Il reato di coltivazione di stupefacenti

Corte di Cassazione, sezioni unite penali, Sentenza 16 aprile 2020, n. 12348.

Massima estrapolata:

Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo estraibile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza ad effetto stupefacente.

Sentenza 16 aprile 2020, n. 12348

Data udienza 19 dicembre 2019

Tag – Nel rispetto del principio di umanità della pena chiave: Stupefacenti – Reato di coltivazione non autorizzata di piante stupefacenti – Configurabilità – Idoneità della pianta a produrre quantità significative – Sufficienza

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE UNITE PENALI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARCANO Domeni – Presidente

Dott. BRUNO Paolo – Consigliere

Dott. PETRUZZELLIS Anna – Consigliere

Dott. FIDELBO Giorgi – Consigliere

Dott. TARDIO Angela – Consigliere

Dott. DE CRESCIENZO Ugo – Consigliere

Dott. CIAMPI F. M. – Consigliere

Dott. ZAZA Carlo – Consigliere

Dott. ANDRONIO A – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 28/02/2018 della Corte d’appello di Napoli;
visti gli atti, l’ordinanza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal componente Dr. Alessandro Maria Andronio;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Filippi Paola, che ha concluso chiedendo l’annullamento della sentenza senza rinvio con riferimento al reato di coltivazione non autorizzata di sostanze stupefacenti, con trasmissione degli atti alla Corte d’appello per la rideterminazione della pena nonche’ per la valutazione in ordine alla concedibilita’ delle circostanze attenuanti generiche e del beneficio della sospensione condizionale della pena e per il resto l’inammissibilita’ del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 13 marzo 2013, resa all’esito di giudizio abbreviato, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torre Annunziata, ritenuta la continuazione, ha dichiarato l’imputato colpevole dei reati di cui: a) all’articolo 110 c.p. e Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 5, per avere, in concorso con altro soggetto, detenuto a fini di spaccio ed in parte effettivamente ceduto gr. 11,03 di marijuana; b) al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 5, per avere detenuto nella sua abitazione a fini di spaccio 25 dosi di marijuana; c) al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 5, per avere coltivato, per farne commercio, due piante di marijuana dell’altezza di mt. 1 (con 18 rami) e di mt. 1,15 (con 20 rami); d) all’articolo 697 c.p., per avere illegalmente detenuto munizioni per armi comuni da sparo.
Con sentenza del 28 febbraio 2018, la Corte d’appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado: ha assolto l’imputato dal reato di cui al capo b) della rubrica, per insussistenza del fatto; ha dichiarato non doversi procedere in relazione al reato di cui al capo d), perche’ estinto per prescrizione; ha rideterminato la pena per i residui reati di cui ai capi a) e c), unificati nel vincolo della continuazione, nella misura di un anno di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa, confermando le ulteriori statuizioni.
A fondamento della decisione, con specifico riferimento – per quel che e’ di interesse – al reato di coltivazione non autorizzata di sostanze stupefacenti, la Corte territoriale ha ritenuto che dovesse prescindersi dalla destinazione ad uso personale di quanto in sequestro e che, sotto altro profilo, l’offensivita’ della condotta non potesse ritenersi esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, pur in assenza di principio attivo rinvenibile nell’immediatezza, potendosi desumere dall’avanzato stato di crescita, attestato dalla presenza di numerose ramificazioni, l’idoneita’ a rendere, all’esito di un fisiologico sviluppo, quantita’ significative di prodotto.
2. Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, relativo al reato di cui al capo a) della rubrica, la difesa deduce il vizio di travisamento della prova, con riferimento alla relazione di servizio dei carabinieri operanti e alle propalazioni del correo – nei confronti del quale si e’ proceduto separatamente – i cui contenuti smentirebbero la ricostruzione fattuale operata in sentenza, la’ dove si afferma che l’acquirente avrebbe avuto un contatto anche con l’odierno ricorrente e non solo con il correo.
2.2. In secondo luogo, con riferimento al reato di cui al capo c) della rubrica, si lamenta l’erronea applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, in quanto l’offensivita’ della condotta sarebbe stata affermata dalla Corte d’appello in mancanza di un accertamento sull’idoneita’ delle piante a produrre un effetto drogante, che non puo’ desumersi dalla sola presenza di ramificazioni, dato che il principio attivo e’ contenuto nelle infiorescenze. Si lamenta, inoltre, il travisamento della prova, non emergendo, dagli atti acquisiti in giudizio, che le piante avessero raggiunto un apprezzabile grado di sviluppo.
2.3. Con un terzo e un quarto motivo di ricorso, si prospetta l’erronea applicazione degli articoli 62-bis e 163 c.p., sul rilievo che le circostanze attenuanti generiche e la sospensione condizionale della pena sarebbero state negate dalla Corte territoriale sulla base di un reato, indicato quale precedente specifico, con valenza ostativa quanto al riconoscimento della sospensione, che risulta invece commesso in epoca successiva ai fatti in addebito.
3. Il procedimento e’ stato assegnato alla Settima Sezione, la quale, con ordinanza dell’8 marzo 2019, lo ha trasmesso alla Terza Sezione, rilevando l’insussistenza di cause di inammissibilita’.
4. Con ordinanza dell’11 giugno 2019, la Terza Sezione ha evidenziato l’esistenza di contrasti interpretativi nella giurisprudenza di legittimita’ – in relazione alla nozione giuridica della “coltivazione” di piante da cui siano ricavabili sostanze stupefacenti – da sottoporre al vaglio delle Sezioni Unite ai sensi dell’articolo 618 c.p.p., comma 1.
Nell’ordinanza di rimessione si pongono a confronto due differenti indirizzi delineatisi nella giurisprudenza di legittimita’. In particolare si rileva che, secondo un primo indirizzo, ai fini della configurabilita’ del reato di coltivazione di piante stupefacenti, non e’ sufficiente la mera coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, abbia raggiunto la soglia minima di capacita’ drogante, ma e’ altresi’ necessario verificare se tale attivita’ sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato (Sez. 3, n. 36037 del 22/02/2017, Compagnini, Rv. 271805; Sez. 6, n. 8058 del 17/02/2016, Pasta, Rv. 266168; Sez. 6, n. 5254 del 10/11/2015, Pezzato, Rv. 265641; Sez. 6, n. 33835 del 08/04/2014, Piredda, Rv. 260170). Secondo un diverso orientamento, ai fini della punibilita’ della coltivazione di stupefacenti, l’offensivita’ della condotta consiste nella sua idoneita’ a produrre la sostanza per il consumo, sicche’ non rileva la quantita’ di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma la conformita’ della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalita’ di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente, nell’obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza stupefacente (Sez. 6, n. 35654 del 28/04/2017, Nerini, Rv. 270544; Sez. 53337 del 23/11/2016, Trabanelli, Rv. 268695; Sez. 6, n. 52547 del 22/11/2016, Losi, Rv. 268938; Sez. 6, n. 25057 del 10/05/2016, Iaffaldano, Rv. 266974; Sez. 3, n. 23881 del 23/02/2016, Damioli, Rv. 267382).
La Sezione remittente sollecita, dunque, le Sezioni Unite ad un intervento di nomofilachia che definisca la nozione di offensivita’ in concreto del reato di coltivazione non autorizzata di sostanze stupefacenti.
5. Con decreto del Primo Presidente Aggiunto del 10 ottobre 2019, il ricorso e’ stato assegnato alle Sezioni Unite Penali per l’udienza del 19 dicembre 2019.
6. Il pubblico ministero ha depositato note di udienza, con le quali ritiene non condivisibile l’orientamento secondo cui il reato e’ configurabile per il solo fatto della coltivazione, a prescindere dal principio attivo ricavabile nell’immediatezza, sostenendo che la punibilita’ dovrebbe dipendere, invece, dalla positiva verifica dell’idoneita’ della coltivazione a ledere la salute pubblica e a favorire la circolazione della droga, alimentandone il mercato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto per la quale il ricorso e’ stato rimesso alle Sezioni unite, e’ la seguente:
“Se, ai fini della configurabilita’ del reato di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, e’ sufficiente che la pianta, conforme al tipo botanico previsto, sia idonea, per grado di maturazione, a produrre sostanza per il consumo non rilevando la quantita’ di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ovvero se e’ necessario verificare anche che l’attivita’ sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato”.
2. Si tratta di una questione che coinvolge l’estensione e l’ambito di applicazione del principio di offensivita’, in relazione alla fattispecie penale del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, e che richiede, percio’, un’analisi del dibattito giurisprudenziale e dottrinale, a partire dalla giurisprudenza costituzionale, che svolge, sul punto, una essenziale funzione di orientamento interpretativo.
