Il diritto delle parti del giudizio divisorio di modificare le proprie conclusioni

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Sentenza 13 giugno 2019, n. 15926.

La massima estrapolata:

Il giudizio di scioglimento di comunioni non è del tutto compatibile con le scansioni e le preclusioni che disciplinano il processo in generale, intraprendendo i singoli condividenti le loro strategie difensive anche all’esito delle richieste e dei comportamenti assunti dalle altre parti con riferimento al progetto di divisione ed acquisendo rilievo gli eventuali sopravvenuti atti negoziali traslativi, che modifichino il numero e l’entità delle quote; ne deriva il diritto delle parti del giudizio divisorio di modificare, anche in sede di appello (nella specie, all’udienza di precisazione delle conclusioni), le proprie conclusioni e richiedere per la prima volta l’attribuzione, per intero o congiunta, del compendio immobiliare, integrando tale istanza una mera modalità di attuazione della divisione.

Sentenza 13 giugno 2019, n. 15926

Data udienza 10 maggio 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere

Dott. GIANNACCARI Rossana – rel. Consigliere

Dott. SORTUNATO Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 90/2014 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso FAMIGLIA (OMISSIS)/ (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1036/2013 della CORTE D’APPEELO di NAPOLI, depositata il 18/08/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/05/2018 dal Consigliere Dott. ROSSANA GIANNACCARI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per l’accoglimento del VI motivo, rigetto dei restanti motivi di ricorso.

FATTI DI CAUSA

1. Con atto di citazione del 30.10.2003, (OMISSIS) conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Avellino il coniuge (OMISSIS), per chiedere lo scioglimento della comunione di un appartamento, acquistato prima del matrimonio ed adibito a casa coniugale, oltre alla condanna della convenuta alla corresponsione dei frutti percepiti dall’1.04.2003, data della separazione, al rilascio.
L’attore deduceva che l’acquisto dell’immobile era avvenuto in regime di comunione, ed in parti uguali, prima del matrimonio e che, dopo la separazione di fatto, risalente al marzo-aprile 2003, non aveva piu’ avuto il godimento del bene, poiche’ era tornato a vivere con i propri genitori.
2. Si costituiva la convenuta, resistendo alla domanda e chiedendo, in via riconvenzionale, l’accertamento della sua esclusiva proprieta’, per avere acquistato il bene con denaro proprio, prima del matrimonio; deduceva che, con scrittura privata del 21.5.2003, il (OMISSIS) si era obbligato a trasferire la quota del 50% dell’immobile e chiedeva emettersi sentenza costitutiva, ex articolo 2932 c.c., avente ad oggetto il trasferimento della quota del 50% dell’immobile.
3. Il Tribunale di Avellino, con sentenza n. 160/2006 dichiarava inammissibile la domanda principale, rilevando che la domanda di divisione, in quanto avente ad oggetto la casa coniugale, non potesse aver luogo prima del passaggio in giudicato della sentenza di separazione; dichiarava, altresi’, inammissibile la domanda riconvenzionale, perche’ tardivamente proposta, e compensava per meta’ le spese di lite.
4. Proponeva appello (OMISSIS) resistito da (OMISSIS), che reiterava le proprie difese ma non impugnava la statuizione della sentenza, che aveva dichiarato inammissibile la sua domanda riconvenzionale.
5. La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza non definitiva del 4.03.2010, riformava la sentenza di primo grado, rilevando che l’immobile, acquistato prima del matrimonio, era in regime di comunione ordinaria e non di rientrava nella comunione legale.
6. Con sentenza dell’1.3-18.3.2013, la Corte d’Appello di Napoli disponeva lo scioglimento della comunione, assegnando l’appartamento a (OMISSIS) e determinando un conguaglio pari ad Euro 54.000,00 in favore di (OMISSIS), oltre interessi dalla decisione al saldo.
Condannava (OMISSIS) alla corresponsione dei frutti per il godimento esclusivo dell’immobile, quantificati in Euro 8.519,22, oltre interessi dalla domanda al saldo, e la condannava alle spese del doppio grado di giudizio.
