In materia di abusi edilizi il diniego di sanatoria

Consiglio di Stato, Sezione seconda, Sentenza 6 marzo 2020, n. 1643.

La massima estrapolata:

In materia di abusi edilizi il diniego di sanatoria, implicando una verifica di carattere vincolato circa la conformità della richiesta con la normativa urbanistico-edilizia, non necessita di altra motivazione oltre quella relativa alla rispondenza della istanza alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie vigenti al momento dell’esame della domanda e al momento di realizzazione delle opere. Tale provvedimento deve, infatti, indicare le disposizioni che si assumano ostative al rilascio del titolo e le previsioni contenute negli strumenti urbanistici, in modo da consentire all’interessato di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla regolarizzazione e al mantenimento dell’opera abusiva e di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato.

Sentenza 6 marzo 2020, n. 1643

Data udienza 25 febbraio 2020

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6762 del 2009, proposto dalla
società Po. Fr. S.r.l. (già Au. Po. di Ar. e Al. S.n. c.), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Lu. Ma. e Ma. Si., con domicilio eletto presso lo studio Lu. Ma. in Roma, via (…);
contro
Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Sp., Lo. Sp., Gi. Bo., con domicilio eletto presso l’avv. Bo. in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia Sezione Seconda n. 1940/2008, resa tra le parti, concernente l’impugnativa dei provvedimenti del Comune di (omissis) di diniego concessione in sanatoria e di rilascio di condono edilizio
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Viste le note del 24 febbraio 2020 inviate dai difensori di entrambe le parti relative alla mancata presenza personale all’udienza pubblica del 25 febbraio 2020;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 25 febbraio 2020 il Cons. Cecilia Altavista e uditi per le parti gli avvocati Ga. St. su delega di Lu. Ma.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Il Comune di (omissis) rilasciava il 2 gennaio 1977 alla Au. Po. licenza edilizia per la realizzazione di un capannone ad uso officina carrozzeria; il capannone è stato successivamente ampliato in forza della licenza edilizia del 12 luglio 1977 e di successive concessioni edilizie. Con la concessione edilizia del 13 dicembre 1984 e la successiva variante del 23 gennaio 1986 veniva realizzata anche la palazzina uffici magazzino. Con le concessioni n. 11del 26 marzo 1984 e n. 33 del 18 marzo 1985 veniva assentite varianti cd. di giacitura degli immobili.
Il 14 febbraio 1992 è stata presentata una istanza di sanatoria per modifiche interne ed esterne della palazzina uffici e del magazzino esistente.
A seguito del sopralluogo dei tecnici comunali effettuato il 14 luglio 1992 emergeva che gli immobili erano realizzati in difformità dalle concessioni edilizie precedentemente rilasciate, in quanto posti ad una distanza inferiore di 100 metri dal fiume La. mentre nelle dette concessioni erano indicati come posti ad una distanza superiore, al di fuori della fascia di rispetto del fiume.
Pertanto, con provvedimento del 10 agosto 1992, il Comune di (omissis) respingeva l’istanza di sanatoria del 14 febbraio 1992, in quanto in contrasto con l’art. 39 della legge regionale n. 51 del 1975 e con l’azzonamento in zona F3 (fascia di rispetto fluviale) del programma di fabbricazione.
Con ordinanza del 14 settembre 1992 ingiungeva la demolizione delle opere relative agli ampliamenti posti oltre il limite di 100 metri dal fiume La..
Avverso tali provvedimenti è stato proposto davanti al Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, sede di Milano, il ricorso R.G. 3699 del 1992, formulando censure di eccesso di potere per travisamento ed errata rappresentazione dei fatti e carenza di motivazione con cui si sosteneva la illegittimità dei provvedimenti in quanto le opere erano state realizzate in maniera legittima a seguito del rilascio delle concessioni, mentre con riferimento al diniego di sanatoria si trattava di modeste modifiche non incidenti sul posizionamento dell’edificio quindi irrilevanti rispetto a tale domanda; il difetto di motivazione dell’ordine di demolizione con riferimento all’interesse pubblico attuale alla demolizione.
Successivamente, il 1 marzo 1995, è stata presentata istanza di condono, ai sensi della legge 23 dicembre 1994, n. 724; nella domanda di condono si descriveva l’abuso in relazione alla porzione di laboratorio artigianale, uffici e parcheggio in zona F3, in violazione della fascia di rispetto idrica e stradale del programma di fabbricazione vigente.
Con provvedimento del 3 marzo 1998 la domanda di condono è stata respinta, sulla base dell’esistenza del vincolo di inedificabilità assoluta derivante dalla legge regionale n. 51 del 1975 e della destinazione F3 del programma di fabbricazione.
