelare, ha posto un preciso onere a carico delle amministrazioni, che, una volta fatto ricorso alla misura cautelare, non possono rimanere inerti e devono sollecitamente adottare tutte le iniziative necessarie a consentire una tempestiva ripresa del procedimento.
I rapporti fra processo penale e procedimento disciplinare nell’impiego pubblico contrattualizzato nel tempo sono stati disciplinati dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957, articolo 97, dalla contrattazione collettiva, dalla L. n. 97 del 2001, dall’articolo 55 ter del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, inserito dal Decreto Legislativo n. 150 del 2009 e recentemente modificato dal Decreto Legislativo n. 75 del 2017. Il legislatore, al fine di consentire alle Pubbliche Amministrazioni di avere tempestiva notizia dei processi penali avviati a carico di dipendenti pubblici e del loro esito, ha imposto precisi oneri di comunicazione a carico del Pubblico Ministero (articolo 129 disp. att. c.p.p.) e della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento (articolo 154 ter disp. att. c.p.p.) e con l’articolo 97 aveva anche attribuito all’impiegato pubblico il potere di far decorrere termini sensibilmente ridotti per la riattivazione, provvedendo egli alla notifica della sentenza stessa all’amministrazione.
Ne’ il legislatore nei diversi interventi normativi ne’, tanto meno, le parti collettive hanno mai previsto a carico del dipendente sottoposto a processo penale e sospeso dal servizio, un obbligo di collaborazione e un dovere di comunicazione delle sentenze penali, a prescindere dalla natura e dal contenuto di dette decisioni.
Ha osservato al riguardo la Corte Costituzionale che la facolta’ concessa all’impiegato di attivarsi per far cessare lo stato di sospensione non puo’ essere trasformata in un obbligo o in un onere, “peraltro a rischio di colui a carico del quale tale onere verrebbe imposto, di sollecitare l’apertura o la prosecuzione del procedimento stesso che potrebbe risolversi in senso a lui sfavorevole. Non sarebbe difatti ragionevole che, per far cessare una situazione di incertezza che il legislatore ha ancorato al trascorrere di un termine congruo, si debba accollare, a colui che ha un interesse addirittura contrapposto all’esercizio del potere disciplinare, l’onere di sollecitarlo, tenuto conto che l’ordinamento, per esigenze di certezza del tutto analoghe, gia’ conosce ipotesi, come quelle attinenti alla prescrizione di reati, nelle quali l’estinzione del potere punitivo in relazione al mero trascorrere del tempo non e’ subordinata ad alcun onere da parte del soggetto che ne beneficia, ne’, tantomeno, alla conoscibilita’ del fatto illecito” (Corte Cost. n. 264/1990).
3.5. Ai principi di diritto sopra richiamati non si e’ attenuta la Corte territoriale che, come evidenziato nello storico di lite, ha ritenuto di dover respingere la domanda per il solo fatto che il (OMISSIS) non avesse tempestivamente notiziato l’amministrazione dell’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza n. 3103/1999, con la quale il Tribunale di Napoli aveva dichiarato estinto per prescrizione uno dei reati in relazione ai quali la sospensione dal servizio era stata disposta.
La sentenza impugnata va, pertanto, cassata in relazione alle censure accolte, con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo, che procedera’ ad un nuovo esame, limitatamente alla pretesa retributiva fatta valere per il periodo successivo al 30 giugno 1998, attenendosi ai principi di diritto richiamati nei punti che precedono e che di seguito si sintetizzano: “nell’impiego pubblico contrattualizzato la sospensione facoltativa del dipendente sottoposto a procedimento penale, in quanto misura cautelare e interinale, diviene priva di titolo qualora all’esito del procedimento penale quello disciplinare non venga attivato. Il diritto del dipendente alla restitutio in integrum, che ha natura retributiva e non risarcitoria, sorge ogniqualvolta la sanzione non venga inflitta o ne sia irrogata una di natura ed entita’ tali da non giustificare la sospensione sofferta. L’onere di attivarsi per consentire la tempestiva ripresa del procedimento disciplinare, una volta definito quello penale, grava sull’amministrazione e non sul dipendente pubblico, sicche’ non rileva, ne’ puo’ fare escludere il diritto al pagamento delle retribuzioni non corrisposte durante il periodo di sospensione facoltativa, la circostanza che l’incolpato non abbia tempestivamente comunicato al datore di lavoro la sentenza passato in giudicato di definizione del processo penale pregiudicante”.
Al giudice del rinvio e’ demandato anche il regolamento delle spese del giudizio di legittimita’.
L’accoglimento del ricorso rende inapplicabile il Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, alla quale demanda anche il regolamento delle spese del giudizio di legittimita’.

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