Gli effetti in virtù della morte del socio nelle società semplici e le clausole di continuazione

 

 

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 Gli effetti in virtù della morte del socio nelle società semplici – articolo originale in pdf

 

 

In generale, nelle società di persone (società semplice, società in nome collettivo, società in accomandita semplice) la morte[1] del socio determina, in primis, lo scioglimento del rapporto sociale tra il socio deceduto e la società, la quale, pertanto, in via di principio continua tra i soci superstiti, con l’obbligo da parte della società di liquidare entro 6 mesi la quota agli eredi (art. 2284 c.c.).

Il carattere essenziale della partecipazione sembra assumere rilevanza ai fini dello scioglimento della società.

La Relazione del Guardasigilli al codice civile nel fornire spiegazione di tale innovazione rispetto al regime precedente poneva l’accento sulla necessità di preservare l’integrità dell’organismo produttivo, evitando la necessità della liquidazione al modificarsi dell’elemento soggettivo.

art. 2284 c.c.    morte del socio: salvo contraria disposizione del contratto sociale, in caso di morte[2] di uno dei soci, gli altri devono liquidare la quota agli eredi, a meno che preferiscano sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi stessi e questi vi acconsentano.

 

Verificandosi tale “nefasta” ipotesi, la quale determina un vero e proprio diritto di credito (diritto alla liquidazione) per gli eredi, si apre alla società una triplice alternativa: “clause de triple option”

a)     sciogliere il rapporto nei soli confronti degli eredi del socio defunto; in questo caso gli eredi diventerebbero titolari di un diritto di credito[3] verso la società, cioè di un diritto al pagamento di una somma di denaro corrispondente al valore che la quota del de cuius aveva al momento della morte

b)    sciogliere la società;

c)     continuare la società con gli eredi ove questi vi consentano; ciò è conseguenza della responsabilità illimitata che connota la posizione dei soci della società di persone.

In realtà se non sono state previste delle clausole di continuazione, che successivamente saranno analizzate, spetta ai soli soci superstiti ogni decisione sullo scioglimento della società e sulle modalità di liquidazione, mentre gli eredi del socio sono titolari del solo diritto[4] (credito di valuta[5]) a conseguire il valore della quota del de cuius risultato in sede di liquidazione[6].

Inciso non del tutto pleonastico è la necessità di accettazione dell’eredità da parte dei subentranti.

Difatti secondo una sentenza di merito[7] ai fini della validità della clausola di continuazione[8] facoltativa stabilita nel patto sociale a favore degli eredi del socio defunto, è indispensabile che gli interessi e la volontà degli eredi siano posti in primo piano. Inoltre è imprescindibile l’acquisto da parte del destinatario del diritto potestativo di entrare nella compagine sociale della qualità di erede connessa all’accettazione dell’eredità.

       Il contratto con il quale viene suggellata la continuazione non richiede particolari oneri formali, potendo risultare anche da fatti concludenti.

            Principio espresso dalla S.C.[9] in una nota sentenza secondo cui in caso di morte di un socio, nelle società di persone, qualora i soci superstiti decidano di continuare la società con gli eredi del socio defunto è necessario che intervenga un accordo con gli eredi stessi, accordo che non è soggetto a particolari requisiti di forma e ben può risultare anche da fatti concludenti, in conseguenza del quale gli eredi divengono soci non iure successionis bensì per atto tra vivi.

Se questo è vero in generale, occorre tuttavia riferire che, onde evitare la natura irregolare della società che ne discenderebbe, gli adempimenti pubblicitari prescritti dalla legge ai fini dell’iscrizione nel registro delle imprese rendono indispensabile l’adozione quantomeno della scrittura privata autenticata nelle sottoscrizione.

Pubblicità – riguardo all’evento morte –

Applicando l’art. 2290, nel caso in cui, vi sia una modifica soggettiva particolare, come nel nostro caso, tale scioglimento dovrà essere portato a conoscenza dei terzi per poterlo ritenere opponibile.

Modalità

La morte determina lo scioglimento automatico del rapporto sociale, il quale è dato, appunto, dalla partecipazione del socio scomparso al capitale sociale.

E nel caso in cui vi sia la liquidazione della quota sociale a favore degli eredi vi sarà un riduzione del capitale sociale ed,  eventualmente, i soci superstiti decideranno in ordine alla  ricostituzione originaria dello stesso  capitale sociale attraverso un aumento.

Per quanto riguarda le modalità della liquidazione della quota, esse sono disciplinate dall’art. 2289.

art. 2289 c.c.   liquidazione della quota del socio uscente: nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi hanno diritto soltanto ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota.
La liquidazione della quota e fatta in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento.
Se vi sono operazioni in corso, il socio o i suoi eredi partecipano agli utili e alle perdite inerenti alle operazioni medesime.
Salvo quanto e disposto nell’art. 2270, il pagamento della quota spettante al socio deve essere fatto entro sei mesi dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto.

Secondo la S.C.[10] in tema di società di persone, in caso di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad uno o ad alcuni dei soci, la voce relativa all’avviamento concorre a determinare la liquidazione della quota al socio uscente[11].

Sempre per quanto riguarda le modalità ed alla liquidazione della quota agli eredi del socio defunto, secondo la S.C.[12] gli artt. 2261 e 2289 c.c., che devono essere letti congiuntamente, pongono a carico della società l’obbligo di liquidare la quota stessa, e a carico degli amministratori quello di rendere il conto (obbligo che sussiste nei confronti degli eredi anche qualora il de cuius avesse partecipato all’amministrazione), al fine di consentire la formazione, in nome e per conto della società, di una situazione patrimoniale straordinaria aggiornata, nel rispetto dei criteri di redazione del bilancio ed ai fini dell’assolvimento dell’onere della società di provare il valore della quota; di fronte all’inadempimento dell’obbligo di rendiconto, il giudice può deferire ai soci-amministratori il giuramento suppletorio per la determinazione del quantum debeatur.

Orbene ai fini della giusta proposizione della domanda di liquidazione della quota, secondo ultima Cassazione[13] – dopo aver premesso che  comunque  da parte del socio receduto o escluso, ovvero degli eredi del socio defunto, si fa valere un’obbligazione non degli altri soci ma della compagine sociale, e che tale domanda va proposta nei confronti della società quale soggetto passivamente legittimato (principio espresso, nuovamente con altra immediata sentenza[14]) –  il contraddittorio può ritenersi comunque ritualmente instaurato anche nel caso in cui non sia convenuta la società ma siano citati in giudizio tutti i soci.