Avverso il diniego di condono del 3 marzo 1998 è stato proposto davanti Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, sede di Milano, il ricorso n. 1989 del 1998, per le seguenti censure:
-violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990 e del D.P.R. 300 del 1992 per la mancanza di partecipazione al procedimento;
-violazione e falsa applicazione dell’art. 4 della legge n. 241 del 1990 e dell’art. 4 della legge n. 493 del 1993, come sostituito dalla legge n. 662 del 1996; violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, essendo mancata qualsiasi attività istruttoria del responsabile del procedimento;
-violazione dell’art. 51 della legge n. 142 del 1990 e dell’art. 26 dello Statuto del Comune di (omissis) per la mancanza del parere del Segretario comunale;
-violazione e falsa applicazione dell’art. 4 della legge n. 241 del 1990 e dell’art. 4 della legge n. 493 del 1993, come sostituito dalla legge n. 662 del 1996; violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, per la mancanza del parere della Commissione edilizia;
-violazione dell’art. 31 della legge n. 47 del 1985, eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento dei fatti, contraddittorietà, trattandosi di opere realizzate in forza di concessioni edilizie, quindi legittime;
-violazione e falsa applicazione degli articoli 39 della legge n. 724 del 1994, 32 e 33 della legge n. 47 del 1985, dell’art. 39 della legge regionale n. 51 del 1975, del programma di fabbricazione; eccesso di potere per difetto di istruttoria, contraddittorietà, illogicità manifesta, violazione degli articoli 39 e 43 della legge regionale n. 51 del 1975, essendo scaduti i vincoli di inedificabilità posti sulla fascia di 100 metri dal fiume La.;
-violazione dell’art. 39 della legge n. 724 del 1994 in relazione alla parte del provvedimento di diniego relativo alla presentazione di fotocopia del pagamento dell’oblazione;
Il ricorso n. 3699 del 1992 e il ricorso n. 1989 del 1998 sono stati riuniti e con sentenza n. 1940 del 2008 il ricorso n. 3699 del 1992 è stato dichiarato improcedibile, nella parte relativa al provvedimento di demolizione, in quanto l’atto impugnato aveva comunque perso efficacia a seguito delle presentazione della successiva domanda di condono; è stato respinto nella parte relativa al diniego di sanatoria; è stato respinto il ricorso n. 1989 del 1998 avverso il avverso diniego di condono del 3 marzo 1998, essendo sussistente il vincolo di inedificabilità assoluta.
Con l’atto di appello sono stati formulati i seguenti motivi:
-erroneità e contraddittorietà della motivazione, omessa pronuncia, eccesso di potere per errata rappresentazione e travisamento della situazione di fatto; violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, erroneità e falsità della motivazione; perplessità e illogicità , con cui sono stati riproposti i motivi relativi al diniego di sanatoria del 1992 ovvero sostenendo la irrilevanza del posizionamento dell’edificio rispetto alle opere oggetto della sanatoria e il difetto di motivazione del provvedimento di diniego;
– omessa pronuncia sulla illegittimità sopravvenuta del diniego di sanatoria, in quanto comunque il vincolo posto dall’art. 39 della legge regionale n. 51 del 1975 è stato successivamente abrogato dalla legge regionale n. 12 del 2005; quindi sussisterebbe solo il vincolo relativo previsto dall’art. 142 del d.lgs. n. 42 del 2004;
con riferimento al diniego di condono del 1998:
-erroneità della motivazione; violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990 e del D.P.R. 300 del 1992 sulla partecipazione al procedimento; inosservanza del principio del contraddittorio, con cui si contestano le affermazioni del giudice di primo grado circa la esclusione della comunicazione di avvio per i procedimenti di condono;
-violazione e falsa applicazione dell’art. 4 della legge n. 241 del 1990 e dell’art. 4 della legge n. 493 del 1993, come sostituito dalla legge n. 662 del 1996; violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, essendo mancata qualsiasi attività istruttoria del responsabile del procedimento;
-erroneità della motivazione con riferimento alla violazione dell’art. 51 della legge n. 142 del 1990 e dell’art. 26 dello Statuto del Comune di (omissis); violazione dell’art. 21 octies della legge n. 241 del 1990, con cui si è riproposta la censura relativa alla mancanza del parere del Segretario comunale contestando il riferimento da parte del giudice di primo grado alla disciplina dell’art. 21 octies della legge n. 241 del 1990, non potendo qualificarsi l’attività di diniego della sanatoria come attività vincolata;
-violazione e falsa applicazione dell’art. 4 della legge n. 241 del 1990 e dell’art. 4 della legge n. 493 del 1993, come sostituito dalla legge n. 662 del 1996; violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, con cui è stata riproposta la censura relativa alla mancanza del parere della Commissione edilizia;
-violazione dell’art. 31 della legge n. 47 del 1985, eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento dei fatti, contraddittorietà , in relazione alla legittimità delle opere realizzate in forza di concessioni edilizie;
-violazione e falsa applicazione degli articoli 39 della legge n. 724 del 1994, 32 e 33 della legge n. 47 del 1985, dell’art. 39 della legge regionale n. 51 del 1975, del programma di fabbricazione; eccesso di potere per difetto di istruttoria, contraddittorietà, illogicità manifesta, violazione degli articoli 39 e 43 della legge regionale n. 51 del 1975, con cui sono state riproposte le censure relative alla scadenza dei vincoli di inedificabilità posti sull’area di 100 metri dal fiume La., sostenendo l’erroneità della sentenza, che ha fatto applicazione dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985, mentre avrebbe dovuto essere applicato l’art. 32 della legge n. 47 del 1985, trattandosi di vincolo relativo derogabile dal parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo stesso;
-erroneità della sentenza nella parte in cui ha fatto riferimento anche ad una fascia di rispetto stradale;
-omessa pronuncia sulla illegittimità sopravvenuta del diniego di condono, con cui è stata riproposta la censura relativa alla successiva abrogazione della fascia di rispetto fluviale con l’abrogazione della legge regionale n. 51 del 1975 con la legge regionale n. 12 del 2005; quindi la fascia di rispetto sarebbe disciplinata solo dal vincolo paesaggistico relativo previsto dal d.lgs. n. 42 del 2004;
-omessa pronuncia sulle istanze istruttorie.
