In materia di bancarotta fraudolenta patrimoniale

Corte di Cassazione, sezione quinta penale, Sentenza 5 giugno 2020, n. 17228.

Massima estrapolata:

In materia di bancarotta fraudolenta patrimoniale, la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita è desumibile dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della loro destinazione, tuttavia il giudice non può ignorare l’affermazione dell’imputato di aver impiegato tali beni per finalità aziendali o di averli restituiti all’avente diritto, in assenza di una chiara smentita emergente dagli elementi probatori acquisiti, quando le informazioni fornite alla curatela, al fine di consentire il rinvenimento dei beni potenzialmente distratti, siano specifiche e consentano il recupero degli stessi ovvero l’individuazione della effettiva destinazione. (In applicazione del principio la Corte ha ritenuto che non possa valere a superare l’inversione dell’onere della prova della distrazione di beni mobili a carico del fallito l’indicazione generica della loro ubicazione che non ne consenta l’esatta individuazione).

Sentenza 5 giugno 2020, n. 17228

Data udienza 17 gennaio 2020

Tag – parola chiave: Reati fallimentari – Bancarotta fraudolenta – Distrazione – Imprenditore individuale – Fallimento – Patrimonio del fallito e patrimonio della ditta fallita – Confluiscono entrambi a formare la garanzia dei creditori – Trattamento sanzionatorio – Pena accessoria ex art.216 l.fall. – Durata – Illegittimità – Sentenza Corte Cost.n.222/2018 – Rideterminazione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE GREGORIO Eduardo – Presidente

Dott. BELMONTE Maria T. – Consigliere

Dott. ROMANO Michele – Consigliere

Dott. BRANCACCIO Matilde – rel. Consigliere

Dott. RICCARDI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 06/11/2018 della CORTE APPELLO di CATANZARO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere BRANCACCIO MATILDE;
udito il Sostituto Procuratore Generale MIGNOLO OLGA che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio limitatamente alla pena accessoria; l’inammissibilita’ nel resto del ricorso.
Udito il difensore, avv. (OMISSIS), che si riporta integralmente ai motivi di ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la decisione impugnata, la Corte d’Appello di Catanzaro, in parziale riforma della sentenza emessa il 12.4.2016 dal Tribunale di Cosenza, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di (OMISSIS) per il reato ascrittogli al capo B (bancarotta semplice documentale), rideterminando la pena per la residua imputazione di bancarotta fraudolenta per distrazione, inflittagli nella sua qualita’ di titolare della ditta individuale fallita “(OMISSIS)” e confermando nel resto la sentenza, in particolare, per quel che interessa in questa sede, le pene accessorie applicate ai sensi della L.Fall., articolo 216, u.c., nella misura fissa decennale, poi dichiarata incostituzionale con sentenza n. 222 del 2018.
2. Avverso la pronuncia propone ricorso l’imputato tramite il difensore, avv. (OMISSIS), deducendo due motivi di ricorso.
2.1. Con il primo si argomenta violazione di legge e vizio di motivazione manifestamente illogica in relazione all’affermazione di responsabilita’ per il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, nonche’ violazione dell’articolo 192 c.p.p.. Si e’ qualificata come distrattiva l’emissione di autofatture rappresentative di un negozio di cessione intervenuto tra la ditta individuale (OMISSIS) di (OMISSIS) e quest’ultimo, aventi ad oggetto alcuni beni mobili di proprieta’ della ditta individuale fallita, laddove, invece, in una simile ipotesi, difetta l’elemento materiale del reato, non essendo il soggetto cessionario “terzo” rispetto alla fallita ma lo stessa persona fisica titolare dell’impresa individuale fallita. Non si puo’ operare, infatti, alcuna distinzione tra il patrimonio personale e quello dell’impresa individuale, aderendo al principio di confusione dei patrimoni, sicche’ non e’ possibile ipotizzare che i beni ceduti siano stati sottratti alla garanzia dei creditori.
Inoltre, tali beni non potevano ritenersi sottratti in ragione del loro mancato ritrovamento, poiche’ il fallito ha indicato dove si trovavano e la loro destinazione (un altro negozio di sua proprieta’ a Corigliano, sicche’ sarebbe stato onere del giudicante accertare tale circostanza specifica dedotta dal ricorrente (sulla base della giurisprudenza di legittimita’ che si richiama nel ricorso: Sez. 5, n. 19896 del 2014).
Si evidenzia, altresi’, che la diversa destinazione di tali beni che ne faccia l’imprenditore individuale fallito non implica distrazione o dispersione di essi, poiche’ gli stessi rimangono pur sempre nella disponibilita’ del suo patrimonio e, quindi, costituiscono garanzia per i creditori.
Non sarebbe stata motivata, peraltro, dalla Corte d’Appello la concreta pericolosita’ del fatto distrattivo, soprattutto nel rapporto tra l’esiguita’ degli importi distratti e l’imponente massa attiva acquisita dopo la dichiarazione di fallimento e per la mancanza di indici di fraudolenza, individuati secondo la recente giurisprudenza di legittimita’.
2.2. Il secondo motivo di ricorso deduce l’illegittimita’ delle pene accessorie fallimentari applicate e confermate dai giudici d’appello, nonostante non siano state determinate secondo i parametri di cui all’articolo 133 c.p..

