Riconducibilità del fatto alla fattispecie dello spaccio di lieve entità

Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 22 marzo 2019, n. 12736.

La massima estrapolata:

Ai fini della riconducibilità del fatto alla fattispecie della spaccio di lieve entità, di cui al comma 5 dell’art. 73 T.U. stupefacenti, il giudice effettua una valutazione complessiva della condotta secondo i parametri contenuti nella stessa norma e dunque valutando i mezzi, le circostanze e le modalità dell’azione nonché, con riguardo all’oggetto materiale, entità e qualità delle sostanze stupefacenti. Salva l’ipotesi in cui il quantitativo assume valore dirimente essendo la quantità tale da ricondurre immediatamente il fatto nell’ipotesi di cui al primo e al secondo comma dell’art. 73, sì da risultare superflua una motivazione ad hoc, di norma il giudice deve specificare quali altri elementi, a fronte del mero dato della detenzione di stupefacente in una quantità che sia in compatibile con le due diverse ipotesi di reato, consentano di qualificare correttamente il fatto.

Sentenza 22 marzo 2019, n. 12736

Data udienza 21 febbraio 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LIBERATI Giovanni – Presidente

Dott. GALTERIO Donatella – rel. Consigliere

Dott. CERRONI Claudio – Consigliere

Dott. SEMERARO Luca – Consigliere

Dott. NOVIELLO Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nata a (OMISSIS);
avverso la sentenza in data 4.5.2018 della Corte di Appello di Messina;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Donatella Galterio;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SECCIA Domenico, che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilita’ del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1.Con sentenza in data 4.5.2018 la Corte di Appello di Messina ha integralmente confermato la pronuncia resa all’esito del primo grado di giudizio dal Tribunale della stessa citta’, che ha condannato (OMISSIS) alla pena di un anno e dieci mesi di reclusione ed Euro 6.000 di multa per aver detenuto a fini di spaccio sostanze stupefacenti di varia tipologia, quali marijuana ed hashish, dal peso complessivo di 230 grammi.
2. Avverso il suddetto provvedimento l’imputata ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione, articolando quattro motivi con i quali lamenta:
2.1. la mancata sottoposizione della sostanza a perizia tossicologica, non valendo la scelta del rito abbreviato ad escludere la necessita’ di acquisire la prova della natura della sostanza e della sua effettiva capacita’ drogante, cui non era possibile pervenire con il narcotest effettuato dalla PG;
2.2. la carente motivazione resa in ordine all’affermazione di responsabilita’ dell’imputata, non essendosi considerata la mancanza di banconote di piccolo taglio e di materiale atto al confezionamento in suo possesso, unitamente al rinvenimento di parte della droga nella sua borsa, elementi questi che deponevano per la destinazione ad uso personale, sia proprio che del coimputato, ed essendosi conferito preminente rilievo alle chiavi della casa di quest’ultimo trovate sulla sua persona, il quale non consentiva di concludere che si trattasse anche dell’abitazione dell’imputata, essendo possibili spiegazioni alternative, cosi’ come nessuna prova era stata raggiunta sulla riferibilita’ a costei delle piantine di marijuana nella casa di sua madre, dove risiedevano anche altre persone;
2.3. la mancata qualificazione del fatto ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 5, non potendo il dato ponderale, sul quale si era basata la Corte di Appello, essere ritenuto decisivo in assenza di una struttura organizzata e di dimensioni dell’attivita’ di spaccio che potessero essere considerate ragguardevoli;
2.4 l’illogicita’ della motivazione resa in ordine al diniego delle attenuanti generiche, fondato solo sulla negativa valutazione del comportamento processuale dell’imputata, cui sostanzialmente veniva rimproverata la mancanza di confessione o di pentimento, stravolgendo la finalita’ dell’istituto che e’ quello di consentire un’adeguata dosimetria della pena, nonche’ in ordine alla determinazione della pena ancorata agli stessi parametri gia’ considerati ai fini dell’esclusione delle attenuanti generiche e percio’ valutando due volte i medesimi elementi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.Il primo motivo e’ manifestamente infondato.
