Il soggetto che proponga querela di falso può valersi di ogni mezzo ordinario di prova

Corte di Cassazione, sezione terza civile, Sentenza 22 giugno 2020, n. 12118.

La massima estrapolata:

Il soggetto che proponga querela di falso può valersi di ogni mezzo ordinario di prova e quindi anche delle presunzioni, utilizzabili in particolare quando il disconoscimento dell’autenticità non si estenda alla sottoscrizione e sia lamentato il riempimento di documento “absque pactis”, con conseguente contestazione del nesso fra il testo ed il suo autore. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto corretto il procedimento inferenziale – relativo al presunto riempimento di una ricognizione di debito fuori da qualsiasi intesa – condotto anche in ragione del contrasto tra la data apposta in calce all’atto e quella riprodotta nel documento con cui era stato identificato il sottoscrittore, nonché dell’incompleta indicazione del codice fiscale di quest’ultimo e dell’erronea indicazione del luogo di nascita).

Sentenza 22 giugno 2020, n. 12118

Data udienza 11 dicembre 2019

Tag – parola chiave: Scrittura privata – Abuso di biancosegno – Querela di falso – Appello – Specificità dei motivi ex art. 324 cpc – Utilizzo di presunzioni per accertamento del faso – Esclusione della ricognizione di debito ex art. 1988 cc

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 24389/2017 proposto da:
(OMISSIS) SAS, in persona dell’amministratore unico e l.r.p.t., domicialiato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) erede universale dei coniugi (OMISSIS) e (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– controricorrente –
e contro
(OMISSIS);
– intimata –
avverso la sentenza n. 3514/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 31/07/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/12/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso, che ha concluso per il rigetto del 1 motivo;
udito l’Avvocato (OMISSIS).

FATTI DI CAUSA

1. La societa’ (OMISSIS) & C. S.a.s. (d’ora in poi, ” (OMISSIS)”) ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 3514/17, del 31 luglio 2017, della Corte di Appello di Napoli, che – accogliendo il gravame esperito da (OMISSIS) e (OMISSIS), nella loro qualita’ di eredi di (OMISSIS), contro la sentenza n. 5989/12, del 21 maggio 2012, del Tribunale di Napoli – ha accolto la querela di falso proposta in corso di causa da (OMISSIS), dichiarando la falsita’ della scrittura privata del 25 novembre 1997, della quale ha ordinato la cancellazione ex articolo 537 c.p.p., revocando, per l’effetto, il decreto ingiuntivo n. 5675/05, emesso dal Tribunale di Napoli ed opposto dal medesimo (OMISSIS), condannando la societa’ appellata, odierna ricorrente, a pagare le spese di entrambi i gradi di giudizio.
2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente di aver presentato ricorso per decreto ingiuntivo innanzi al Tribunale di Napoli, affinche’ ingiungesse a (OMISSIS) di pagarle la somma di Euro 25.822,84, sulla base della ricognizione di debito da questi asseritamente operata con la gia’ citata scrittura del 25 novembre 1997, documento prodotto in giudizio, inizialmente, solo in copia. Il provvedimento monitorio veniva, pero’, opposto dal (OMISSIS), sul duplice rilievo del difetto di autenticita’ sia della sottoscrizione (peraltro, di seguito, riconosciuta dallo stesso come propria, allorche’ il documento venne esibito in originale), sia del contenuto della scrittura privata suddetta, assumendo l’opponente che la firma fosse stata apposta su un foglio in bianco, successivamente riempito in modo abusivo, ricorrendo, cosi’, l’ipotesi del riempimento “absque pactis”. Proposta, quindi, querela di falso, il deducente evidenziava, innanzitutto, il contrasto tra la data apposta in calce alla scrittura privata e quella riportata nel documento con cui era stato identificato il sottoscrittore (OMISSIS) (carta di identita’ rilasciata solo nel 2001, a fronte di una scrittura datata, invece, 25 novembre 1997). Valorizzando, tuttavia, le altre prove articolate dalla societa’ opposta (interrogatorio libero e prova testimoniale), il Tribunale partenopeo rigettava la querela di falso avverso il riconoscimento di debito, e con essa l’opposizione al decreto ingiuntivo, del quale dichiarava l’esecutorieta’, condannando, infine, gli eredi del (OMISSIS) – che avevano riassunto il giudizio ex articolo 645 c.p.c., dopo l’interruzione conseguente al decesso del proprio dante causa – al pagamento delle spese processuali.