6.1. Il giudice d’appello aderiva alle risultanze della CTU, da cui era emersa l’indivisibilita’ dell’immobile, e condivideva la decisione del primo giudice di assegnare il bene in favore del (OMISSIS), che ne aveva fatto richiesta all’udienza di precisazione delle conclusioni, mentre nessuna istanza di attribuzione era stata formulata dalla (OMISSIS).
6.2 Sulla base delle risultanze della CTU, la corte territoriale stabiliva il conguaglio in favore del condividente non assegnatario, senza procedere alla rivalutazione, considerato il non significativo lasso di tempo tra il deposito della relazione peritale (1.2.2011) e la decisione (1-3-19.3.2013) e l’assenza di allegazione del pregiudizio da svalutazione monetaria.
6.3 I frutti percepiti dalla (OMISSIS), per l’esclusivo godimento dell’immobile, venivano determinati dalla data della separazione giudiziale.
6.4. La corte territoriale rigettava la richiesta di sospensione del giudizio ai sensi dell’articolo 295 c.p.c., proposta dalla (OMISSIS), che, dopo la pronuncia di inammissibilita’ della domanda riconvenzionale di trasferimento della quota del 50% dell’immobile, aveva introdotto un autonomo giudizio, avente il medesimo oggetto, dal cui esito dipendeva il giudizio di divisione.
Secondo il giudice d’appello, la sospensione del giudizio di divisione, in attesa della definizione del giudizio ex articolo 2932 c.c., instaurato dalla (OMISSIS) a seguito della dichiarazione di inammissibilita’ della domanda riconvenzionale, era contraria ai principi di ragionevole durata del processo.
7. Per la cassazione della sentenza, propone ricorso (OMISSIS) sulla base di sei motivi di ricorso; resiste con controricorso (OMISSIS).
8. In prossimita’ dell’udienza, le parti hanno depositato memorie illustrative.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, si censura la violazione o falsa applicazione dell’articolo 720 c.c., nonche’ il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per avere la corte territoriale disposto l’assegnazione dell’immobile a (OMISSIS), nonostante la richiesta fosse stata tardivamente proposta all’udienza di precisazione delle conclusioni e dopo che il medesimo aveva richiesto la vendita del bene all’incanto. Sostiene la ricorrente che al giudizio di divisione debbano applicarsi le stesse preclusioni istruttorie previste per il giudizio ordinario, sicche’ la richiesta di assegnazione non avrebbe potuto essere effettuata oltre l’udienza successiva al deposito della CTU.
1.2 Il motivo non e’ fondato.
1.3 La questione di diritto sottoposta all’attenzione del Collegio investe il tema relativo alla tempestivita’ dell’istanza di attribuzione di cui all’articolo 720 c.c., tema che si riconnette all’ancor piu’ generale problematica della compatibilita’ con il processo di divisione del regime delle preclusioni che, attualmente, connota il processo ordinario di cognizione.
1.4 Ritiene il collegio che debba darsi sicuramente continuita’ all’orientamento delle Sezioni Unite, secondo cui, in tema di giudizio di divisione ereditaria, le caratteristiche del relativo procedimento, rappresentate dalla finalita’ che esso persegue, di porre fine alla comunione con riferimento all’intero patrimonio del de cuius, non sono di per se’ sufficienti a giustificare deroghe alle preclusioni tipiche stabilite dalla legge per il normale giudizio contenzioso e trovano, pertanto, applicazioni le preclusioni previste nel giudizio ordinario (Cassazione civile, sez. un., 20/06/2006, n. 14109).
Tuttavia, la giurisprudenza di questa Corte, sia pur con qualche isolata pronuncia difforme, e’ consolidata nel ritenere che, con specifico riferimento ai limiti alla proposizione dell’istanza di attribuzione, non si puo’ prescindere dalla specificita’ del giudizio di divisione, e soprattutto dall’incidenza che sul risultato della divisione possono avere le vicende soggettive che colpiscono i condividenti, ovvero quelle oggettive concernenti i beni coinvolti nel giudizio.
