Consiglio di Stato, Sentenza|4 agosto 2021| n. 5742.
Il principio “chi inquina paga”.
Alla stregua del principio “chi inquina paga”, l’Amministrazione non può imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza e bonifica, di cui all’art. 240, comma 1, lett. m) e p), D.Lgs. n. 152 del 2006, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto espressamente previsto dall’art. 253, stesso D.Lgs. n. 152 del 2006, in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare. Le disposizioni contenute nel Titolo V della Parte IV, del D.Lgs. n. 152 del 2006 (artt. da 239 a 253) operano, infatti, una chiara e netta distinzione tra la figura del responsabile dell’inquinamento e quella del proprietario del sito, che non abbia causato o concorso a causare la contaminazione (Cons. Stato, Ad. Plen., 13 novembre 2013, n. 25); quest’ultimo (c.d. proprietario incolpevole), è tenuto solo ad adottare le misure di prevenzione, ai sensi dell’art. 240, c. 1, lett. i), mentre gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano sul responsabile della contaminazione, ossia su colui al quale sia imputabile l’inquinamento; la P.A. competente, qualora il responsabile non sia individuabile o non provveda agli adempimenti dovuti, può adottare d’ufficio gli accorgimenti necessari e, se del caso, recuperare le spese sostenute attraverso un’azione di rivalsa verso il proprietario, il quale risponde nei soli limiti del valore di mercato del sito dopo l’esecuzione degli interventi medesimi (cfr., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 25 gennaio 2018, n. 502 e id., Sez. V, 10 ottobre 2018, n. 5604). A tale regime fa eccezione l’ipotesi in cui il proprietario, ancorché non responsabile, abbia attivato volontariamente gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale, assumendo spontaneamente l’impegno di eseguire un complessivo intervento di bonifica. In tale caso, il progetto di bonifica dovrà essere eseguito in conformità alle misure proposte dall’istante e approvate dall’Amministrazione, come integrate dalle eventuali ulteriori prescrizioni poste dalla stessa autorità amministrativa che siano rispettose dei canoni della prevedibilità, dell’adeguatezza e della proporzionalità. L’assunzione volontaria dell’obbligo di bonifica da parte del proprietario interessato, comunque, non esclude né il potere/dovere dell’Amministrazione di individuare il responsabile dell’inquinamento, né, a fortiori, elide il dovere di quest’ultimo di porre rimedio all’inquinamento stesso (Consiglio di Stato, Sez. IV, 1° aprile 2020, n. 2195, Sez. V, 30 luglio 2015, n. 3756). (Amb.Dir.)
Sentenza|4 agosto 2021| n. 5742. Il principio “chi inquina paga”
Data udienza 15 aprile 2021
Integrale
Tag – parola chiave: Inquinamento del suolo – Bonifica – Rapporto amministrativo non istantaneo – Disciplina sopravvenuta – Tratto di attività successivo all’entrata in vigore – Interventi e opere ammissibili – Individuazione normativa – Art 34, cc. 7 e 8 d.l. n. 133/2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1963 del 2015, proposto da
En. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati An. Ca., An. Li. e Te. Ma., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato An. Li. in Roma, via (…);
contro
Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Ministero della Salute, Ministero dello Sviluppo Economico, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissario Delegato per l’emergenza socio-economico ambientale in Puglia, Autorità Portuale di Brindisi, Ispra, Istituto Superiore della Sanità, ARPA Puglia in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (…);
Regione Puglia, Provincia di Brindisi, Comune di Brindisi, Arpa Puglia – Agenzia Reg. per la Prevenzione e La Protezione Ambientale non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia sezione staccata di Lecce (Sezione Prima) n. 01955/2014, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, del Ministero della Salute, del Ministero dello Sviluppo Economico, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Commissario Delegato per l’emergenza socio-economico ambientale in Puglia, dell’Autorità Portuale di Brindisi, Ispra, dell’Istituto Superiore della Sanità, dell’ARPA Puglia;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore il Cons. Francesco De Luca nell’udienza pubblica del giorno 15 aprile 2021 svoltasi ai sensi degli artt. 4 Decreto Legge 30 aprile 2020 n. 28 conv. dalla L. 25 giugno 2020 n. 70 e 25 Decreto Legge 28 ottobre 2020 n. 137 conv. dalla L. 18 dicembre 2020 n. 176, attraverso l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams”;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
Il principio “chi inquina paga”
FATTO
1. Ricorrendo dinnanzi a questo Consiglio, la società En. SpA ha appellato la sentenza n. 1955/2014, con cui il Tar Puglia, Lecce, ha rigettato il ricorso di primo grado, diretto ad ottenere l’annullamento del decreto n. 3616 del 14.5.2007 del Direttore Generale per la qualità della vita del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, nonché del verbale della Conferenza di Servizi decisoria convocata presso il Ministero dell’Ambiente in data 2.3.2007 e avente ad oggetto il sito di interesse nazionale di Brindisi.
In particolare, secondo quanto dedotto in appello:
– l’odierna ricorrente gestisce in Brindisi una centrale di produzione di energia elettrica;
– prima della realizzazione della centrale, En., che non aveva mai operato nella relativa area, ha svolto approfondite indagini per verificare la necessità di provvedere ad interventi di bonifica, all’esito avviati dalla ricorrente a titolo volontario;
– in relazione agli interventi sui suoli, un primo progetto di bonifica è stato approvato con decreto interministeriale del 4.6.2003; un successivo progetto è stato approvato con decreto interministeriale del 28.2.2006; la ricorrente ha avviato gli interventi di bonifica a titolo volontario in relazione ad altre aree di proprietà, effettuando le attività di caratterizzazione e inoltrando all’amministrazione in data 2.12.2011 l’analisi di rischio per l’individuazione delle concentrazioni soglia di rischio, che avrebbe dimostrato il pieno rispetto dei valori riscontrati in sede di caratterizzazione; in particolare, il sito non risultava contaminato; tutti gli interventi di bonifica sono stati completati, anche in relazione ai suoli di cui ai decreti del 28.2.2006 e 4.6.2003, come accertato con determine dalla Provincia di Brindisi;
– in relazione agli interventi sulla falda, la ricorrente ha partecipato ad un progetto comune di bonifica unitamente ad altri operatori insediati nell’area del Petrolchimico; il relativo iter amministrativo, tuttavia, secondo la prospettazione dell’appellante, è stato caratterizzato da una contraddittorietà dell’azione amministrativa, avendo le autorità competenti chiesto di apportare plurime modifiche o integrazioni progettuali tra loro incompatibili, tali da rendere estremamente difficile la realizzazione degli interventi necessari;
– in particolare, nella conferenza di servizi del 20.6.2005, a fronte di un progetto di messa in sicurezza della falda sottostante, incentrato su un sistema di confinamento idraulico inizialmente condiviso dalle Amministrazioni, una volta realizzata la barriera idraulica, il Ministero ha chiesto l’adozione di un sistema di confinamento fisico per impedire la diffusione dei contaminanti;