Esperito gravame dagli eredi del (OMISSIS) avverso la sentenza del giudice di prime cure, la Corte territoriale lo accoglieva, riformando “in toto” la decisione impugnata. Essa, in particolare, perveniva a tale conclusione sul rilievo di alcune “significative discrepanze” presenti nella scrittura, quali l’errata indicazione del luogo di nascita del sottoscrittore ((OMISSIS), e non invece (OMISSIS)), l’incompleta trascrizione del codice fiscale dello stesso e la gia’ segnalata identificazione del (OMISSIS) sulla base di un documento d’identita’ rilasciato dopo la formazione della scrittura, ritenendo poco logica e verosimile l’ipotesi di una retrodatazione del documento, argomentata dall’allora appellata (peraltro, dopo aver inizialmente sostenuto la contestualita’ tra dazione del danaro e sottoscrizione dell’atto di ricognizione di debito). L’appellata, infatti, aveva sostenuto che, nel 1997, il padre del legale rappresentante della (OMISSIS), ovvero (OMISSIS), aveva dato in prestito a (OMISSIS), in contanti, cinquanta milioni di lire, prelevandoli dalla cassaforte della societa’, senza pretendere la sottoscrizione di alcun documento che attestasse l’avvenuta dazione, stante il risalente rapporto di amicizia e fiducia tra mutuante e mutuatario. Solo in seguito, ed esattamente nel 2003, il (OMISSIS), allorche’ scopri’ di essere affetto da una malattia incurabile, avrebbe chiesto al (OMISSIS), per cautelarsi, la sottoscrizione dell’atto di ricognizione di debito, retrodatandolo, cio’ che spiegherebbe le rilevate discrepanze.
Siffatta versione dell’accaduto e’ stata, tuttavia, esclusa dal giudice di appello, che ha ritenuto la stessa non verosimile, ritenendo cosi’ superata la presunzione, “iuris tantum”, di consenso del sottoscrittore al contenuto dell’atto e di assunzione di paternita’ dello scritto, ex articolo 2702 c.c., accreditando la diversa ricostruzione degli appellanti. Secondo essi, infatti, il (OMISSIS) (rappresentante legale della societa’ ” (OMISSIS)”, affittuaria di azienda facente capo proprio alla societa’ (OMISSIS)) ebbe a firmare un foglio in bianco per consentire gli adempimenti fiscali richiesti dal comune commercialista.
3. Avverso la decisione della Corte partenopea ha proposto ricorso per cassazione la societa’ (OMISSIS), sulla base – come detto di tre motivi.
3.1. Con il primo motivo – proposto ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4) – si assume violazione o falsa applicazione dell’articolo 342 c.p.c., comma 1, nonche’ nullita’ della sentenza o del procedimento.
Si censura la decisione impugnata, innanzitutto, nella parte in cui ha respinto l’eccezione di inammissibilita’ dell’appello sollevata dall’odierna ricorrente, che aveva dedotto la mancanza delle indicazioni prescritte dall’articolo 342 c.p.c., comma 1, nn. 1) e 2), vale a dire: l’indicazione delle parti della sentenza attinte da impugnazione, le modifiche richieste alla ricostruzione del fatto operata dal giudice di prime cure, le norme violate, le circostanze da cui sarebbe emersa tale violazione, nonche’ la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.
Si censura la decisione della Corte territoriale nella parte in cui ha ritenuto sufficiente, per superare l’eccezione sollevata dall’appellata, che gli eredi del (OMISSIS) avessero individuato “in modo chiaro ed esauriente il “quantum appellatum”, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento a specifici capi della sentenza impugnata nonche’ ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, si’ da esplicitare la idoneita’ di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata”.
Osserva, per contro, la ricorrente come la Corte partenopea avrebbe dovuto aderire a quell’orientamento della Suprema Corte, ritenuto piu’ in linea col sistema a preclusioni rigide che caratterizza il processo civile e col novellato testo dell’articolo 342 c.p.c., comma 1, secondo cui “l’atto di appello, per sottrarsi alla sanzione di inammissibilita’, deve offrire una ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella adottata dal primo Giudice, per cui e’ necessario che contenga oltre ad una parte volitiva, che individui i passaggi della sentenza non condivisi, anche una parte argomentativa, che esponga le ragioni sulle quali si fonda il gravame con sufficiente grado di specificita’, da correlare alla motivazione della sentenza impugnata” (richiama, sul punto, la ricorrente Cass. Sez. 1, sent. 27 settembre 2016, n. 18932 e Cass. Sez. Lav., sent. 7 settembre 2016, n. 17712). Nella specie, il terzo motivo di appello, in accoglimento del quale e’ stata pronunciata la sentenza oggi impugnata, si sarebbe sostanziato nella mera riproduzione letterale di una parte del contenuto della comparsa conclusionale di primo grado, risultando del tutto avulso dalla decisione oggetto di gravame e, pertanto, non conforme ai requisiti richiesti dalla norma del codice di rito civile sopra richiamata.
3.2. Con il secondo motivo – proposto ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4) – si assume violazione o falsa applicazione dell’articolo 2727 c.c. e articolo 2697 c.c., comma 1 e articolo 221 c.p.c., comma 2, nonche’ nullita’ della sentenza o del procedimento per violazione dell’articolo 116 c.p.c., comma 1.