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso e’ infondato, ai limiti dell’inammissibilita’, quanto al primo motivo, mentre e’ fondato avuto riguardo alla questione dedotta relativamente alla determinazione della pena accessoria L.Fall., ex articolo 216, u.c..
2. Il primo motivo ripropone, per la gran parte, le ragioni dell’impugnazione di merito, cui la Corte d’Appello ha risposto in maniera esaustiva, convincente e logica, ne’, per altra parte, si confronta realmente con alcuni degli argomenti centrali della motivazione del provvedimento impugnato.
In particolare, quanto all’eccezione sull’impossibilita’ di configurare l’elemento oggettivo del reato di bancarotta fraudolenta distrattiva, nel caso in cui l’imprenditore individuale fallito abbia ceduto beni al suo patrimonio personale e li abbia impiegati in una diversa sua attivita’, deve sottolinearsi come essa sia mal posta, rispetto alla sentenza impugnata.
E difatti, al di la’ della questione in astratto, che sottende il principio secondo cui il patrimonio del fallito imprenditore individuale e quello della ditta individuale fallita confluiscono entrambi a formare la garanzia dei creditori, la Corte d’Appello ha chiarito come i beni mobili ceduti e autofatturati dal ricorrente non siano stati rinvenuti nell’attivo patrimoniale (cfr. pag. 5 della sentenza) e al riguardo non e’ invocabile il principio dettato dalla pronuncia Sez. 5, n. 19896 del 7/3/2014, Ranon, Rv. 259848, secondo cui il giudice non puo’ ignorare l’affermazione dell’imputato di aver impiegato i beni per finalita’ aziendali o di averli restituiti all’avente diritto, in assenza di smentite emergenti dagli elementi probatori acquisiti, sia perche’ il principio e’ dettato in una fattispecie societaria ed in relazione a beni in leasing di per se’ soli tracciabili e non di beni mobili, sia perche’ il principio deve essere meglio precisato nel senso che le informazioni che il fallito deve dare alla curatela e, conseguentemente, al giudice, al fine di consentire il rinvenimento dei beni che potrebbero essere stati potenzialmente distratti, devono essere specifiche e far si’ che effettivamente avvenga il recupero di essi ovvero se ne conosca la sorte.
Qualora invece il fallito si limiti ad indicarne l’ubicazione non fornendo altri dettagli e si tratti di beni mobili dei quali non siano neppure ben note le indicazioni che ne consentano l’individuazione (nel caso di specie, si trattava di quadri, tappeti ed altro) ovvero se detti beni si trovino o meno in locali nella disponibilita’ patrimoniale del fallito, la loro mera indicazione non puo’ certo valere a superare la prova della distrazione derivante dalla mancata dimostrazione della destinazione dei beni non rinvenuti.
Costituisce giurisprudenza pacifica, infatti, quella che ritiene la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della societa’ dichiarata fallita desumibile dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della destinazione dei beni suddetti, poiche’ la responsabilita’ dell’imprenditore per la conservazione della garanzia patrimoniale verso i creditori e l’obbligo di verita’, penalmente sanzionato, gravante L.Fall., ex articolo 87, sul fallito interpellato dal curatore circa la destinazione dei beni dell’impresa, giustificano l’apparente inversione dell’onere della prova a carico dell’amministratore della societa’ fallita, in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali o del loro ricavato (Sez. 5, n. 8260 del 22/9/2015, Aucello, Rv. 267710; Sez. 5, n. 11095 del 13/2/2014, Ghirardelli, Rv. 263740; Sez. 5, n. 22894 del 17/4/2014, Zanettin, Rv. 255385; Sez. 5, n. 7048 del 27/11/2008, dep. 2009, Bianchini, Rv. 243295).