Sono state riprodotte tutte le censure del primo grado avverso il diniego di condono.
Si è costituito il Comune di (omissis) che, nella memoria depositata il 23 gennaio 2020, ha contestato la fondatezza dell’appello.
Entrambe le parti hanno depositato documentazione nel giudizio di appello.
La parte appellante ha presentato istanza istruttoria anche tramite una verificazione o una consulenza tecnica d’ufficio sulla legittimità del capannone e della palazzina uffici realizzati in forza dei vari titoli edilizi rilasciati dal Comune.
Ha poi presentato memoria insistendo nelle proprie tesi difensive.
Entrambe le parti hanno presentato memorie di replica.
Con istanza del 24 febbraio 2020 i difensori delle parti hanno comunicato l’assenza personale all’udienza pubblica in relazione allo stato di emergenza sanitaria nella Regione Lombardia.
All’udienza del 25 febbraio 2020 l’appello è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

In via preliminare ritiene il Collegio di precisare che la dichiarazione di improcedibilità del ricorso di primo grado nella parte relativa al provvedimento di demolizione non è stata appellata quindi non è oggetto del presente giudizio.
Con l’atto di appello sono stati, infatti, contestati i capi della sentenza di primo grado relativi al diniego di accertamento di conformità del 10 agosto 1992 e al diniego di condono, presentato ai sensi della legge n. 724 del 1994, del 3 marzo 1998.
L’appello è infondato.
Con riferimento ai primo motivi di appello relativi al diniego di sanatoria del 10 agosto del 1992, se è pacifico ed incontestato anche dal Comune che tale sanatoria riguardava solo modifiche interne ed esterne degli immobili che non influivano sul posizionamento degli edifici, si deve evidenziare che il Comune ha basato il diniego di sanatoria sulla circostanza che con il provvedimento di sanatoria si sarebbero dovute legittimare opere realizzate su un edificio di cui era emersa – a seguito del sopralluogo 14 luglio 1992 – la difformità rispetto ai titoli abilitativi, con specifico riferimento alla distanza dal fiume La..
Tale circostanza di fatto risultante dal sopralluogo non è contestata dalla parte appellante, che in appello ha depositato la planimetria della distanza dal fiume La. alla data del 1984, del 1992 e del 2015, da cui risulta che comunque una parte dell’edificio era ubicata ad una distanza inferiore di 100 metri dal fiume La. nel 1992.
La difesa appellante sostiene che sarebbe stato il Comune ad approvare il posizionamento dell’edificio già con occupazione parziale della fascia di rispetto, a seguito delle concessioni relative alle “varianti di giacitura” n. 11del 26 marzo 1984 e n. 33 del 18 marzo 1985.
Nella sostanza, secondo la ricostruzione della difesa appellante, l’edificio si trovava collocato, al momento del sopralluogo il 14 luglio 1992, nella posizione in cui era stato assentito dal Comune, con la conseguenza che il Comune avrebbe dovuto eventualmente provvedere all’annullamento d’ufficio delle concessioni, impossibile dopo tanti anni e avendo ingenerato un legittimo affidamento in capo alla società Au. Po..
Tale tesi non può essere accolta, in quanto non è supportata dalle stessa documentazione prodotta dalla stessa difesa appellante; infatti, dagli elaborati grafici allegati alle concessioni n. 11del 26 marzo 1984 e n. 33 del 18 marzo 1985 risulta che anche la nuova collocazione dell’immobile a seguito di tali varianti fosse posta al di fuori della fascia di rispetto del fiume La..
Se poi tali elaborati non corrispondevano allo stato di fatto esistente (come sembra sostenere la parte appellante in relazione ad un errore di rappresentazione grafica), si configura la difformità dai titoli edilizi rilevata dal Comune nel corso del detto sopralluogo del 1992.