Secondo la ricorrente, la parte che affermi l’abusivo riempimento, “absque pactis”, di un foglio da essa firmato in bianco, ha l’onere di provare i fatti storici su cui si fonda la censura, ovvero che la firma sia stata effettivamente apposta su un foglio in bianco e che il riempimento sia avvenuto successivamente, nonche’ a sua insaputa. Orbene, si censura la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto raggiunta la suddetta prova sulla base di presunzioni che, a ben vedere, sarebbero soltanto meri “argomenti” o “considerazioni” di controparte, come tali privi dei requisiti di gravita’, precisione e concordanza richiesti dalla legge. In particolare, laddove la sentenza impugnata ha ritenuto di fare proprio il rilievo degli allora appellanti (che ritenevano “probabile” che essa (OMISSIS) fosse venuta in possesso del foglio firmato in bianco “per essere stato utilizzato presso il commercialista”, comune anche alla (OMISSIS), di cui il (OMISSIS) era il legale rappresentante), avrebbe violato il divieto della cd. “praesumptio de praesumpto”, utilizzando una prima presunzione per farne derivare un’altra presunzione.
La Corte territoriale sarebbe, dunque, incorsa in violazione o falsa applicazione dell’articolo 2727 c.c. e articolo 2697 c.c., comma 1, oltre che dell’articolo 221 c.p.c., comma 2, ritenendo soddisfatto l’onere probatorio incombente sull’appellante circa la dimostrazione dell’asserita falsita’ del contenuto del documento censurato.
Infine, la ricorrente, sebbene si ritenga dispensata – a norma dell’articolo 2728 c.c., comma 1 – dall’onere di fornire una qualunque prova, stante la presunzione “iuris tantum”, ex articolo 2702 c.c. (non superata, a suo dire, da controparte), afferma di avere, comunque, provato la propria domanda creditoria sulla base delle prove orali assunte, e mal valutate dalla Corte partenopea, che ha ritenuto “scarsamente articolate” le dichiarazioni testimoniali, in palese violazione del disposto di cui all’articolo 116 c.p.c., comma 1.
3.3. Con il terzo motivo – proposto ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si denuncia violazione o falsa applicazione dell’articolo 1988 c.c., nella parte in cui la sentenza impugnata ha evidenziato, sia pure solo incidentalmente, che le ragioni del prestito sarebbero “rimaste sconosciute”.
Sul punto, la ricorrente sottolinea che la scrittura privata del 25 novembre 1997 integra una “ricognizione di debito ex articolo 1988 c.c., che, in quanto tale, dispensa il creditore dall’onere di dimostrare il rapporto fondamentale sottostante (cd. astrazione processuale della “causa debendi”), la cui esistenza si presume fino a prova contraria, nella specie non offerta dal (OMISSIS), ne’ tampoco dai suoi aventi causa”. Pertanto, alla luce di tale considerazione, si assume che l’odierna ricorrente non fosse affatto tenuta a provare il titolo della effettuata dazione di denaro.
4. Ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilita’, il solo (OMISSIS), essendo deceduta nelle more del giudizio anche (OMISSIS).
Quanto al primo motivo di ricorso, se ne chiede la declaratoria di inammissibilita’ ai sensi del Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54, comma 1, lettera a), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile “ratione temporis” al presente giudizio).
La disposizione viene interpretata nel senso che alla fattispecie “de qua” (querela di falso ex articoli 221 e 222 c.p.c.) deve applicarsi dell’articolo 348-bis c.p.c., comma 2, che escluderebbe non solo l’operativita’ del cd. “filtro in appello” per le cause di cui all’articolo 70 c.p.c., comma 1 (nelle quali, come la presente, e’ obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero), ma anche dell’articolo 342 c.p.c.; la Corte di Appello di (OMISSIS) non sarebbe, pertanto, incorsa in alcun vizio di omessa pronuncia, in quanto ha ritenuto, sulla scorta del disposto di cui all’articolo 348-bis c.p.c., non degna di scrutinio la inammissibile eccezione di nullita’ proposta dall’appellata.
Anche il secondo motivo di ricorso sarebbe inammissibile, poiche’ le doglianze mosse dal ricorrente comporterebbero un riesame degli elementi di fatto, riservato al giudice di merito e, come tale, non consentito nel giudizio di legittimita’, a maggior ragione se si considera che tutti i profili evidenziati dall’odierno ricorrente sarebbero gia’ stati esaminati e rigettati dal giudice di appello con una “motivazione attenta, coerente e immune da vizi logico-giuridici”.