Il principio “chi inquina paga”
– gli operatori proponenti il progetto di intervento, contestando la richiesta ministeriale, hanno presentato nel luglio 2005 il progetto di bonifica della falda;
– nella successiva conferenza di servizi del 13.3.2006, l’Amministrazione non ha approvato il progetto di bonifica presentato, chiedendo la realizzazione di un sistema di contenimento fisico necessario anche per impedire una presunta diffusione dei contaminanti all’esterno delle aree oggetto degli interventi;
– gli operatori privati hanno contestato le prescrizioni indicate dall’Amministrazione, comunicando, anche alla stregua della sopravvenuta emanazione del D. Lgs. n. 152/06, l’intenzione di redigere un documento di analisi di rischio sito specifica, per poi procedere alla predisposizione di un nuovo progetto di bonifica;
– nella conferenza dei servizi del 19.10.2006 l’Amministrazione ha comunque richiesto la presentazione del progetto di bonifica;
– le società coinsediate hanno contestato tale decisione amministrativa, tenuto conto che, con riferimento al sistema di sbarramento idraulico, la barriera intercettante la falda sottostante lo stabilimento era operante dal gennaio 2006, essendo in grado di sbarrare il flusso delle acque contaminare verso l’esterno del sito, come accertato anche dall’APAT;
– le società coinsediate hanno, dunque, redatto il documento di analisi di rischio, presentandolo il 30.10.2016 all’Amministrazione ai fini della sua approvazione e in vista della successiva predisposizione del progetto di bonifica;
– nella conferenza dei servizi del 2.3.2007 sono state approvate nuove osservazioni e prescrizioni in relazione al documento di analisi di rischio e alla bonifica della falda, rilevando la necessità di definire un accordo di programma per determinare i necessari interventi di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica della falda sottostante il sito e precisando la necessità che En. trasmettesse un progetto di bonifica della falda basato su un confinamento fisico o dell’intera area dello stabilimento multi societario realizzato in modo unitario dalle società coinsedite o della sola area di competenza realizzato in proprio dall’azienda; l’Amministrazione, inoltre, non ha approvato il documento di analisi di rischio richiamando criteri APAT, asseritamente privi di valenza normativa e contrastanti con la normativa applicabile in materia di valori di contaminazione, localizzazione del punto di conformità e scelta dei contaminanti cui riconnettere l’analisi di rischio;
– con il verbale della conferenza di servizi del 2.3.2007 l’Amministrazione ha chiesto la presentazione di un progetto di bonifica basato sull’adozione di un sistema di confinamento fisico, senza la preventiva approvazione di un documento di analisi di rischio per individuare le CSR; ha richiesto la presentazione di un nuovo documento di analisi del rischio subordinatamente al recepimento di prescrizioni in merito all’individuazione degli obiettivi di bonifica e al punto di conformità; ha vietato di effettuare scavi o movimentazione del terreno senza preventivo assento del Ministero dell’Ambiente, anche in relazione ad interventi di carattere urgente e indifferibile; ha richiamato tutte le prescrizioni di cui ai precedenti verbali (integrazione del sistema di barrieramento idraulico con un sistema di barrieramento fisico a titolo di messa in sicurezza di emergenza, rispetto dei limiti di scarico all’impianto di trattamento dei valori previsti per le acque sotterranee e bonifica e messa in sicurezza delle aree esterne dello stabilimento); ribadendo, per l’effetto, talune prescrizioni di cui ai precedenti verbali che, tuttavia, erano state annullate dal Tar Puglia, Lecce con sentenze nn. 2247/2248/3476 del 2007;
Il principio “chi inquina paga”
– En. ha, dunque, proposto ricorso dinnanzi al Tar, censurando la legittimità dell’operato amministrativo, tenuto conto che:
a) l’Amministrazione aveva imposto opere onerose, non giustificate sotto un punto di vista tecnico e prescindendo da ogni accertamento di responsabilità individuale delle singole imprese, senza avere rilevato la sussistenza di presupposti di urgenza per l’adozione di interventi di messa in sicurezza di emergenza;
b) la prescrizione, riferita ad En., avente ad oggetto la realizzazione di un sistema di confinamento fisico a titolo individuale o unitario nel progetto di bonifica della falda risultava indeterminata, illogica, contraddittoria e non supportata da adeguata istruttoria; peraltro, il confinamento fisico dell’area avrebbe richiesto un intervento sui vari sottoservizi della centrale, compromettendone il funzionamento per un lungo periodo; l’intervento risultava sproporzionato e immotivato e, comunque, si faceva questione di intervento svolto su base volontaria, non potendo la bonifica assumere un’estensione imprevedibile;
c) il contenuto precettivo delle prescrizioni era incerto, non essendo chiaro se le autorità intendessero imporre un confinamento fisico a confine della proprietà o uno sbarramento di tutto il sito multisocietario concordato con gli altri operatori; mancava, comunque, una motivazione sulla necessità dell’intervento prescritto, fondata su un’adeguata istruttoria all’uopo svolta; era ravvisabile inoltre un’incompetenza in ordine a prescrizioni riferite ai progetti di movimentazione del terreno e una contraddittorietà dell’azione amministrativa, per avere il Ministero dapprima valorizzato la necessità di definire diversamente le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica rispetto a quanto in precedenza indicato e successivamente richiamato la cogenza delle precedenti prescrizioni;
d) l’Amministrazione aveva richiesto illegittimamente che l’ossidazione chimica in situ fosse applicata soltanto in ambiente confinato e comunque aveva richiamato criteri illegittimi, elaborati da APAT;
e) l’Amministrazione aveva violato anche l’art. 10 bis L. n. 241/90, non comunicando i motivi ostativi all’accoglimento del progetto presentato dalla ricorrente;
f) l’Amministrazione risultava incorsa nel vizio di eccesso di potere per illegittimità derivata, avendo ribadito prescrizioni ritenute illegittime dal Tar Puglia, Lecce;
– in pendenza di giudizio, la ricorrente e le altre società coinsediate hanno comunque dato seguito al procedimento di bonifica della falda, depositando presso le amministrazioni i relativi piani e progetti;
– nella conferenza di servizi del 24.3.2014 è stato ritenuto approvabile il progetto di bonifica della falda;
– pertanto, la ricorrente ha precisato dinnanzi al Tar, nell’udienza di discussione del 10 luglio 2014, che, in conseguenza dell’avvenuta approvazione del progetto di bonifica, era venuto meno l’interesse alla decisione sui motivi di ricorso concernenti il confinamento fisico, le tecnologie di bonifica e l’analisi del rischio, permanendo un interesse alla decisione delle censure relative alle aree esterne e al divieto di realizzare scavi senza la preventiva autorizzazione del Ministero dell’Ambiente;
Il principio “chi inquina paga”
– il Tar ha rigettato il ricorso.