Il Comune, dunque, in presenza di tale difformità dalle concessioni edilizie precedentemente rilasciate non poteva assentire la sanatoria, anche se questa era relativa ad interventi edilizi diversi da quelli relativi alla posizione dell’opera in fascia di rispetto fluviale.
Poiché il posizionamento dell’immobile all’interno della fascia di rispetto del fiume La. non risulta assentita dai precedenti titoli edilizi, la parte dell’immobile realizzata su tale area è stata correttamente ritenuta dal Comune di natura abusiva, con la conseguenza della impossibilità di rilasciare il titolo in sanatoria anche per opere diverse da quelle che hanno integrato l’abuso.
Ai sensi dell’art. 13 della legge 28 febbraio 1985 n. 47, “il responsabile dell’abuso può ottenere la concessione o l’autorizzazione in sanatoria quando l’opera eseguita in assenza della concessione o autorizzazione è conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda”.
E’ evidente che la doppia conformità urbanistica delle opere oggetto di sanatoria presuppone la regolarità edilizia e urbanistica dell’intero immobile, altrimenti l’Amministrazione andrebbe a sanare la realizzazione di opere di modifica di un immobile abusivo, in contrasto con la previsione dell’art. 13 e con i generali poteri di vigilanza – di carattere doveroso – dell’Amministrazione in materia edilizia.
Pertanto, il diniego di sanatoria del 10 agosto 1992 era del tutto legittimo, né si può ritenere carente di motivazione in relazione alla costante giurisprudenza anche della Sezione, per cui il diniego di sanatoria, implicando una verifica di carattere vincolato circa la conformità della richiesta con la normativa urbanistico-edilizia, non necessita di altra motivazione oltre quella relativa alla rispondenza della istanza alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie vigenti al momento dell’esame della domanda e al momento di realizzazione delle opere (cfr. Cons. Stato Sez. II, 13 giugno 2019, n. 3972; Sez. IV, 23 ottobre 2017, n. 4864). Il diniego di sanatoria deve infatti indicare le disposizioni che si assumano ostative al rilascio del titolo e le previsioni contenute negli strumenti urbanistici, in modo da consentire all’interessato di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla regolarizzazione e al mantenimento dell’opera abusiva e di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato (Cons. Stato Sez. VI, 22 gennaio 2019, n. 541), circostanze indicate nel caso di specie.
Venendo al diniego di sanatoria del 3 marzo 1998, esso è basato sull’art. 33 comma 1 della legge 28 febbraio 1985 n. 47, applicabile alla domanda di condono presentata dalla parte appellante, in base al richiamo previsto nell’art. 39 della legge 23 dicembre 1994 n. 724, per cui non è ammessa la sanatoria di opere “in contrasto con i seguenti vincoli, qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse:
a) vincoli imposti da leggi statali e regionali nonché dagli strumenti urbanistici a tutela di interessi storici, artistici, architettonici, archeologici, paesistici, ambientali, idrogeologici”;
b) vincoli imposti da norme statali e regionali a difesa delle coste marine, lacuali e fluviali;
Nel caso di specie, il vincolo di inedificabilità era previsto dall’art. 39 della legge regionale 15 aprile 1975 n. 51, per cui “lungo le sponde dei laghi e dei fiumi e canali di cui all’allegato elenco, che forma parte integrante della presente legge, sono vietate, ogni nuova edificazione nonché l’esecuzione di opere di urbanizzazione, salvo le opere edilizie preordinate all’esercizio dell’agricoltura nei limiti previsti dal successivo art. 49, lett. a), per una fascia di profondità dal limite del demanio, di: a) mt 50 per fiumi e canali nei territori compresi nelle Comunità montane;
b) mt 100 per i laghi, nonché per i fiumi e canali nei restanti territori.
Nell’elenco allegato alla legge è indicato anche il fiume La..
La legge n. 51 del 1975 è stata successivamente abrogata dalla legge regionale 11 marzo 2005 n. 12.
Alla data di adozione del provvedimento di diniego di condono, il 3 marzo 1998, l’area in questione nella fascia di 100 metri dal fiume La. era, quindi, sottoposta ad un vincolo di inedificabilità assoluta posto da una legge regionale a tutela delle coste fluviali rientrante nelle ipotesi di cui all’art. 33 della legge n. 47 del 1985, con la conseguenza della esclusione del condono.
Infatti, il vincolo era stato anche imposto prima della esecuzione delle opere stesse, che nella domanda di condono erano indicate come realizzate nell’anno 1984, e comunque, anche a ritenere la data della prima realizzazione del capannone al 1977 erano comunque successive al 1975.
Sotto tale profilo non può essere accolta la tesi dell’appellante, per cui il vincolo dovrebbe essere considerato relativo con applicazione dell’art. 32 della legge n. 47 del 1985.
