Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza 14 maggio 2019, n. 12786

La massima estrapolata:

La giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare. In tale valutazione, il giudice non può prescindere dalla considerazione delle previsioni del contratto collettivo relative all’individuazione delle ipotesi di rilievo disciplinare e alla relativa graduazione delle sanzioni.

Sentenza 14 maggio 2019, n. 12786

Data udienza 26 febbraio 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 8374/2017 proposto da:
(OMISSIS) S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 651/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 07/02/2017 R.G.N. 4038/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/02/2019 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CIMMINO Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS).

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato la illegittimita’ del licenziamento per giusta causa intimato in data 9.7.2015 dalla datrice di lavoro (OMISSIS) s.r.l. a (OMISSIS) e lo ha annullato; ha condannato la societa’ alla reintegrazione del (OMISSIS) nel posto di lavoro, al pagamento in favore dello stesso di un’indennita’ risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto, pari a Euro 2.157,16, dal licenziamento all’effettiva reintegrazione, ed al versamento dei contributi previdenziali per lo stesso periodo.
1.1. Il giudice del reclamo, premesso che la lettera di recesso datoriale non considerava congiuntamente le singole condotte addebitate, nel senso di ritenere le stesse, per la loro gravita’ complessiva, tali da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro, evidenziato che l’azienda aveva collegato la irrimediabile lesione del rapporto di fiducia solo alla risposta gratuita ed offensiva del (OMISSIS) verso il collega del centralino ed all’insulto nei confronti dell’azienda, ha ritenuto: a) che il primo dei fatti contestati costituito dall’avere il (OMISSIS), guardia giurata, durante il turno di servizio presso la sede della Banca Nazionale del Lavoro, turno implicante lo svolgimento di specifici, delicati e (OMISSIS)nuativi compiti di sicurezza, contattato ripetutamente ed insistentemente la sede centrale, per motivi non urgenti (richiesta all’Amministrazione del Cud che aveva smarrito) – configurava, in base all’articolo 101 del c.c.n.l. applicabile, una condotta astrattamente punibile (anche nella ipotesi piu’ grave) solo con sanzione conservativa; b) che il secondo degli addebiti contestati – costituito dall’avere il (OMISSIS) usato espressioni volgari rivolgendosi al collega operatore telefonico e di avere, sempre nel corso di una delle telefonate effettuate per comunicare con la sede centrale, riferendosi alla datrice di lavoro, profferito l’espressione “che azienda di m…”, non integrava, tenuto conto anche della indicazione di irrilevanza di tale addebito scaturente dalle ipotesi alle quali il contratto collettivo collegava la sanzione espulsiva, alcuna insubordinazione o offesa al datore di lavoro tale da minare l’elemento fiduciario, non sussistendo in capo al dipendente alcun dovere “di stima” nei confronti della propria azienda ed essendo, piuttosto, il lavoratore tenuto all’osservanza dei doveri di diligenza e fedelta’. Il giudice del reclamo, in particolare, osservato che secondo la giurisprudenza di legittimita’ la nozione di insubordinazione non puo’ essere limitata al rifiuto di adempiere alla prestazione ma si estende a qualsiasi comportamento atto a pregiudicarne l’esecuzione nel quadro dell’organizzazione aziendale di talche’, in tale ottica, la critica rivolta ai superiori puo’ essere suscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale dal momento che l’efficienza di questa riposa in ultima analisi sull’autorevolezza di cui godono i dirigenti, ha ritenuto che, nel caso di specie, l’espressione utilizzata non appariva suscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale in quanto del tutto priva di attribuzioni specifiche e manifestamente disonorevoli tali da determinare il venir meno, ragionevolmente, del rapporto fiduciario o di essere lesiva del decoro dell’impresa pur avendo tale espressione usata travalicato i limiti della correttezza; neppure le parole usate potevano considerarsi suscettibili di arrecare un danno economico in termini di lesione all’immagine e alla reputazione commerciale. La Corte di merito ha, quindi, fatto conseguire alla illegittimita’ del licenziamento la tutela di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, novellato articolo 18, comma 4.
2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso ICTS Italia s.r.l. sulla base di cinque motivi. La parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso.
2.1. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’articolo 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo parte ricorrente deduce, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del c.c.n.l. della Vigilanza con riferimento alla parte inerente ai doveri del personale. Assume, in sintesi, che la previsione collettiva che impone al lavoratore di usare modi cortesi e corretti verso il superiore ed il pubblico non doveva essere posta in esclusiva correlazione con la graduazione delle sanzioni disciplinari conservative ma configurava violazione dei doveri generali facenti capo al dipendente i quali, in ragione della loro gravita’, ben potevano essere sanzionati anche con il licenziamento; evidenzia che, nel caso di specie, tale valutazione di gravita’ doveva tenere conto della complessiva condotta del lavoratore tenuta nel giorno al quale era riferita la commissione degli addebiti. Assume, sotto altro profilo, premesso il carattere necessariamente esemplificativo delle ipotesi sanzionate dal contratto collettivo, non essere vero che le condotte punite con il licenziamento dal contratto collettivo risultavano ben piu’ gravi di quelle in concreto tenute dal dipendente; in particolare la espressione ” che azienda di m…” si connotava come di particolare gravita’ in termini di disprezzo e di cattiva pubblicita’ per l’azienda.
2. Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’articolo 2119 c.c., e della “sapiente interpretazione giurisprudenziale di tale disposto”. Censura la sentenza impugnata per avere interpretato la lettera di licenziamento nel senso secondo il quale la societa’ non aveva inteso fondare il proprio recesso sulla complessiva condotta del (OMISSIS) nel giorno indicato ma aveva ritenuto leso il rapporto fiduciario solo in relazione alla risposta volgare ed offensiva nei confronti dell’operatore telefonico e all’insulto di aperto disprezzo nei confronti della societa’. Sostiene che, al contrario, secondo quanto emergente dalla lettera di contestazione e da quella di licenziamento, che alla prima integralmente rinviava, le condotte ascritte dovevano ritenersi fra loro collegate in un crescendo di progressiva gravita’. Contesta, inoltre, l’affermazione secondo la quale neppure poteva ritenersi che il (OMISSIS) avesse posto in essere un comportamento di critica con modalita’ esorbitanti l’obbligo di correttezza formale, sia nei toni che nei contenuti.
3. Con il terzo motivo deduce, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti, rappresentato dalla circostanza che l’espressione addebitata al (OMISSIS) era stata profferita in presenza di piu’ persone, come del resto riconosciuto dal (OMISSIS) medesimo nel corso del libero interrogatorio.
4. Con il quarto motivo deduce, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in via subordinata, violazione e falsa applicazione del disposto della L. n. 300 del 1970, articolo 18, cit., censurando la sentenza impugnata per avere fatto conseguire all’illegittimita’ (per difetto di proporzionalita’) del licenziamento la tutela reintegratoria e non la sola tutela indennitaria ed, in via di ulteriore subordine, per l’ipotesi di ritenuta conferma della tutela reintegratoria, per non avere contenuto nei limiti di legge la misura della indennita’ risarcitoria.
5. Con il quinto motivo, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in via subordinata al mancato accoglimento dei primi tre motivi, censura, in sintesi, la decisione per avere omesso di considerare un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dall’ammontare della retribuzione globale, assunta a parametro della indennita’ risarcitoria, che sostiene essere di importo inferiore a quello accertato dal giudice d’appello.
6. Il primo motivo di ricorso e’ infondato. Il giudice del reclamo, infatti, a differenza di quanto prospetta la odierna ricorrente, non ha fondato l’affermazione della sanzionabilita’ con misura conservativa della condotta – costituita dall’avere profferito espressioni volgari verso il collega addetto al centralino – sull’assunto che la violazione dei doveri indicati dall’articolo 101 c.c.n.l., e cioe’ i doveri inerenti alla scrupolosa osservanza delle mansioni ed all’uso di modi corretti e cortesi verso i superiori, i colleghi e il pubblico, escludesse in radice la possibilita’ del licenziamento; la ritenuta applicabilita’ alla condotta in oggetto di una sanzione conservativa e’ frutto, infatti, di una complessiva valutazione delle previsioni del contratto collettivo in ordine alle condotte di rilievo disciplinare ed alle relative sanzioni, previsioni utilizzate dal giudice del reclamo quale parametro al quale ancorare la valutazione dell’applicabilita’, in concreto, di una sanzione conservativa. Tale operazione e’ coerente con la giurisprudenza di questa Corte che riconosce nelle previsioni del codice disciplinare uno dei parametri atti a riempire di contenuto la clausola generale dell’articolo 2119 c.c.. Il giudice di legittimita’, infatti, anche quando si e’ espresso nel senso della non vincolativita’ delle tipizzazioni contenute nella contrattazione collettiva, richiedendo, comunque, l’accertamento in concreto della proporzionalita’ tra sanzione ed infrazione, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo (Cass. 7/11/2018 n. 28492; Cass. 24/10/2018 n. 27004), ha, comunque, puntualizzato che nella verifica della sussistenza della giusta causa il giudice del merito non puo’ prescindere dalla considerazione del contratto collettivo e dalla scala valoriale ivi espressa nella individuazione delle ipotesi di rilievo disciplinare e nella relativa graduazione delle sanzioni (Cass. n. 28492/2018 cit.).
7. Il secondo motivo di ricorso e’ anch’esso da respingere. Si premette che il motivo, veicolato come violazione dell’articolo 2119 c.c., si sviluppa secondo due direttrici: a) mancata valutazione unitaria delle condotte, in contrasto con il tenore della lettera di contestazione e della lettera di licenziamento; b) riconducibilita’ alla nozione elastica di “giusta causa” delle condotte ascritte ed in particolare di quella attinente alle espressioni offensive profferite nei confronti dell’azienda.