In tal senso, appare del tutto condivisibile quanto affermato da Cass. n. 9367/2013, e ribadito da Cassazione civile, sez. II, 19/07/2016, n. 14756, secondo cui il giudizio di scioglimento di comunioni non e’ del tutto compatibile con le scansioni e le preclusioni che disciplinano il processo in generale, intraprendendo i singoli condividenti le loro strategie difensive anche all’esito delle richieste e dei comportamenti assunti dalle altre parti, con riferimento al progetto di divisione, ed acquisendo rilievo gli eventuali sopravvenuti atti negoziali traslativi, che modifichino il numero e l’entita’ delle quote.
Ne deriva, pertanto, il diritto delle parti del giudizio divisorio di mutare, anche in sede di appello, le proprie conclusioni e richiedere per la prima volta l’attribuzione, per intero o congiunta, del compendio immobiliare, integrando tale istanza una mera modalita’ di attuazione della divisione.
Il condividente ben potrebbe all’esordio della controversia prospettarsi la divisibilita’ in natura, salvo poi ricredersi proprio in conseguenza delle valutazioni del consulente tecnico d’ufficio che, invece, dia conto delle ragioni per le quali il bene o i beni non siano comodamente divisibili.
Tutto cio’ attribuisce alle parti il diritto di modificare, anche in sede di gravame, le proprie conclusioni e richiedere per la prima volta l’attribuzione, per intero o congiunta, del compendio immobiliare, integrando tale istanza una mera modalita’ di attuazione della divisione.
A cio’ si aggiunge la considerazione che, l’esito della vendita all’incanto, resta l’extrema ratio voluta dal legislatore.
1.5 Sulla base di tali principi, la corte territoriale ha correttamente ritenuto ammissibile l’istanza di attribuzione del bene, avanzata da (OMISSIS), all’udienza di precisazione delle conclusioni.
1.6 La corte territoriale ha, inoltre, argomentato in ordine all’accoglimento dell’istanza da parte del condividente titolare di pari quota, in considerazione del fatto che l’altra condividente non aveva fatto analoga richiesta di attribuzione, configurando la vendita all’incanto come rimedio residuale cui ricorrere quando nessuno dei condividenti voglia giovarsi della facolta’ di attribuzione dell’intero. Sicche’, in presenza di una richiesta nel senso indicato, correttamente il giudice d’appello ha provveduto all’assegnazione del compendio e alla liquidazione del relativo conguaglio (Cass. 13 maggio 2010, n. 11641; Cass. 9 febbraio 2000, n. 1423).
2. Con il secondo motivo di ricorso, si censura la violazione dell’articolo 720 c.c. e articolo 116 c.p.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3, nonche’ il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla condanna della (OMISSIS) alla corresponsione dei frutti, nonostante l’esclusivo godimento del bene fosse avvenuto sulla base del provvedimento presidenziale di assegnazione della casa coniugale e con il consenso del coniuge comproprietario, quanto meno fino alla proposizione della domanda di divisione, con cui avrebbe manifestato il proprio dissenso.
2.1 Il motivo e’ fondato.
2.2 Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, alla quale il collegio intende dare continuita’, l’uso esclusivo del bene comune da parte di uno dei comproprietari, nei limiti di cui all’articolo 1102 c.c., non e’ idoneo a produrre alcun pregiudizio in danno degli altri comproprietari che siano rimasti inerti o abbiano acconsentito ad esso in modo certo ed inequivoco, essendo l’occupante tenuto al pagamento della corrispondente quota di frutti civili, ricavabili dal godimento indiretto della cosa, solo se gli altri partecipanti abbiano manifestato l’intenzione di utilizzare il bene in maniera diretta e non gli sia stato concesso (Cassazione civile, sez. II, 09/02/2015, n. 2423; Cass. civ., sez. II, 30 marzo 2012 n. 5156; Cass. civ., sez. II, 3 dicembre 2010 n. 24647).
Ne consegue che, colui che utilizza in via esclusiva il bene comune, non e’ tenuto a corrispondere alcunche’ al comproprietario pro indiviso che rimanga inerte o, a maggior ragione, abbia consentito, in modo certo ed inequivoco, detto uso esclusivo.
