Il giudice adito per l’invalidazione di una delibera di esclusione di un associato

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|22 gennaio 2024| n. 2117.

Il giudice adito per l’invalidazione di una delibera di esclusione di un associato

Il giudice adito per l’invalidazione di una delibera di esclusione di un associato per gravi motivi – ai sensi dell’art.24, comma 3, c.c. – é tenuto ad accertare se si sia avverata in concreto una delle ipotesi previste dalla legge o dall’atto costitutivo per la risoluzione del rapporto associativo; in assenza di indicazioni statutarie specifiche o in presenza di formule generali ed elastiche o, comunque, in ogni altra situazione in cui la prefigurata causa di esclusione implichi un giudizio di gravità di singoli atti o comportamenti, da operarsi necessariamente “post factum”, il vaglio giurisdizionale deve estendersi necessariamente anche a quest’ultimo aspetto, esprimendosi attraverso un giudizio di proporzionalità complessiva tra le conseguenze del comportamento addebitato all’associato in termini di lesione arrecata alle finalità statutarie e la radicalità della sanzione. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto legittimo il provvedimento di espulsione di un associato cui erano stati contestati comportamenti contrari agli scopi previsti dallo statuto dell’Associazione Nazionale Carabinieri ed al tempo stesso gravemente lesivi dell’immagine dell’Arma, riconducibili a contrasti circa l’uso dell’alta uniforme che avevano finito per coinvolgere le autorità consolari italiane all’estero).

Ordinanza|22 gennaio 2024| n. 2117. Il giudice adito per l’invalidazione di una delibera di esclusione di un associato

Data udienza 1 dicembre 2023

Integrale

Tag/parola chiave: Associazioni e fondazioni – Associazioni riconosciute – Recesso ed esclusione degli associati esclusione dell’associato per gravi motivi – Verifica da parte del giudice di merito – Limiti e condizioni – Fattispecie.

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MARULLI Marco – Presidente
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere Rel.

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere

Dott. VALENTINO Daniela – Consigliere

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 19729 R.G. anno 2019 proposto da:

Da.Gi. , rappresentato e difeso dall’avvocato Daniele Ingarrica;

ricorrente

contro

Associazione Nazionale Carabinieri, rappresentata e difesa dall’avvocato Ca.Ni., presso cui è domiciliato, e dall’avvocato Fe.Da.;

controricorrente

avverso la sentenza n. 2118/2019 depositata il 28 marzo 2019 della Corte di appello di Roma.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 1 dicembre 2023 dal consigliere relatore Massimo Falabella.

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FATTI DI CAUSA

1. – Da.Gi. ha convenuto in giudizio l’Associazione Nazionale Carabinieri innanzi al Tribunale di Roma chiedendo l’annullamento del provvedimento emesso il 20 giugno 2012 dal presidente nell’associazione, con cui era stato escluso dalla stessa, e del successivo provvedimento di conferma pronunciato il 25 ottobre 2012; lo stesso Da.Gi. ha altresì domandato la condanna di controparte al risarcimento del danno nella misura di euro 25.000,00.

Si è costituita in giudizio l’Associazione Nazionale Carabinieri, la quale ha concluso per il rigetto delle domande dell’attore e, in via riconvenzionale, per la condanna della controparte al risarcimento del danno nella misura di euro 822,00, pari al controvalore del labaro, completo di asta, puntale, traversina e bandiere: oggetti dell’associazione che l’attore aveva mancato di restituire.

Il Tribunale ha respinto sia le domande attrici che la domanda riconvenzionale.

2. – La Corte di appello di Roma ha rigettato il gravame principale di Da.Gi. e ha accolto quello incidentale dell’associazione, disponendo la condanna dell’originario convenuto in riconvenzionale al pagamento, in favore dell’associazione, della somma di euro 822,00, oltre interessi.