Infine, il resistente chiede che anche il terzo motivo di ricorso venga dichiarato inammissibile, poiche’ non vi sarebbe stata alcuna violazione o falsa applicazione dell’articolo 1988 c.c., in quanto la Corte territoriale ha accolto la querela di falso, dichiarando la falsita’ del documento contestato e disponendone la cancellazione ex articolo 537 c.p.c., sicche’ tale documento avrebbe perso “ogni valore nel mondo giuridico e non puo’ essere assimilato ad una ricognizione di debito”.

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va rigettato.
6.1. Il primo motivo non e’ fondato.
6.1.1. “In limine”, peraltro, va disattesa l’eccezione di inammissibilita’ del motivo sollevata dal controricorrente.
Si assume, infatti, che le cause di falso – come, in genere, tutte quelle con intervento obbligatorio del Pubblico Ministero – sarebbero sottratte all’operativita’ della nuova disciplina sui requisiti dell’atto di appello. Tale affermazione fraintende il contenuto del Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54, comma 1, lettera a), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134.
Infatti, laddove tale norma stabilisce che “il comma 1 non si applica”, in caso di appello “proposto relativamente ad una delle cause di cui all’articolo 70 c.p.c., comma 1”, tra le quali rientra quella di falso (che contempla, appunto, come obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero), intende, con tutta evidenza, riferirsi dell’articolo 348-bis c.p.c., comma 1. Scopo della norma e’, infatti, sottrarre le cause con intervento obbligatorio del Pubblico Ministero a quella modalita’ di definizione semplificata del giudizio di appello che consente di provvedere sul proposto gravame con ordinanza di manifesta inammissibilita’, allorche’ esso non presenti ragionevole probabilita’ di accoglimento. Il “comma 1”, dunque, al quale si fa riferimento non e’ quello dello stesso articolo 54 (come, invece, reputa l’odierno controricorrente, peraltro con esegesi erronea anche dal punto di vista letterale, come si dira’ appena di seguito), ovvero la norma che ha “novellato” il testo dell’articolo 342 c.p.c..
Invero, il Decreto Legge n. 83 del 2012, articolo 54, comma 1, stabilisce che al codice di rito civile siano apportate una serie di modifiche, in particolare recando – con la lettera Oa), inserita in sede di conversione in legge del decreto suddetto – il nuovo testo dell’articolo 342 c.p.c.; e’, invece, la successiva lettera a) quella che introduce nel codice di rito civile, “ab ovo”, il gia’ citato articolo 348-bis, articolo che si compone di due commi, il secondo dei quali – alla lettera a) – introduce una disciplina derogatoria del medesimo articolo 348-bis, comma 1.
Dunque, il mero esame letterale del citato articolo 54, smentisce l’eccezione del controricorrente, secondo cui il primo motivo del presente ricorso sarebbe inammissibile, per essere – come detto – i giudizi di falso sottratti all’operativita’ dell’articolo 342 c.p.c., nuovo testo.
6.1.2. Cio’ detto, e passando ad esaminare il presente motivo di ricorso, dello stesso va esclusa – come anticipato – la fondatezza.
Il suo esame, naturalmente, va effettuato alla stregua dei principi enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte – con pronuncia sopravvenuta rispetto alla proposizione del presente ricorso – in ordine alla corretta interpretazione del novellato testo dell’articolo 342 c.p.c..
Tale arresto, in particolare, ha enunciato il principio secondo cui gli articoli 342 e 434 c.p.c., nel testo riformulato dal Decreto Legge n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella L. n. 134 del 2012, vanno, si, “interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilita’, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice”, precisando, pero’, come a tal fine non “occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversita’ rispetto alle impugnazioni a critica vincolata” (Cass. Sez. Un., sent. 16 novembre 2017, n. 27199, Rv. 645991-01).
Nel caso di specie, la sentenza pronunciata dal giudice di prime cure (come, del resto, anche quella di appello oggi impugnata), nel decidere in ordine alla falsita’ del documento, o meglio del suo contenuto, per essere stato lo stesso – secondo la prospettazione dell’allora parte attrice in opposizione, ex articolo 645 c.p.c., oggetto di un abusivo riempimento, ha operato, sulla scorta delle risultanze istruttorie in atti, un ragionamento di tipo inferenziale. In questo modo si e’ utilizzato un “modus operandi”, come si vedra’ meglio di seguito, di per se’ non censurabile (salvo che non si sia tradotto in violazione degli articoli 2727 e 2729 c.c.). Infatti, in base a costante giurisprudenza di questa Corte, il soggetto che proponga querela di falso puo’ valersi di ogni mezzo ordinario di prova, e quindi anche delle presunzioni, utilizzabili, in particolare, quando il disconoscimento dell’autenticita’ non si estenda alla sottoscrizione e sia lamentato il riempimento del documento fuori di qualsiasi intesa, con conseguente contestazione del nesso fra il testo ed il suo autore.