7.1. Il primo profilo e’ inammissibile in quanto la deduzione di errata interpretazione del contenuto della lettera di contestazione e di quella di licenziamento, non e’ articolata con modalita’ coerenti con la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attivita’ riservata al giudice di merito ed e’ censurabile in sede di legittimita’ soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioe’ tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione; ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non e’ sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma e’ necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne e’ discostato; la denuncia del vizio di motivazione dev’essere, invece, effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicita’ consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioe’ connotati da un’assoluta incompatibilita’ razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimita’, non e’ necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicche’, quando di una clausola siano possibili due o piu’ interpretazioni, non e’ consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimita’ del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass. 03/09/2010 n. 19044; Cass. 12/07/2007 n. 15604, in motivazione; Cass. 22/02/2007 n. 4178), dovendosi escludere che la semplice contrapposizione dell’interpretazione proposta dal ricorrente a quella accolta nella sentenza impugnata rilevi ai fini dell’annullamento di quest’ultima (Cass. 06/06/2013 n. 14318; Cass. 22/11/2010 n. 23635).
7.2. In relazione al secondo profilo occorre premettere che per consolidata giurisprudenza di questa Corte la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravita’ dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensita’ del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalita’ fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione e’ deducibile in sede di legittimita’ come violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici (Cass. 26/04/2012 n. 6498; Cass. 02/03/2011 n. 5095).
7.3. Con accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimita’ il giudice del reclamo ha, sulla base delle concrete circostanze, ridimensionato la complessiva gravita’ della condotta puntualizzando che l’espressione usata, in quanto “priva di attribuzioni specifiche e manifestamente disonorevoli”, non era tale da arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale, minare il decoro della societa’ o creare pregiudizio economico. Ha argomentato che essa era, piuttosto, rivelatrice del convincimento del dipendente di una disfunzione amministrativa e frutto di un’abitudine lessicale ” senza dubbio volgare e inappropriata” ma priva di intenti realmente offensivi ed aggressivi nei confronti del datore di lavoro. Da quanto ora osservato discende che la esclusione della giusta causa di licenziamento non e’ frutto dell’errata ricognizione da parte del giudice del merito dei principi generali e dei parametri normativi destinati ad integrare la nozione legale di “giusta causa” ma scaturisce dalla considerazione di tali principi alla luce della reale entita’ dell’addebito ascritto, nei suoi profili oggettivi e soggettivi, ritenuta non giustificare la irrimediabile lesione del vincolo fiduciario ai sensi dell’articolo 2119 c.c..
8. Il terzo motivo di ricorso e’ da respingere per difetto di decisivita’ del fatto storico del quale si assume l’omesso esame, costituito dall’essere le condotte addebitate avvenute in presenza di altre persone, secondo quanto desumibile dalle dichiarazioni rese dal (OMISSIS) nel corso dell’interrogatorio formale. Le ragioni che hanno indotto il giudice del reclamo ad escludere la giusta causa di licenziamento riposano, infatti, sulla valutazione complessiva di una molteplicita’ di elementi ed in particolare sull’assenza di intenti realmente offensivi ed aggressivi nei confronti del datore di lavoro; in conseguenza, la circostanza rappresentata dalla presenza di terzi esclusa, invece, dal giudice di seconde cure – non appare gia’ prima facie elemento la cui considerazione avrebbe condotto, con carattere di certezza e non di mera probabilita’, come prescritto (Cass. 26/06/2018 n. 16812; Cass. 24/10/2013 n. 24092), ad una diversa decisione in punto di verifica di legittimita’ del licenziamento.
9. Il quarto motivo di ricorso e’ fondato, con effetto di assorbimento del quinto motivo. Ricordato che le condotte ascritte sono state accertate nella loro materialita’ e che la esclusione della giusta causa di licenziamento e’ frutto della valutazione di non proporzionalita’ della sanzione espulsiva, trova applicazione la L. n. 300 del 1970, articolo 18, cit., come modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, articolo 1, comma 42, che, nell’introdurre per la ipotesi di illegittimita’ del licenziamento una graduazione delle sanzioni, riconosce la tutela reintegratoria di cui all’articolo 18 cit., comma 4, per le sole ipotesi di maggiore evidenza, prevedendo, invece, al comma 5, la tutela risarcitoria per le “altre ipotesi”, quale il difetto di proporzionalita’ non codificato dalla contrattazione collettiva (Cass. 16/07/2018 n. 18823; Cass. 06/11/2014 n. 23669).
10. In conclusione, in base alle considerazioni che precedono, il quarto motivo di ricorso deve essere accolto, respinti il primo, il secondo ed il terzo motivo ed assorbito il quinto; segue la cassazione della decisione con rinvio ad altro giudice di secondo grado che si indica nella Corte di appello di Roma in diversa composizione, alla quale e’ demandato anche il regolamento delle spese del giudizio di legittimita’.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto motivo, rigetta i primi tre motivi, assorbito il quinto motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, alla quale demanda anche il regolamento delle spese del giudizio di legittimita’.

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