Con tale sentenze la Corte ha mitigato il contrasto giurisprudenziale che c’era in merito susseguitosi negli anni.

Secondo un precedente indirizzo di merito[15], si prevedeva, che il credito relativo alla liquidazione della quota poteva essere fatto valere solo nei confronti della società e non dei singoli soci.

Invece, con quello affermato, da altra sentenza[16] si sosteneva che nei giudizi instaurati nei confronti di una società di persone (nella specie, s.n.c.) era sufficiente, ai fini della rituale instaurazione del contraddittorio, la presenza in giudizio di tutti i soci, non essendo configurabile un interesse della società (intesa come autonomo soggetto giuridico) che non si identifichi con la somma degli interessi dei soci medesimi. Già tale sentenza apriva la strada al principio moderato, ripreso con la sentenza del 2009, ad altra pronuncia[17], secondo la quale la domanda di liquidazione della quota di società di persone (o di fatto) da parte del socio receduto o escluso, ovvero degli eredi del socio defunto, facendo valere un’obbligazione non degli altri soci, ma della società e, pertanto, ai sensi dell’articolo 2266 del c.c., andava proposta nei confronti della società medesima quale unico soggetto passivamente legittimato. Il contraddittorio nei confronti della società poteva ritenersi regolarmente instaurato anche nel caso in cui non era convenuta la società, ma erano citati in giudizio tutti i suoi soci, anche se risultava accertato, attraverso l’interpretazione della domanda e con apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, che l’attore aveva proposto l’azione nei confronti della società per far valere il proprio credito nei suoi confronti.

L’indirizzo di merito precedente, invece, si “faceva forte” in base ad uno stesso principio sostenuto dalla medesima Corte a sezioni unite[18], secondo cui  nei confronti della società semplice – essendo sempre un soggetto di diritto titolare di un patrimonio autonomo –  dovevano essere promosse le azioni per la liquidazione della quota del socio uscente o degli eredi del socio deceduto, con le quali si faceva valere appunto un’obbligazione non degli altri soci, ma della società, con la conseguenza che tali azioni non erano proponibili nei confronti degli altri soci della società uti singuli, la cui responsabilità è solo sussidiaria come per ogni debito sociale.

Ritornando alle modalità per la liquidazione della quota, sempre secondo il Tribunale Salernitano[19]per il calcolo della liquidazione della quota in favore degli eredi del socio defunto deve tenersi conto dell’effettiva consistenza economica dell’azienda sociale all’epoca dello scioglimento del rapporto, comprendendovi anche l’avviamento: l’onere di provare il valore della quota del socio defunto, ai fini della liquidazione della stessa in favore degli eredi, incombe ai soci superstiti e non agli eredi del socio defunto.

L’onere di provare il valore della quota del socio defunto di una società di persone, ai fini della liquidazione della stessa in favore degli eredi, incombe ai soci superstiti e non agli eredi del socio, in quanto solo i soci rimasti in società, e non certo gli eredi del defunto, sono in grado, con la produzione di scritture contabili della società, di dimostrare quale era la situazione patrimoniale nel giorno in cui si è verificata la morte del socio e quali sono gli utili e le perdite inerenti alle operazioni in corso in quel momento. In caso di mancato o parziale assolvimento di tale onere il giudice del merito può disporre consulenza tecnica d’ufficio la quale esprima, anche sul fondamento dei documenti prodotti, una valutazione per la liquidazione della quota ed apprezzarne liberamente il parere senza necessità, quando ne faccia proprie le conclusioni, di una particolareggiata motivazione o di un’analitica confutazione delle eventuali diverse conclusioni formulate dai consulenti di parte[20].

In merito, invece, al subingresso degli eredi nella società, esso costituisce, secondo la concorde opinione della dottrina[21] e della giurisprudenza, come già segnalato, una modificazione del contratto sociale.

Pertanto, la delibera dei soci superstiti di continuare la società con gli eredi, deve essere presa all’unanimità, se non è convenuto diversamente nel contratto sociale.

Infine secondo una sentenza della Corte territoriale Piemontese[22] gli eredi del socio defunto di società di persone non possono richiedere la liquidazione della società, spettando tale diritto in via esclusiva ai soci.

B)    Scioglimento automatico

L’opinione dottrinaria[23] nettamente prevalente ritiene che in ogni caso il rapporto sociale si scioglie, anche se, in merito al momento di tale scioglimento ed all’eventuale subentro degli eredi la dottrina non è, in verità, univoca:

A)   Per una parte della dottrina[24]– il rapporto sociale non si sciogli automaticamente, poiché l’evento morte costituisce un periodo di quiescenza assimilabile a quello previsto in tema di eredità prima dell’accettazione; tale tesi si basa sull’interpretazione letterale del termine “continuare” previsto dall’art. 2284, il quale  avrebbe senso solo nel caso in cui il rapporto non si estinguesse automaticamente;

Il risvolto pratico di tale tesi è che l’ingresso degli eredi in società avviene iure successionis, i quali entrano nel medesimo rapporto che faceva capo al  de cuius.

B)    per altra dottrina[25]– il rapporto si scioglie immediatamente solo che è risolutivamente condizionato all’accordo dei soci superstiti e gli eredi del defunto;

C)    per la dottrina maggioritaria[26] e la giurisprudenza unanime[27]– il rapporto si scioglie automaticamente al verificarsi dalla morte del socio ed il termine “continuare” è riferito ai soci superstiti e non agli eredi i quali solo attraverso una costituzione ex novo del rapporto societario potranno far parte della società del de cuius.

Il risvolto pratico di tale tesi è che, appunto, l’ingresso degli eredi in società avviene iure proprio, per atto tra vivi, attraverso una scelta imprenditoriale ossia se conferire quel diritto di credito, nascente dallo scioglimento del rapporto sociale, oppure ottenere la sua liquidazione.

Secondo ultima Cassazione[28], gli eredi, pertanto, non subentrano automaticamente nella qualità di socio, ma “acquistano contestualmente il diritto alla liquidazione della quota secondo i criteri fissati dall’art. 2289 c.c., vale a dire un diritto di credito ad una somma di denaro equivalente al valore della quota del socio defunto in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento.