Cio’ detto, pertanto, la “critica” alla sentenza gravata con appello (e, dunque, la “parte argomentativa” del relativo atto) non poteva che sostanziarsi nella riproposizione di quella “lettura” delle risultanze istruttorie idonee, a dire della parte gia’ attrice in opposizione e poi appellante, a fornire la prova presuntiva del riempimento della scrittura “absque pactis”, “lettura” proposta in contrapposizione a quella di controparte (ed accolta dal giudice di prime cure).
Tanto basta, dunque, per ritenere che l’allora appellante abbia soddisfatto il requisito di cui all’articolo 342 c.p.c..
Invero, come e’ stato ancora di recente ribadito da questa Corte, la “specificita’ dei motivi di appello presuppone la specificita’ della motivazione della sentenza impugnata” (cosi’, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 24 aprile 2019, n. 11197, Rv. 653588-01), nel senso che la prima va sempre “commisurata all’ampiezza e alla portata delle argomentazioni spese dal primo giudice” (Cass. Sez. 3, sent. 29 luglio 2016, n. 15790, Rv. 641584-01). Di conseguenza, l’appellante “che intenda dolersi di una erronea ricostruzione dei fatti da parte del giudice di primo grado puo’ limitarsi a chiedere al giudice di appello di valutare “ex novo” le prove gia’ raccolte e sottoporgli le argomentazioni difensive gia’ svolte in primo grado, senza che cio’ comporti di per se’ l’inammissibilita’ dell’appello”, e cio’ in quanto, sostenere il contrario, “significherebbe pretendere dall’appellante di introdurre sempre e comunque in appello un “quid novi” rispetto agli argomenti spesi in primo grado, il che – a tacer d’altro – non sarebbe coerente col divieto di “nova” prescritto dall’articolo 345 c.p.c.” (cosi’, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 8 febbraio 2018, n. 3115, Rv. 648034-01).
In conclusione, quando “l’atto d’appello denunci l’erronea valutazione, da parte del giudice di primo grado, degli elementi probatori acquisiti”, risulta “sufficiente, al fine dell’ammissibilita’ dell’appello, l’enunciazione dei punti sui quali si chiede al giudice di secondo grado il riesame delle risultanze istruttorie per la formulazione di un suo autonomo giudizio, non essendo richiesto che l’impugnazione medesima contenga una puntuale analisi critica delle valutazioni e delle conclusioni del giudice che ha emesso la sentenza impugnata” (cosi’ Cass. Sez. 2, sent. 12 settembre 2011, n. 18674, Rv. 618982-01, sebbene con riferimento al previgente testo dell’articolo 342 c.p.c., ma con principio applicabile – per le ragioni appena chiarite – anche al suo testo “novellato”).
6.2. Anche il secondo motivo non e’ fondato.
6.2.1. Sul punto, deve muoversi dalla constatazione – gia’ sopra anticipata – che il soggetto il quale “proponga querela di falso puo’ valersi di ogni mezzo ordinario di prova, e quindi anche delle presunzioni, utilizzabili in particolare quando il disconoscimento dell’autenticita’ non si estenda alla sottoscrizione e sia lamentato il riempimento del documento fuori di qualsiasi intesa, con conseguente contestazione del nesso fra il testo ed il suo autore” (cosi’, quale “leading case”, Cass. Sez. 2, sent. 6 luglio 1983, n. 4571, Rv. 429447-01; in senso conforme, piu’ di recente, Cass. Sez. 3, sent. 17 giugno 1998, n. 6050, Rv. 516554-01).
Orbene, un ragionamento presuntivo (o meglio, di tipo “inferenziale”, dato il rilievo attribuito dalla Corte partenopea, ex articolo 116 c.p.c., comma 2, anche all’argomento di prova tratto dal contegno processuale dell’odierna ricorrente) e’ quello, appunto, operato dalla sentenza impugnata.
Contro di esso, dunque, la sola censura utilmente scrutinabile e’ quella proposta ai sensi dell’articolo 2727 c.c..
6.2.2. Difatti, quanto alla censura articolata sul presupposto che la prova testimoniale sarebbe stata “mal valutata” dal giudice di appello, va data continuita’ al principio secondo cui l’eventuale “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non da’ luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), ne’ in quello del precedente n. 4), disposizione che – per il tramite dell’articolo 132 c.p.c., n. 4, da’ rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01; Cass. Sez. 3, ord. 30 ottobre 2018, n. 27458).
D’altra parte, la “valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilita’ dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute piu’ idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale e’ libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga piu’ attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti” (da ultimo, Cass. Sez. 6-3, ord. 4 luglio 2017, n. 16467, Rv. 644812-01; in senso analogo, tra le altre, Cass. Sez. 3, sent. 23 maggio 2014, n. 11511, Rv. 631448-01).