2.3 Nella specie, non risulta che vi sia stato un espresso dissenso da parte del (OMISSIS), che, al contrario, ha manifestato un assenso al godimento dell’immobile da parte della (OMISSIS).
L’assegnazione della casa familiare alla (OMISSIS) era ispirata dalla finalita’ di regolare i rapporti economici tra coniugi, e, pur trattandosi di provvedimento presidenziale emesso fuori dall’ambito di applicazione dell’articolo 155 c.c., comma 2, poiche’ i coniugi non avevano figli, era tuttavia espressione del consenso del (OMISSIS) al godimento del bene da parte della comproprietaria. Non e’ pertinente il rilievo della Corte relativo all’inopponibilita’ ai terzi ed al coniuge non assegnatario della casa coniugale, che, in qualita’ di comproprietario, voglia proporre domanda di divisione, in assenza di figli minori o maggiorenni non autosufficienti, poiche’ essa attiene al regime della proprieta’ del bene adibito a casa coniugale, laddove oggetto della domanda e’ la corresponsione dei frutti da parte del condividente, che durante il periodo di comunione abbia goduto del bene in via esclusiva con il consenso del comproprietario.
3. Con il terzo motivo di ricorso, la ricorrente deduce la violazione dell’articolo 720 c.c., nonche’ il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per non avere la corte territoriale calcolato la rivalutazione monetaria sulla somma dovuta a titolo di conguaglio, nonostante si trattasse di un debito di valore.
3.1 Il motivo e’ infondato.
3.2 La determinazione del conguaglio in denaro, ai sensi dell’articolo 728 c.c., prescinde dalla domanda di parte poiche’ concerne l’attuazione del progetto divisionale con la conseguenza che il giudice deve procedere d’ufficio alla relativa rivalutazione, purche’ vi sia stata un’apprezzabile lievitazione del prezzo di mercato del bene, tale da alterare la funzione di riequilibrio propria del suddetto conguaglio, gravando sulla parte interessata solo un onere di allegazione circa l’avvenuta verificazione della sproporzione eventualmente intervenuta (Cassazione civile, sez. II, 12/12/2017, n. 29733; Cass. Civ., sez. 06, del 03/07/2014, n. 15288; Cass. Civ., sez. 02, del 03/05/2010, n. 10624).
3.3 Nella specie, la corte territoriale ha ritenuto che il lasso di tempo intercorrente tra il deposito della CTU (1.2.2011) e la decisione (18.3.2013) non aveva determinato una lievitazione del prezzo di mercato, ne’ vi era allegazione in senso contrario da parte della (OMISSIS).
4. Resta assorbito dall’accoglimento del secondo motivo, il quarto motivo di ricorso, con il quale si deduce la violazione e falsa applicazione dell’articolo 720 c.c., nonche’ il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, in ordine alla determinazione degli interessi e dei frutti civili.
5. Con il quinto motivo di ricorso, viene dedotta la violazione dell’articolo 295 c.p.c., per non avere la corte territoriale disposto la sospensione del giudizio di divisione in attesa della definizione del giudizio avente ad oggetto il trasferimento coattivo della meta’ indivisa del bene ex articolo 2932 c.c., introdotto dopo che il giudice di primo grado, con sentenza irrevocabile, aveva dichiarato inammissibile la domanda riconvenzionale, avente identico petitum e causa petendi.
Deduce la ricorrente la sussistenza di un rapporto di pregiudizialita’ tra il giudizio avente ad oggetto il trasferimento coattivo della quota del 50% ed il giudizio di divisione, in quanto l’eventuale pronuncia di sentenza costitutiva, ex articolo 2932 c.c., farebbe cessare la materia del contendere del giudizio di divisione, sicche’ sarebbe errato ancorare la prosecuzione del giudizio a ragioni di speditezza processuale.