2. In particolare, come emergente dalla sentenza gravata, il Tar ha rilevato che:
– l’Autorità procedente con gli impugnati decreti aveva ritenuto di “… approvare e considerare definitive tutte le prescrizioni stabilite nei verbali delle conferenze di servizi decisorie”; gli impugnati decreti, inoltre, erano stati assunti all’esito del ricorso al modulo conferenziale, caratterizzato dalla presenza, tra l’altro, anche del Ministero dello Sviluppo Economico;
– nel verbale della conferenza di servizi del 19.10.2006 – il cui contenuto era stato ripreso nella successiva c.d.s. del 2.3.2007 – si prevedeva che: “… atteso che i monitoraggi successivi alla prima campagna del 2004 hanno confermato la contaminazione da composti organoalogenati, è stato richiesto alla Società di adottare immediatamente idonei interventi di messa in sicurezza d’emergenza, basati su un sistema di confinamento fisico che garantisca la completa intercettazione dell’acqua di falda contaminata e impedisca la sua diffusione all’esterno dell’area dello stabilimento”; in presenza di fenomeni di inquinamento ascritti alla ricorrente, rispetto alle quali quest’ultima nulla aveva eccepito, se non contestazioni a contenuto generico, la prescrizione concernente l’adozione di sistemi di barrieramento fisico doveva reputarsi del tutto immune dalle lamentate censure;
– si trattava di misura assolutamente idonea rispetto al fine cui essa tendeva (evitare la propagazione delle rilevate sostanze inquinanti) e del tutto proporzionata rispetto alle concrete risultanze del caso. In definitiva, essa non presentava alcuno degli indici sintomatici del cattivo uso del potere discrezionale – i.e: palesi situazioni di abnormità, errori rilevabili ictu oculi, palesi incongruenze e/o situazioni di contraddittorietà manifesta, ecc. – che soli giustificavano il sindacato giurisdizionale sulle scelte tecnico-discrezionali;
– pertanto, l’Amministrazione aveva fatto un uso assolutamente corretto del proprio potere discrezionale, giungendo ad imporre alla ricorrente l’adozione di prescrizioni del tutto in linea con le obiettive risultanze istruttorie, e non viziate da errori e/o incongruenze.
3. La ricorrente in prime cure ha proposto appello avverso la sentenza pronunciata dal Tar, censurandone l’erroneità con l’articolazione di plurimi motivi di impugnazione.
4. Il Ministero intimato si è costituito in giudizio, resistendo al ricorso e svolgendo argomentate controdeduzioni ai motivi di appello con memoria del 5 marzo 2021. In pari data la medesima Amministrazione ha depositato note di udienza, chiedendo la decisione della controversia.
5. La ricorrente ha preso posizione sulle deduzioni ministeriali, nonché ha svolto argomentazioni a sostegno delle proprie conclusioni con memoria del 12 marzo 2021.
6. La causa è stata trattenuta in decisione nell’udienza del 15 aprile 2021.
Il principio “chi inquina paga”
DIRITTO
1. Con un primo gruppo di censure è dedotta l’erroneità della sentenza di prime cure, in relazione al sistema di confinamento fisico, all’analisi di rischio e ai valori di scarico delle acque.
In particolare, con riguardo a tali profili, il Tar avrebbe errato nel non ravvisare la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione, in conseguenza dell’approvazione ministeriale del progetto di bonifica della falda.
In ogni caso, la ricorrente ha censurato – con l’articolazione di quattro motivi di appello – le statuizioni di rigetto dei motivi di ricorso proposti in prime cure, in quanto viziate per:
– “error in iudicando – violazione e falsa applicazione degli artt. 240, 242, 244, 245, 252, 253 del D. Lgs. 152/2006. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 3 della L. 241/1990. Violazione di giudicato”, tenuto conto che l’imposizione di un sistema di confinamento fisico ad integrazione di quello idraulico vuoi quale misura di messa in sicurezza di emergenza, vuoi come misura di bonifica avrebbe dovuto ritenersi illegittima perché disposta in assenza dei necessari approfondimenti istruttori e in carenza di un’adeguata motivazione; il che sarebbe stato accertato anche dal Tar Puglia con la sentenza n. 2247/2007 in relazione agli stessi verbali impugnati in prime cure da En.;
– “error in iudicando – violazione e falsa applicazione degli artt. 240, 242, 244, 245, 252, 253 del D. Lgs. 152/2006. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 3 della L. 241/1990. Violazione di giudicato. Travisamento dei fatti. Illogicità ed ingiustizia manifesta”, tenuto conto che il Tar avrebbe errato nel ritenere genericamente contestata la presenza di fenomeni di inquinamento ascrivibili alla ricorrente, avendo En. espressamente dato atto in prime cure di avere avviato le attività di bonifica a titolo volontario e prima dell’avvio dei realizzazione della centrale, senza avere previamente svolto attività sul sito contaminato; in ogni caso, avrebbe dovuto essere l’Amministrazione a dimostrare l’ascrivibilità in capo ad En. della responsabilità dell’inquinamento, mentre una tale prova non sarebbe stata in concreto fornita; il TAR, inoltre, non avrebbe indicato le ragioni per cui l’adozione del sistema di confinamento fisico fosse assolutamente idonea e del tutto proporzionata rispetto alle concrete risultanze del caso;
Il principio “chi inquina paga”
– “error in iudicando – Violazione degli artt. 240 e 242 del D. Lgs. 152/2006 sotto altro profilo. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 3 della L. 241/1990. Ingiustizia manifesta. Omessa pronuncia”, avendo omesso il Tar di statuire sulle censure svolte in prime cure, dirette a denunciare l’illegittima imposizione di prescrizioni, nell’ambito del verbale di conferenza di servizi del 2 marzo 2007, violative della disciplina in materia di analisi di rischio ex art. 242 D. Lgs. n. 152/2006, da un lato, chiedendo la presentazione del progetto di bonifica in assenza della previa approvazione dell’analisi di rischio, dall’altro, chiedendo la ripresentazione dell’analisi di rischio subordinatamente al recepimento di gravose prescrizioni tratte da criteri redatti da APAT discordanti dalla disciplina ratione temporis applicabile alla specie;
– “error in iudicando – Violazione dell’art. 243 del D. Lgs. 152/2006 sotto altro profilo. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 3 della L. 241/1990. Ingiustizia manifesta. Omessa pronuncia”, avendo omesso il Tar di statuire sulle censure svolte in prime cure, dirette a denunciare l’illegittimità della richiesta di trattare le acque reflue emunte, nell’ambito degli interventi in sicurezza, alla stregua di rifiuti liquidi, in violazione dell’art. 243 D. Lgs. n. 152/2006, che avrebbe operato un riferimento alla normativa sugli scarichi idrici, piuttosto che a quella sui rifiuti.
2. Il Ministero intimato, prendendo posizione sulle doglianze articolate dalla ricorrente in ordine al barrieramento fisico, all’analisi di rischio e alle modalità di scarico delle acque di falda, ha rilevato che, per effetto dell’approvazione ministeriale, intervenuta in pendenza del giudizio di appello – decreto dirigenziale del 13.7.2016 – del progetto definitivo di bonifica della falda come presentato dall’appellante (conferenza dei servizi decisoria del 24 marzo 2014, decreto di approvazione del 13 luglio 2016), i primi quattro motivi di appello sarebbero divenuti improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse.
Il principio “chi inquina paga”
3. I primi quattro motivi di appello, come dedotto dall’Amministrazione, sono improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse, ai sensi di quanto di seguito precisato.
3.1 Il processo amministrativo, connotato dalla natura soggettiva della giurisdizione esercitata, risponde al principio dispositivo, risultando nella disponibilità della parte l’introduzione del giudizio, così come la sua prosecuzione.
Ai sensi dell’art. 84, commi 3 e 4, c.p.a., “3. La rinuncia deve essere notificata alle altre parti almeno dieci giorni prima dell’udienza. Se le parti che hanno interesse alla prosecuzione non si oppongono, il processo si estingue. 4. Anche in assenza delle formalità di cui ai commi precedenti il giudice può desumere dall’intervento di fatti o atti univoci dopo la proposizione del ricorso ed altresì dal comportamento delle parti argomenti di prova della sopravvenuta carenza d’interesse alla decisione della causa”.