L’art. 32, infatti, fa espressamente salve le ipotesi dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985.
Come è noto la giurisprudenza consolidata ha affermato che le previsioni dell’art. 32 – con la conseguenza della ammissibilità della sanatoria in presenza del parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo – si applicano solo alle ipotesi in cui il vincolo ” assoluto” sia sopravvenuto all’esecuzione delle opere, dovendo essere considerato in tal caso come un vincolo di natura “relativa” di cui deve essere valutata la compatibilità con la concreta opera realizzata.
Il condono è precluso dall’art. 33 della legge n. 47 del 1985 nel caso di imposizione di un vincolo assoluto di inedificabilità imposto prima della realizzazione delle opere, mentre si applica l’art. 32 nel caso di imposizione di un tale vincolo assoluto successivamente a tale realizzazione, che subordina il rilascio della concessione in sanatoria per opere su aree sottoposte a vincolo al parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo medesimo, dovendovi essere- in caso di introduzione di un vincolo assoluto successivamente alla realizzazione delle opere- una valutazione in concreto sulla accoglibilità dell’istanza, (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 7 agosto 2015 n. 3909; id. 19 ottobre -2018, n. 5985; id. 2 settembre 2019, n. 6035).
Tale circostanza è esclusa nel caso di specie, in cui le opere sono state pacificamente realizzate dopo l’apposizione del vincolo di inedificabilità assoluta.
Ne deriva che il vincolo impediva l’accoglimento della domanda di sanatoria, ai sensi dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985.
Sotto tale profilo è, altresì, infondato il motivo di appello con cui si sostiene che il diniego di condono sarebbe divenuto illegittimo successivamente, al momento dell’abrogazione della disposizione regionale che prevedeva il vincolo di inedificabilità da parte della legge regionale n. 12 del 2005 o comunque in quanto successivamente sarebbe stato previsto solo un vincolo relativo, quale il vincolo paesaggistico previsto ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004.
Tali argomentazioni difensive non sono suscettibili di accoglimento, in quanto, in base al principio tempus regit actuum la legittimità del provvedimento deve essere valutata al momento della sua adozione.
Deve, sul punto, essere richiamata la costante giurisprudenza di questo Consiglio, per cui la valutazione circa la condonabilità dell’abuso va operata in base alla normativa vigente al momento in cui l’amministrazione esamina la domanda di condono (Cons. Stato Sez. VI, 2 settembre 2019, n. 6035; id 19 novembre 2018, n. 6507).
Né si può ritenere che un provvedimento puntuale come il diniego di condono, originariamente legittimo, diventi successivamente illegittimo in relazione a norma sopravvenute, neppure esistenti al momento di adozione dell’atto, come sostiene, nella sostanza, la difesa appellante.
Quanto alla sopravvenuta disciplina del vincolo paesaggistico, relativo, imposto sull’area, deve rilevarsi – per completezza della presente decisione ma non essendo stato formulato in tal senso il motivo di appello- che l’art. 39 comma 7 della legge n. 724 del 1994 aveva espressamente ammesso alla sanatoria, ai sensi di tale legge, previo parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo, le opere poste in aree tutelate ai sensi dell’art. 1 quinquies del d.l. 27 giugno 1985, n. 312 convertito dalla legge 8 agosto 1985 n. 431.
Ai sensi del detto art. 1 quinquies “le aree e i beni individuati ai sensi dell’articolo 2 del decreto ministeriale 21 settembre 1984, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 265 del 26 settembre 1984 (tra cui, ai sensi della lettera c) dell’art. 2 del detto D.M. i fiumi, i torrenti e i corsi d’acqua classificabili pubblici ai sensi del testo unico sulle acque dell’11 dicembre 1933, n. 1775, e le relative ripe per una fascia di 150 metri ciascuna), sono inclusi tra quelli in cui è vietata, fino all’adozione da parte delle regioni dei piani di cui all’articolo 1-bis (ovvero dei piani paesistici regionali), ogni modificazione dell’assetto del territorio nonché ogni opera edilizia, con esclusione degli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici.
Sul punto, ritiene il Collegio di richiamare la giurisprudenza di questo Consiglio che si è già espressa interpretando l’art. 39 comma 7 della legge n. 724/94 nel senso che nel suo ambito di applicazione non possano rientrare anche i casi di inedificabilità che erano già previsti da una disposizione di legge regionale (Cons. Stato Sez. VI, 26 settembre 2018, n. 5529; Sez. II, 27 settembre 2019, n. 6468).
Sostiene poi la difesa appellante che il vincolo dell’art. 39 della legge regionale n. 51 del 1975 sarebbe scaduto al 31 dicembre 1988, in forza della previsione dell’art. 43 della medesima legge regionale, che avrebbe previsto la scadenza del vincolo in caso di mancato recepimento tramite una variante del programma di fabbricazione.
Tale motivo di appello è infondato, in primo luogo, in relazione al dato testuale dell’art. 43 della legge regionale.