5.1 Il motivo non e’ fondato, ma la motivazione deve essere corretta ai sensi dell’articolo 384 c.p.c..
5.2 Occorre prendere le mosse dalla natura e dalla struttura speciale del giudizio di divisione, articolata in modo da consentire che, qualora l’attore non chieda il preventivo accertamento del suo diritto e, comunque, non sorgano contestazioni, si proceda alle operazioni divisionali in virtu’ di semplice ordinanza, salva la possibilita’ di contestazioni, nel corso ulteriore del processo, sui diritti delle parti.
La legge prevede, infatti, la duplice ipotesi di pronuncia sulla domanda di divisione, mediante sentenza, qualora sorgano contestazioni sul diritto alla divisione, e di pronuncia mediante ordinanza, nel caso contrario.
La giurisprudenza piu’ risalente, nell’affermare la natura contenziosa, e non di volontaria giurisdizione, del giudizio di divisione, ammetteva il diritto ai singoli partecipanti ad esso di far valere fino al termine della procedura la mancanza o il diverso contenuto del diritto alla divisione, almeno fino a quando, sulle eventuali contestazioni, il giudice non si fosse pronunciato con sentenza (Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 951 del 10/05/1967, Rv. 327191 – 01 aveva ritenuto ammissibile la domanda, con cui un coerede, dopo che era stata disposta con sentenza irrevocabile, sulla base dell’accertamento di apertura di successione ab intestato, la rimessione delle parti al giudice istruttore, per il compimento delle operazioni divisionali, aveva chiesto che si procedesse alla divisione dei beni, in base ad un testamento olografo da lui prodotto).
Sulla stessa scia si pone Cassazione civile, sez. II, 06/03/1980, n. 1521, che, muovendo dalla speciale struttura del procedimento divisorio, ha affermato che, qualora non sorgano contestazioni sul diritto alla divisione, si possa procedere alle operazioni divisionali in virtu’ di semplici ordinanze, salva la possibilita’ di contestazioni sui diritti delle parti nel corso ulteriore del processo. Tale possibilita’ non puo’ essere esclusa alla stregua del disposto dell’articolo 177 c.p.c., comma 3, che riguarda l’istruzione probatoria in senso proprio ed e’ inapplicabile alle ordinanze che risolvono provvisoriamente questioni inerenti alla formazione del progetto di divisione.
La giurisprudenza citata e’ inserita in un contesto ordinamentale, antecedente alla L. n. 353 del 1990, in cui le preclusioni erano fortemente attenuate e le parti potevano modificarle fino all’udienza di precisazione delle conclusioni.
Nel contesto del processo civile attuale, anche il processo divisorio non e’ immune da preclusioni, come del resto affermato da S.U. n. 14109/06 con riferimento a quelle dell’articolo 167 c.p.c.. Nella citata sentenza, si afferma che le peculiarita’ del giudizio divisorio (nel senso che esso non deve necessariamente concludersi con una sentenza, ove le parti trovino l’accordo sul progetto di divisione), in mancanza di una norma ad hoc, non sono sufficienti da sole a giustificare una deroga alle preclusioni tipiche in tema di svolgimento di un normale giudizio contenzioso.
Ne’, per superare tali preclusioni, le Sezioni Unite ammettono che si possa fare ricorso alla figura dell’accertamento incidentale.
A prescindere, infatti, dalla configurabilita’ come questione pregiudiziale di un accertamento diretto ad ampliare l’oggetto del giudizio di divisione, e’ da dimostrare che l’accertamento incidentale non sia soggetto alle preclusioni di cui alla L. n. 353 del 1990.
Il concetto di preclusione, accolto dalla piu’ autorevole e risalente dottrina processual-civilistica, consiste nella perdita di una facolta’ processuale non esercitata nel rispetto di un termine perentorio, ovvero consumata perche’ gia’ esercitata, ovvero ancora incompatibile rispetto ad altra attivita’ processuale svolta in precedenza.
Partendo dalla diversa accezione del concetto di preclusione nell’ambito del processo, questa Corte, con sentenza n. 26859/2013, ha posto in relazione la preclusione con il principio di non contestazione. La citata decisione ha ravvisato una delle ipotesi di contestazione specifica nell’articolo 416, comma 3, come sostituito dalla L. n. 533 del 1973, sul rito del lavoro (“nella stessa memoria il convenuto deve prendere posizione, in maniera precisa…”), che l’ha corredato di una prescrizione di tipo ostativo (“… e non limitata ad una generica contestazione”).