2.1. Deve premettersi che la Corte costituzionale, pur riconoscendo la valenza del principio di offensivita’ in astratto, quale canone che dovrebbe orientare il legislatore nella selezione delle fattispecie incriminatrici, ha sempre ritenuto che l’individuazione delle condotte punibili, come pure la scelta e la quantificazione delle relative sanzioni, rientrino nella discrezionalita’ legislativa, ed ha adottato una linea di self-restraint, per cui la mancanza di offensivita’ e’ ritenuta censurabile solo nella misura in cui le scelte normative confliggano in modo manifesto con il canone della ragionevolezza; in tale quadro, spetta al giudice comune la valutazione sulla sussistenza dell’offensivita’ in concreto.
In particolare, con la sentenza n. 62 del 1986, nel dichiarare non fondata una questione relativa alla normativa sulle armi ed esplosivi (L. 2 ottobre 1967, n. 895, articolo 2), la Corte afferma che “la configurazione delle fattispecie criminose e la valutazione della congruenza fra reati e conseguenze penali appartengono alla politica legislativa e, pertanto, all’incensurabile discrezionalita’ del legislatore ordinario, con l’unico limite della manifesta irragionevolezza”. Specifica, inoltre, che il principio di offensivita’ deve “reggere ogni interpretazione di norme penali”, spettando al giudice, “dopo aver ricavato dal sistema tutto e dalla norma particolare interpretata, il bene od i beni tutelati attraverso l’incriminazione d’una determinata fattispecie tipica, determinare, in concreto, cio’ (…) che, non raggiungendo la soglia dell’offensivita’ dei beni in discussione, e’ fuori del penalmente rilevante”. Con la decisione n. 354 del 2002, si dichiara costituzionalmente illegittima la contravvenzione di cui all’articolo 688 c.p., comma 2, a norma del quale – dopo la depenalizzazione della fattispecie di cui al comma 1 ad opera del Decreto Legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, articolo 54, era punito “chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, e’ colto in stato di manifesta ubriachezza, se il fatto e’ commesso da chi ha gia’ riportato una condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumita’ individuale”. Anche in questo caso, la Corte argomenta la sua decisione utilizzando il paradigma della ragionevolezza, ritenendo incompatibile con il principio di offensivita’ una fattispecie in cui il carico di lesivita’ risultava correlato a condizioni e qualita’ individuali e, in particolare, al vissuto giudiziario dell’autore. Analoghi principi sono affermati, sempre in relazione alla categoria del diritto penale del “tipo d’autore”, dalla sentenza n. 225 del 2008, relativa all’articolo 707 c.p., e dalla sentenza n. 249 del 2010, con cui si e’ dichiarata l’illegittimita’ costituzionale dell’aggravante della clandestinita’ ex articolo 61 c.p., n. 11-bis), introdotta dalla L. 24 luglio 2008, n. 125. Al principio dell’offensivita’ in concreto risulta ispirata anche la sentenza n. 139 del 2014, con cui la Corte esclude l’incostituzionalita’ della mancanza di una soglia minima di punibilita’ per il reato di omesso versamento di contributi previdenziali (secondo la formulazione all’epoca vigente del Decreto Legge 12 settembre 1983, n. 463, articolo 2, comma 1-bis, convertito, con modificazioni, dalla della L. 11 novembre 1983, n. 638, articolo 1, comma 1), con riferimento ad un caso nel quale, pur essendo integrate la materialita’ oggettiva e la tipicita’ del fatto, appariva al giudice remittente l’eccessivita’ della sanzione penale in rapporto ai pochi Euro di contribuzione omessa. Anche in tale decisione, la Corte ribadisce come il problema non trovi soluzione nel sindacato della scelta normativa, bensi’ nella valutazione dell’offensivita’ in concreto che spetta comunque al giudice di merito operare.
Ma e’ la piu’ recente sentenza n. 109 del 2016, che richiamando la precedente giurisprudenza della stessa Corte (sentenze n. 225 del 2008, n. 265 del 2005, n. 519 e n. 263 del 2000), ricorda come il principio di offensivita’ operi su due piani distinti. Da un lato, come precetto rivolto al legislatore, il quale e’ tenuto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (cosiddetta offensivita’ “in astratto”). Dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo per il giudice comune, il quale, nella verifica della riconducibilita’ della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovra’ evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (cosiddetta offensivita’ “in concreto”). Quanto al primo versante, il principio di offensivita’ “in astratto” non implica che l’unico modulo di intervento costituzionalmente legittimo sia quello del reato di danno, perche’ rientra nella discrezionalita’ del legislatore l’opzione per forme di tutela anticipata, le quali colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonche’, correlativamente, l’individuazione della soglia di pericolosita’ alla quale riconnettere la risposta punitiva (sentenza n. 225 del 2008): prospettiva nella quale non e’ precluso, in linea di principio, il ricorso al modello del reato di pericolo presunto (sentenze n. 133 del 1992, n. 333 del 1991 e n. 62 del 1986), ammesso a condizione “che la valutazione legislativa di pericolosita’ del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit” (sentenza n. 225 del 2008; analogamente, sentenza n. 333 del 1991).
2.2. Il principio dell’offensivita’ in concreto trova una sua specifica declinazione nella materia degli stupefacenti, a partire dalla sentenza n. 443 del 1994, con cui la Corte costituzionale dichiara inammissibile la questione di legittimita’ costituzionale del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articoli 28, 72, 73 e 75, come modificati dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 171 del 1993 (che aveva recepito l’esito di precedente referendum abrogativo, sopprimendo il riferimento al concetto di “dose media giornaliera” quale parametro fisso e inderogabile, sintomatico della destinazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope all’uso personale), sollevata per la prospettata violazione dei principi di parita’ di trattamento e di ragionevolezza, nella parte in cui le disposizioni richiamate non escludono l’illiceita’ penale delle condotte di coltivazione o fabbricazione di sostanze stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all’uso personale proprio. Il giudice delle leggi stigmatizza l’omessa verifica della possibilita’ di un’esegesi adeguatrice delle norme impugnate, da parte del giudice rimettente, il quale si sarebbe dovuto porre il problema se, proprio alla luce del riferito ius superveniens, la parziale depenalizzazione della condotta di chi “comunque detiene” fosse estensibile alle condotte di chi coltiva e fabbrica al fine di destinare il prodotto alle esigenze di consumo personali, cosi’ da potersi ritenere sottratta, unitamente a quelle di importazione, acquisto o detenzione per il medesimo fine, alla sfera dell’illiceita’ penale.
Non avendo la giurisprudenza uniformemente aderito a questa linea interpretativa, la questione di legittimita’ costituzionale del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 75, e’ stata in seguito riproposta in relazione ai parametri di cui agli articoli 3, 13, 25 e 27 Cost. Con la sentenza n. 360 del 1995, la Corte costituzionale ritiene l’infondatezza della questione, alla luce del diritto vivente, evidenziando l’insussistenza della denunciata disparita’ di trattamento, in ragione della non assimilabilita’ della condotta delittuosa di coltivazione, prevista dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, con quelle allegate dal giudice remittente come tertia comparationis. Si osserva, in proposito, che la detenzione, l’acquisto e l’importazione di sostanze stupefacenti per uso personale rappresentano condotte collegate immediatamente e direttamente all’uso stesso, e cio’ rende non irragionevole un atteggiamento meno rigoroso del legislatore nei confronti di chi, ponendo in essere una condotta direttamente antecedente al consumo, ha gia’ operato una scelta che, pur se illecita, l’ordinamento non intende contrastare nella piu’ rigida forma della sanzione penale (proprio perche’ incidente in misura pregnante sulla sola salute dell’assuntore); laddove, al contrario, nel caso della coltivazione, l’assenza di un nesso di immediatezza con l’uso personale giustifica una soluzione piu’ severa, rientrando nella discrezionalita’ legislativa anche la propensione a disincentivare comportamenti propedeutici all’approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale. In altri termini, la scelta della non criminalizzazione dell’assunzione – che rappresenta una costante della disciplina di settore, pur nelle alterne formulazioni ispirate a maggiore o minor rigidita’ implica necessariamente anche la non rilevanza penale di comportamenti che ne sono l’immediato antecedente, quali di norma la detenzione, spesso l’acquisto, talvolta l’importazione. E la linea di confine di queste condotte, che si giovano di riflesso di una valutazione di maggiore tolleranza, e’ stata segnata – secondo la Corte – dalle categorie, dapprima dalla modica quantita’, poi dalla dose media giornaliera, infine dall’uso personale; tutte