Ai sensi di tale disposizione, infatti, “Al fine di meglio definire le aree meritevoli di salvaguardia o di migliorare le condizioni di tutela del patrimonio naturale e paesaggistico e di promuovere l’utilizzazione sociale, i Comuni nei cui territori ricadano le zone di cui al precedente art. 39 e le aree di cui alle lett. a) e b) dell’art. 40, adottano e trasmettono alla Giunta regionale una variante allo strumento urbanistico vigente relativa a tali aree e zone.
La Giunta regionale approva tali varianti apportando le modifiche che si rendano necessarie.
Ad approvazione avvenuta delle predette varianti o comunque decorsi tre mesi dal ricevimento da parte della Regione delle stesse, cessano di avere applicazione le misure di salvaguardia previste dall’art. 39 e, per le aree di cui alle lett. a) e b), dall’art. 40.
In mancanza della presentazione della variante di cui al primo comma del presente articolo, tali misure di salvaguardia hanno efficacia sino all’approvazione del Piano territoriale regionale e dei piani di cui al titolo II della presente legge, dei piani di cui all’art. 17 della L.R. 30 novembre 1983, n. 86, “Piano regionale delle aree protette. Norme per l’istituzione e la gestione delle riserve, dei parchi e dei monumenti naturali nonché delle aree di particolare rilevanza naturale e ambientale” e dei piani di cui all’art. 1-bis della legge 8 agosto 1985, n. 431, “Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 27 giugno 1985, n. 312, recante disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale e comunque non oltre il 30 giugno 1989” (a seguito della ultima proroga prevista dalla legge regionale 14 aprile 1989, n. 9).
Nel caso di specie, il vincolo previsto dalla legge regionale è previsto nel programma di fabbricazione approvato con delibera della giunta regionale del 22 dicembre 1976, che ha indicato la destinazione F3, fascia di rispetto idrico, in corrispondenza dei cento metri dal fiume di La., con la conseguenza che la disciplina della legge regionale non può essere scaduta alla data del 30 giugno 1989 (e ciò anche a prescindere dall’esame della natura del termine indicato dalla disposizione della legge regionale questione), essendo a tale data la previsione già inserita nel vigente strumento urbanistico.
Non si può infatti ragionevolmente interpretare nel senso che il Comune dovesse comunque adottare una nuova variante allo strumento urbanistico vigente quando questo già prevedeva la forma di tutela richiesta dalla legge regionale, pena una inutile duplicazione dell’attività amministrativa; né che la norma non comprendesse anche la disciplina posta dal programma di fabbricazione, essendo questo uno strumento semplificato consentito ai comuni sprovvisti di piano regolatore ed equiparato al piano regolatore generale sia sotto il profilo dei vincoli che della verifica di conformità urbanistica delle opere realizzate nel Comune (sulla equiparazione di piani regolatori generali e programmi di fabbricazione ai fini della previsione di vincoli cfr. Corte Costituzionale n. 23 del 20 marzo 1978; Cass. civ. Sez. II, 2 luglio 2004, n. 12127; sul programma di fabbricazione come strumento di disciplina urbanistica ed edilizia, con il quale l’abuso realizzato deve essere posto a raffronto ai fini di un eventuale assenso edilizio in sanatoria, di recente, Cons. Stato Sez. II, 24 gennaio 2020, n. 573).
Deduce poi l’appellante l’intervenuta scadenza del vincolo derivante dal programma di fabbricazione.
Tale argomentazione non può essere condivisa in relazione alla consolidata giurisprudenza per cui i vincoli di piano regolatore, ai quali si applica il principio della decadenza quinquennale, ai sensi dell’art. 2, L. 19 novembre 1968, n. 1187, sono soltanto quelli che incidono su beni determinati, assoggettandoli a vincoli preordinati all’espropriazione o a vincoli che comportano l’inedificabilità di un bene determinato e, dunque, ne svuotano il contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento di tale bene tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio. Invece, le previsioni di carattere generale per una determinata tipologia urbanistica o la previsione di vincoli paesaggistici conformando le modalità di utilizzo del bene con riferimento ad una generale categoria di bene, restano in vigore a tempo indeterminato (Cons. Stato V, 13 aprile 2012, n. 2116).
Gli strumenti dedicati all’attuazione della pianificazione urbanistica si distinguono, infatti, tra vincoli espropriativi e vincoli conformativi, secondo una linea di discrimine che ha un preciso fondamento costituzionale, in quanto l’art. 42 Cost. prevede separatamente l’espropriazione (terzo comma) e i limiti che la legge può imporre alla proprietà al fine di assicurarne la funzione sociale (secondo comma). I vincoli espropriativi, che sono soggetti alla scadenza quinquennale, concernono beni determinati, in funzione della localizzazione puntuale di un’opera pubblica, la cui realizzazione non può quindi coesistere con la proprietà privata. Non può invece attribuirsi carattere ablatorio ai vincoli che regolano la proprietà privata al perseguimento di obiettivi di interesse generale, quali il vincolo di inedificabilità, c.d. “di rispetto”, a tutela di una strada esistente, a verde attrezzato, a parco, a zona agricola di pregio, verde, etc. (cfr. Consiglio di Stato, Sez. II, 14 gennaio 2020, n. 342).