Altra ipotesi di preclusione e’ stata rinvenuta nell’articolo 167 c.p.c., comma 1, novellato dalla L. n. 353 del 1990, che ha riprodotto il testo della norma di rito speciale; infine l’articolo 115, comma 1, come modificato dalla L. n. 69 del 2009, ha chiaramente positivizzato il principio di non contestazione, prevedendo che il giudice debba porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonche’ “i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita”.
Si tratta di preclusione, “nel senso causale”, ovvero delle preclusioni non collegate ad una decadenza, come quelle previste dagli articoli 167 e 183 c.p.c., ma al principio di non contestazione.
Come testualmente chiarito nella sentenza: “il principio di preclusione e non contestazione sono stati elaborati per finalita’ diverse (anche se entrambe di segno riduttivo), il primo per selezionare le facolta’ processuali esercitabili nel progresso del procedimento, il secondo per escludere, all’atto della decisione, l’applicabilita’ della regola di giudizio di cui all’articolo 2697 c.c., nei casi in cui il fatto costitutivo della domanda, benche’ non provato, sia da ritenersi implicitamente pacifico”.
Nonostante la loro diversa portata, preclusione e non contestazione s’intersecano in un’area comune in cui l’una non puo’ prescindere dall’altra.
Cio’ appare evidente ove si consideri che in un sistema processuale improntato alla tecnica della preclusione, il fatto non contestato, prima ancora di rilevare come dato storico ammesso su cui il giudice e’ abilitato a fondare la decisione, diviene costituto processuale e non puo’ essere nuovamente posto in dubbio attraverso l’esercizio dello ius poenitendi (che sia occasionato dall’esito sfavorevole del primo grado e dalla necessita’ di contrastare la sentenza che s’intende impugnare, o piu’ semplicemente dal mutamento di difensore in corso di causa).
Nel giudizio di cognizione, il luogo processuale in cui s’incrociano i due principi si colloca all’esito della trattazione, allorche’, depositate le memorie assertive e quelle istruttorie, si definiscono irretrattabilmente i rispettivi ambiti del thema decidendum e del thema probandum. E’ in tale momento che, stabilizzatisi i limiti della contestazione, si determina la preclusione corrispondente, che non consente alla parte contro cui si e’ formata di proporre una narrazione dei fatti alternativa e incompatibile rispetto a quella su cui aveva impostato la propria difesa. Diversamente, si provocherebbe un’inammissibile regressione dello stato del processo, del tutto inconciliabile con il sistema attuale che, prevedendo una perfetta sequenzialita’ fra oneri assertivi, di contestazione e probatori, non consente di riaprire la trattazione dopo l’istruzione della causa. Nel giudizio di divisione, una preclusione di tipo causale va rinvenuta nell’articolo 785 c.p.c..
Il giudizio di divisione si compone di una fase dichiarativa, avente ad oggetto l’accertamento della comunione e del relativo diritto potestativo di chiederne lo scioglimento, e di una esecutiva, volta a trasformare in porzioni fisicamente individuate le quote ideali di comproprieta’ sul bene comune.
Con riferimento alla prima fase, l’ordinanza che, ai sensi dell’articolo 785 c.p.c., disponga la divisione, al pari della sentenza che, in base all’ultimo inciso della menzionata disposizione, statuisca in maniera espressa sul diritto allo scioglimento della comunione, ancorche’ non possieda efficacia di giudicato, preclude un diverso accertamento in altra sede giudiziale, in quanto la non contestazione attribuisce all’esito finale del procedimento, che si concluda con l’ordinanza non impugnabile ex articolo 789 c.p.c., comma 3, la medesima stabilita’ del giudicato sul diritto allo scioglimento della comunione pronunciato con sentenza (Cassazione civile sez. II, 07/02/2018, n. 2951).