direttamente riferibili, pero’, al nucleo centrale del consumo. Inoltre, la stessa destinazione ad uso personale si presta ad essere apprezzata in termini diversi nelle situazioni comparate: nella detenzione, acquisto ed importazione il quantitativo di sostanza stupefacente e’ certo e determinato e consente, unitamente ad altri elementi attinenti alle circostanze soggettive ed oggettive della condotta, la valutazione prognostica della sua destinazione; invece, nel caso della coltivazione, tale dato non e’ apprezzabile con sufficiente grado di certezza, sicche’ la correlata valutazione della destinazione ad uso personale, piuttosto che a spaccio, risulta maggiormente ipotetica e meno affidabile. Cio’ determina una maggiore pericolosita’ della condotta stessa, perche’ l’attivita’ di coltivazione e’ destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi disponibili sul mercato. E deve sottolinearsi come la Corte costituzionale evidenzi, nella medesima decisione, che l’illiceita’ penale della coltivazione, anche se univocamente destinata all’uso personale, resiste anche alla verifica condotta, ex articoli 25 e 27 Cost., alla stregua del principio di offensivita’, nella sua dimensione di limite costituzionale alla discrezionalita’ del legislatore ordinario. Cosi’ intesa, la categoria dell’inoffensivita’ implica, infatti, la ricognizione dell’astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilita’ del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili. Operata questa astrazione, la coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti mantiene la sua connotazione di reato di pericolo, in quanto idonea ad attentare al bene della salute dei singoli, per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e, quindi, di creare in potenza maggiori occasioni di spaccio. Come gia’ rilevato in precedenti decisioni (n. 133 del 1992, n. 333 del 1991, n. 62 del 1986), la Corte ribadisce, dunque, la compatibilita’ con il principio di offensivita’ della configurazione di reati di pericolo presunto; cosi’ che, con riguardo al reato di coltivazione di stupefacenti, non appare irragionevole o arbitraria la valutazione prognostica, sottesa alla previsione incriminatrice, di potenziale aggressione al bene giuridico protetto.
Diverso profilo, tuttavia, e’ quello dell’offensivita’ in concreto della condotta, la cui verifica e’ devoluta al giudice di merito e la cui eventuale mancanza va ricondotta alla figura del reato impossibile, ex articolo 49 c.p. Quanto all’identificazione, in termini piu’ o meno restrittivi, della nozione di coltivazione, la Corte costituzionale precisa, infine, che si tratta di una questione meramente interpretativa, anch’essa rimessa al giudice ordinario, pur incidendo sulla linea di confine del penalmente rilevante.
Agli stessi principi sono ispirate le successive ordinanze n. 150 e n. 414 del 1996 e, soprattutto, la sentenza n. 296 del 1996, con la quale la Corte costituzionale evidenzia come, con l’attrazione delle tre condotte contemplate dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 75, ove finalizzate all’uso personale, nell’area dell’illecito amministrativo, sia stata modificata la strategia di contrasto alla diffusione della droga, nel senso che e’ stata isolata la posizione del tossicodipendente e del tossicofilo rendendo tali soggetti destinatari soltanto di sanzioni amministrative, significative del perdurante disvalore attribuito alla attivita’ di assunzione; e cio’ non gia’ su base soggettiva, avuto riguardo all’autore della condotta, quasi si trattasse di una immunita’ personale, bensi’ su base oggettiva, in considerazione del profilo teleologico della preordinazione al consumo.
Sulla stessa linea si colloca, ad anni di distanza, la gia’ richiamata sentenza n. 109 del 2016, con cui, alla luce dei parametri dell’articolo 3 Cost., articolo 13 Cost., comma 2, articolo 25 Cost., comma 2 e articolo 27 Cost., comma 3, la Corte costituzionale ribadisce l’infondatezza della questione di legittimita’ costituzionale, articolata in relazione al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 75, nella parte in cui esclude, secondo il diritto vivente, che tra le condotte di reato suscettibili di sola sanzione amministrativa perche’ finalizzate all’uso esclusivamente personale dello stupefacente possa rientrare quella di coltivazione. Ancora una volta, la Corte ritiene legittima la strategia complessiva del legislatore, che ha dettato condizioni e limiti di operativita’ del regime differenziato, negando rilievo sia alla finalita’ dell’uso personale, sia alle condotte con essa logicamente incompatibili, perche’ implicanti la “circolazione” della droga (“vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo”), sia a quelle apparentemente “neutre” (“coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina”) che hanno, tuttavia, l’attitudine ad innescare un meccanismo di creazione di nuove disponibilita’ di droga, quantitativamente non predeterminate, che ne agevolano indirettamente la diffusione, e per tale motivo piu’ insidiose. Si ribadisce anche che “compete al giudice verificare se la singola condotta di coltivazione non autorizzata, contestata all’agente, risulti assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto e, dunque, in concreto inoffensiva, escludendone in tal caso la punibilita’ (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenze 24 aprile-10 luglio 2008, n. 28605 e n. 28606). Risultato, questo, conseguibile sia – secondo l’impostazione della sentenza n. 360 del 1995 – facendo leva sulla figura del reato impossibile (articolo 49 c.p.); sia secondo altra prospettiva – tramite il riconoscimento del difetto di tipicita’ del comportamento oggetto di giudizio”. La pronuncia affronta anche la questione dell’irragionevolezza, prospettata dal giudice rimettente, per disparita’ di trattamento, fra: la condotta di chi detenga per uso personale sostanza stupefacente estratta da piante che egli stesso abbia coltivato – condotta che sarebbe inquadrabile nella formula “comunque detiene”, presente nella norma censurata, cosi’ da essere sanzionata, in tesi, solo in via amministrativa -; e la condotta di coltivazione in atto, programmata per uso sempre personale, e perseguita, alla stregua del “diritto vivente” ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73. La Corte individua il vulnus di una tale prospettazione nella sua inesatta premessa: e cioe’ nell’idea che la detenzione per uso personale dello stupefacente “autoprodotto” renda non punibile la condotta di coltivazione, rimanendo il precedente illecito penale assorbito dal successivo illecito amministrativo. Al contrario – si afferma – tale assorbimento non si verifica nel senso indicato dal rimettente, perche’ a rimanere assorbito e’, semmai, l’illecito amministrativo. Infatti, la disponibilita’ del prodotto della coltivazione non rappresenta altro che l’ultima fase della coltivazione stessa, tale da poter essere qualificata come post factum non punibile, in quanto ordinario e coerente sviluppo della condotta penalmente rilevante.
3. Tra i principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale – e, in particolare, dalle sentenze n. 360 del 1995 e 109 del 2016 – si inserisce la giurisprudenza di legittimita’, i cui contrastanti orientamenti prendono le mosse dalla sentenza delle Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, Rv. 239920 – 239921 (e dalla sentenza gemella n. 28606 del 24/04/2008, Valletta, n. m.).
3.1. Richiamandosi alla precedente giurisprudenza costituzionale, le Sezioni Unite del 2008 ritengono non condivisibile l’orientamento (espresso dalla sentenza Sez. 6, n. 17983 del 18/01/2007, Notaro, Rv. 236666, e da successive pronunce dello stesso anno, tra cui Sez. 6, n. 31968 del 20/06/2007, Satta, Rv. 237210, e Sez. 6, n. 40362 del 11/10/2007, Mantovani, Rv. 237915) secondo cui la coltivazione di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti – che non si sostanzia nella coltivazione in senso tecnico-agrario ovvero imprenditoriale, e cio’ per l’assenza di alcuni presupposti, quali la disponibilita’ del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilita’ di locali per la raccolta dei prodotti, e che, pertanto, rimane nell’ambito concettuale della cosiddetta coltivazione domestica – ricade nella nozione, di genere e di chiusura, della “detenzione”, sicche’ occorre verificare se, nella concreta vicenda, essa sia destinata ad un uso esclusivamente personale del prodotto.
Le Sezioni Unite affermano, al contrario, che costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attivita’ non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale. A tale affermazione aggiungono che, ai fini della punibilita’ della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, spetta al giudice verificare in concreto l’offensivita’ della condotta ovvero l’idoneita’ della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile.