Inoltre, poiche’ l’odierno ricorrente – come detto – lamenta un cattivo apprezzamento delle risultanze istruttorie, non pare pertinente neppure il riferimento all’articolo 2697 c.c., visto che la sua violazione “e’ configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti” (cosi’, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01).
6.2.3. Per contro, e diversamente da quanto invece eccepito dal controricorrente, e’ ammissibile – come premesso – la censura formulata “sub specie” di violazione dell’articolo 2727 c.c., dovendo qui confermarsi che “qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravita’, precisione e concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento e’ censurabile in base all’articolo 360 c.p.c., n. 3), (e non gia’ alla stregua del n. 5 dello stesso articolo 360), competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’articolo 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta” (Cass. Sez. 3, sent. 4 agosto 2017, n. 19485, Rv. 645496-02; in senso sostanzialmente analogo pure Cass. Sez. 6-5, ord. 5 maggio 2017, n. 10973, Rv. 643968-01; nonche’ Cass. Sez. 3, sent. 26 giugno 2008, n. 17535, Rv. 603893-01 e Cass. Sez. 3, sent. 19 agosto 2007, n. 17457, non massimata sul punto).
6.2.4. Sebbene ammissibile, tuttavia, la censura di violazione dell’articolo 2727 c.c., non e’, pero’, fondata.
6.2.4.1. Nel compiere il proprio ragionamento presuntivo – o meglio, “inferenziale”, se e’ vero che l’articolo 2727 c.c., come ha notato autorevole dottrina processualcivistica, nel momento in cui afferma che il giudice muove da un “fatto noto”, per risalire ad un “fatto ignorato”, prefigura un “iter” logico che non e’ un risalire all’indietro, ma piuttosto un procedere “in avanti”, verso un’ipotesi da verificare, ovvero verso la dimostrazione di un fatto che e’ prefigurato come possibile conclusione dell’inferenza in cui si articola il ragionamento presuntivo – la Corte partenopea ha preso le mosse da un fatto incontrovertibile: l’identificazione di (OMISSIS), nella scrittura privata datata 25 novembre 1997, recante la sua sottoscrizione autografa, mediante un documento rilasciato, invece, in epoca successiva (per l’esattezza, nell’anno 2001).
Da tale “premessa” la Corte partenopea – sulla base di un’inferenza alla quale non puo’ certo negarsi il carattere della “gravita’” e “precisione” (riscontrabile ogni qual volta dal fatto noto “sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilita’”; Cass. Sez. 3, sent. 19 agosto 2007, n. 17457, non massimata sul punto, nello stesso senso piu’ di recente, Cass. Sez. 2, sent. 6 febbraio 2019, n. 3513, n. 652361-01; Cass. Sez. 2, sent. 31 ottobre 2011, n. 22656, Rv. 619955-01) – ha tratto una prima conclusione: ovvero, che il contenuto del documento fosse stato predisposto in data successiva al 25 novembre 1997, momento, questo, nel quale, secondo l’odierna ricorrente, sarebbe avvenuta la dazione di denaro del quale il (OMISSIS), con la suddetta scrittura, si sarebbe (successivamente) riconosciuto debitore.
Su tale base, in via di ulteriore inferenza, la sentenza impugnata ha ritenuto che la predisposizione del contenuto del documento non solo fosse successiva a tale data, ma che, lungi dall’integrare un caso di retrodatazione, fosse avvenuta “absque pactis”. A tale fine, essa ha valorizzato, innanzitutto, la circostanza che, nella scrittura “de qua”, il luogo di nascita del (OMISSIS) era stato riportato erroneamente ((OMISSIS), e non invece (OMISSIS)), cosi’ come il suo codice fiscale era indicato in modo incompleto; duplice circostanza che lascia presumere – secondo il cd. “id quod plerumque accidit” – che il riempimento non sia avvenuto alla presenza del (OMISSIS), giacche’ e’ ragionevole immaginare che lo stesso avrebbe fatto, altrimenti, rettificare tali dati.
Che si tratti circostanze concordanti con l’ipotesi del riempimento abusivo e’ conclusione, d’altra parte, conforme alla nozione di concordanza delineata da questa Corte, che la definisce come un “requisito del ragionamento presuntivo, che non lo concerne in modo assoluto, cioe’ di per se’ considerato, come invece gli altri due elementi, bensi’ in modo relativo, cioe’ nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori, volendo esprimere l’idea che, intanto la presunzione e’ ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi” (cosi’, nuovamente, Cass. sez. 3, sent. 19485 del 2017, cit.).