Ne deriva che, anche in assenza delle condizioni previste dall’art. 84, comma 3, c.p.a. – rappresentate dalla notifica tempestiva della rinuncia e dalla mancata opposizione delle parti interessate alla prosecuzione del giudizio – il giudice può, comunque, valorizzare il comportamento delle parti al fine di ravvisare una sopravvenuta carenza di interesse alla decisione -nel merito- dell’impugnazione proposta, con conseguente integrazione di una fattispecie di improcedibilità del ricorso ex art. 35, comma 1, lett. c), c.p.a.
La volontà della parte processuale, inoltre, può anche essere espressa attraverso il proprio difensore, potendosi desumere dalle deduzioni svolte in giudizio la sopravvenuta carenza di interesse alla relativa decisione (ex multis, cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 28 novembre 2019, n. 8115).
Il principio “chi inquina paga”
Al riguardo, l’appellante ha dedotto che “l’avvenuta approvazione del progetto di bonifica della falda permetteva di superare la maggior parte dei motivi di ricorso in primo grado. Ciò nonostante, il giudice di prime cure, in luogo di prendere atto di quanto indicato dalla Società ricorrente circa la parziale sopravvenuta carenza di interesse al ricorso, rigettava i relativi motivi di diritto ritenendoli infondati nel merito. Eppure, per costante giurisprudenza, anche di questo Ecc.mo Consiglio di Stato, nel caso in cui il ricorrente ritenga sia venuto meno l’interesse al ricorso (anche parziale) il giudice investito della questione non può che prenderne atto….” (pag. 14 appello).
Lo stesso appellante con memoria difensiva del 12 marzo 2021 ha rilevato come “è comunque evidente che En. non ha alcun più (come non aveva al momento della definizione in primo grado) interesse alla definizione dei relativi motivi di ricorso in quanto non ne trarrebbe oggi utilità alcuna Pur essendo dirimente quanto sopra espresso in merito alla sopravvenuta carenza di interesse, in via subordinata, si rileva che, in ogni caso, il rigetto nel merito del ricorso risulta errato sotto diversi profili. Si richiamano pertanto integralmente i motivi di appello sub I, II, III e IV” (pagg. 9/10).
Le deduzioni attoree possono essere apprezzare per la dichiarazione di improcedibilità parziale del ricorso di primo grado, per sopravvenuta carenza di interesse alla decisione delle censure concernenti il sistema di confinamento fisico, l’analisi di rischio e le modalità di scarico delle acque di falda.
Al riguardo, si rileva che, da un lato, il Tar non ha statuito sulla questione di improcedibilità del ricorso, non emergendo pertanto un errore del primo giudice (per avere escluso l’integrazione di una fattispecie di improcedibilità in concreto riscontrabile) censurabile con specifico motivo di appello, idoneo a determinare la riforma della sentenza gravata; dall’altro, l’improcedibilità del ricorso afferisce comunque ad una questione di rito rilevabile d’ufficio, anche in grado di appello.
Il principio “chi inquina paga”
In tale caso, peraltro, ai sensi degli artt. 35 comma 1, lett. c), 38 e 85 comma 9, c.p.a., non perdendo il rapporto processuale la sua unitarietà per il fatto di essere articolato in gradi distinti, la sopravvenuta carenza dell’interesse al ricorso rilevata in grado di appello determina l’improcedibilità non solo dell’appello proposto dal ricorrente soccombente in prime cure ma, ancor prima, dell’impugnazione originaria proposta innanzi al Tar, comportando, limitatamente alle statuizioni rese su censure in relazione alle quali è sopravvenuta una carenza di interesse alla decisione, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata (cfr., ex multis, Consiglio di Stato Sez. IV, 26 ottobre 2020, n. 6515).
Per l’effetto, deve essere valorizzata nel presente grado di giudizio la carenza di interesse alla decisione del ricorso, manifestata dall’appellante – attraverso il proprio difensore – limitatamente alle censure riguardanti il sistema di confinamento fisico, l’analisi di rischio e le modalità di scarico delle acque di falda.
Il ricorso di primo grado deve, dunque, dichiararsi in parte qua improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse; il che determina, da un lato, l’annullamento parziale della sentenza gravata, per avere statuito su motivi di ricorso improcedibili, su cui, pertanto si impone una pronuncia di rito; dall’altro, l’improcedibilità, altresì, dei primi quattro motivi di appello, in quanto afferenti a statuizioni giudiziali comunque da annullare, perché relative a censure improcedibili.
3.2 In ogni caso, l’improcedibilità parziale del ricorso discenderebbe, oltre che dalla volontà al riguardo espressa dal ricorrente, dal mutamento, in pendenza di giudizio, dell’assetto di interessi attuato sul piano sostanziale nei rapporti tra le parti.
L’adozione di un nuovo atto amministrativo, quando non sia meramente confermativo di un provvedimento precedente già oggetto di impugnazione giurisdizionale ma costituisca (nuova) espressione del pubblico potere, comporta infatti la pronuncia d’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, trasferendosi eventualmente l’interesse del ricorrente dall’annullamento dell’atto impugnato, sostituito dal nuovo provvedimento, all’annullamento di quest’ultimo (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV, 7 aprile 2021, n. 2803).
Avuto riguardo al caso di specie, come emerge dal deposito attoreo dell’1 marzo 2021, il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare con decreto n. 373 del 13.7.2016 ha approvato il progetto definitivo di bonifica della falda del sito multisocietario di Brindisi trasmesso (altresì) dall’odierno ricorrente con nota del 15 novembre 2011, come integrato dall’Addendum, trasmesso (altresì) dalla ricorrente con nota dell’11 febbraio 2014.
Il principio “chi inquina paga”
L’approvazione del progetto di bonifica in esame, dettando (come rilevato dalle stesse parti) una nuova regolazione amministrativa del rapporto dedotto in giudizio – influente sul sistema di confinamento fisico, sull’analisi di rischio e sulle modalità di scarico delle acque di falda -, sostitutiva di quella originariamente censurata dall’odierno appellante, comporta in parte qua l’improcedibilità del ricorso di primo grado.
La parte ricorrente non potrebbe, infatti, trarre alcuna utilità dall’annullamento di prescrizioni dettate in sede amministrativa che, in quanto sostituite da sopravvenuti atti amministrativi, non costituiscono più la fonte di regolazione del rapporto sostanziale.
3.3 Si conferma, dunque, l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse delle censure articolate in prime cure (relative al sistema di confinamento fisico, all’analisi di rischio e alle modalità di scarico delle acque di falda), con conseguente improcedibilità – alla stregua di quanto sopra rilevato – anche dei primi quattro motivi di appello proposti nell’odierno grado di giudizio.
4. Con il quinto e il sesto motivo di appello En. denuncia l’erroneità della sentenza di prime cure in relazione ai motivi di ricorso non superati dall’avvenuta approvazione del progetto di bonifica, afferenti al divieto di realizzare scavi anche di modesta entità in assenza della preventiva autorizzazione del Ministero dell’Ambiente, nonché alla necessaria bonifica di non meglio identificate aree esterne.