3.1.1. Il primo dei principi enunciati dalle Sezioni Unite, secondo cui la coltivazione non puo’ essere sottratta all’area della repressione penale quale che sia la finalita’ di impiego del prodotto, si fonda, in primo luogo, su un argomento di carattere testuale, ovvero sulla circostanza che, anche dopo le modifiche introdotte per effetto della L. 21 febbraio 2006, n. 49, l’attivita’ di coltivazione non risulta richiamata ne’ dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 1-bis, ne’ dal successivo articolo 75, comma 1, tra quelle sanzionate solo in ambito amministrativo. Cio’ confermerebbe la volonta’ del legislatore di mantenerne comunque la rilevanza penale, non trovando alcun fondamento normativo la distinzione tra coltivazione “tecnico-agraria” e coltivazione “domestica”, da taluni sostenuta per affermare che quest’ultima sia piuttosto riconducibile alla nozione di detenzione, la quale e’ penalmente irrilevante se finalizzata al consumo personale. Al riguardo, la Corte precisa che, se e’ vero che il Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 27, ai fini dell’autorizzazione alla coltivazione, fa riferimento anche alle “particelle catastali” e alla “superficie del terreno sulla quale sara’ effettuata la coltivazione”, e che i successivi articoli 28, 29 e 30 richiamano le modalita’ di vigilanza, raccolta e produzione delle “coltivazioni autorizzate” e le eccedenze di produzione “sulle quantita’ consentite” – elementi potenzialmente evocativi di una coltivazione non limitata all’ambito domestico – e’ pur vero che si tratta di prescrizioni riferite ai requisiti necessari per conseguire l’autorizzazione alla coltivazione. E cio’ – per la Corte – non significa che, ove difettino le relative condizioni quali, ad esempio, la disponibilita’ del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilita’ di locali per la raccolta dei prodotti e le attivita’ di coltivazione non siano di conseguenza suscettibili di essere neanche in astratto autorizzate, esse possano essere considerate lecite. Sempre in relazione alla ritenuta irrilevanza del carattere “domestico” ai fini di escludere la punibilita’ della coltivazione, la Corte richiama, in secondo luogo, un argomento di carattere naturalistico, basato sulla distinzione ontologica fra coltivazione e detenzione, che trova conferma nel fatto che, anche qualora intrapresa con l’intento di soddisfare esigenze di consumo personale, la coltivazione, a differenza della detenzione, e’ attivita’ suscettibile di creare nuove e non predeterminabili disponibilita’ di stupefacenti. In terzo luogo, la sentenza fa perno sulla peculiare dimensione di offensivita’ della coltivazione – gia’ ampiamente evidenziata dalla Corte costituzionale con le pronunce sopra richiamate – sia perche’ tra coltivazione e consumo personale difetta un nesso di immediatezza, cosi’ che restano ipotetiche e comunque scarsamente affidabili le valutazioni in merito alla destinazione della droga all’uso personale piuttosto che alla cessione a terzi; sia perche’ non e’ stimabile a priori, con sufficiente grado di precisione, la potenzialita’ produttiva di una piantagione, cio’ che comporta il rischio di dilatazione del fenomeno, degenerativo ed antisociale, delle tossicomanie.
3.1.2. Sempre sulla scia della giurisprudenza costituzionale, la ricostruzione del reato di coltivazione come strumento di anticipazione della tutela, ovvero in termini di pericolo presunto, trova temperamento – nella stessa pronuncia – in una lettura costituzionalmente orientata del dato normativo, nel senso che spetta al giudice verificare in concreto l’offensivita’ della condotta come idoneita’ della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile. Al riguardo, le Sezioni Unite ribadiscono la duplice valenza, oggettiva e soggettiva del principio di offensivita’. In ossequio, dunque, al principio di offensivita’ cosi’ inteso, la Corte spiega che al giudice spetta accertare se la condotta contestata ed accertata sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, atteso che inoffensiva e’ la condotta che non leda o ponga in pericolo il bene tutelato nemmeno in grado minimo, al riguardo essendo irrilevante il grado dell’offesa; sicche’ l’offensivita’ della condotta di coltivazione deve essere esclusa soltanto se la sostanza ricavabile non sia idonea a produrre un “effetto stupefacente in concreto rilevabile”. Quanto all’oggettivita’ giuridica, la sentenza Di Salvia, la individua nella salute collettiva, ma anche, in parziale continuita’ con le Sez. U., n. 9973 del 21/09/1998, Kremi, Rv. 211073, nella sicurezza e nell’ordine pubblico, rispetto ai quali l’implementazione della provvista di droga costituisce causa di turbativa, nonche’ nella salvaguardia delle giovani generazioni.
3.2. All’orientamento espresso dalle Sezioni Unite nel 2008 si contrappone, nello stesso anno, una pronuncia che riconduce l’offensivita’ dell’illecito di coltivazione alla capacita’, effettiva ed attuale, della sostanza ricavabile a determinare un effetto drogante, ossia a produrre nell’assuntore alterazioni di natura psico-fisica (Sez. 4, n. 1222 del 28/10/2008, Nicoletti, Rv. 242371). Si tratta di una ricostruzione del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice in termini piu’ riduttivi, ancorata alla tutela della salute (dei consumatori attuali e potenziali), il cui fondamento si rinviene negli articoli 2 e 32 Cost.. In particolare, la decisione esprime un’opinione fortemente critica nei confronti della piu’ risalente Sez. U Kremi – in parte recepita dalle Sez. U Di Salvia – sul rilievo che il bene della salute, come parametro di selezione qualitativa della meritevolezza della pena, non dovrebbe essere affiancato da altri beni-interessi strumentali alla sua tutela perche’, proiettando l’attitudine offensiva della condotta su tali strumentali interessi, capaci di apprestare una tutela mediata al bene costituzionalmente protetto, quali la lotta al mercato della droga o la tutela delle giovani generazioni, o su valori, quali la sicurezza, l’ordine pubblico ed il normale sviluppo delle giovani generazioni, anch’essi visti come serventi rispetto alla tutela di questi beni, scolora il concetto stesso di offensivita’. Di qui l’esigenza – evidenziata dalla sentenza Nicoletti – che la condotta tipica del reato di coltivazione illecita abbia come oggetto sostanze aventi il duplice requisito formale, della iscrizione nelle tabelle, e sostanziale, dell’efficacia stupefacente o psicotropa, la quale e’ coessenziale alla offensivita’ del fatto. La conclusione che se ne trae e’ l’irrilevanza penale della condotta di coltivazione qualora il ciclo di maturazione delle piante, pur conforme al tipo botanico, non sia tale da produrre, al momento dell’accertamento, un principio attivo dotato di efficacia drogante, a prescindere da una sua futura eventuale produzione (nello stesso senso, ad anni di distanza, Sez. 6, n. 2618 del 21/10/2015, Marongiu, Rv. 265640).
3.3. Negli ultimi anni la giurisprudenza si e’ ancora divisa sulla declinazione del concetto di “offensivita’ in concreto”, essenzialmente intorno ai due differenti filoni interpretativi richiamati nell’ordinanza di rimessione, che condividono il solo ovvio presupposto della conformita’ al tipo botanico vietato della pianta da cui siano estraibili sostanze stupefacenti.
3.3.1. Il primo degli indirizzi in questione ritiene irrilevante la verifica dell’efficacia drogante delle sostanze ricavabili dalle colture con riferimento all’atto dell’accertamento della polizia giudiziaria e si incentra sull’attitudine della pianta, conforme al tipo botanico vietato, anche in relazione alle modalita’ che connotano la coltivazione, a giungere a maturazione e produrre, all’esito di un fisiologico sviluppo, sostanze ad effetto stupefacente o psicotropo, sulla base, dunque, di un giudizio predittivo.
Nell’ambito di tale orientamento, assume particolare rilevanza Sez. 6, n. 22459 del 15/03/2013, Cangemi, Rv. 255732, la quale muove dal presupposto che il legislatore ha inteso incriminare l’attivita’ di “coltivazione” – cosi’ definita, senza alcuna aggettivazione – di organismi vegetali da cui sono ritraibili sostanze stupefacenti, con la conseguenza che essa deve ritenersi integrata gia’ dalla messa a dimora dei semi. Tanto si evince – secondo la sentenza – dal fatto che non configura la condotta di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, neanche a livello di tentativo, il commercio di semi di piante atte a produrre sostanze stupefacenti, il quale refluisce piuttosto nella categoria degli atti meramente preparatori, non aventi connotazione inequivoca, poiche’ dal detto possesso non e’ dato dedurre con certezza quale sara’ l’effettivo impiego del seme stesso (nel solco di Sez. U, n. 47604 del 18/10/2012, Bargelli, Rv. 253552).
Quanto alla normativa sovranazionale, si richiama la Decisione Quadro del Consiglio dell’Unione Europea 2004/757/GAI del 25 ottobre 2004, la quale, nel dettare norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti, aveva indicato anche la coltivazione della cannabis tra le condotte per le quali i singoli Stati devono applicare sanzioni penali.