 

C)   Pluralità di eredi

1)   Secondo la teoria (Venditti) che prevede l’ingresso degli eredi iure successionis la quota rimane integra e cade in comunione ereditaria. È noto, infatti, che, secondo il più recente orientamento dei giudici di legittimità, i crediti del de cuius, a differenza dei debiti (art. 752 c.c.), non si dividerebbero automaticamente tra i coeredi in ragione delle rispettive quote (nomina et debita ipso iure dividuntur), ma entrerebbero a far parte della comunione. Ciò non di meno, pare preferibile ritenere che la caduta in comunione del credito non precluda al singolo coerede di attivarsi per la tutela del proprio diritto, a prescindere della vicende che interessano la divisione ereditaria e senza il consenso degli altri eredi. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione[29] hanno infatti affermato che il generale principio della caduta in comunione dei crediti ereditari non impedisce che ogni coerede possa agire per ottenere la riscossione dell’intero credito o anche la sola parte di credito proporzionale alla quota ereditaria, non ponendosi la necessità della partecipazione al giudizio di tutti gli eredi del creditore (secondo la Corte la pronuncia sul diritto comune fatto valere dallo stesso spiega i propri effetti nei riguardi di tutte le parti interessate, restando peraltro estranei all’ambito della tutela del diritto azionato i rapporti patrimoniali interni tra coeredi, destinati ad essere definiti con la divisione)

2)   Secondo, invece, la tesi dell’ ingresso iure proprio (Ferrara – Corsi – Di Sabato – Galgano), non c’è contitolarità, poiché il diritto di credito nascente dallo scioglimento del rapporto societario, dovuto alla morte del de cuius, è un diritto soggettivamente complesso. Inoltre non è un credito ereditario, poiché non apparteneva al de cuius.

In caso di pluralità di eredi, ulteriore problema potrebbe essere ravvisato quando solo alcuni fra questi siano disposti a entrare nella società.

Una possibile soluzione si potrebbe avere con la continuazione con uno o anche più coeredi, ma liquidando parzialmente la partecipazione ai non consenzienti, chiaramente in proporzione delle rispettive quote ereditarie (a meno che gli stessi soci superstiti non abbiano condizionato la propria proposta all’accettazione di tutti i coeredi).

D)   La responsabilità illimitata dell’erede subentrante

La dottrina si è chiesta se l’erede divenuto socio sia responsabile illimitatamente (oltre che solidalmente con gli altri soci)

1)     in ogni caso ovvero

2)     intra vires hereditatis qualora abbia accettato con beneficio d’inventario.

Prevale la prima opinione (Ghidini), perché qui vigono i principi societari e non quelli successori in quanto, l’ingresso nella società avviene in dipendenza di un negozio inter vivos e non a titolo ereditario.

art. 2290 c.c.   responsabilità del socio uscente o dei suoi eredi:  nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi sono responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali (2267) fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento.
Lo scioglimento deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza non è opponibile ai terzi che lo hanno senza colpa ignorato.

Proprio per tale responsabilità secondo la S.C.[30] una sentenza di condanna pronunciata in un processo tra il creditore della società ed una società di persone costituisce titolo esecutivo anche contro il socio illimitatamente responsabile (ovvero l’erede subentrante o meno), in quanto dall’esistenza dell’obbligazione sociale deriva necessariamente la responsabilità del socio e, quindi, ricorre una situazione non diversa da quella che, secondo l’art. 477 cod. proc. civ., consente di porre in esecuzione il titolo in confronto di soggetti diversi dalla persona contro cui è stato formato.

E)    La disciplina per la S.n.c.

art. 2292 c.c.   ragione sociale: la società in nome collettivo agisce sotto una ragione sociale costituita dal nome di uno o più soci con l’indicazione del rapporto sociale (2563, 2567).
La società può conservare nella ragione sociale il nome del socio receduto o defunto, se il socio receduto o gli eredi del socio defunto vi consentono (att. 207).

 

Continuazione della società con l’erede incapace

         Vi è la possibilità d’inserire, fra le probabili clausole, quella che prescrive l’obbligo di continuazione della società fra gli eredi anche se incapaci, con la prescrizione necessaria dell’autorizzazione da parte del giudice tutelare.

         Invero l’obbligo contrattuale, non può trovare applicazione se non con l’osservanza delle altre norme che, essendo dirette alla tutela degli interessi dell’incapace, attengono all’ordine pubblico.

         Secondo parte della dottrina[31], l’autorizzazione in discorso sia da richiedere ex art. 747 c.p.c., con ricorso al tribunale in composizione monocratico, del luogo di apertura della successione, se l’azienda, attraverso cui si esercita l’impresa, non ricomprende diritti reali su immobili; al tribunale in composizione collegiale, nel caso contrario.

art.  747 c.p.c.       autorizzazione alla vendita dei beni ereditari: l’autorizzazione a vendere beni ereditari si chiede con ricorso diretto [per i mobili al pretore e per gli immobili] al tribunale del luogo in cui si è aperta la successione.
Nel caso in cui i beni appartengano a incapaci deve essere sentito il giudice tutelare.
Il giudice provvede sul ricorso con decreto, contro il quale è ammesso reclamo a norma dell’articolo 739.
Se l’istanza di autorizzazione a vendere riguarda l’oggetto d’un legato di specie, il ricorso deve essere

       In conclusione l’erede è bensì libero di partecipare o meno alla società, ma egli rimane obbligato come erede – illimitatamente o intra vires, a seconda dell’accettazione – per il caso in cui la promessa del suo dante causa  non si realizzi in conseguenza  in conseguenza del suo inadempimento dell’obbligo da lui acquisito con l’accettazione dell’eredità. Se poi l’erede è incapace, è necessaria l’autorizzazione del giudice.

       Invero l’obbligo contrattuale non può trovare applicazione se non con l’osservanza delle altre norme che, essendo dirette alla tutela degli interessi dell’incapace, attengono all’ordine pubblico.

       Pertanto l’efficacia dell’obbligo di continuazione della società con gli eredi rimane necessariamente subordinata all’autorizzazione.

       Se questa è concessa, l’acquisto della qualità di socio è operante dal momento della successione; in mancanza, l’erede incapace è esonerato da responsabilità per obbligo costituito a carico del de cuius, poiché l’inadempimento dipende da un fatto indipendente dalla sua volontà e, inversamente, l’osservanza della disciplina che attiene all’autorizzazione è prescritta con norma di ordine pubblico.

F)    La disciplina per la S.a.s.