Si legge nella sentenza della Corte di appello che i comportamenti addebitati all’associato erano stati ritenuti contrari all’art. 2, lett. a), dello statuto – che individuava, quale primo scopo dell’associazione, quello di promuovere e cementare i vincoli di cameratismo e solidarietà tra i militari in congedo e quelli in servizio dell’Arma e tra essi e gli appartenenti alle altre forze armate e alle rispettive associazioni -, oltre che all’art. 9, lett. b), del medesimo statuto, il quale contemplava la sanzione dell’espulsione per mancanze di particolari gravità e per manifestazioni o atteggiamenti contrari ai principi dell’Arma. La Corte di merito ha condiviso la pronuncia di primo grado nella parte in cui aveva ritenuto “sproporzionata e inadeguata” l’iniziativa di Da.Gi. il quale, nella qualità di presidente della sezione estera di Ginevra dell’associazione, aveva espresso le proprie rimostranze al console italiano perché, in occasione della festa del 2 giugno 2011, due componenti dell’associazione risultavano essere presenti in alta uniforme in assenza della prescritta autorizzazione all’uso della stessa, mentre la presidenza dell’associazione era stata tenuta all’oscuro e invitata a partecipare in abiti borghesi: il che, ad avviso di Da.Gi., “aveva comportato una esclusione della presenza dei carabinieri in veste ufficiale, che denotava un comportamento irrispettoso e irriverente del console nei confronti sia della presidenza che degli iscritti all’associazione”; al console stesso era stato rivolto pure un “invito a fornire chiarimenti” in proposito. L’apprezzamento sopra indicato è stato ribadito con riguardo al successivo svolgimento della vicenda, segnato dalla presentazione, da parte di Da.Gi., di un esposto alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma e alla Procura della Repubblica militare, per l’accertamento della responsabilità penale dei vari soggetti citati, tra cui il console, in ordine ai fatti descritti. Ha osservato la Corte di merito che la questione relativa all’uso, legittimo o meno, dell’alta uniforme non avrebbe dovuto tradursi in una accusa rivolta al console, del tutto estraneo alle regole ordinamentali relative, non essendo egli il soggetto deputato ad autorizzare l’uso delle divise ufficiali, e che in ciò stava la sproporzione e l’inadeguatezza dell’iniziativa assunta dall’associato.

Il Giudice distrettuale ha rilevato che, in definitiva, a Da.Gi. era stato contestato di aver adottato comportamenti contrari alle finalità dell’associazione e al tempo stesso gravemente lesivi dell’immagine dell’Arma, “dato il coinvolgimento nella vicenda delle uniformi, che rappresenta una questione interna all’Arma, oltre che del console e anche dell’ambasciatore, dell’addetto militare e del Ministro degli affari esteri”, e che a tale condotta si aggiungeva il comportamento consistente nel mancato passaggio delle consegne, in relazione al quale erano documentati diversi inviti, concernenti il carteggio, l’eventuale fondo di cassa, le grandi uniformi in dotazione, nonché la bandiera e il labaro della sezione.

La Corte di appello ha inoltre considerato che i richiamati comportamenti costituivano “atteggiamento contrario ai principi dell’Arma e dell’ANC”, onde il provvedimento di espulsione doveva ritenersi “motivato in modo assolutamente chiaro e non (poteva) essere censurato, data la perfetta corrispondenza tra gli addebiti mossi al Da.Gi. e le previsioni statutarie”.

3. – La sentenza di appello, pubblicata il 28 marzo 2019, è stata impugnata per cassazione sulla base di sei motivi. Resiste con controricorso l’Associazione Nazionale Carabinieri.

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RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Col primo motivo è denunciata la violazione o falsa applicazione dell’art. 24, comma 3, c.c. e dell’art. 9, comma 2, lett. a) e lett. b), punti a), b) e c), dello statuto dell’associazione. Secondo il ricorrente, essendo per statuto escluso che la condotta relativa all’inosservanza di disposizioni legittimamente impartite dagli organi statutari vada sanzionata con l’espulsione, il Giudice di appello risulterebbe aver violato la disposizione di cui al cit. art. 9 comma 2, dello statuto.