E’ ascrivibile allo stesso orientamento anche Sez. 3, n. 21120 del 31/01/2013, Colamartino, Rv. 255427, che – con netta presa di distanza dalla citata sentenza Nicoletti – critica l’assunto secondo cui la mancata maturazione delle colture all’atto del sequestro impedirebbe di ritenere l’offensivita’ della condotta; e cio’ perche’ l’idoneita’ offensiva della coltivazione – secondo tale decisione – va valutata in assoluto, non potendo dipendere da circostanze occasionali e contingenti, quale la tempestiva “scoperta” della piantagione da parte della polizia giudiziaria. Diversamente, si perverrebbe all’irrazionale conclusione di escludere la rilevanza penale di una coltivazione anche di notevoli dimensioni, con elevato numero di piante messe a dimora, per il solo fatto che ne sia stata accertata l’esistenza all’inizio del processo di maturazione e che, esclusivamente per tale circostanza fattuale, la stessa sia risultata non produttiva, nell’immediato, di principio attivo.
Analoga e’ la prospettiva adottata da Sez. 6, n. 6753 del 09/01/2014, M., Rv. 258998, nella quale, dopo avere precisato che il legislatore ha inteso punire ogni attivita’ che incrementi il rischio di diffusione delle sostanze stupefacenti, arretrando la soglia di tutela fino a colpire le fasi di produzione, si ribadisce che la coltivazione deve risultare ragionevolmente ed univocamente orientata verso la materializzazione delle sostanze, con la conseguenza che l’accertamento va rapportato al ciclo di sviluppo vegetale delle piante. L’offensivita’ risulta, dunque, assicurata: a) in astratto, dalla proiezione causale tipica della condotta incriminata (correlata all’identificazione della specie vegetale ed alla sua corrispondenza al tipo vietato); b) in concreto, dalla verifica giudiziale della capacita’ della condotta che, per le caratteristiche assunte nei singoli casi (avuto riguardo alla qualita’ delle piante, al loro numero e agli altri elementi rilevanti), deve apparire tale da incrementare significativamente il rischio della produzione di sostanze utili al consumo. Cio’ posto, se, a fronte di un ciclo vegetale gia’ esaurito, il processo di verifica va condotto ex post, sicche’ la rilevanza della condotta potra’ essere esclusa quando si riscontri l’assenza di efficacia stupefacente del prodotto – in consonanza con l’insegnamento delle Sezioni Unite Di Salvia – per le ipotesi di vegetali in crescita rilevera’, invece, l’attitudine a produrre sostanze utili per il consumo.
Ulteriori pronunce ribadiscono tali principi, sul presupposto che la coltivazione sia attivita’ che si riferisce all’intero ciclo evolutivo dell’organismo biologico, sottolineando che l’offensivita’ della condotta di coltivazione in corso non puo’ ritenersi esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l’assenza di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, a condizione che gli arbusti siano prevedibilmente in grado di rendere, all’esito di un fisiologico sviluppo, quantita’ significative di prodotto dotato di effetti droganti, dovendosi verificare ex ante l’assenza di ostacoli al futuro, fisiologico sviluppo della pianta (Sez. 6, n. 10169 del 10/02/2016, Tamburini, Rv. 266513; Sez. 6, n. 25057 del 10/05/2016, Iaffaldano, Rv. 266974; Sez. 4, n. 53337 del 23/11/2016, Trabanelli, Rv. 268695; Sez. 6, n. 52547 del 22/11/2016, Losi, Rv. 268938; Sez. 6, n. 35654 del 28/04/2017, Nerini, Rv. 270544; Sez. 4, n. 27213 del 21/05/2019, Bongi, Rv. 275877).
3.3.2. Secondo la ricostruzione operata nell’ordinanza di rimessione, all’indirizzo sopra descritto se ne contrappone un altro, che non ritiene sufficiente la verifica della conformita’ della pianta coltivata al tipo botanico proibito e della capacita’ della sostanza, ricavata o ricavabile, a produrre un effetto drogante, ma richiede un quid pluris, rappresentato dal concreto pericolo di aumento di disponibilita’ dello stupefacente e di ulteriore diffusione dello stesso.
Tra le prime sentenze che, pur sviluppando il percorso logico-argomentativo delle Sezioni Unite Di Salvia, giungono ad escludere in concreto l’offensivita’ della condotta, deve essere ricordata Sez. 4, n. 25674 del 17/02/2011, Marino, Rv. 250721, riferita alla coltivazione di un’unica pianta in vaso, contenente una piccola quantita’ di principio attivo. La pronuncia ritiene l’assoluta modestia della condotta, desumibile dalle sue connotazioni fattuali, invocando il reato impossibile, ricostruito, sul piano dogmatico, quale versione al “negativo” del tentativo di cui all’articolo 56 c.p., ovvero quale meccanismo per ritenere non punibili le condotte solo apparentemente conformi al tipo, ma che risultino del tutto carenti di lesivita’ a posteriori, secondo una tendenza gia’ in atto nella legislazione, rappresentata dal Decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, articolo 27, regolativo del processo penale minorile, che prevede la pronuncia di improcedibilita’ per irrilevanza del fatto, nonche’ dal Decreto Legislativo 28 agosto 2000, n. 274, articolo 34, sul procedimento davanti al giudice di pace, che prevede, fra l’altro, l’esclusione della procedibilita’ per particolare tenuita’ del fatto.
Piu’ in linea con la sentenza Di Salvia si pone Sez. 3, n. 23082 del 09/05/2013, De Vita, Rv. 256174, la quale afferma che l’accertamento dell’offensivita’ deve investire l’estensione ed il livello di strutturazione della coltivazione, a prescindere dalla quantita’ di principio attivo e giunge, cosi’, a ravvisare la sussistenza del reato con riferimento ad un caso di coltivazione di 43 piantine di cannabis, che all’atto del sequestro evidenziavano – ad eccezione di una sola – un contenuto di sostanza ricavabile inferiore sia al valore di una dose singola che alla dose soglia; e cio’ sulla considerazione che nella piantagione erano presenti semi ed impianti di innaffiamento e riscaldamento dei locali, finalizzati a favorire la crescita e lo sviluppo significativo delle piantumazioni.
La sentenza Sez. 6, n. 5254 del 10/11/2015, Pezzato, Rv. 265641, relativa alla coltivazione di due piante di canapa indiana e alla detenzione in essiccatore di foglie della medesima specie vegetale, giunge a riscontrare la carenza di offensivita’ in concreto nell’inverosimiglianza di un pericolo di diffusione sul mercato, per la quantita’ assolutamente “minima” di prodotto, resa disponibile dalla limitatezza della fonte di produzione, in relazione al bassissimo costo a cui quel tipo di sostanza e’ reperibile sul mercato, nonostante il raggiungimento della soglia drogante. In tale contesto, la Corte precisa che il canone ermeneutico dell’offensivita’ deve ritenersi valido, pur all’esito della introduzione della causa di non punibilita’ per particolare tenuita’ del fatto di cui all’articolo 131-bis c.p., per effetto del Decreto Legislativo 16 marzo 2015, n. 28, non avendo i due istituti spazi di interferenza applicativa. La causa di non punibilita’, inserita nell’ambito delle determinazioni che il giudice assume in relazione alla pena, presuppone – oltre ad une serie di requisiti di natura soggettiva riassumibili nella non abitualita’ della condotta – un reato perfezionato in tutti i suoi elementi costitutivi (come e’ dato evincere dalle conseguenze che la pronuncia di proscioglimento per particolare tenuita’ del fatto proietta nei giudizi civili ed amministrativi per le restituzioni ed il risarcimento del danno), ma immeritevole di pena, e dunque postula che la condotta sia pur sempre connotata da offensivita’, ancorche’ esigua; al contrario, la mancanza di offensivita’ colloca la condotta al di fuori dell’area della tipicita’ penale, rendendo il reato di fatto impossibile.
Si inscrivono nel medesimo orientamento anche le sentenze Sez. 6, n. 33835 del 08/04/2014, Piredda, Rv. 260170 e Sez. 6, n. 8058 del 17/02/2016, Pasta, Rv. 266168, che escludono l’offensivita’ in concreto per la modesta entita’ della coltivazione e del principio attivo ricavato, ritenuto destinato ad uso personale e, dunque, inidoneo ad una ulteriore diffusione sul mercato; mentre la sentenza Sez. 3, n. 36037 del 22/02/2017, Compagnini, Rv. 271805, fa perno sulla distinzione tra tipicita’ e offensivita’, affermando che l’assenza di un qualunque effetto stupefacente nella sostanza prodotta o coltivata non esclude tanto l’offensivita’ quanto, piuttosto, la stessa tipicita’ della condotta.
Con accenti parzialmente diversi, la sentenza Sez. 4, n. 3787 del 19/01/2016, Festi, Rv. 265740, pur ribadendo che la punibilita’ per l’illecito di coltivazione e’ esclusa quando la condotta sia cosi’ trascurabile da rendere sostanzialmente irrilevante l’aumento di disponibilita’ della droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione di essa, precisa che non e’ sufficiente considerare il solo dato quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante, dovendosi altresi’ valutare l’estensione ed il livello di strutturazione della coltivazione, al fine di verificare se da essa possa derivare o meno una produzione potenzialmente idonea ad incrementare il mercato.