2.1. Il ricorso, peraltro, e’ anche in parte generico sul punto poiche’ non spiega se i beni indicati (benche’ in modo impreciso) fossero recuperabili senza la diretta collaborazione del ricorrente; se il negozio presso cui sarebbero stati utilizzati tali beni rientrasse o meno nel perimetro del fallimento, ne’ spiega infine per quale motivo egli non li abbia messi a disposizione del curatore, come pure sarebbe stato suo dovere.
In ogni caso, il ricorrente si concentra su uno solo degli aspetti della distrazione, dimenticando gli altri oggetto di contestazione e ritenuti pienamente provati dalla sentenza di primo grado, non impugnata sui punti relativi in appello, cui si richiama la Corte d’Appello e che con tale pronuncia forma una doppia sentenza conforme.
3. Il secondo motivo e’ fondato.
Deve rammentarsi, infatti, che la sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 5 dicembre 2018 ha dichiarato l’incostituzionalita’ della durata fissa delle pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacita’ ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, prevista ex lege in dieci anni dalla L.Fall., articolo 216, u.c., in relazione alle ipotesi di condanna relativa ai reati di bancarotta fraudolenta ed ha rimodulato, con la suddetta sentenza manipolativa sostitutiva, la formula normativa con il disposto “fino a dieci anni”.
Pertanto, la sanzione accessoria inflitta al ricorrente sulla base di tale disciplina incostituzionale nella misura massima fissa all’epoca prevista e’ illegale poiche’ determinata sulla base di limiti edittali dichiarati incostituzionali (Sez. U, n. 33040 del 26/2/2015, Jazouli, Rv. 264205).
L’annullamento di tale pena accessoria illegale deve essere operato con rinvio, spettando al giudice di merito la valutazione dei parametri fattuali ai quali ancorare la determinazione della misura della sanzione accessoria, commisurandola ai criteri indicati dall’articolo 133 c.p., in ossequio alle indicazioni delle Sezioni Unite che, con la sentenza Sez. U, n. 28910 del 28/2/2019, Suraci, Rv. 276286, proprio in relazione al caso delle pene accessorie decennali previste per i reati di bancarotta fraudolenta dichiarate incostituzionali dalla sentenza n. 222 del 2018 Corte Cost., hanno cosi’ disposto, risolvendo la questione del se la rimodulazione conseguente alla pronuncia di incostituzionalita’ dovesse comportare la commisurazione delle pene accessorie fisse illegali gia’ disposte alla pena principale applicata, ai sensi dell’articolo 37 c.p., ovvero la rideterminazione dovesse essere operata dal giudice, nell’ambito dei limiti edittali risultanti dalla nuova formulazione, in base ai criteri di cui all’articolo 133 c.p..
In generale, infatti, con un principio che travalica la materia dei soli reati fallimentari, le Sezioni Unite hanno stabilito che la durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’articolo 133 c.p., e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex articolo 37 c.p..
Del resto, la stessa Corte costituzionale con a sentenza n. 222 del 2018 aveva tracciato il solco per un’interpretazione che conducesse all’applicazione dei criteri previsti dall’articolo 133 c.p., per la determinazione della misura oramai non piu’ fissa delle pene accessorie della bancarotta fraudolenta.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alle pene accessorie di cui alla L.Fall., articolo 216, u.c., con rinvio per nuovo esame sul punto ad altra Sezione della Corte d’Appello di Catanzaro.
Rigetta nel resto il ricorso.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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