Il motivo è inammissibile.

Occorre premettere che la norma dettata dall’art. 24 c.c., secondo cui gli organi associativi possono deliberare l’esclusione dell’associato per gravi motivi, applicabile anche alle associazioni non riconosciute, implica che il giudice davanti al quale sia proposta l’impugnazione della deliberazione di esclusione abbia il potere-dovere di valutare se si tratti di fatti gravi e non di scarsa importanza, cioè se si sia avverata in concreto una delle ipotesi previste dalla legge e dall’atto costitutivo per la risoluzione del singolo rapporto associativo, prescindendo dall’opportunità intrinseca della deliberazione stessa (Cass. 16 settembre 2019, n. 22986; Cass. 9 settembre 2004, n. 18186). Questa Corte ha poi precisato che l’esclusione di un associato è concetto relativo, la cui valutazione non può prescindere dal modo in cui gli associati medesimi lo hanno inteso nella loro autonomia associativa; di tal che, ove l’atto costitutivo dell’associazione contenga già una ben specifica descrizione dei motivi ritenuti così gravi da provocare l’esclusione dell’associato, la verifica giudiziale è destinata ad arrestarsi al mero accertamento della puntuale ricorrenza o meno, nel caso di specie, di quei fatti che l’atto costitutivo contempla come causa di esclusione; quando, invece, nessuna indicazione specifica sia contenuta nel medesimo atto costitutivo, o quando si sia in presenza di formule generali ed elastiche, destinate ad essere riempite di volta in volta di contenuto in relazione a ciascun singolo caso, o comunque in qualsiasi altra situazione nella quale la prefigurata causa di esclusione implichi un giudizio di gravità di singoli atti o comportamenti, da operarsi necessariamente post factum, il vaglio giurisdizionale si estende necessariamente anche a quest’ultimo aspetto (giacché, altrimenti, si svuoterebbe di senso la suindicata disposizione dell’art. 24 c.c.) e si esprime attraverso una valutazione di proporzionalità tra le conseguenze del comportamento addebitato all’associato e l’entità della lesione da lui arrecata agli altrui interessi, da un lato, e la radicalità del provvedimento espulsivo, che definitivamente elide l’interesse del singolo a permanere nell’associazione, dall’altro (Cass. 4 settembre 2004, n. 17907).

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Ciò detto, il mezzo di censura è incomprensibile, visto che, come ricorda lo stesso ricorrente, l’art. 9, comma 2, lett. b), dello statuto dell’associazione contempla, in via generale, gli illeciti disciplinari consistenti in “manifestazioni o atteggiamenti contrari ai principi dell’Arma o dell’ANC”, rispetto ai quali può essere adottato il provvedimento disciplinare dell’espulsione per mancanze di particolare gravità: ebbene, come si è detto, la prima contestazione disciplinare dell’associazione riguarda proprio l’adozione di “comportamenti contrari alle finalità dell’associazione al tempo stesso gravemente lesivi dell’immagine dell’Arma”.

Il ricorrente non può comunque dibattere, nella presente sede, della violazione o falsa applicazione di una disposizione statutaria, visto che questa non è una norma di diritto e non rientra, quindi, nella previsione dell’art. 360, n. 3, c.p.c. Avrebbe potuto porre una questione interpretativa intorno alla nominata disposizione: e tuttavia, poiché l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 ss. c.c., al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente avrebbe dovuto non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma avrebbe dovuto precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si fosse discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. 9 aprile 2021, n. 9461; Cass. 16 gennaio 2019, n. 873; Cass. 15 novembre 2017, n. 27136; Cass. 9 ottobre 2012, n. 17168; Cass. 31 maggio 2010, n. 13242; Cass. 9 agosto 2004, n. 15381).