4. Ritengono le Sezioni Unite che l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e di legittimita’ in materia di coltivazione di piante stupefacenti evidenzi alcuni punti fermi e alcuni profili problematici. Dalla disamina degli indirizzi giurisprudenziali sopra riportati – e ritenuti tra loro in conflitto dall’ordinanza di rimessione – emerge, in particolare, la mancanza di una netta linea di discrimine fra le pronunce che fanno riferimento alla potenziale idoneita’ della coltivazione a incrementare il mercato degli stupefacenti e quelle che non vi fanno riferimento, che giungono, in alcuni casi, a esiti pratici sovrapponibili. E cio’, per l’oggettiva ambiguita’ dello stesso concetto di incremento del mercato, legata sia alla sua intrinseca vaghezza, sia alle difficolta’ di accertamento dovute al suo carattere clandestino, in relazione al quale vi e’ una sostanziale impossibilita’ di avere a disposizione dati certi e verificabili (come ben evidenziato da Sez. 4, n. 17167 del 27/01/2017, Simoncelli, Rv. 269539); considerazioni critiche che valgono anche per l’analogo concetto di “saturazione del mercato” che, a suo tempo, era stato proposto dalla giurisprudenza con riferimento alla circostanza aggravante dell’ingente quantita’ di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 80, comma 2, (ex multis, Sez. 5, n. 22766 del 03/05/2011, Mazzotta, Rv. 250398; Sez. 2, n. 4824 del 12/01/2011, Baruffaldi, Rv. 249628; Sez. 5, n. 39205 del 09/07/2008, Di Pasquale, Rv. 241694). In ogni caso, al di la’ dell’asimmetria di piani tra le sentenze che nell’ordinanza di rimessione sono indicate quali espressive del contrasto, la Sezione remittente auspica, nella sostanza, la definizione di paradigmi ricostruttivi che possano valere in relazione alla coltivazione “domestica”, di entita’ oggettivamente modesta.
Cosi’ delineato l’oggetto della questione, deve essere richiamata e ribadita quale punto di partenza di ogni riflessione – la distinzione (ben delineata, tra le altre, dalle sentenze Corte Cost. n. 360 del 1995 e Sez. U, Di Salvia) tra le categorie della tipicita’ e dell’offensivita’ del reato e, nell’ambito di quest’ultima, tra offensivita’ in astratto e offensivita’ in concreto.
4.1. E’ da ricondurre al piano della tipicita’, intesa come riconducibilita’ della fattispecie concreta al “tipo” disciplinato dalla fattispecie astratta, il duplice requisito della conformita’ della pianta al tipo botanico vietato e della sua attitudine, anche per le modalita’ di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente. Tale requisito e’ correttamente ritenuto imprescindibile, ai fini della configurabilita’ del reato, da tutti gli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati: perche’ vi sia una coltivazione penalmente rilevante e’ necessario, non solo che la stessa abbia per oggetto una pianta che sia in concreto idonea a produrre sostanze vietate, ma anche che siano utilizzate, a tal fine, strumentazioni e pratiche agricole tecnicamente adeguate.
4.2. Altro profilo attinente alla tipicita’ del fatto e’ quello dell’ambito di applicazione della tutela penale, in relazione al quale una parte della giurisprudenza di legittimita’ richiamata opera una distinzione tra “coltivazione imprenditoriale” e “coltivazione domestica”; distinzione che a volte viene ricondotta all’ambito dell’offensivita’ (come evidenziato, con considerazioni di carattere generale, da C. Cost. n. 109 del 2016).
Come visto, la giurisprudenza costituzionale fa salva la repressione penale della coltivazione sotto il profilo della tipicita’, lasciando al giudice comune il compito di individuare in concreto l’ambito e i limiti dell’applicazione della fattispecie e consentendogli, dunque, un’interpretazione piu’ o meno restrittiva del concetto di coltivazione. Se, infatti, la sentenza n. 443 del 1994 sembra prendere posizione a favore di una rimodulazione dell’ambito del penalmente rilevante, da parte del legislatore o dell’interprete, dando spazio alla possibile equiparazione tra la coltivazione ad uso personale e la detenzione ad uso personale, la sentenza n. 360 del 1995 e la giurisprudenza successiva valorizzano la peculiarita’ della condotta di coltivazione, ponendo l’accento sulla piena legittimita’ costituzionale della ricostruzione della fattispecie in termini di pericolo presunto e ritenendo l’identificazione, in termini piu’ o meno restrittivi, della nozione di coltivazione, come una questione meramente interpretativa, la quale, pur incidendo sulla linea di confine del penalmente rilevante, deve essere rimessa al giudice ordinario. In questo ambito, si inserisce la richiamata sentenza Di Salvia, la quale, in un’ottica di accentuata preoccupazione per il problema della tossicodipendenza, opta per l’affermazione della rilevanza penale di qualsiasi attivita’ non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale.
Ritengono le Sezioni Unite che tale affermazione, pur condivisa da gran parte della giurisprudenza di legittimita’, debba essere rivista.
4.2.1. L’equiparazione operata dalla sentenza del 2008 tra coltivazione tecnico-agraria e coltivazione domestica trae il suo fondamento – come visto nella riconosciuta autonomia concettuale della condotta di coltivazione rispetto alla condotta di detenzione, che trova ampia conferma nella richiamata giurisprudenza costituzionale. Si tratta di un inquadramento che deve essere in questa sede confermato, in quanto corretto sul piano letterale e sistematico. Esso si basa, innanzitutto, sul dato normativo del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 28, comma 1 il quale equipara la coltivazione delle piante vietate indicate nel precedente articolo 26 alla fabbricazione illecita di sostanze stupefacenti. Tale previsione e’ doppiata da quella del cit. D.P.R., articolo 73, comma 1, che punisce espressamente la coltivazione di sostanze stupefacenti distinguendola dalla detenzione, di cui al successivo comma 1-bis, punita nei limiti in cui lo stupefacente appaia destinato ad uso non esclusivamente personale; limitazione non prevista per la coltivazione. Anche dopo le modifiche introdotte dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, e i successivi interventi normativi sul sistema, il legislatore persiste, dunque, nell’intenzione di equiparare la coltivazione non autorizzata alla produzione o fabbricazione non autorizzate (in tal senso, anche l’articolo 73, comma 3), per le quali l’eventuale destinazione ad uso personale non assume efficacia scriminante. Il sistema e’ completato dal successivo articolo 75 dello stesso D.P.R., che qualifica quali illeciti amministrativi, escludendoli dall’ambito di applicazione del diritto penale, l’importazione, esportazione, acquisto, ricezione, detenzione di stupefacenti ad uso personale, senza estendere tale esclusione alla coltivazione, produzione o fabbricazione (in tal senso, ampiamente, Corte Cost., n. 109 del 2016). Ne consegue che la coltivazione non puo’ essere ritenuta una sottospecie della detenzione, come tale punibile solo in quanto vi sia stata effettiva produzione di sostanza dotata di efficacia drogante, perche’ una tale interpretazione (fatta propria, tra le altre, dalla citata sentenza Sez. 6, n. 17983 del 2007, Notaro), oltre a scontrarsi con il tenore letterale di una pluralita’ di disposizioni normative, si pone in rotta di collisione con la chiara scelta del legislatore di punire ogni forma di produzione di stupefacenti, se necessario, anticipando la tutela al momento in cui si manifesta un pericolo ragionevolmente presunto per la salute.
4.2.2. Ferma restando la sua autonomia concettuale, la nozione giuridica di coltivazione deve, pero’, essere circoscritta, per dare spazio alla distinzione tra coltivazione “tecnico-agraria” e coltivazione “domestica”, seppure nell’ambito di una ricostruzione sistematica parzialmente diversa rispetto a quella proposta dalla giurisprudenza che ha valorizzato tale distinzione. Non puo’ essere, in particolare, condivisa, sul punto, l’affermazione (contenuta, ad esempio, nella richiamata sentenza n. 17983 del 2007), secondo cui la coltivazione domestica e’ riconducibile alla nozione di detenzione, la quale e’ penalmente irrilevante se finalizzata al consumo personale. Tale affermazione si basa, infatti, sul presupposto della commistione fra il concetto di coltivazione il concetto di detenzione, che deve essere esclusa sulla base delle considerazioni appena svolte. L’irrilevanza penale della coltivazione di minime dimensioni, finalizzata esclusivamente al consumo personale, deve, in altri termini, essere ancorata, non alla sua assimilazione alla detenzione e al regime giuridico di quest’ultima, ma, piu’ linearmente, alla sua non riconducibilita’ alla definizione di coltivazione come attivita’ penalmente rilevante; dandosi, cosi’, un’interpretazione restrittiva della fattispecie penale, che si giustifica tanto piu’ per la sua natura di reato di pericolo presunto (su cui v. infra), nell’ottica garantista di un corretto bilanciamento fra ampiezza e anticipazione della tutela.
Deve essere dato rilievo, a tal fine, al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 27, il quale, ai fini dell’autorizzazione alla coltivazione, fa riferimento anche alle “particelle catastali” e alla “superficie del terreno sulla quale sara’ effettuata la coltivazione”, mentre i successivi articoli 28, 29 e 30 richiamano le modalita’ di vigilanza, raccolta e produzione delle “coltivazioni autorizzate” e le eccedenze di produzione “sulle quantita’ consentite”; elementi evocativi di una coltivazione “tecnico-agraria”, di apprezzabili dimensioni e realizzata per finalita’ commerciali, non limitata, dunque, all’ambito domestico. D’altra parte, la stessa sentenza Di Salvia, nel sottolineare la distinzione ontologica fra coltivazione e detenzione, afferma che la coltivazione, a differenza della detenzione, e’ attivita’ suscettibile di creare nuove e non predeterminabili disponibilita’ di stupefacenti; ma tale affermazione non si attaglia alle coltivazioni domestiche di minime dimensioni, intraprese con l’intento di soddisfare esigenze di consumo personale, perche’ queste hanno, per definizione, una produttivita’ ridottissima e, dunque, insuscettibile di aumentare in modo significativo la provvista di stupefacenti. La prevedibilita’ della potenziale produttivita’ e’, quindi, uno dei parametri che permettono di distinguere fra la coltivazione penalmente rilevante, dotata di una produttivita’ non stimabile a priori con sufficiente grado di precisione, e la coltivazione penalmente non rilevante, caratterizzata da una produttivita’ prevedibile come modestissima.