5. In particolare, con il quinto motivo di appello (rubricato “error in iudicando – Violazione e falsa applicazione degli artt. 186 e 242 del D. Lgs. 152/2006. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 3 della L. 241/1990. Ingiustizia manifesta. Omessa pronuncia e violazione di giudicato”), En. contesta l’omessa pronuncia sulle censure svolte in prime cure, aventi ad oggetto l’illegittima prescrizione con cui l’Amministrazione ha subordinato l’esecuzione di interventi di scavo anche di modesta entità al previo rilascio di apposito titolo autorizzatorio da parte del Ministero dell’Ambiente, anche in relazione ad interventi aventi caratteri di indifferibilità ed urgenza, in violazione del principio di proporzionalità; il che sarebbe stato anche riconosciuto dallo stesso Tar Puglia, Lecce, a definizione di analoghi giudizi riguardanti il medesimo sito di interesse nazionale di Brindisi.
Difatti, l’imposizione della prescrizione in contestazione sarebbe sproporzionata, in quanto l’esecuzione di scavi, anche di modesta entità, imposti in ipotesi anche da esigenze gestionali correlate ad interventi manutentivi, non potrebbe determinare un peggioramento della situazione ambientale.
5.1 Preliminarmente, si osserva che, in ragione dell’effetto devolutivo dell’atto di appello e della tassatività delle fattispecie di rimessione della causa al primo giudice ex art. 105 c.p.c., il vizio di omessa pronuncia non è idoneo a determinare l’annullamento della sentenza con rinvio al Tar (non configurando una fattispecie di violazione del diritto di difesa della parte), bensì impone di decidere in sede di gravame le censure asseritamente non esaminate in primo grado (cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen., n. 10 del 2018).
5.2 Ciò premesso, si rileva che, in pendenza di giudizio, è sopravvenuta una nuova disciplina positiva, riguardante gli interventi eseguibili nei siti oggetto di bonifica.
Al riguardo, è possibile richiamare l’art. 34, commi 7 e 8, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164 (abrogato dall’art. 52, comma 2, D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120), l’art. 25 DPR 13 giugno 2017, n. 120 e l’art. 242 ter D. Lgs. n. 152/2006.
Il principio “chi inquina paga”
Trattasi di disciplina che individua gli interventi e le opere ammissibili nei siti oggetto di bonifica, assicurando una loro esecuzione secondo modalità e tecniche che non pregiudichino né interferiscano con l’esecuzione e il completamento della bonifica, né determinino rischi per la salute dei lavoratori e degli altri fruitori dell’area nel rispetto del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81.
Il legislatore, in particolare, tra l’altro:
– ha prescritto una valutazione preventiva degli interventi ammissibili, demandata all’autorità competente ai sensi del Titolo V, Parte quarta, del D. Lgs. n. 152/06, nell’ambito dei procedimenti di approvazione e autorizzazione degli interventi e, ove prevista, nell’ambito della procedura di valutazione di impatto ambientale;
– ha rimesso ad un decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare per le aree ricomprese nei siti di interesse nazionale e alla competenza regionale per le restanti aree l’individuazione delle categorie di interventi non necessitanti della preventiva valutazione da parte dell’Autorità competente, e, ove prevista una tale valutazione, la definizione dei criteri e delle procedure per il suo svolgimento nonché delle modalità di controllo;
– ha regolato, ai fini del rispetto delle condizioni di ammissibilità degli interventi e delle opere nei siti oggetto di bonifica – anche nelle more dell’adozione del decreto ministeriale o degli atti regionali volti ad individuare le categorie di opere sottratte alla preventiva valutazione amministrativa ovvero a definire i criteri e le procedure per la predetta valutazione nonché le modalità di controllo – specifiche procedure e modalità di caratterizzazione, scavo e gestione dei terreni movimentati, al riguardo distinguendo a seconda che sia stata o meno realizzata la caratterizzazione dell’area o sia già in essere l’attività di messa in sicurezza operativa, nonché prevedendo la necessità di svolgere le attività di scavo con le precauzioni necessarie a non aumentare i livelli di inquinamento delle matrici ambientali interessate.
Il principio “chi inquina paga”
Avuto riguardo allo jus superveniens, la parte appellante, in sede di memoria difensiva, ha rilevato che “Ove dunque non si ritenesse superata la prescrizione impugnata in ragione della normativa sopravvenuta, in ogni caso tale normativa non può che confermare l’illegittimità della prescrizione imposta che, richiedendo sempre il preventivo assenso del Ministero dell’Ambiente anche per la realizzazione di scavi di modesta entità, costituisce un aggravio abnorme tale da, di fatto, impedire la normale operatività del sito con riferimento anche a manutenzioni di carattere assolutamente ordinarie” (pag. 13).
5.3 La prescrizione censurata con il quinto motivo di appello, come pure rilevato dal ricorrente, deve ritenersi superata alla stregua dello jus superveniens, suscettibile di imporsi anche alle odierne parti processuali in funzione conformativa del rapporto amministrativo dedotto in giudizio, con la conseguenza che le attività di scavo nei siti oggetto di bonifica devono ritenersi ammissibili alle condizioni e nei limiti dettati dalla disciplina sopravvenuta.
In particolare, l’individuazione degli interventi e delle opere ammissibili nell’ambito di un sito oggetto di bonifica, nonché delle procedure all’uopo da osservare è stata operata direttamente dal legislatore, non trovando più fondamento nell’atto amministrativo censurato nell’odierno giudizio, che in parte qua, in relazione alle attività di scavo, prescriveva la previa acquisizione del titolo autorizzatorio.
Al riguardo, appare utile richiamare le precisazioni fornite dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio n. 11 del 2016 sul tema degli effetti del tempo e delle sopravvenienze (giuridiche e fattuali) sulle situazioni giuridiche dedotte in giudizio: in particolare, per quanto più di interesse ai fini dell’odierno giudizio, è stato rilevato che “l’esecuzione del giudicato può trovare limiti solo nelle sopravvenienze di fatto e diritto antecedenti alla notificazione della sentenza divenuta irrevocabile; sicché la sopravvenienza è strutturalmente irrilevante sulle situazioni giuridiche istantanee, mentre incide su quelle durevoli nel solo tratto dell’interesse che si svolge successivamente al giudicato, determinando non un conflitto ma una successione cronologica di regole che disciplinano la situazione giuridica medesima; f) anche per le situazioni istantanee, però, la retroattività dell’esecuzione del giudicato trova, peraltro, un limite intrinseco e ineliminabile (che è logico e pratico, ancor prima che giuridico), nel sopravvenuto mutamento della realtà – fattuale o giuridica – tale da non consentire l’integrale ripristino dello status quo ante (come esplicitato dai risalenti brocardi factum infectum fierinequit e ad impossibilia nemo tenetur) che semmai, ove ne ricorrano le condizioni, può integrare il presupposto esplicito della previsione del risarcimento del danno, per impossibile esecuzione del giudicato, sancita dall’art. 112, co. 3, c.p.a”.
Le sopravvenienze normative rilevano pertanto nella fase di riedizione del potere, ove intervenute prima della notificazione della sentenza divenuta irrevocabile; con la conseguenza che nella specie, facendosi questione di disciplina sopravvenuta in pendenza di giudizio, incidente su un rapporto amministrativo non istantaneo (implicante l’esecuzione di attività di bonifica), lo jus superveniens si imporrebbe comunque nella regolazione del rapporto amministrativo per cui è causa, in relazione al tratto di attività successivo alla sua entrata in vigore.