Quanto, poi, alla censurata violazione o falsa applicazione dell’art. 24 c.c., il ricorrente invoca, sul punto, l’insegnamento della cit. Cass. 4 settembre 2004, n. 17907: omette tuttavia di considerare che l’apprezzamento circa l’effettiva gravità della condotta posta in essere dall’associato escluso sfugge al sindacato di legittimità (cfr., al riguardo, la sent. ult. cit., in motivazione, par. 4, ove si sottolinea come non sia censurabile in cassazione la valutazione di merito insita nel giudizio di proporzionalità complessiva tra il fatto e la sanzione dell’esclusione).

2. – Col secondo mezzo viene lamentata la violazione o falsa applicazione dell’art. 24, comma 3, c.c. in relazione agli artt. 2, 13 e 18 Cost. Secondo l’istante, la Corte di merito avrebbe mancato di apprezzare la proporzionalità esistente tra l’illecito disciplinare e la sanzione dell’espulsione, essendosi limitata a valutare solo in parte le ragioni che giustificavano l’espulsione di esso ricorrente dall’associazione, omettendo di apprezzare i motivi che avrebbero, invece, potuto giustificare la sua permanenza all’interno dell’ente. Si sottopone a critica la sentenza impugnata per non aver essa individuato il nesso eziologico intercorrente tra la condotta dell’istante, la violazione dei principi dell’Arma o dell’Associazione Nazionale Carabinieri e il presunto danno all’immagine.

Il motivo, che si salda al precedente, è inammissibile in quanto versato in fatto.

In termini generali, la prospettazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta mediante le risultanze di causa inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito (Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 11 gennaio 2016, n. 195).

Nulla, del resto, è puntualmente argomentato dall’istante quanto alla denunciata violazione o falsa applicazione di norme di diritto (alcune delle quali risultano essere disposizioni costituzionali non immediatamente applicabili alla fattispecie, insuscettibili, come tali, di essere invocate in questa sede: Cass. Sez. U. 6 aprile 2022, n. 11167). Va ricordato che l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, n. 3), c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass. Sez. U. 28 ottobre 2020, n. 23745).

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3. – Col terzo motivo, dedotto in via subordinata rispetto al primo e al secondo, si prospetta la violazione o falsa applicazione dell’art. 24, comma 3, c.c. per il mancato accertamento dei gravi motivi in relazione all’omesso passaggio di consegne; si rileva che l’inosservanza delle disposizioni impartite non rappresenterebbe un fatto sanzionabile direttamente con l’espulsione, rientrando nei casi tassativamente indicati dallo statuto.

Anche tale motivo è inammissibile.

Esso non si mostra aderente alla ratio decidendi della pronuncia impugnata, la quale non ha conferito rilievo al solo mancato passaggio delle consegne, ma ha considerato la complessiva condotta di Da.Gi., che si era reso responsabile anche di ulteriori comportamenti (quelli legati alla questione delle uniformi), giudicati, come si è visto, “contrari alle finalità dell’associazione al tempo stesso gravemente lesivi dell’immagine dell’Arma”.

4. – Il quarto motivo, subordinato rispetto al secondo, oppone la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, n. 4, c.p.c. Posto che il Giudice distrettuale aveva valutato come illegittimo il provvedimento di espulsione del ricorrente sulla base del presupposto che i comportamenti da lui tenuti sarebbero stati lesivi del prestigio e del decoro dell’Arma, si osserva che lo stesso Da.Gi. era da anni in congedo e non faceva più parte del corpo dei Carabinieri. In tal senso, la motivazione adottata dalla sentenza impugnata risulterebbe affetta da irriducibile contraddittorietà, non essendosi rivelata in grado di distinguere l’Arma dei Carabinieri dall’Associazione Nazionale Carabinieri.

Il motivo è infondato.