Nella società in accomandita semplice, soltanto la quota di partecipazione del socio accomandante è trasmissibile per causa di morte, ai sensi dell’art. 2322 cod. civ., mentre in caso di morte del socio accomandatario trova applicazione l’art. 2284 cod. civ., in virtù del quale gli eredi non subentrano nella posizione del defunto nell’ambito della società, e non assumono quindi la qualità di soci accomandatari a titolo di successione mortis causa, ma hanno diritto soltanto alla liquidazione della quota del loro dante causa, salvo diverso accordo con gli altri soci in ordine alla continuazione della società, e fermo restando che in tal caso l’acquisto della qualifica di socio accomandatario non deriva dalla posizione di erede del socio accomandatario defunto, ma dal contenuto del predetto accordo[32].

art. 2322 c.c.  trasferimento della quota: la quota di partecipazione del socio accomandante è trasmissibile per causa di morte.
Salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo, la quota può essere ceduta, con effetto verso la società, con il consenso dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale.

 Secondo una recente sentenza di merito[33] nella società in accomandita semplice è trasmissibile per causa di morte la sola quota di partecipazione del socio accomadante, ex art. 2322 c.c., mentre, in applicazione del dettato di cui all’art. 2284 c.c., gli eredi non subentrano nella posizione del defunto socio accomandatario, evento questo che produce come effetto ex lege lo scioglimento del rapporto tra tale socio e la società, con conseguente obbligo per i soci superstiti di liquidare la quota del defunto ai suoi eredi nel termine di sei mesi. A questi ultimi residua, pertanto, unicamente un diritto alla liquidazione della quota del loro dante causa, fatto salvo diverso accordo con i soci ulteriori della medesima società in accomandita semplice circa la continuazione della società, nel qual caso essi possono acquistare la qualifica di socio accomandatario solo in forza del menzionato accordo e giammai in quanto eredi. Quanto all’incidenza della morte di un accomandatario sulla posizione dei soci superstiti, ai quali non può essere imposta la presenza degli eredi del defunto, deve rilevarsi che questi possono decidere per lo scioglimento anticipato della società, nel qual caso verrà meno il diritto degli eredi alla liquidazione della quota nel termine anzidetto, dovendo attendere il termine delle relative operazioni, ovvero per la continuazione della compagine societaria con gli eredi del socio defunto, previo consenso di tutti i soci superstiti e di tutti gli eredi che in tal modo diventerebbero soci per atto tra vivi e non iure successionis. (Avuto riguardo al caso specifico, non avendo i soci superstiti optato per lo scioglimento della società, né per la prosecuzione della stessa con gli eredi del socio accomandatario deceduto, essi erano tenuti alla liquidazione della quota agli eredi, il cui diritto all’attualità risulta, tuttavia, prescritto).

E’ importante sottolineare che come nella società in nome collettivo anche nella società in accomandita semplice lo scioglimento del singolo rapporto sociale rappresenta un atto (recesso ed esclusione del socio) ovvero un fatto (morte) modificativo dell’atto costitutivo. Sarà perciò necessaria la pubblicità prevista dall’art. 2300 c.c.

art. 2300 c.c.  (obblighi peculiari agli amministratori della società in nome collettivo)    modificazioni dell’atto costitutivo: gli amministratori devono richiedere nel termine di trenta giorni all’ufficio del registro delle imprese (att. 99 e seguenti), l’iscrizione delle modificazioni dell’atto costitutivo e degli altri fatti relativi alla società, dei quali è obbligatoria l’iscrizione (2626).
Se la modificazione dell’atto costitutivo risulta da deliberazione dei soci, questa deve essere depositata in copia autentica (2626, 2703).
Le modificazioni dell’atto costitutivo, finché non sono iscritte, non sono opponibili ai terzi, a meno che si provi che questi ne erano a conoscenza (2193; att. 211).

art. 2323 c.c.   cause di scioglimento: la società si scioglie, oltre che per le cause previste nell’art. 2308 (2322), quando rimangono soltanto soci accomandanti o soci accomandatari, sempreché nel termine di sei mesi non sia stato sostituito il socio che è venuto meno (2711).
Se vengono a mancare tutti gli accomandatari, per il periodo indicato dal comma precedente gli accomandanti nominano un amministratore provvisorio per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione. L’amministratore provvisorio non assume la qualità di socio accomandatario.

 art. 2324 c.c.   diritti dei creditori sociali dopo la liquidazione: salvo il diritto previsto dal secondo comma dell’art. 2312 nei confronti degli accomandatari e dei liquidatori, i creditori sociali che non sono stati soddisfatti nella liquidazione della società possono far valere i loro crediti anche nei confronti degli accomandanti, limitatamente alla quota di liquidazione

 

G)   Ipotesi di società con due soci

Secondo una sentenza di merito[34] (non molto) recente, in generale, in una società semplice (nel caso analizzato in nome collettivo) di due soli soci, il diritto degli eredi del socio defunto alla liquidazione del valore della quota nasce sin dal momento del verificarsi della morte ma resta sospensivamente condizionato al mancato esercizio, da parte del socio superstite, del diritto potestativo di sciogliere la società e di costringere gli eredi del socio defunto a partecipare alla liquidazione; con l’effetto che, verificatosi lo scioglimento della società, il diritto degli eredi alla liquidazione del valore particolare della quota del defunto si considera come non mai sorto.

     Fatta questa necessaria premessa un problema dottrinario e non solo risulta essere questo: nel caso in cui ci fossero soltanto due soci e successivamente muore uno dei due, quale disciplina si applica: quella prevista all’art. 2272 n. 4 (scioglimento della società) o quella all’art. 2284 (scioglimento del singolo rapporto)

art. 2272 c.c.  cause di scioglimento. La società si scioglie:
1) per il decorso del termine;
2) per il conseguimento dell`oggetto sociale o per la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo;
3) per la volontà di tutti i soci;
4) quando viene a mancare la pluralità dei soci, se nel termine di sei mesi questa non è ricostituita;
5) per le altre cause previste dal contratto sociale.

art. 2289 c.c.   liquidazione della quota del socio uscente: nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi hanno diritto soltanto ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota.
La liquidazione della quota e fatta in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento.
Se vi sono operazioni in corso, il socio o i suoi eredi partecipano agli utili e alle perdite inerenti alle operazioni medesime.
Salvo quanto e disposto nell’art. 2270, il pagamento della quota spettante al socio deve essere fatto entro sei mesi dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto.

A)   per il Ferri prevarrebbe quella prevista all’art. 2272 n.4, ossia la società si scioglie, quando viene a mancare la pluralità dei soci, se nel termine di sei mesi questa non è ricostituita, per una maggiore tutela dei terzi;

B)    per la dottrina  maggioritaria e la  concorde giurisprudenza, non prevale l’art. 2272, n. 4 e alla morte del socio si deve liquidare la quota agli eredi attraverso le modalità previste dall’art. 2289.