Si tratta, pero’, di un parametro che, per poter operare con sufficiente certezza, deve essere ancorato a presupposti oggettivi in parte gia’ individuati dalla giurisprudenza (ex plurimis, Sez. 3, n. 21120 del 31/01/2013, Colamartino, Rv. 255427; Sez. 6, n. 6753 del 09/01/2014, M., Rv. 258998; Sez. 6, n. 33835 del 08/04/2014, Piredda, Rv. 260170 e Sez. 6, n. 8058 del 17/02/2016, Pasta, Rv. 266168) – che devono essere tutti compresenti, quali: la minima dimensione della coltivazione, il suo svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, la rudimentalita’ delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, la mancanza di indici di un inserimento dell’attivita’ nell’ambito del mercato degli stupefacenti, l’oggettiva destinazione di quanto prodotto all’uso personale esclusivo del coltivatore. A contrario, la circostanza che la coltivazione sia intrapresa con l’intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale deve essere ritenuta da sola insufficiente ad escluderne la rispondenza al tipo penalmente sanzionato, perche’ – come appena visto – la stessa deve concretamente manifestare un nesso di immediatezza oggettiva con l’uso personale.
4.3. Venendo al versante dell’offensivita’ dell’attivita’ di coltivazione, vanno ribadite e rafforzate le conclusioni cui e’ giunta la piu’ volte richiamata sentenza Di Salvia, riprendendo affermazioni della Corte costituzionale.
4.3.1. Ritengono, infatti, le Sezioni Unite che l’esclusione della punibilita’ delle attivita’ di coltivazione domestica, che opera sul piano della tipicita’, renda a fortiori condivisibili le considerazioni svolte dalla giurisprudenza maggioritaria circa la piu’ spiccata pericolosita’ della coltivazione rispetto alla maggior parte delle altre condotte elencate nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, – ovvero, quelle diverse dalla fabbricazione e dalla produzione – perche’ l’attivita’ di coltivazione e’ destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi di stupefacente disponibili. E cio’, a tacere del fatto che, a differenza delle altre condotte “produttive”, l’attivita’ colturale ha la peculiarita’ di non richiedere neppure la disponibilita’ di “materie prime” soggette a rigido controllo, ma normalmente solo di semi (C. Cost., n. 109 del 2016). E’, dunque, ampiamente giustificato l’esercizio della discrezionalita’ legislativa nella strutturazione della fattispecie penale, nel senso dell’anticipazione della tutela fino al pericolo presunto, in quanto corrisponde alla normalita’ della pratica agricola la conseguenza dell’incremento della provvista esistente di stupefacente, idoneo ad attentare al bene della salute collettiva e dei singoli, creando in potenza maggiori occasioni di spaccio. In altri termini, deve essere ritenuta pienamente conforme con il principio di ragionevolezza la valutazione prognostica di potenziale aggressione al bene giuridico protetto, sottesa all’incriminazione della coltivazione, con la sola esclusione di quella domestica, alle condizioni sopra richiamate.
La riconosciuta anticipazione di tutela consente anche di risolvere la questione se l’oggettivita’ giuridica del reato debba essere individuata solo nella salute individuale o collettiva (come in Sez. 4, n. 1222 del 28/10/2008, Nicoletti, Rv. 242371) o anche: nella sicurezza, nell’ordine pubblico, nella salvaguardia delle giovani generazioni (come nelle sentenze Sez. U., Di Salvia e Kremi), nell’impedimento dell’incremento del mercato degli stupefacenti (come nella ricostruzione operata nell’ordinanza di rimessione).
L’utilizzazione dello schema del reato di pericolo presunto rende superfluo, infatti, il richiamo a concetti come la sicurezza, l’ordine pubblico o il mercato clandestino, che, con riferimento alla fattispecie in esame, appaiono declinati in forma eccessivamente generica perche’ privi di un collegamento sufficientemente diretto con quello della salute, il quale trova un solido ancoraggio costituzionale nell’articolo 32, che lo qualifica addirittura come diritto soggettivo. Del pari, nessuna autonomia semantica puo’ essere riconosciuta alla “salvaguardia delle giovani generazioni”; locuzione che, per evitare impropri sconfinamenti nel terreno dell’etica, deve intendersi ricompresa nel piu’ generale concetto di salute, non potendo che essere interpretata come “salvaguardia della salute delle giovani generazioni”. Al fine di individuare l’oggetto giuridico della tutela, e’ sufficiente, dunque, riferirsi alla salute, individuale e collettiva, proprio perche’ la particolare pregnanza di tale valore costituzionale consente che la sua protezione sia anticipata ad un momento precedente a quello dell’effettiva lesione.
4.3.2. La ricostruzione sistematica del reato di coltivazione di stupefacenti, in termini di pericolo presunto, trova adeguato temperamento nella valorizzazione dell’offensivita’ “in concreto”, quale criterio interpretativo affidato al giudice, il quale e’ tenuto a verificare che il fatto abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene-interesse tutelato. Ne consegue che il reato non potra’ essere ritenuto sussistente qualora si verifichi ex post che la coltivazione ha effettivamente prodotto una sostanza inidonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. Dunque, la verifica dell’offensivita’ in concreto deve essere diversificata a seconda del grado di sviluppo della coltivazione al momento dell’accertamento, nel senso che, qualora il ciclo delle piante sia completato, l’accertamento dovra’ avere per oggetto l’esistenza di una quantita’ di principio attivo necessario a produrre effetto drogante. Invece, con riferimento a fasi pregresse di coltivazione, la previsione specifica della punibilita’ della coltivazione in quanto tale non consente di ritenere che si tratti di attivita’ sostanzialmente libera fino a quando non si abbia la certezza dell’effettivo sviluppo del principio attivo. Al contrario, per l’ampia dizione della legge, rileva penalmente la coltivazione a qualsiasi stadio della pianta che corrisponda al tipo botanico, purche’ si svolga in condizioni tali da potersene prefigurare il positivo sviluppo. In conclusione, potranno rilevare, al fine di escludere la punibilita’: a) un’attuale inadeguata modalita’ di coltivazione da cui possa evincersi che la pianta non sara’ in grado di realizzare il prodotto finale; b) un eventuale risultato finale della coltivazione che non consenta di ritenere il raccolto conforme al normale tipo botanico, ovvero abbia un contenuto in principio attivo troppo povero per la utile destinazione all’uso quale droga (Sez. 6, n. 22459 del 15/03/2013, Cangemi, Rv. 255732). Questa soluzione – lo si ribadisce – ha il duplice merito di rispettare l’autonomia concettuale della coltivazione rispetto alla detenzione (nel senso che puo’ ontologicamente aversi coltivazione senza detenzione, cioe’ senza produzione in atto di sostanza stupefacente), e di venire incontro all’esigenza, che appartiene alla sfera della logica ancor prima che a quella della politica criminale, di evitare che l’effettiva sussistenza del reato dipenda dal dato, puramente contingente, rappresentato dal momento dell’accertamento.
Diversamente opinando, del resto, potrebbero essere ritenute penalmente irrilevanti coltivazioni industriali, anche di larghe dimensioni e potenzialmente molto produttive, per il solo fatto di trovarsi in un arretrato stadio di sviluppo (come ben evidenziato nella citata sentenza Sez. 3, n. 21120 del 31/01/2013, Colamartino).
4.3.3. Sul piano dell’offensivita’, deve dunque concludersi che il reato di coltivazione di stupefacenti e’ configurabile indipendentemente dalla quantita’ di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficiente la conformita’ della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalita’ di coltivazione, a giungere a maturazione e produrre sostanza stupefacente. E per coltivazione dovra’ intendersi l’attivita’ svolta dall’agente in ogni fase dello sviluppo della pianta, dalla semina fino al raccolto.