Il ricorrente pare evocare il vizio motivazionale consistente nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” (oggi ancora deducibile in sede di legittimità: Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054). Tale vizio è tuttavia del tutto assente nella pronuncia impugnata, dal momento che la Corte di merito ha correlato la lesione del prestigio dell’Arma a un’azione imputabile a Da.Gi., carabiniere in congedo e dirigente di un’associazione che, come si legge a pag. 6 della sentenza impugnata, contempla come primo scopo quello di promuovere e cementare i vincoli di cameratismo e solidarietà tra i militari in congedo e quelli in servizio nell’Arma. La Corte di appello ha ritenuto che la condotta posta in essere (segnatamente quella relativa alle rimostranze e all’esposto quanto all’uso delle alte uniformi) risultasse contraria alle richiamate finalità. Ha anche evidenziato che le accuse al console e l’iniziativa giudiziaria erano ingiustificate e lesive del prestigio e del decoro dell’Arma: ma tale rilievo, oltre a non assumere centralità nell’economia di una decisione che, come si è detto, è imperniata sulla non compatibilità di quanto compiuto con gli scopi dell’associazione, è tutt’altro che incomprensibile, ove si consideri che la Corte di merito ha inteso valorizzare, con chiara evidenza, il legame esistente tra l’associazione e l’Arma e le ripercussioni di segno negativo che, per tale ragione, l’azione inopportuna di un organo dell’associazione potevano avere sull’immagine dell’Arma stessa.

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5. – Col quinto mezzo, pure subordinato al mancato accoglimento del secondo motivo, la sentenza impugnata è censurata per l’omesso esame di fatto decisivo risultante dagli atti di causa. I fatti storici risultati degli atti processuali non esaminati dalla Corte di merito sarebbero due: la circostanza per cui Da.Gi. risultava essere presidente della sezione estero di Ginevra dell’associazione nel momento in cui aveva richiesto al console specifici chiarimenti in merito alla presenza in alta uniforme dei carabinieri in congedo Ba. e Sc.; la direttiva con cui la presidenza nazionale della Associazione Nazionale Carabinieri aveva impartito disposizioni in merito all’uso il pubblico della divisa da parte degli appartenenti alle sue sezioni presenti in Svizzera. Si deduce che, ove tali fatti fossero stati debitamente presi in considerazione, la condotta posta in essere dal ricorrente sarebbe stata qualificata dalla finalità di tutelare gli interessi dell’associazione e non sarebbe stata ritenuta sproporzionata al punto da giustificare l’espulsione dello stesso Da.Gi.

Il motivo è nel complesso infondato.

La prima circostanza non è stata oggetto di un omesso esame (cfr. pag. 7 della sentenza), mentre la censura vertente sulla direttiva della presidenza nazionale dell’associazione è palesemente carente di autosufficienza, a mente del principio per cui chi fa valere il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. deve non solo indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, ma anche il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054 citt.).

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6. – Col sesto motivo, proposto in via subordinata rispetto a quelli che precedono, ci si duole della violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 2043 c.c. e 116 c.p.c.. Si rileva che del danno all’immagine dell’Arma avrebbe dovuto dolersi solo quest’ultima; si rileva, inoltre, che la sentenza impugnata non aveva chiarito come il danno da essa rilevato si sarebbe poi prodotto.

Il motivo è inammissibile.

Si è detto, trattando del quinto motivo, che la decisione impugnata si fonda non sul danno all’immagine dell’Arma, ma sul compimento di condotte risultate contrarie agli scopi associativi. Sotto tale aspetto il mezzo di censura in esame investe un punto della pronuncia impugnata privo del carattere di decisività ed è, per ciò solo, inammissibile (cfr. già Cass. Sez. U. 16 ottobre 1972, n. 3081). Si osserva, per mera completezza, che l’associazione era pienamente titolata, in base all’art. 9, comma 2, lett. b) dello statuto, a dolersi di atteggiamenti contrari ai principi dell’Arma o dell’associazione e che l’apprezzamento circa la lesività del prestigio e del decoro insito nelle condotte poste in essere dal ricorrente sfugge al sindacato di legittimità.

7. – Il ricorso è respinto.

8. – Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

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P.Q.M.

Respinge il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1a Sezione Civile, in data 1 dicembre 2023.

Depositata in Cancelleria il 22 gennaio 2024.

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