     Infatti secondo un’ultimissima sentenza della S.C.[35] anche nella società di persone composta da due soli soci, ove la morte di uno di essi determini il venir meno della pluralità dei soci, lo scioglimento del rapporto particolare del socio defunto si verifica alla data del suo decesso, mentre i suoi eredi acquistano contestualmente il diritto alla liquidazione della quota secondo i criteri fissati dall’art. 2289 cod. civ., vale a dire un diritto di credito ad una somma di denaro equivalente al valore della quota del socio defunto in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento.

     Principio già affermato con altra sentenza[36] secondo la quale anche nella società di persone composta da due soli soci, ove la morte di un socio determini il venir meno della pluralità dei soci, non può riconoscersi un diritto degli eredi del socio defunto a partecipare alla liquidazione della società ed a pretendere una quota di liquidazione, anzichè il controvalore in denaro della quota di partecipazione, in quanto lo scioglimento della società costituisce un momento successivo ed eventuale rispetto allo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al socio e trova causa non tanto nel venir meno della pluralità dei soci, quanto nel persistere per oltre sei mesi della mancanza della pluralità medesima.

     Da tale ragionamento discendono notevoli implicazioni pratiche[37].

     Partendo dal principio generale secondo il quale gli eredi devono essere liquidati con una quota avente valore al momento della morte del de cuius (poiché da tale momento tale diritto di credito non subisce alcuna variazione) in capo al socio unico superstite, dal momento della morte dell’altro socio, si va a determinare un potere di scelta, dai risvolti economici notevoli, discrezionale, ovvero se decidere per la ricostituzione della società ex art. 2272 n. 4 o decidere per la liquidazione della quota a favore degli eredi e tale potere può, appunto, mitigare il principio generale di cui sopra perché:

1)      se il socio unico superstite dovesse optare per lo scioglimento del singolo rapporto, in capo agli eredi sorgerebbe immediatamente un diritto di credito, avente un determinato valore, calcolato al momento della morte del  de cuius, insuscettibile di alcuna variazione economica nell’arco di tempo che va dal momento della decisione, fino al termine massimo di 6 mesi previsto dall’art. 2289 per la liquidazione della quota.

2)      Se, invece, il socio superstite dovesse decidere per la ricostituzione della società nel termine di 6 mesi e non vi riuscisse (ad es dopo 3 mesi), la società si scioglierà e in virtù di tale scioglimento verrà a determinarsi la sospensione delle attività e susseguentemente tutti crediti dovranno essere incassati e tutti i debiti, invece, pagati. In tal caso gli eredi, prima di tutto verrebbero presi in considerazione, non più come creditori della società, ma  come dei soci, inoltre, vedrebbero convertire il loro diritto di credito in un altro diritto nascente dalla procedura di liquidazione della società, e, quindi, tale diritto non sarà più valutabile al momento della morte del  de cuis ma al momento della liquidazione.

Sempre in merito alla compagine con solo due soci in tema di estensione del fallimento sociale al socio illimitatamente responsabile, lo scioglimento non comporta anche l’estinzione della società (nella specie in nome collettivo), che è determinata, invece, soltanto dalla effettiva liquidazione dei rapporti giuridici pendenti e dalla definizione di tutte le controversie giudiziarie in corso con i terzi per ragioni di dare e avere; ne consegue che, verificatosi lo scioglimento della predetta società per il venir meno, a causa della morte di uno dei due soci, della pluralità (non ricostituita) degli stessi, il socio superstite conserva tale qualità ed è, pertanto, assoggettabile a fallimento unitamente alla società[38].  

H)   Le clausole di continuazione

       La norma ha carattere meramente suppletivo: il contratto sociale può regolare le conseguenze della morte del socio.

       E di tale facoltà lasciata alla privata autonomia si fa largamente uso nei contratti costitutivi di società di persone, il più delle volte ponendo come obbligatoria una sola delle alternative proposte dall’art. 2284.

       Tale particolare disciplina dello scioglimento del vincolo sociale in caso di morte del socio ha contribuito (e continua a contribuire) alla diffusione delle società personali quali strumenti, alternativi alla disposizione testamentaria, di regolamentazione della successione.

       Con tale clausole i soci anticipano una scelta che avrebbero potuto (ma non dovuto) operare al momento della morte del socio.

       Essi, cioè, inserendo nell’atto costitutivo queste clausole, hanno consapevolmente e preventivamente abdicato alla possibilità di avvalersi del meccanismo della triplice opzione prevista dall’art. 2284.

Inoltre è bene precisare che – posto che il diritto alla liquidazione della quota ex art. 2284 c. c. può essere fatto valere solo dall’erede del socio defunto e atteso che la qualità di erede si acquista solo in virtù di accettazione, espressa o tacita, soggetta a prescrizione decennale – restringere l’azionabilità di quel diritto ad un termine di prescrizione breve significherebbe introdurre una deroga non prevista né consentita, al termine legale di accettazione dell’eredità ovvero postulare l’ammissibilità, anch’essa esclusa, di un’accettazione parziale, limitata al credito nel quale si converte iure hereditario a favore degli eredi il diritto della quota sociale che faceva capo al socio defunto[39].

 

La tipologia

 

A)         facoltative (gli altri soci sono obbligati, mentre gli eredi possono o non continuare la società); queste clausole, pertanto, portano solo vantaggi agli eredi. Gli eredi vengono ad essere titolari di un diritto potestativo di origine contrattuale.

La loro natura giuridica:

1)     alcuni autori (Ferrara – Corsi) individuano in esse proposte irrevocabili che gli eredi avrebbero facoltà di accettare o meno, riconducendo il fenomeno all’ipotesi dell’opzione di cui all’art.1331 c.c.

In contrario è stato rilevato che l’opzione costituisce un patto inserito in un rapporto a due, inoltre il rapporto di opzione vincola soltanto il promettente.

2)     è preferibile la tesi (Ghidini) di chi configura l’istituto in esame come un contratto a favore di terzi (art. 1411), ossia a favore degli eredi di quel socio che, in seguito premorrà. Quest’ultimo assume la figura stipulante (il suo interesse è di assicurare la trasmissibilità mortis causa della propria partecipazione sociale, a beneficio dei propri eredi); gli altri soci assumono la veste di promettenti; gli eredi sono i terzi beneficiari.

B)         obbligatorie (gli eredi sono obbligati a continuare la società, ma se non la continuano gli altri soci dovranno contentarsi del risarcimento danni, anche perché i soci non potranno ricorrere all’esecuzione specifica prevista dall’art. 2932 c.c.);

La loro natura giuridica:

1)          alcuni autori (Ferrara – Corsi) si tratterebbe di un generico obbligo  a contrarre assunto dal socio e quindi trasmesso all’erede.