L’ordinamento processuale non prevede alcun dovere di procedere a perizia o ad accertamento tecnico per stabilire la qualita’ e quantita’ del principio attivo di una sostanza drogante, potendo da un lato, il giudice attingere tale conoscenza dalle diverse fonti di prova offerte dalle parti o acquisite eccezionalmente di ufficio, liberamente, entro i limiti di una motivazione logica e puntuale e, dall’altro lato, le parti, in un sistema ispirato al principio del diritto alla prova a cui corrisponde il rischio della mancata prova, esercitando il diritto di fare esaminare la sostanza sequestrata da propri consulenti o di chiedere una perizia nell’incidente probatorio o nel dibattimento (Sez. 6, n. 3392 del 29/09/1992 – dep. 29/10/1992, Soibni Mohamed Ali, Rv. 192311): scelta questa nella specie preclusa dalla scelta del rito effettuata dal ricorrente che ha ritenuto di poter essere giudicata allo stato degli atti, e dunque sulla base degli esiti delle analisi compiute dalla PG1 che incombeva alla difesa, ove fosse stata in disaccordo sulle conclusioni raggiunte, specificamente contestare.
In ogni caso, l’assunto della ricorrente si pone in diretto contrasto con il noto e consolidato orientamento di legittimita’, secondo cui, per stabilire l’effettiva natura stupefacente di una determinata sostanza, non e’ indispensabile fare ricorso ad una perizia chimica tossicologica, ma puo’ essere ritenuto sufficiente il narcotest, accertamento tecnico assistito da piena dignita’ scientifica. Si tratta, infatti, di un accertamento qualitativo mediante analisi speditiva, utile per l’immediato riscontro di sostanze stupefacenti, composto da una serie di saggi cromatici che consentono di riconoscere e distinguere con oggettivita’ i principi attivi. Soltanto per valutare l’entita’ o indice di tali principi attivi, occorre procedere al piu’ approfondito esame chimico-tossicologico sulla sostanza stessa (ex multis, sez. 6, 18 luglio 2013, n. 45619; Sez. 3, n. 22498 del 17/03/2015 – dep. 28/05/2015, Ristucchi e altro, Rv. 263784). A tali elementi si aggiungono, nel caso in esame, le modalita’ del ritrovamento dello stupefacente, posizionato in buona parte sul tavolo di casa in cucina accanto agli strumenti per il suo confezionamento, ovverosia ad un bilancino di precisione e plurimi ritagli di cellophane, all’atto dell’arresto in flagranza dell’imputata e del compartecipe.
2. Il secondo motivo, risolvendosi in censure di natura esclusivamente valutativa sul compendio indiziario, del quale la difesa si limita ad addurre che sia possibile dare una diversa lettura e dunque fuoriuscendo dal’alveo del vizio motivazionale denunciabile innanzi a questa Corte, deve essere dichiarato inammissibile. La sentenza impugnata fonda con coerenza e linearita’ di ragionamento la colpevolezza dell’imputata, sull’ingente quantitativo rinvenuto, di per se’ idoneo ad escludere il preteso uso personale, sulla strumentazione atta al confezionamento contestualmente trovata nell’appartamento la riferibilita’ del quale alla (OMISSIS) e’ stata accertata dal possesso delle chiavi da parte di costei unitamente alla presenza al suo interno di abiti femminili e di generi di consumo.
3. La stessa sorte segue il terzo motivo, appuntandosi le doglianze svolte sul momento valutativo delle risultanze processuali e dunque sollecitando, in difetto di fratture argomentative o manifeste illogicita’ motivazionali, uno scrutinio improponibile in questa sede di legittimita’.
La attuale qualificazione della ipotesi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 5, come reato autonomo, affiancato a quelli del comma 1 e 2 del medesimo articolo, implica la necessita’ che, ai fini della riconducibilita’ del fatto alla fattispecie di lieve entita’, venga effettuata una valutazione complessiva della condotta sulla base dei parametri indicati dalla stessa norma, quindi, sia quelli concernenti l’azione (mezzi, modalita’ e circostanze della stessa), sia quelli riferiti all’oggetto materiale (quantita’ e qualita’ delle sostanze stupefacenti). Pur assumendo il dato quantitativo valore dirimente in situazioni in cui ci si trovi di fronte a quantita’ di tale entita’ da riportare