6.2.4.2. Nella stessa prospettiva, ovvero di accreditare l’ipotesi del riempimento “absque pactis”, il giudice di appello ha valorizzato, poi, altri “ragionamenti presuntivi”, a cominciare da quello che reputa non rispondente al cd. “id quod plerumque accidie che la dazione di una somma di denaro tanto ingente (pari a cinquanta milioni di Lire) possa essere avvenuta – come sostiene l’odierna ricorrente – in contanti, con un prelievo degli stessi in cassaforte e, per giunta, con carattere estemporaneo, giacche’ il (OMISSIS) avrebbe soddisfatto “rebus sic stantibus” la richiesta di prestito avanzatagli, quello stesso 25 novembre 1997, dal (OMISSIS).
Sempre nella stessa prospettiva, la Corte napoletana ha, poi, assegnato rilievo alla circostanza che il prestito – sebbene formalmente “imputato” alla societa’ (OMISSIS) (che e’, difatti, il soggetto che ha azionato, nel presente giudizio, la pretesa restitutoria) – fu erogato da un soggetto, (OMISSIS), che non ne era il legale rappresentante, e senza che dell’erogazione fosse dato alcun riscontro nella contabilita’ della societa’. Singolare, inoltre, e’ stata ritenuta la scelta che la parti avrebbero compiuto (sempre secondo la versione dell’odierna ricorrente) di retrodatare il momento dell’assunzione dell’impegno restitutorio, in modo da farlo coincidere con quello della dazione, mentre sarebbe stato, piuttosto, ben piu’ logico (ovvero rispondente all'”id quod plerumque accidit”) che nel documento si desse atto della preesistenza dell’avvenuta erogazione. Poco verosimile, infine, e’ stata ritenuta la coincidenza che, tanto all’avvenuta consegna della somma, quanto alla sottoscrizione della ricognizione di debito (risalente a non meno di sei anni dopo, sempre nella prospettiva della ricorrente), avrebbero assistito le medesime persone, poi escusse in giudizio quali testimoni.
6.2.4.3. Se gia’ questi elementi appaiono idonei a dimostrare la correttezza del ragionamento inferenziale (alla stregua del gia’ piu’ volte richiamato principio secondo cui, ai fini della prova presuntiva, “non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessita’ causale, ma e’ sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilita’ basato sull'”id quod plerumque accidit””; cfr., da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 9 febbraio 2019, n. 3513, Rv. 652361-01), non puo’ sottacersi neppure un’ulteriore circostanza, anch’essa valorizzata in sentenza.
Il riferimento e’ al fatto che l’odierna ricorrente, nei propri scritti defensionali di primo grado, aveva sempre sostenuto la contestualita’ tra erogazione del prestito e sottoscrizione della ricognizione di debito (entrambi fatti risalire al 25 novembre 1997), al punto da articolare, su tale presupposto, i capitoli della richiesta prova testimoniale, salvo, poi, mutare ricostruzione dell’accaduto all’esito dell’interrogatorio libero del legale rappresentante di essa (OMISSIS) ( (OMISSIS), figlio di quel (OMISSIS) che e’ individuato quale supposto autore materiale della dazione). Interrogatorio, peraltro, disposto dal Tribunale su sollecitazione del Pubblico Ministero, che aveva rilevato la gia’ segnalata discrasia tra la data della scrittura e quella del rilascio della carta di identita’, in base alla quale il (OMISSIS) era stato identificato nella medesima scrittura.
Orbene, anche da tale contegno processuale la Corte partenopea ha tratto argomento per corroborare l’ipotesi dell’abusivo riempimento del foglio.
Anche in questo caso si e’ trattato di un corretto “modus operandi”, giacche’, secondo questa Corte, l’articolo 116 c.p.c., “che attribuisce al giudice il potere di desumere argomenti di prova dal comportamento processuale delle parti, va inteso nel senso che tale comportamento non solo puo’ orientare la valutazione del risultato di altri procedimenti probatori, ma puo’ anche costituire unica e sufficiente fonte di prova” (Cass. Sez. 3, sent. 16 luglio 2002, n. 10268, Rv. 555756-01; in senso conforme, tra le altre, Cass. Sez. 3, sent. 10 ottobre 2003, n. 15172, Rv. 567402-01; Cass. Sez. 3, ord. 3 marzo 2005, n. 4651, Rv. 580699-01).
Orbene, se l’argomento di prova desunto dal comportamento processuale della parte ha, come appena rilevato, addirittura autonoma efficacia probatoria, esso puo’, a maggior ragione, corroborare le conclusioni raggiunte dal giudice attraverso l’uso delle presunzioni. Invero, la sua utilizzazione, lungi dall’offrire una “probatio minor”, condivide la stessa logica di tipo inferenziale che sta alla base del ragionamento presuntivo, tanto che – nuovamente da parte della gia’ citata dottrina – e’ stata rimarcata l’esistenza di una “analogia strutturale” tra l’argomento di prova e le presunzioni, sostenendosi, in particolare, che il primo ha la stessa efficacia probatoria delle presunzioni semplici, nel senso che l’articolo 116 c.p.c., comma 2, autorizza il giudice a considerare i comportamenti delle parti come possibili premesse di inferenze probatorie relative a fatti rilevanti per la decisione.