In particolare, i vincoli apposti dal Comune in sede di piano regolatore generale ai fini della zonizzazione delle aree hanno natura conformativa e non espropriativa con validità a tempo indeterminato e senza obbligo di indennizzo (Cons. Stato Sez. IV, 31 agosto 2018, n. 5125).
I beni aventi valore paesaggistico sono riconducibili ad una categoria omogenea di interesse pubblico, la cui disciplina è del tutto estranea alla materia dell’espropriazione e dei relativi indennizzi, di cui all’art. 42, comma 3, Cost. A tali beni è applicabile, invece, la disciplina di cui al comma 2 dello stesso art. 42 che demanda alla legge la determinazione dei modi di godimento del bene, al fine di assicurarne la funzione sociale (Cons. Stato Sez. II, 14 gennaio 2020, n. 350 con riferimento al vincolo di inedificabilità su particolari corsi d’acqua dalla legge regionale Puglia 11 maggio 1990, n. 30 e prima dalla legge regionale n. 56 del 1980).
Quanto al dedotto erroneo riferimento nella sentenza anche al vincolo derivante dalla fascia di rispetto stradale si tratta di indicazione resa dalla ditta Pozzoli al momento della compilazione della domanda di condono; in ogni caso è una circostanza irrilevante rispetto alla presente vicenda, in cui il diniego di condono è basato sulla disposizione dell’art. 39 della legge regionale n. 51 del 1975 e sull’art. 33 della legge n. 47 del 1985.
L’esclusione della sanatoria, in base alla disciplina tassativa dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985, che non consentiva la sanatoria in caso di vincolo assoluto di inedificabilità, comporta la infondatezza degli ulteriori motivi di appello con cui sono state riproposte le censure relative a violazioni procedimentali.
In primo luogo, sostiene la difesa appellante la violazione delle norme in materia di partecipazione al procedimento.
Sul punto la giurisprudenza è costante nel ritenere, in primo luogo, che i provvedimenti di diniego del condono edilizio non debbano essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, in quanto avviati su istanza di parte (Consiglio di Stato, sez. IV, 5 maggio 2017, n. 2065; id. IV, 27 ottobre 2016, n. 4508; id, 5 febbraio 2015, n. 554).
Né, nel caso di specie, era dovuta la comunicazione del preavviso di rigetto, ai sensi dell’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990, introdotto dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, successivamente alla data di adozione del provvedimento il 3 marzo 1998.
Inoltre, la natura vincolata delle determinazioni in materia di abusi edilizi e, quindi, anche delle determinazioni di sanatoria, quando siano di carattere vincolato, come nel caso di specie, esclude la possibilità di apporti partecipativi dei soggetti interessati.
Sotto tale profilo, deve essere confermato il richiamo da parte del giudice di primo grado anche alla disciplina dell’art. 21 octies, comma 2, primo periodo, della L. n. 241 del 1990, in quanto il Comune non avrebbe potuto emanare provvedimenti diversi da quelli in concreto adottati, attesa l’assoluta insanabilità delle opere sotto il profilo urbanistico e paesaggistico (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 11 settembre 2017, n. 4269). È infatti contraria ai principi di economicità, speditezza ed efficienza proclamati dalla L. n. 241 del 1990, la valorizzazione di irregolarità meramente formali allorché emerga che comunque il contenuto dispositivo della determinazione impugnata non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, giusta quanto previsto dall’art. 21 octies della legge n. 241 del 1990 (cfr. Cons. St., IV, 21 febbraio 2017 n. 810; id., VI, 9 settembre 2018 n. 5464; id., 2 novembre 2018 n. 6219; Sez. VI, 30 aprile 2019, n. 2809).
Infondati sono anche i motivi di appello relativi al difetto di istruttoria sotto il profilo della mancanza di una formale istruttoria da parte del responsabile del procedimento del difetto di motivazione.
Con riferimento al difetto di istruttoria è sufficiente rilevare che la natura del vincolo esistente sull’area, ostativo al rilascio della sanatoria, emergeva dalla consultazione degli strumenti urbanistici comunali senza alcuna ulteriore esigenza istruttoria e di acquisizione di ulteriori atti e documenti o di valutazione di interessi come previsto dall’art. 6 della legge n. 241 del 1990.
Quanto alla dedotta violazione dell’art. 4 della legge n. 241 del 1990, per non essere stata formalizzata una proposta di provvedimento, è evidente che si tratta di norme organizzative che non influiscono sulla legittimità del provvedimento finale; in ogni caso la già indicata semplicità del provvedimento, nel caso di specie, consentiva di procedere direttamente all’adozione dell’atto.