2)          è preferibile la tesi (Ghidini) di chi configura l’istituto in esame come una promessa del fatto del terzo (degli eredi), poiché in realtà i soci non promettono il fatto proprio, ma il fatto dell’erede, il quale, in questo caso, è terzo rispetto alla società che acquisterà la qualità di socio sulla base di un proprio atto di volontà.

C)         di successione o continuazione automatica (con cui si stabilisce che l’accettazione dell’eredità comporti automaticamente l’assunzione della qualità di socio).

Quest’ultime sono nulle perché non si può imporre ad un soggetto la qualità di socio illimitatamente responsabile.

Queste clausole non costituiscono patti successori perché non hanno natura di atti a causa di morte, ma piuttosto di convenzioni con effetti immediati, anche se sospensivamente condizionate alla premorienza dell’uno o dell’altro socio.

 

D)           di consolidazione

 si definiscono di consolidazione le clausole con cui si stabilisce che la quota del socio defunto resti senz’altro acquisita ai soci superstiti in proporzione delle rispettive quote.

1)     pure, non prevedono alcuna forma di remunerazione a favore dei successori testamentari o legittimi;

2)     al contrario quelle impure riconoscono loro un diritto di credito.

La dottrina prevalente[40] (Bianca) e la giurisprudenza della Cassazione[41] ritengono invalide le prime, poiché costituiscono un autentico patto successorio dispositivo.

Infatti con tale clausola si viene ad attribuire inter vivos ai soci superstiti un diritto successorio quale è appunto il diritto acquisire senza liquidazione la quota del defunto.

Nelle s.a.s secondo la S.C.[42], l’apposizione di una clausola statutaria con cui si preveda la continuazione cosiddetta automatica degli eredi dei soci accomandanti nella partecipazione societaria comporta, unitamente al trasferimento della quota sociale, anche la trasmissione dello “status socii” e non contrasta con il divieto di patti successori di cui all’art. 458 c.c. in quanto si inserisce in un momento logicamente successivo all’individuazione dell’erede, senza influenzare nessuna delle possibili vicende successorie.

Mentre, appunto, è invalida la clausola <di continuazione>[43], con la quale i soci di società in accomandita semplice, nell’atto costitutivo, in deroga all’art. 2284 c.c., prevedono l’automatica trasmissibilità all’erede del socio accomandatario defunto, di cui non sia certa l’identità, unitamente alla predetta qualità di socio, anche del munus di amministratore, tenendo conto che tale designazione in incertam personam coinvolge la stessa struttura societaria, e che la funzione amministrativa, strettamente strumentale al perseguimento del fine sociale, non può essere affidata ad un soggetto che, al momento in cui è posto in essere il negozio societario, resti indeterminabile, ovvero sia individuabile con criteri di indifferenza rispetto alle sorti della società e allo scopo che i soci intendono raggiungere.

 

Le clausole di continuazione nelle S.r.l.

Secondo la Corte di Piazza Cavour[44] la clausola di uno statuto di una società a responsabilità limitata che, in caso di morte di un socio, preveda il diritto degli altri soci di acquisire la quota del defunto versando agli eredi il relativo controvalore, da determinarsi secondo criteri stabiliti dalla stessa clausola, non viola il divieto dei patti successori, posto dall’art. 458 cod. civ. – norma che, costituendo un’eccezione alla regola dell’autonomia negoziale, non può essere estesa a rapporti che non integrano la fattispecie tipizzata in tutti i suoi elementi – e neppure costituisce una frode al divieto dei patti medesimi, in quanto essa non ricollega direttamente alla morte del socio l’attribuzione ai soci superstiti della quota di partecipazione del defunto, ma consente che questa entri inizialmente nel patrimonio degli eredi, pur se connotata da un limite di trasferibilità, dipendente dalla facoltà degli altri soci di acquisirla esercitando il diritto di opzione loro concesso dallo statuto sociale, e dunque è volta solo ad accrescere lecitamente il peso dell’elemento personale, rispetto a quello capitalistico, nella struttura dell’ente collettivo. (Fattispecie anteriore al d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 6)

La sentenza in commento esamina, appunto il tema della validità della clausola di uno statuto di una s.r.l. che, in caso di morte di un socio, preveda il diritto degli altri soci di acquisire la quota del defunto versando agli eredi il relativo controvalore, da determinarsi secondo criteri stabiliti dalla stessa clausola.

In particolare, la pronuncia “de qua” traeva origine dal dubbio interpretativo (ormai superato) circa la validità della predetta clausola in riferimento al divieto dei patti successori posto dall’art. 458 cod. civ.

Quanto ai patti successori – come precisato dalla stessa Suprema Corte – sono considerati tali quelle convenzioni aventi ad oggetto l’eredità di una persona vivente, ed intese a costituire, modificare, estinguere o trasmettere diritti relativi ad una successione futura.

La “ratio” del loro divieto si fonda sulla lesione, che ne discende, della libertà del testatore e della revocabilità delle disposizioni testamentarie che deve permanere fino all’ultimo momento della vita del testatore.

Gli atti e le convenzioni vietati possono distinguersi in:

  • istitutivi, quando si riferiscono a negozi successori medianti i quali un soggetto dispone della propria successione realizzando un contratto con il futuro erede o legatario;
  • dispositivi, quando si tratta di negozi successori mediante i quali un soggetto dispone a favore di altri dei diritti che lo stesso potrà in seguito acquisire mediante successione;
  • rinunciativi, quando hanno ad oggetto negozi successori mediante i quali un soggetto rinuncia ai diritti che in futuro potranno spettargli su una successione non ancora aperta.

Sul punto, la stessa Corte ha rilevato che quando si sia fuori dallo schema tipico del patto successorio, il divieto posto dal citato art. 458 cod. civ. non opera, costituendo esso un’eccezione alla regola dell’autonomia negoziale, che non può essere estesa a rapporti che non integrano la fattispecie tipizzata in tutti i suoi elementi.

Riguardo il dubbio interpretativo posto all’attenzione della Suprema Corte, quest’ultima con la pronuncia riportata ha statuito che non violano il divieto di patti successori le clausole contenute in statuti di società di capitali che non sono volte a regolare la trasmissione ereditaria di beni o diritti, ma configurano il modo di essere dei rapporti tra i soci e, non diversamente da qualsiasi altra clausola che limiti la trasferibilità della partecipazione in pendenza di società, sono destinate ad accrescere il peso dell’elemento personale, rispetto a quello capitalistico, nella struttura dell’ente collettivo.