Il principio “chi inquina paga”
La parte ricorrente non potrebbe, dunque, ricevere un’utilità concreta dall’annullamento di una prescrizione amministrativa – riferita all’obbligo di previa acquisizione di un titolo autorizzatorio per le attività di scavo -, non più operante pro futuro nella regolazione del rapporto sostanziale, essendo le parti tenute all’osservanza di una diversa e sopravvenuta disciplina positiva, avente ad oggetto non soltanto l’individuazione delle opere e degli interventi ammissibili (richiedenti pure attività di scavo), ma anche le procedure di valutazione preventiva, le modalità di controllo all’uopo esercitabili, nonché le procedure e modalità di caratterizzazione, scavo e gestione dei terreni movimentati. Trattasi, in particolare, di disciplina suscettibile di imporsi alle parti nello svolgimento del rapporto amministrativo in contestazione, in sostituzione delle prescrizioni (impugnate con il quinto motivo di appello) precedentemente dettate negli atti censurati in prime cure (cfr., in relazione ad una fattispecie analoga, quanto statuito dalla Sezione con sentenza n. 820/2015, in cui si dà atto che la novella normativa al tempo intervenuta era tale per cui, quand’anche fosse stato disposto l’annullamento degli atti impugnati in primo grado, l’esito concreto della vicenda non avrebbe potuto subirne conseguenze di alcun rilievo “atteso che, in sede di riedizione del potere, le amministrazioni appellate non potrebbero che dare applicazione del sopravvenuto (….) quadro normativo in tema di riutilizzabilità delle terre e rocce da scavo, la cui applicabilità all’ulteriore tratto della vicenda si imporrebbe comunque alla luce dei prevalenti interessi pubblici che hanno ispirato la novella legislativa del 2008”).
Per l’effetto, anche la domanda di annullamento riferita alle prescrizioni inerenti allo svolgimento delle attività di scavo, in quanto riferita a prescrizioni non più operanti tra le parti – sostituite dalla sopravvenuta disciplina positiva, suscettibile di conformare lo svolgimento del rapporto amministrativo per il segmento di attività successivo alla sua entrata in vigore -, deve ritenersi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.
5.4 Tuttavia, a differenza di quanto avvenuto per i primi quattro motivi di appello, posto che le parti, in relazione al quinto motivo di impugnazione, hanno insistito nelle rispettive conclusioni sulla base della disciplina sopravvenuta in materia, non potrebbe escludersi la rilevanza di una pronuncia sulla legittimità della prescrizione amministrativa de qua ai fini risarcitori (cfr. art. 34, comma 3, c.p.a.).
Per l’effetto, si procede all’esame delle doglianze attoree, incentrate sulla violazione del principio di proporzionalità: tali censure, avuto riguardo alla disciplina previgente, risultano infondate, dovendo pervenirsi al loro rigetto.
Il principio “chi inquina paga”
Come precisato da questo Consiglio (sez. III, 26 giugno 2019, n. 4403) il principio di proporzionalità impone l’adozione di una scelta amministrativa idonea a conseguire l’obiettivo perseguito, tale da non determinare un eccessivo sacrificio per gli interessi privati attinti e, comunque, da essere sostenibile per il destinatario.
Anche la Corte di Giustizia, ai fini del rispetto del principio di proporzionalità, richiede che la misura in contestazione sia idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non ecceda quanto necessario perché esso sia raggiunto (cfr. Corte di Giustizia, in causa C-549/15, 22 giugno 2017, Biofor Sverige AB).
Nel caso di specie, l’imposizione di un controllo preventivo, alla base della prescrizione concernente il previo rilascio del titolo autorizzatorio per lo svolgimento delle attività di scavo, non sembra tradursi in una decisione sproporzionata.
Dalla stessa normativa sopravvenuta, come correttamente rilevato dall’Amministrazione procedente, risultano desumibili elementi di giudizio deponenti per la legittimità della prescrizione in contestazione.
Il legislatore, in particolare, ha dettato una disciplina di tutela volta ad evitare che le attività di scavo pregiudichino gli interventi e le opere di prevenzione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino, imponendo l’adozione di precauzioni che, anche nel rispetto della normativa vigente in tema di salute e sicurezza dei lavoratori, consentano di non aumentare i livelli di inquinamento delle matrici ambientali interessate.
Un tale obiettivo di tutela ambientale, in particolare, è stato conseguito mediante una disciplina normativa che impone lo svolgimento di una valutazione preventiva dell’autorità competente – nell’ambito dei procedimenti di approvazione e autorizzazione degli interventi da eseguire (salve, in relazione ai siti di interesse nazionale, quelle categorie di opere, individuate con decreto ministeriale, per cui una tale valutazione non è ritenuta necessaria) – e, comunque, prescrive il rispetto di apposite procedure di caratterizzazione, scavo e gestione dei terrenti movimentati.
Il principio “chi inquina paga”
Emerge, dunque, da un lato, che le attività di scavo, ove non correttamente svolte, sono idonee a pregiudicare gli interventi e le opere di prevenzione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino, anche aumentando i livelli di inquinamento delle matrici ambientali interessate, dall’altro, che un controllo preventivo sull’attività svolta nei siti oggetto di bonifica risulta comunque rilevante, al fine di assicurare la coerenza degli interventi programmati rispetto agli obiettivi di tutela ambientale in concreto perseguiti.
Tali considerazioni evidenziano l’infondatezza delle censure attoree, incentrate su una violazione del principio di proporzionalità.
L’autorità amministrativa, essendo deputata a risolvere questioni tecniche di particolare complessità, dispone in materia, nell’individuare le soluzioni applicabili, di una ampia discrezionalità, sindacabile in sede giurisdizionale soltanto nel caso di risultati abnormi o comunque manifestamente illogici (Consiglio di Stato, sez. IV, 26 febbraio 2021, n. 1658), che nella specie non sono riscontrabili.
Il controllo preventivo dell’Amministrazione sull’attività di scavo, nelle forme del rilascio del titolo autorizzatorio per l’esecuzione dell’intervento programmato dall’istante, come imposto negli atti censurati in prime cure, nella specie appariva:
– idoneo a realizzare un obiettivo di interesse generale, consentendo all’Amministrazione di esaminare previamente gli interventi programmati dall’istante, per autorizzare soltanto quelli che, assicurando l’adozione delle precauzioni necessarie a non aumentare i livelli di inquinamento delle matrici ambientali interessate, salvaguardassero il bene ambientale in concreto tutelato;
– necessario per il conseguimento di un tale obiettivo di interesse generale, non raggiungibile con misure meno limitative delle libertà individuali, incentrate su forme di controllo successivo o su comunicazioni preventive, che avrebbero legittimato l’esecuzione di interventi anche in assenza di un previo titolo autorizzatorio dell’Amministrazione procedente, in tale modo, tuttavia, affievolendo l’effettività della capacità di controllo amministrativo sulle trasformazioni del territorio in siti oggetto di bonifica, essenziale per assicurare, in relazione alle peculiarità del caso concreto, la salvaguardia di un bene primario, quale l’ambiente;
– sostenibile per il destinatario, non incidendo sul nucleo essenziale delle attività programmate dal privato, comunque suscettibili di essere svolte ove ritenute, all’esito del previsto controllo preventivo, non pregiudizievoli per il bene primario tutelato (l’ambiente).
Posto che l’attività di scavo – tenuto conto della complessità della fattispecie concreta, richiedente la predisposizione di plurimi progetti di bonifica di un sito di interesse nazionale – avrebbe potuto influire sull’esecuzione degli interventi di bonifica e sui livelli di inquinamento delle matrici ambientali interessate, la sottoposizione della relativa attività ad un controllo preventivo funzionale al rilascio del titolo autorizzatorio, avuto riguardo al regime giuridico vigente al momento della sua adozione, non poteva ritenersi illegittima, non traducendosi in una regula iuris violativa del principio di proporzionalità.