Ne consegue che e’ precluso un diverso accertamento in altra sede giudiziale, successivo alla domanda di divisione, nell’ambito della quale vanno proposte le contestazioni al diritto di divisione, e cio’ non in base all’efficacia di giudicato che non puo’ attribuirsi all’ordinanza che dispone la divisione in assenza di contestazioni – ma in quanto la non contestazione attribuisce all’esito finale del procedimento la medesima stabilita’ del giudicato sul diritto allo scioglimento della comunione pronunciato con sentenza.
Ne consegue che, se le parti del processo divisorio non contestano in esso il diritto alla divisione, questa ha luogo nelle forme di legge senza che ne’ in tale processo (si concluda esso con ordinanza o con sentenza) ne’ in altro separato giudizio, avente natura dichiarativa, sia piu’ retrattabile.
Tale preclusione, di tipo “causale”, che discende dalla non contestazione non da’ luogo al giudicato ma alla stabilita’ della divisione.
Del resto, il processo di esecuzione e’ solo occasionalmente connotato da incidenti dichiarativi, che in quanto tali richiedono la sentenza, nelle ipotesi previste dall’articolo 785 c.p.c., u.p., articolo 787 cpv. c.p.c. e articolo 789 c.p.c., comma 2, u.p., con la conseguenza che, conseguita la stabilita’ per la mancata previa contestazione ex articolo 785 c.p.c., il diritto alla divisione non puo’ piu’ essere rimesso in discussione neppure in un separato giudizio dichiarativo.
5.3 In applicazione di tali principi, venendo al caso di specie, il giudizio di divisione non doveva essere sospeso in attesa della definizione della causa, promossa dalla (OMISSIS) avente ad oggetto il trasferimento della quota del 50% dell’immobile intestato al (OMISSIS), trattandosi di domanda che andava proposta nell’ambito del giudizio di divisione, e che la (OMISSIS) aveva proposto ma era stata dichiarata inammissibile.
La successiva riproposizione e’ preclusa non gia’ dal giudicato ma dalla stabilita’ della divisione, per la mancanza di contestazioni.
Ne consegue che, conseguita la stabilita’ della decisione, il diritto alla divisione non puo’ piu’ essere rimesso in discussione neppure in un separato giudizio dichiarativo, e, pertanto, non sussiste alcuna pregiudizialita’ del successivo giudizio proposto dalla (OMISSIS) rispetto al giudizio di divisione.
6. Con il sesto motivo di ricorso, si deduce l’omessa motivazione e la violazione dell’articolo 91 c.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere applicato il principio della soccombenza al giudizio di divisione.
Sostiene la ricorrente che, nel giudizio di divisione, solo per la fase relativa alla decisione delle eccezioni sollevate dalle parti e’ applicabile il principio della soccombenza, mentre, con riferimento alla fase divisionale, le spese vanno poste a carico della massa.
6.1 Il motivo e’ fondato.
6.2 La corte territoriale, ponendo a carico dell’appellante le spese del giudizio di divisione, non ha distinto le spese necessarie allo svolgimento del giudizio nel comune interesse, che vanno poste a carico della massa, dalle spese che attenevano alla risoluzione degli incidenti cognitivi, per i quali il giudice, secondo il prudente apprezzamento del giudice di merito, puo’ valutare che siano poste a carico di una delle parti.
6.3 E’ principio costantemente ribadito quello secondo cui, essendo il giudizio di divisione svolto nell’interesse comune, le spese devono essere poste a carico di tutti i condividenti, in proporzione delle rispettive quote, per gli atti effettivamente rivolti alla concreta determinazione delle quote, mentre vale il principio della soccombenza per le vicende processuali occasionate da eventuali conflitti di interesse insorti nel corso del giudizio (Cassazione civile sez. II, 22/01/2015, n. 1185).
7. La sentenza va, pertanto, cassata in relazione al secondo e sesto motivo; vanno rigettati il primo, terzo e quinto motivo, con assorbimento del quarto, e rinviata innanzi alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimita’.

P.Q.M.

Accoglie il secondo ed il sesto motivo, dichiara assorbito il quarto, rigetta il primo ed il quinto motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia innanzi alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimita’.

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