Secondo la Suprema Corte, quindi, la clausola in oggetto non può essere considerata in frode al divieto dei patti medesimi, in quanto essa non ricollega direttamente alla morte del socio l’attribuzione ai soci superstiti della quota di partecipazione del defunto, ma consente che questa entri inizialmente nel patrimonio degli eredi, pur se connotata da un limite di trasferibilità, dipendente dalla facoltà degli altri soci di acquisirla esercitando il diritto di opzione loro concesso dallo statuto sociale.

Di conseguenza, tale clausola qualificandosi come atto “inter vivos” non viola le specifiche norme in tema di società di capitali.

Quanto agli effetti, invece, sono solo quelli di accrescere l’elemento personale all’interno dell’ente, avvicinando sotto questo profilo (non illegittimamente) la società di capitali ad una società di persone, nella quale è perfettamente normale che la morte del socio provochi lo scioglimento del rapporto sociale a lui facente capo (art. 2284 cod. civ.).

I giudici della Corte di Cassazione nel giungere alle predette conclusioni richiamano, peraltro, un precedente giurisprudenziale che si riferisce ad una clausola inserita in uno statuto di una s.p.a., molto simile a quella in commento.

In tale pronuncia[45]  si afferma che la menzionata clausola non è in contrasto con il divieto posto dall’art. 458 cod. civ., in quanto il vincolo derivante a carico dei soci avrebbe prodotto i suoi effetti dopo il verificarsi della vicenda successoria e dopo il trasferimento delle azioni ai soci, con la conseguenza che la morte di uno dei soci costituiva soltanto il momento a decorrere dal quale poteva essere esercitata l’opzione per l’acquisto della suddetta quota societaria, senza che venisse violata la disciplina legale in tema di delazione ereditaria.

Sorrento, 12/4/2011.

 

Avv. Renato D’Isa

 


NOTE

[1] A parere di chi scrive sarebbe stato opportuno apportare giusta modifica al titolo dell’articolo del c.c. attraverso parola meno “d’impatto” come “decesso”.

[2] Particolare risulta essere questa sentenza della S.C. secondo cui nel ricorso per cassazione proposto nei confronti di una società in accomandita  semplice, l’errata indicazione, nella ragione sociale, del nome del socio accomandatario precedentemente deceduto non determina la nullità dell’atto, ma una mera irregolarità, a meno che dal raffronto di tutti gli elementi desumibili dal suo contesto non risulti impossibile l’identificazione dell’ente destinatario della vocatio in ius, persistendo un’assoluta incertezza o un insuperabile dubbio in ordine all’individuazione del soggetto che il ricorrente intende convocare in giudizio. La morte del socio accomandatario non determina infatti lo scioglimento né l’estinzione della società, ma soltanto la trasmissione o la liquidazione della quota, quale conseguenza dello scioglimento del rapporto tra il singolo socio e la società; qualora poi il nome del socio deceduto sia inserito nella ragione sociale, esso dev’essere sostituito con quello di un altro socio accomandatario, ma ciò non comporta la nascita di una nuova società, che invece continua ad esistere, pur se parzialmente modificata nella ragione sociale. Cass. civ., Sez. V, 20/10/2006, n. 22575

[3] Alla morte di un socio di una società di persona il suo erede acquista soltanto il diritto ad ottenere la liquidazione della quota, ma non anche il diritto di subentrare. La circostanza che gli altri soci non provvedono alla liquidazione della quota del socio defunto a vantaggio dell’erede configura soltanto un inadempimento, ma non può comportare il subentro, in difetto di accordo, dell’erede nella compagine sociale. (Cass. civ., Sez. I, 23/03/2005, n. 6263)

[4] Nelle società di persone (nella specie: società di fatto), gli eredi del socio defunto non acquisiscono la posizione di quest’ultimo nell’ambito della società, e non assumono perciò la qualità di soci, ma hanno soltanto il diritto alla liquidazione della quota del loro dante causa, diritto che sorge indipendentemente dal fatto che la società continui o si sciolga; pertanto, gli eredi non sono legittimati a chiedere la liquidazione della società nè possono vantare un diritto a partecipare alla procedura di liquidazione, che, nella società di persone, è facoltativa, potendo i soci sostituirla con altre modalità di estinzione o chiedere al giudice nei modi ordinari di definire i rapporti di dare e avere. Cass. civ., Sez. I, 14/03/2001, n. 3671

[5] Corte di Cassazione, Sezione II, del 19/4/2001, n. 5809. In caso di morte del socio di società personale il diritto degli eredi non ha per oggetto la distribuzione del netto ricavo della liquidazione del patrimonio sociale (c.d. diritto alla quota di liquidazione), ma esclusivamente il mero controvalore della quota sociale (c.d. diritto alla liquidazione della quota) del loro dante causa, tale credito, avendo fin dall’origine ad oggetto una somma di denaro, è un credito di valuta, soggetto, quindi, al principio nominalistico di cui all’art. 1277 c.c.