immediatamente il fatto nell’ipotesi del primo o del comma 2 dell’articolo 73, rendendo superflua una motivazione ad hoc, di norma dovra’ specificarsi quali altri elementi, a fronte del mero dato della detenzione di stupefacente in una quantita’ che sia in se’ compatibile con le due diverse ipotesi di reato, consentano di qualificare correttamente il fatto (Sez. 6, n. 45694 del 28/09/2016 – dep. 28/10/2016, Zuccaro, Rv. 268293). La minima offensivita’ del fatto, cui risponde la ratio della disciplina di cui al comma 5 dell’articolo 73 e’ infatti ravvisabile in presenza di situazioni di minore pericolosita’ in relazione alle conseguenze che l’immissione dello stupefacente e’ destinata a produrre sul mercato, che siano quindi caratterizzate da una complessiva minore portata dell’attivita’ dello spacciatore, desumibile da una ridotta circolazione di merce e di denaro, dalla prospettiva di guadagni limitati e dall’occasionalita’ della stessa condotta: elementi questi che implicano una valutazione complessiva che deve essere frutto di un giudizio piu’ ampio che coinvolga, appunto, ogni aspetto del fatto nella sua dimensione oggettiva.
Tanto premesso, gli elementi valorizzati nella specie, ai fini del diniego della riconducibilita’ del fatto all’ipotesi di lieve entita’, dalla Corte distrettuale, che oltre al dato quantitativo complessivo, ha considerato che la diversa tipologia delle sostanze rinvenute e le modalita’ di occultamento della droga sparsa in vari punti della casa dimostrassero una capacita’ organizzativa ed un contatto stabile con la rete dei fornitori, non compatibile con una condotta episodica, configurano una motivazione non manifestamente illogica e come tale incensurabile in questa sede.
4. Il quarto motivo e’ anch’esso inammissibile. La ricorrente si limita invero a censurare la motivazione concernente il diniego delle attenuanti generiche, senza neppure evidenziare quali fossero gli elementi di segno positivo offerti dalla difesa tralasciati dalla Corte di merito ovvero l’illogicita’ del ragionamento seguito nel mancato riconoscimento del beneficio. Vale al riguardo rammentare che la concessione delle attenuanti generiche non e’ un diritto automatico dell’imputato (che si puo’ escludere in caso di elementi negativi di valutazione), ma al contrario presuppone il riconoscimento, in positivo, di elementi tali da giustificare la diminuzione della pena. Ne consegue che, anche a non ritenere sussistente un comportamento processuale negativo della ricorrente, il mancato apprezzamento in positivo della sua condotta in difetto di segni di resipiscenza costituisce valutazione di merito che giustifica la mancata concessione delle predette attenuanti e che non e’ sindacabile in questa sede di legittimita’, anche alla luce del concorrente riferimento ad altro elemento disgiunto (la gravita’ dei fatti), di per se’ non fatto segno di alcuna specifica considerazione critica in ricorso.
Ne’ e’ passibile di alcuna censura l’utilizzo, ai fini del diniego del beneficio in esame, degli stessi elementi esaminati per la concreta determinazione della pena, atteso che al contrario sono proprio i fattori, tra quelli enucleati dall’articolo 133 c.p., in forza dei quali si e’ ritenuto di pervenire ad una determinata quantificazione del trattamento sanzionatorio, che consentono di escludere l’applicabilita’ della diminuzione consentita dall’articolo 62 bis c.p., tenuto conto che tale norma codifica la possibilita’ di un trattamento di speciale benevolenza in favore dell’imputato in presenza di peculiari e non codificabili connotazioni in termini positivi tanto del fatto quanto della persona che di esso si e’ reso responsabile, volto in ultima analisi a consentire una riduzione della pena astrattamente applicabile sulla base dell’arco edittale previsto ex lege per i reati specificamente contestati.
Segue all’esito del ricorso la condanna della ricorrente a norma dell’articolo 616 c.p.p. al pagamento delle spese processuali e, non sussistendo elementi per ritenere che abbia proposto la presente impugnativa senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’, al versamento della somma equitativamente liquidata alla Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.

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