Una conclusione, del resto, conforme alle indicazioni offerte dal §. 29 della Relazione del Ministro Guardasigilli al Re sul codice civile, che definisce l’argomento di prova “un sussidio ermeneutico di primaria importanza” messo a disposizione del giudice, poiche’ “dal modo con cui la parte rispondera’ alle richieste di schiarimento rivoltele dal giudice e in generale dal modo con cui la parte si comportera’ nel processo, il giudice potra’, obbedendo soltanto al suo discernimento, trarre preziosi indizi per ricostruire la psicologia dei contendenti e comprendere da che parte sta la buona fede”; in questa maniera realizzandosi, sempre secondo la citata Relazione, quella “integrale considerazione dell’uomo che costituisce anche nei giudizi il canone fondamentale per non intendere in modo meccanico la realta’”.
6.2.4.4. In questa prospettiva, che e’, dunque, quella di un ragionamento inferenziale articolatamente (e solidamente) motivato, non ha alcun rilievo decisivo l’affermazione – compiuta dalla Corte partenopea, in definitiva, solo “ad abundantiam” – secondo cui e’ da ritenere verosimile che il foglio recante la firma del (OMISSIS) fosse stato dallo stesso firmato, come “talora” gia’ avvenuto in passato, “per consentire gli adempimenti fiscali richiesti dal commercialista” (indicato come comune sia alla societa’ di cui il (OMISSIS) era il legale rappresentante, sia a quella odierna ricorrente, societa’, peraltro, legate tra loro da un rapporto di affitto di azienda).
Per tale ragione, dunque, questa Corte e’ esonerata dal dover prendere posizione sull’ammissibilita’ della cd. “praesumptio de praesumpto” (peraltro, nuovamente esclusa, di recente, da Cass. Sez. 3, ord. 18 gennaio 2019, n. 1278, Rv. 652469-01)
Invero, essendo “inammissibile, in sede di giudizio di legittimita’, il motivo di ricorso che censuri un’argomentazione della sentenza impugnata svolta “ad abundantiam”, e pertanto non costituente una “ratio decidendi” della medesima” (da ultimo, Cass. Sez. 1, ord. 10 aprile 2018, n. 8775, Rv. 648883-01; nello stesso senso Cass. sez. Lav., sent. 22 ottobre 2014, n. 22380, Rv. 633495-01), non occorre che questa Corte si soffermi sul tema – posto da una parte della dottrina processualcivilista – se proprio la natura “inferenziale” dell’accertamento presuntivo non comporti il superamento del principio secondo cui “praesumptio de presumpto non admittur”, e cio’ almeno nella situazione in cui esiste una serie lineare di inferenze, ognuna delle quali configura, nella sua conclusione, la premessa dell’inferenza successiva. E cio’ perche’, sottolinea l’indicata dottrina, se questo tipo di ragionamento e’ efficace al fine di stabilire la verita’ del fatto ignorato, quando questo e’ un fatto principale della causa, non vi sarebbe nessuna ragione per escludere che cio’ accada anche quando il fatto prima ignorato e’ in realta’ un fatto secondario, sicche’ una volta stabilito – anche per mezzo di presunzioni semplici – che un fatto secondario e’ vero, non vi sarebbe nessuna ragione per escludere che il relativo enunciato possa costituire la premessa di una ulteriore inferenza presuntiva, a prescindere dalla circostanza che sia destinata a confermare l’ipotesi che riguarda un fatto principale oppure secondario.
Ma, come detto, questa Corte non ha necessita’ – per la ragione sopra indicata – di dover pronunciarsi sul punto.
6.3. Il terzo motivo e’, infine, inammissibile.
6.3.1. Esclusa, dalla Corte territoriale, la “paternita’” della scrittura privata oggetto di causa in capo a (OMISSIS) (essendo stato ravvisato il cd. “abuso di biancosegno”), viene meno la configurabilita’ del documento come “ricognizione di debito”, divenendo irrilevante stabilire se ricorra violazione dell’articolo 1988 c.c..
Trova, pertanto, applicazione il principio secondo cui la “proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al “decisum” della sentenza impugnata e’ assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’articolo 366 c.p.c., n. 4), con conseguente inammissibilita’ del ricorso, rilevabile anche d’ufficio” (Cass. Sez. 6-1, ord. 7 settembre 2017, n. 20910, Rv. 645744-01).
7. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, sicche’ vanno poste a carico della ricorrente e liquidate come da dispositivo.
8. A carico della ricorrente sussiste l’obbligo di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, condannando la societa’ (OMISSIS) & C. S.a.s. a rifondere a (OMISSIS) le spese del presente giudizio, liquidate in Euro 4.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, piu’ spese forfetarie in misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, la Corte da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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