[6] Trib. Milano, 26/10/2002

[7] Tribunale Torre Annunziata, Sentenza, Sez. II, 27/09/2009

[8] Vedi pag. 12

[9] Cass. civ., Sez. II, 16/12/1988, n. 6849

[10] Corte di Cassazione Sezione 1 Civile, 26 marzo 2009, n. 7300

[11] La decisione ribadisce e conferma l’interpretazione contenuta nell’art. 2289 c.c. In senso conforme, confronta, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 14 marzo 2001, n. 3671, la quale ha precisato che nel caso di morte del socio di società di persone, per il calcolo della liquidazione della quota in favore degli eredi deve tenersi conto della effettiva consistenza economica dell’azienda sociale all’epoca dello scioglimento del rapporto, comprendendovi anche l’avviamento, la cui valutazione non rimane assorbita in quella della licenza d’esercizio, che è un distinto elemento di potenzialità economica; Cassazione civile, sez. I, 10 luglio 1993, n. 7595, secondo cui nel caso di recesso di socio di società di persone, per il calcolo della liquidazione della quota, a norma dell’art. 2289, comma 2, c.c., deve tenersi conto della effettiva consistenza economica dell’azienda sociale all’epoca dello scioglimento del rapporto, comprendendovi anche il fattore di redditività della azienda stessa. Tale redditività, in cui si sostanzia il concetto di avviamento, deriva da un complesso di elementi che, se pure cronologicamente attualizzati al momento dello scioglimento del rapporto, si fondono sui risultati economici delle passate gestioni e sulle prudenti previsioni dei futuri rendimenti e si traduce nella probabilità, proiettata eminentemente nel futuro, di maggiori profitti per i soci superstiti, derivati dall’apporto conferito dal socio recedente e consolidatosi come componente del patrimonio sociale. Nella pronuncia, la Corte ribadisce anche il principio, già espresso in Cassazione civile, Sez. I, sentenza 4 settembre 1999, n. 9392, secondo il quale in tema di scioglimento di una società di fatto, cui sia seguita la continuazione dell’impresa collettiva con la gestione individuale di un solo socio, deve reputarsi viziata da palese contraddizione la sentenza di merito, la quale, nel liquidare la partecipazione del socio uscente, proceda a due distinte determinazioni e gli attribuisca una quota del patrimonio sociale in una certa misura ed un quota del valore di avviamento della impresa sociale in una misura minore, poiché, essendo l’avviamento una componente attiva del patrimonio sociale e proseguendo l’impresa con la gestione individuale, il valore dell’avviamento stesso doveva essere attribuito al socio uscente nella medesima misura della quota del patrimonio.

[12] Cass. civ., Sez. I, 16/01/2009, n. 1036

[13] Cass. civ., Sez. I, 16/01/2009, n. 1036

[14]Corte di Cassazione Sezione 1 Civile, 16 gennaio 2009, n. 1040. Posto che la domanda di liquidazione della quota di una società di persone (nella specie, una società in nome collettivo), da parte del socio receduto o escluso ovvero degli eredi del socio defunto, fa valere un’obbligazione non degli altri soci ma dell’intera compagine sociale, tale domanda va proposta nei confronti della società quale soggetto passivamente legittimato, a nulla rilevando la circostanza che di questa facessero parte solamente due soci.

[15] Trib. Napoli, 02/05/2007, Trib. Salerno, Sez. I, 29/01/2007

[16] Cass. civ., Sez. I, 12/09/2003, n. 13438

[17] Corte di Cassazione, Sezione I, 23/5/2006, n. 12125

[18] Cass. civ., Sez. Unite, 26/04/2000, n. 291, Cass. civ., Sez. I, 23/05/2006, n. 12125,  conforme risulta altra sentenza secondo cui la domanda di liquidazione della quota di una società di persone (proposta dal socio receduto o escluso ovvero dagli eredi del socio defunto) facendo valere un’obbligazione non degli altri soci ma della società e, pertanto, ai sensi dell’art. 2266 c.c., va proposta nei confronti della società medesima, quale soggetto passivamente legittimato, senza che vi sia necessità di evocare in giudizio anche gli altri soci. Tuttavia, l’assenza del litisconsorzio necessario tra società e soci non significa mancanza di titolo di responsabilità anche a carico di costoro, i quali dunque non devono ma possono essere chiamati in giudizio nel caso in cui siano solidalmente ed illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali. Cass. civ., Sez. I, 28/08/2001, n. 11298 

[19] Trib. Salerno, Sez. I, 29/01/2007

[20] Cass. civ., Sez. II, 19/04/2001, n. 5809

[21] Ghidini – Ferrara – Corsi – Capozzi

[22] App. Torino, 24/03/2009

[23] Per tutti Capozzi

[24] Venditti

[25] Ghidini

[26] Ferrara – Corsi – Di Sabato – Galgano – Capozzi

[27] Cassazione  Civile, S.U., 16/12/ 1988, n. 6849

[28] Cassazione Civile, sez. II, 11/5/2009 , n. 10802

[29] Cassazione  Civile, S.U., 16/12/ 1988, n. 6849

[30] Cass. civ., Sez. I, 16/01/2009, n. 1040, Cass. civ. Sez. III, 06/10/2004, n. 19946 e Cass. civ. Sez. III, 17/01/2003, n. 613

[31] Jannuzzi – Lorefice

[32] Cass. civ., Sez. I, 11/10/2006, n. 21803

[33] Tribunale Treviso, Sezione 2, Sentenza del 23 novembre 2010, n. 1979

[34] Trib. Milano, 04/07/1996, inoltre secondo il medesimo tribunale,il compimento di atti di impresa da parte dell’unico socio superstite nei sei mesi dalla legge concessi per ricostruire la pluralità dei soci non comporta una tacita rinuncia al suo diritto di sciogliere la società”. Infine “in considerazione della diversità delle funzioni realizzate dalle disposizioni previste dagli art. 2272 e 2284 c.c., la prima rivolta alla disciplina delle cause di scioglimento della società, la seconda relativa allo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio, deve ritenersi che nel caso di morte di un socio di una società con due soli soci si verifichi un evento tale da determinare entrambi gli effetti giuridici – quello generale previsto dall’art. 2272 n. 4, e quello particolare considerato dall’art. 2284 c.c. – con un concorso di norme. La causa di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio può quindi, coesistere con lo scioglimento della società, con cui non è incompatibile, in quanto ognuna delle due ipotesi riguarda diversi ambiti di applicazione.

[35] Cass. civ., Sez. II, 11/05/2009, n. 10802

[36] Cass. civ., Sez. II, 19/04/2001, n. 5809, Cass. civ., Sez. I, 26/06/2000, n. 8670

[37] Capozzi

[38] Cass. civ., Sez. I, 07/07/2008, n. 18600, Cass. civ. Sez. I, 08/07/2004, n. 12553

[39] Trib. Monza, 02/06/1989

[40] Capozzi – Bianca

[41]Tribunale Biella, 27 novembre 2007. La clausola dello stato di società di persone, la quale dispone che in caso di decesso di un socio gli eredi hanno diritto alla liquidazione della quota al valore nominale, si risolve di fatto in un atto dispositivo del reale valore della quota attribuendo ai soci superstiti la parte di valore eccedente il valore nominale e privando gli eredi del socio deceduto di tale eccedenza. Una tale clausola, che limita reciprocamente la libertà testamentaria dei soci, i quali dispongono del valore della loro quota per il tempo della loro morte, attribuendo agli eredi una quota fissa e lasciando alla società quanto resta, è nulla ai sensi dell’art. 458 c.c.

[42] Cass. civ., Sez. I, 18/12/1995, n. 12906

[43] Cass. civ., Sez. I, 04/03/1993, n. 2632

[44] Cass., Sez. 1, 12.02.2010, n. 3345

[45] Cass. Civ. n. 3609/1994

[46] Corte di Cassazione Sezione 1 Civile, 12/2/2010, n. 3345