5. Le conclusioni raggiunte si pongono in armonia con la decisione quadro 25 ottobre 2004, n. 2004/757/GAI (Decisione quadro del Consiglio riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti). Infatti, questa – dopo aver enumerato le condotte connesse al traffico di stupefacenti che gli Stati membri dell’Unione Europea sono chiamati a configurare come reati (tra cui anche la coltivazione della cannabis: articolo 2, paragrafo 1) – esclude dal proprio campo applicativo le condotte (coltivazione compresa) “tenute dai loro autori soltanto ai fini del (…) consumo personale quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali” (articolo 2, paragrafo 2). Sotto diverso profilo, la previsione di sanzioni per “la distribuzione di precursori, quando la persona che compie tali atti sia a conoscenza del fatto che essi saranno utilizzati per la produzione o la fabbricazione illecite di stupefacenti” dimostra che la punibilita’ si riferisce ad un momento precedente a quello in cui la sostanza viene ad esistenza. E d’altra parte, la stessa fonte sovranazionale considera la punibilita’ anche di altre ipotesi in cui vi e’ il rischio di diffusione di stupefacente, anche se non ancora prodotto, da un lato prescrivendo, all’articolo 3, che ciascuno Stato Membro provveda affinche’ siano qualificati come reato l’istigazione, la complicita’ o il tentativo di commettere uno dei reati di cui all’articolo 2; dall’altro rimettendo alla discrezionalita’ legislativa degli stati membri l’opzione di non punire il tentativo di offerta o di preparazione di stupefacenti di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), nonche’ il tentativo di detenzione di stupefacenti di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettera c), ma non pure le condotte di coltivazione e di distribuzione di precursori, per le quali permane il vincolo degli Stati membri a punire, anche se non si sia ancora prodotta sostanza di qualita’ adeguata, anticipandosi cosi’ la punizione all’inizio di dette attivita’ (sul punto, Sez. 6, n. 22459 del 15/03/2013, Cangemi, Rv. 255732). In ogni caso, come evidenziato dalla sentenza Corte Cost. n. 109 del 2016 – che si confronta espressamente con tale atto normativo – si tratta di un testo che si limita a prevedere “norme minime” in tema di repressione penale delle condotte aventi ad oggetto sostanze stupefacenti e non obbliga, percio’, gli Stati membri a prevedere come reato la coltivazione per uso personale, ma neppure impedisce loro di farlo. Infatti, nel quarto “considerando” afferma che “l’esclusione di talune condotte relative al consumo personale dal campo di applicazione della presente decisione quadro non rappresenta un orientamento del Consiglio sul modo in cui gli Stati membri dovrebbero trattare questi altri casi nella loro legislazione nazionale”.
6. In conclusione, le Sezioni Unite ritengono che la soluzione da dare alla questione sollevata con l’ordinanza di rimessione debba basarsi sull’affermazione della mancanza di tipicita’ – qualora ricorrano tutte le condizioni sopra specificate – della condotta di coltivazione domestica destinata all’autoconsumo; condotta in relazione alla quale non potra’ trovare applicazione il Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 75, perche’ tale disposizione non si riferisce in nessun caso alla coltivazione, neanche a quella penalmente rilevante.
Qualora, pero’, la coltivazione domestica a fini di autoconsumo produca effettivamente una sostanza stupefacente dotata di efficacia drogante, le sanzioni amministrative dell’articolo 75 richiamato potranno essere applicate al soggetto agente considerato non come coltivatore, ma come detentore di sostanza destinata a uso personale. In presenza di una coltivazione penalmente rilevante, invece, la detenzione da parte del coltivatore dello stupefacente prodotto dovra’ essere ritenuta assorbita nella coltivazione, secondo le indicazioni gia’ fornite in tal senso da Corte Cost. n. 109 del 2016, per cui la disponibilita’ del prodotto della coltivazione non rappresenta altro che l’ultima fase della coltivazione stessa, tale da poter essere qualificata come post factum non punibile, in quanto ordinario e coerente sviluppo della condotta penalmente rilevante.
Vi e’, dunque, una graduazione della risposta punitiva rispetto all’attivita’ di coltivazione di piante stupefacenti, nelle sue diverse accezioni: a) devono considerarsi lecite la coltivazione domestica, a fine di autoconsumo – alle condizioni sopra elencate – per mancanza di tipicita’, nonche’ la coltivazione industriale che, all’esito del completo processo di sviluppo delle piante non produca sostanza stupefacente, per mancanza di offensivita’ in concreto; b) la detenzione di sostanza stupefacente esclusivamente destinata al consumo personale, anche se ottenuta attraverso una coltivazione domestica penalmente lecita, rimane soggetta al regime sanzionatorio amministrativo del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 75; c) alla coltivazione penalmente illecita restano comunque applicabili l’articolo 131-bis c.p., qualora sussistano i presupposti per ritenerne la particolare tenuita’, nonche’, in via gradata, il Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 5, qualora sussistano i presupposti per ritenere la minore gravita’ del fatto.
7. Si deve dunque affermare il seguente principio di diritto:
“Il reato di coltivazione di stupefacenti e’ configurabile indipendentemente dalla quantita’ di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformita’ della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalita’ di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono pero’ ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attivita’ di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.
8. Venendo al caso di specie, deve rilevarsi che il ricorso e’ parzialmente fondato.
8.1. Il primo motivo di doglianza – con cui la difesa deduce, in relazione al reato di cui al capo a) dell’imputazione, il vizio di travisamento della prova, con riferimento alla relazione di servizio dei carabinieri operanti e alle propalazioni accusatorie del correo – e’ inammissibile, perche’ formulato in modo non specifico.
La difesa si limita ad asserire – scorporando dal compendio dichiarativo singole affermazioni decontestualizzate – che la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto che l’acquirente dello stupefacente aveva avuto un contatto anche con l’odierno ricorrente; ma, cosi’ argomentando, mostra di non tenere adeguatamente conto della motivazione della sentenza impugnata. Quest’ultima, del resto, ponendosi in totale continuita’ con quella di primo grado, correttamente valorizza elementi decisivi, quali: le dichiarazioni accusatorie del soggetto cessionario dello stupefacente, secondo cui l’offerta della droga era provenuta anche dall’imputato odierno ricorrente, pur essendo la dazione materialmente operata solo dal coimputato, coerentemente con quanto emerge dal rapporto dei carabinieri che hanno osservato la scena; l’ammissione da parte dell’imputato del possesso di tutta la droga rinvenuta sul luogo.
8.2. Il secondo motivo – riferito al reato di coltivazione cui al capo c) dell’imputazione – deve essere, invece, ritenuto fondato, alla luce del principio di diritto sopra enunciato. La difesa lamenta che l’offensivita’ della condotta sarebbe stata affermata dalla Corte d’appello, pur mancando, in sostanza, un accertamento sulla consistenza della piantagione, sotto il duplice profilo del grado di sviluppo delle piante e della loro idoneita’ a produrre sostanza dotata di effetto drogante. Sul punto, la Corte d’appello richiama l’orientamento tradizionale, che deve ritenersi superato, secondo cui ogni attivita’ di coltivazione di piante stupefacenti deve ritenersi penalmente rilevante, senza distinzioni, anche qualora destinata in via esclusiva al consumo personale del coltivatore. La stessa sentenza, afferma, inoltre che, nel caso di specie, la finalita’ di consumo personale sarebbe stata accertata; con cio’ ponendosi in contrasto con quanto affermato nella sentenza di primo grado, secondo cui l’attivita’ di coltivazione svolta dall’imputato era invece destinata alla cessione a terzi del prodotto, perche’ accompagnata dalla detenzione di un’ulteriore provvista di sostanza stupefacente, oggetto di effettivo spaccio. E’ necessario, dunque, che la Corte territoriale consideri, attraverso un nuovo giudizio sul punto, gli indici di esclusione di punibilita’ della condotta di coltivazione elencati sub 7., verificandone la sussistenza nel caso concreto e inquadrando la condotta contestata nell’ambito di una valutazione complessiva della vicenda per la quale si procede.
Poiche’ tale nuovo giudizio potra’ avere quale eventuale conseguenza la rivalutazione dei presupposti per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e dei benefici di legge e, piu’ in generale, del trattamento sanzionatorio, il terzo e il quarto motivo di ricorso devono ritenersi assorbiti, in quanto riferiti a tali profili.
9. Da quanto precede consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata, limitatamente al reato di cui al capo c) dell’imputazione, con rinvio, per nuovo giudizio, ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli. Il ricorso deve essere rigettato nel resto.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata, limitatamente al reato di cui al capo c) dell’imputazione, e rinvia, per nuovo giudizio, ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli. Rigetta nel resto il ricorso.
Il presente provvedimento, redatto dal Consigliere Dr. Andronio Alessandro Maria, viene sottoscritto dal solo Presidente del Collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, articolo 1, comma 1, lettera a).

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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