Il principio “chi inquina paga”
6. Con il sesto motivo di appello (rubricato “error in iudicando – Violazione e falsa applicazione degli artt. 240, 242, 244, 245, 252, 253 del D. Lgs. 152/2006 sotto altro profilo. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 3 della L. 241/1990. Violazione di giudicato. Travisamento dei fatti. Illogicità ed ingiustizia manifesta”) è censurato il capo decisorio con cui il Tar ha ravvisato la legittimità delle prescrizioni riferite all’esecuzione di interventi di bonifica e di messa in sicurezza anche su aree esterne al sito di proprietà della ricorrente.
6.1 Secondo la prospettazione attorea, tali prescrizioni avrebbero dovuto ritenersi illegittime, tenuto conto che il proprietario incolpevole dell’area o altri soggetti interessati non avrebbero alcun obbligo di eseguire interventi di bonifica e di messa in sicurezza di emergenza, ma solo una mera facoltà di attivarsi, alla stregua del principio “chi inquina paga”, fondamentale in materia di diritto ambientale, anche in ambito unionale; l’Amministrazione, in caso di interventi direttamente eseguiti, avrebbe soltanto potuto prescrivere, previa definitiva approvazione del progetto di bonifica, un onere reale sull’area ovvero costituire un privilegio speciale immobiliare a fronte delle spese effettivamente sostenute.
Nella specie, le amministrazioni resistenti avrebbero illegittimamente ascritto in capo alla ricorrente ulteriori obblighi di messa in sicurezza e di bonifica, relativamente ad aree esterne al sito di proprietà, pur essendo indiscusso che l’appellante non era responsabile dell’inquinamento e senza neanche chiarire se le aree esterne fossero contaminate e da quali sostanze.
Il principio “chi inquina paga”
6.2 Con specifico riferimento alla posizione rivestita dal proprietario del sito contaminato, questo Consiglio ha precisato che:
“a) alla stregua del principio “chi inquina paga”, che si ricava sia dalla normativa nazionale che eurounitaria, “L’Amministrazione non può imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza e bonifica, di cui all’art. 240, comma 1, lett. m) e p), D.Lgs. n. 152 del 2006, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto espressamente previsto dall’art. 253, stesso D.Lgs. n. 152 del 2006, in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare. Le disposizioni contenute nel Titolo V della Parte IV, del D.Lgs. n. 152 del 2006 (artt. da 239 a 253) operano, infatti, una chiara e netta distinzione tra la figura del responsabile dell’inquinamento e quella del proprietario del sito, che non abbia causato o concorso a causare la contaminazione” (Cons. Stato, Ad. Plen., 13 novembre 2013, n. 25);
b) resta fermo che il proprietario del terreno sul quale sono depositate sostanze inquinanti, che non sia responsabile dell’inquinamento (c.d. proprietario incolpevole), è tenuto solo ad adottare le misure di prevenzione, mentre gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano sul responsabile della contaminazione, ossia su colui al quale sia imputabile l’inquinamento; la P.A. competente, qualora il responsabile non sia individuabile o non provveda agli adempimenti dovuti, può adottare d’ufficio gli accorgimenti necessari e, se del caso, recuperare le spese sostenute attraverso un’azione di rivalsa verso il proprietario, il quale risponde nei soli limiti del valore di mercato del sito dopo l’esecuzione degli interventi medesimi (cfr., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 25 gennaio 2018, n. 502 e id., Sez. V, 10 ottobre 2018, n. 5604);
c) tuttavia, si è pure affermato che, ai sensi dell’art. 245, comma 2, del D.Lgs. n. 152 del 2006, la messa in sicurezza di un sito inquinato non ha di per sé natura sanzionatoria, ma costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra, pertanto, nel genus delle precauzioni, in una col principio di precauzione vero e proprio e col principio dell’azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all’ambiente, e, non avendo finalità ripristinatoria, non presuppone l’accertamento del dolo o della colpa in capo al proprietario (cfr. così Cons. Stato, Sez. V, 14 aprile 2016 n. 1509; id., Sez. VI, 5 ottobre 2016 n. 4119; id., Sez. V, 8 marzo 2017 n. 1089, da ultimo richiamate da Cons. Stato, Sez. VI, 3 gennaio 2019 n. 81)” (Consiglio di Stato, sez. IV, 15 settembre 2020, n. 5447).
Il principio “chi inquina paga”
Ne deriva che il proprietario non responsabile dell’inquinamento è tenuto, ai sensi dell’art. 245, comma 2, Dl. Lgs. n. 152/06, ad adottare le misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett. i) cit. (ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”) e le misure di messa in sicurezza d’emergenza, non anche la messa in sicurezza definitiva, né gli interventi di bonifica e di ripristino ambientale.
A tale regime fa eccezione l’ipotesi in cui il proprietario, ancorché non responsabile – presumibilmente motivato dalla necessità di evitare le conseguenze derivanti dai vincoli che gravano sull’area sub specie di onere reale e di privilegio speciale immobiliare ovvero, più in generale, di tutelarsi contro una situazione di incertezza giuridica, prevenendo eventuali responsabilità penali o risarcitorie – abbia attivato volontariamente gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale, assumendo spontaneamente l’impegno di eseguire un complessivo intervento di bonifica.
In tale caso, il progetto di bonifica dovrà essere eseguito in conformità alle misure proposte dall’istante e approvate dall’Amministrazione, come integrate dalle eventuali ulteriori prescrizioni poste dalla stessa autorità amministrativa che siano rispettose dei canoni della prevedibilità, dell’adeguatezza e della proporzionalità.
L’assunzione volontaria dell’obbligo di bonifica da parte del proprietario interessato, come pure chiarito da questo Consiglio, comunque, “non esclude né il potere/dovere dell’Amministrazione di individuare il responsabile dell’inquinamento, né, a fortiori, elide il dovere di quest’ultimo di porre rimedio all’inquinamento stesso” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 1° aprile 2020, n. 2195)
Risulta infatti necessario un rigoroso accertamento al fine di individuare il responsabile dell’inquinamento, nonché del nesso di causalità che lega il comportamento del responsabile all’effetto consistente nella contaminazione e tale accertamento presuppone un’adeguata istruttoria non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell’immobile in ragione di tale sola qualità (Consiglio di Stato, Sez. V, 30 luglio 2015, n. 3756).
Il principio “chi inquina paga”
6.3 Ciò premesso, deve, rilevarsi, in relazione al caso di specie, che le deduzioni difensive svolte dall’Amministrazione statale nell’odierno giudizio evidenziano, comunque, l’assenza di una lesione attuale della sfera giuridica della parte ricorrente in relazione ad aree esterne (non meglio specificate) al sito in proprietà dell’appellante.