Quanto al difetto di motivazione è stata già sopra richiamata la costante giurisprudenza di questo Consiglio per cui in generale il diniego di sanatoria, implicando una verifica di carattere vincolato circa la conformità della richiesta con la normativa urbanistico-edilizia, non necessita di altra motivazione oltre quella relativa alla rispondenza della istanza alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie vigenti al momento dell’esame della domanda e al momento di realizzazione delle opere (cfr. Cons. Stato Sez. II, 13 giugno 2019, n. 3972 Sez. IV, 23 ottobre 2017, n. 4864; Cons. Stato Sez. VI, 22 gennaio 2019, n. 541).
Inoltre, con riferimento al diniego adottato ai sensi dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985, è evidente che sia sufficiente l’indicazione delle disposizioni di legge o di carattere urbanistico da cui derivi la inedificabilità, indicazioni fornite nel caso di specie.
Sostiene poi l’appellante la violazione dell’art. 26 dello Statuto di (omissis) adottato dal Consiglio comunale con le delibere del 19 luglio e del 15 ottobre 1991, che prevederebbe il parere del Segretario comunale per il rilascio, il diniego, la revoca, la decadenza, l’annullamento di concessioni, autorizzazioni, licenze, nonché per l’adozione di provvedimenti sanzionatori.
Ritiene il Collegio l’infondatezza di tale motivo di appello, in quanto l’art. 26 dello Statuto comunale citato attribuiva la competenza all’adozione di tali atti al Sindaco prevedendo il previo parere del responsabile del servizio o del Segretario comunale.
Tale disciplina si deve, dunque, ritenere del tutto superata dall’attribuzione della competenza ad adottare gli atti amministrativi ai dirigenti del Comune, a seguito delle modifiche apportate dalla legge 15 maggio 1997 n. 127 alla legge 8 giugno 1990, n. 142, il cui art. 51, comma 2, vigente al momento dell’adozione dell’atto impugnato, stabiliva “spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti che si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo spettano agli organi elettivi mentre la gestione amministrativa è attribuita ai dirigenti”. In base al comma 3, inoltre, spettavano “ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione di atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, che la legge e lo statuto espressamente non riservino agli organi di governo dell’ente. Sono ad essi attribuiti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dall’organo politico, tra i quali in particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell’ente:…f) i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie”.
La giurisprudenza, inoltre, si è anche già espressa nel senso ritenere che la competenza, originariamente attribuita dalla legge n. 47 del 1985 al Sindaco, dovesse ritenersi trasferita ai dirigenti con la legge n. 142 del 1990, (in tal senso cfr. Cons. Stato, Sez. V, 5 luglio 2005, n. 3692; id., 6 marzo 2000, n. 1149) e comunque almeno a partire dalle modifiche introdotte con la legge 127 del 1997 (Cons. Stato Sez. VI, 9 aprile 2019, n. 2342).
Ne deriva che, nel caso di specie, alla data di adozione del provvedimento impugnato, il 3 marzo 1998, la competenza spettava al dirigente o al funzionario responsabile del procedimento se a ciò abilitato dalle disposizioni interne.
La previsione comunale era, quindi, chiaramente inapplicabile prevedendo questa il parere del Segretario o del responsabile del servizio in relazione alla originaria competenza del Sindaco; venuta meno la competenza del Sindaco non aveva più alcun senso tale disposizione, essendo i dirigenti dotati di autonoma competenza ad adottare gli atti indicati.
Quanto alla mancanza del parere della Commissione edilizia, la giurisprudenza della Sezione, a cui il Collegio ritiene di aderire, si è già espressa nel senso di escludere la necessità di acquisire ogni contributo valutativo-discrezionale, quale quello della Commissione edilizia, in caso di diniego di sanatoria per un vincolo inedificabilità assoluta (cfr. di recente Cons. Stato Sez. II, 21 gennaio 2020, n. 476; id. 21gennaio 2020, n. 504 che ritiene non necessario tale parere e comunque ininfluente in mancanza dei presupposti per accedere al condono).
Infondato è, altresì, la censura riproposta in appello relativa alla presentazione della copia del pagamento dell’oblazione contenuta nel provvedimento impugnato, trattandosi di circostanza irrilevante rispetto al motivo del diniego della sanatoria, basato sulla presenza di un vincolo di inedificabilità assoluta ai sensi dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985.
In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto.
Le spese seguono il regime della soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento delle spese processuali del grado in favore del Comune appellato, nella misura di euro duemila (Euro 2000//00) oltre oneri accessori, se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 febbraio 2020 con l’intervento dei magistrati:
Fabio Taormina – Presidente
Francesco Frigida – Consigliere
Antonella Manzione – Consigliere
Cecilia Altavista – Consigliere, Estensore
Francesco Guarracino – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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