In particolare, l’Amministrazione ha rilevato che “-con riferimento al progetto di bonifica dei suoli dell’area dello Stabilimento, approvato con decreto MATTM del 4 giugno 2003, la Provincia di Brindisi, con determina n. 1664 del 19/11/2008 ha certificato il completamento degli interventi di bonifica;
– con riferimento al progetto di bonifica dei suoli dell’area 02F, approvato con decreto MATTM del 28 febbraio 2006, la Provincia di Brindisi, con determina n. 939 del 09/06/2009 ha certificato il completamento degli interventi di bonifica;
– con riguardo all’area denominata “Ex Area Operativa CTE/Sud” (particella 816 Foglio 59/B), con decreto n. 155 del 06/04/2018 si è preceduto alla chiusura del procedimento ex articolo 242 del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 per la matrice “suoli”;
– con riguardo all’area “Ex operativa CTE/Nord”, con decreto n. 405 del 12/11/2019 è stata approvata l’Analisi di rischio che non ha evidenziato rischi per la salute e l’ambiente.
Allo stato, non risultano aperti in capo all’odierna appellante ulteriori procedimenti -né richieste- di bonifica dei suoli relativi ad altre aree.
Ne consegue che anche il sesto motivo è inammissibile/improcedibile per carenza di interesse” (pag. 4 memoria del 5.3.2021).
La ricorrente con la memoria del 12 marzo 2021, pur richiamando le censure svolte in sede di appello, ha preso atto di quanto dedotto dall’Amministrazione statale: “ad ogni modo, anche su tale aspetto, si prende atto di quanto asserito dall’amministrazione nella memoria depositata in data 5 marzo 2021 laddove si è chiarito che “allo stato non risultano aperti in capo all’odierna appellante ulteriori procedimenti – né richieste – di bonifica dei suoli relativi ad altre aree” (pag. 11).
Il principio “chi inquina paga”
6.4 Il Collegio, esaminate le deduzioni svolte dalle parti, ravvisa l’improcedibilità anche delle censure oggetto del sesto motivo di appello, essendo stata riconosciuta dal Ministero l’inesistenza di prescrizioni attuali, concernenti richieste di bonifica in relazione ad aree ulteriori rispetto a quelle riguardanti:
– lo stabilimento, oggetto di progetto di bonifica dei suoli approvato con decreto MATTM del 4 giugno 2003, con interventi di bonifica già completati;
– l’area 02F, oggetto di progetto di bonifica dei suoli approvato con decreto MATTM del 28 febbraio 2006, con interventi di bonifica già completati;
– l’area denominata “Ex Area Operativa CTE/Sud” (particella 816 Foglio 59/B), in relazione alla quale con decreto n. 155 del 06/04/2018 si è preceduto alla chiusura del procedimento ex articolo 242 del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 per la matrice “suoli”;
– l’area “Ex operativa CTE/Nord”, in relazione alla quale con decreto n. 405 del 12/11/2019 è stata approvata l’Analisi di rischio senza evidenziare rischi per la salute e l’ambiente.
Le precisazioni fornite dall’Amministrazione in sede giurisdizionale chiariscono la portata precettiva degli atti censurati in prime cure in senso favorevole al ricorrente.
Riferendosi il Ministero alle sole aree già oggetto dei progetti di bonifica completati ovvero a quelle interessate -comunque, in conseguenza di atti sopravvenuti in corso di giudizio- da un procedimento ex art. 242 D. Lgs. n. 152/06 per la matrice suoli o da un’analisi di rischio che non ha evidenziato rischi per la salute e l’ambiente, non emergono allo stato – né risultano specificate dall’Amministrazione – aree esterne al sito di proprietà della ricorrente, rispetto alle quali, sulla base degli atti censurati in prime cure (costituenti l’ambito oggettivo della cognizione esercitabile nel presente giudizio), possa configurarsi l’attuale imposizione delle misure di sicurezza e di bonifica censurate con il sesto motivo di appello.
Per l’effetto, deve escludersi la sussistenza di un’attuale lesione dell’interesse sostanziale sotteso alla proposizione del motivo di impugnazione in esame, da ritenere, dunque, improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, come pure eccepito dal Ministero intimato: dall’annullamento degli atti gravati, difatti, non potrebbe derivare un’utilità effettiva in capo all’odierno appellante, mancando l’imposizione di obblighi sacrificativi, correlati a misure di sicurezza e di bonifica su aree esterne, rimuovibili attraverso l’emissione di una sentenza di annullamento.
Discorrendosi di sopravvenuta carenza di interesse alla decisione su censure articolate fin dal primo grado di giudizio, alla luce di quanto supra indicato, la dichiarazione di improcedibilità deve riferirsi in parte qua al ricorso originario, il che impone, da un lato, l’annullamento del capo decisorio con cui il Tar ha statuito su censure non più procedibili, dall’altro, la dichiarazione di improcedibilità pure del corrispondente motivo di appello (riferito a statuizioni giudiziali comunque da annullare).
Il principio “chi inquina paga”
6.5 In ogni caso, richiamando le considerazioni sopra svolte, l’Amministrazione non avrebbe potuto imporre al proprietario non responsabile obblighi di messa in sicurezza definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale in relazione ad aree non comprese nel progetto di bonifica presentato dal ricorrente, non rientranti nella sua titolarità, per cui non era stato, dunque, spontaneamente assunto l’obbligo di bonifica.
Parimenti, le misure di messa in sicurezza d’emergenza avrebbero potuto essere imposte – oltre che al responsabile dell’inquinamento – al soggetto non responsabile solo in qualità di proprietario o detentore del sito, trattandosi di misure non aventi carattere sanzionatorio ma riparatorio.
In particolare, le misure di messa in sicurezza di emergenza così come le misure di prevenzione “costituiscono prevenzione dei danni, sono imposte dal principio di precauzione e dal correlato principio dell’azione preventiva, e quindi gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all’ambiente solo perché egli è tale, senza necessità di accertarne il dolo o la colpa” (Consiglio di Stato, sez. IV, 26 febbraio 2021, n. 1658); per l’effetto, tali misure, in ragione della loro funzione riparatoria, non potrebbero essere imposte a carico di chi, senza risultare responsabile dell’inquinamento, non abbia la disponibilità dell’area interessata in qualità di proprietario o detentore, né abbia, comunque, spontaneamente assunto al riguardo i relativi obblighi di prevenzione.
7. In conclusione, deve provvedersi:
– alla dichiarazione di improcedibilità del primo, del secondo, del terzo, del quarto e del sesto motivo di appello, oltre che dei corrispondenti motivi di ricorso articolati in prime cure, rispetto ai quali non è più ravvisabile un interesse alla decisione, con annullamento nei predetti limiti della sentenza gravata;
– alla dichiarazione di improcedibilità del quinto motivo di appello e del corrispondente motivo di ricorso articolato in prime cure, nella parte in cui tende ad ottenere l’annullamento di prescrizioni non più efficaci, con conseguente annullamento nei predetti limiti della sentenza gravata; per il resto, al rigetto del motivo di appello, ai sensi di quanto sopra specificato.
8. La pronuncia di annullamento, seppure parziale, della sentenza di prime cure impone una nuova regolazione delle spese del doppio grado di giudizio, da compensare interamente tra le parti per la particolarità della controversia.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, così provvede:
– in parte, dichiara l’improcedibilità del ricorso in primo grado e dell’appello ai sensi e nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, annulla nei predetti limiti la sentenza impugnata; in altra parte, rigetta l’appello ai sensi e nei limiti di cui in motivazione;
– compensa interamente tra le parti le spese processuali del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 aprile 2021 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro – Presidente
Diego Sabatino – Consigliere
Silvestro Maria Russo – Consigliere
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Francesco De Luca – Consigliere, Estensore
Il principio “chi inquina paga”
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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