Fattispecie criminosa di cui all’art. 316-ter cod. pen.

Corte di Cassazione, sezione seconda penale, Sentenza 19 febbraio 2019, n.7594.

La massima estrapolata:

Configura la fattispecie criminosa di cui all’art. 316-ter cod. pen., la condotta del datore di lavoro che, mediante la fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore a titolo di indennità per malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni, ottiene dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute all’istituto previdenziale a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, così percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni. Infatti, l’erogazione che costituisce elemento costitutivo del delitto di cui all’art. 316-ter cod. pen., può consistere semplicemente nell’esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta, e non deve necessariamente consistere nell’ottenimento di una somma di danaro.

Sentenza 19 febbraio 2019, n.7594

Pres. Gallo

est. Alma

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 20 aprile 2017 la Corte di Appello di Trieste ha confermato la sentenza del Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Gorizia in data 1 aprile 2014 con la quale L.R. era stato dichiarato colpevole del reato di truffa aggravata e continuata e, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen. valutate con giudizio di prevalenza sull’aggravante contestata, condannato a pena ritenuta di giustizia.
In particolare, si imputa al L. , quale presidente del consiglio di amministrazione della società ‘Italsvenska S.r.l.’ di avere utilizzato artifizi e raggiri consistiti nel dichiarare falsamente all’INPS somme a credito per indennità di malattia ed assegni familiari (meglio indicati nel capo di imputazione) portandole in compensazione con i debiti maturati nei confronti dell’Ente previdenziale come da quadro D dei modelli DM10/2, tacendo di avere omesso di versare i relativi i relativi emolumenti alle lavoratrici, così procurandosi un ingiusto profitto corrispondente alla minore somma a debito maturata nei confronti dell’Ente previdenziale, con danno per l’ente pubblico stesso. Il fatto risulta contestato come consumato in Gorizia dal settembre al novembre 2011.
2. Ricorre per Cassazione avverso la predetta sentenza il difensore dell’imputato, deducendo:
2.1. Violazione di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), per errata applicazione dell’art. 640-bis c.p., n. 1, nonché illogicità e contraddittorietà della motivazione.
Sulla premessa che l’imputato aveva in effetti pagato le indennità ai lavoratori (come avrebbe affermato l’Ispettore del lavoro C.L. ) anche se talvolta i saldi avvenivano per alcuni di essi con un anno di ritardo e che non vi era stata la possibilità di distinguere tra indennità e trattamento di fine rapporto, rileva la difesa del ricorrente che nel caso in esame non vi sarebbe stata una induzione in errore dell’Ente atteso che l’INPS si limita a ricevere i modelli DM10 e non ad accertare la veridicità di quanto in essi contenuto.
In ogni caso – prosegue la difesa del ricorrente – se anche nell’azione dell’imputato fosse ravvisabile il reato di appropriazione indebita lo stesso sarebbe stato consumato ai danni dei lavoratori e non dell’INPS, né la vicenda avrebbe potuto essere riqualificata ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000.
Prosegue, poi il motivo di ricorso trattando dei rapporti tra l’art. 316-ter c.p. ed il reato di truffa ritenuto in sentenza rilevando che, al più, il fatto contestato all’imputato potrebbe inquadrarsi nella prima delle violazioni indicate non essendo stato l’INPS in alcun modo indotto in errore e non avendo altresì subito alcun danno patrimoniale.
2.2. Omessa motivazione sulla accennata responsabilità alternativa ex art. 316-ter cod. pen..
Rileva al riguardo la difesa del ricorrente che la Corte di appello avrebbe dovuto restituire gli atti al Pubblico Ministero di Gorizia dovendosi ravvisare nei fatti la diversa ipotesi delittuosa di cui al citato art. 316-ter cod. pen. o quantomeno motivare sul corretto inquadramento giuridico della vicenda, cosa che invece non ha fatto producendo una motivazione insufficiente e contraddittoria.
2.3. Violazione di legge e motivazione apparente in relazione all’applicazione dell’art. 131-bis cod. pen..
Lamenta al riguardo la difesa del ricorrente che la Corte di appello avrebbe errato ritenendo insussistente la modesta entità dell’offesa arrecata, violando i presupposti applicativi dell’istituto legati alle modalità della condotta e l’esiguità del danno provocato, omettendo ogni riferimento al fatto dell’avvenuto versamento delle somme ai lavoratori che ha inciso sulla modesta intensità del dolo.
Per il resto il motivo di ricorso tratta della disciplina procedimentale dell’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen. e della sua applicazione ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della predetta norma.

Considerato in diritto

1. Deve, innanzitutto, doverosamente premettersi che il ricorso è completamente ‘fuori asse’ laddove contiene continui riferimenti all’art. 640-bis cod. pen. mentre la condanna dell’imputato è intervenuta per il ben diverso reato di cui all’art. 640 cod. pen., comma 2, n. 1.
2. Ciò doverosamente premesso, deve altresì preliminarmente rilevarsi che la questione relativa alla diversa qualificazione giuridica del fatto non risulta dedotta nei motivi di appello, tuttavia sulla base della giurisprudenza di questa Corte di legittimità ‘La questione sulla qualificazione giuridica del fatto rientra tra quelle su cui la Corte di cassazione può decidere ex art. 609 cod. proc. pen. e, pertanto, può essere dedotta per la prima volta in sede di giudizio di legittimità purché l’impugnazione non sia inammissibile e per la sua soluzione non siano necessari accertamenti di fatto’ (Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, Tucci, Rv. 272651).
3. È quindi meritevole di esame in questa sede la questione relativa alla corretta qualificazione del fatto imputato al Lavato come violazione dell’art. 316-ter cod. pen. in luogo di quello di truffa aggravata per il quale è intervenuta decisione di condanna.
Ritiene il Collegio che il ricorso sul punto sia fondato.
Infatti, secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte ‘Integra il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ex art. 316-ter cod. pen., la condotta del datore di lavoro che, esponendo falsamente di aver corrisposto al lavoratore somme a titolo di indennità per malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni, ottenga dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, così percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni’ (Sez. 2, n. 51334 del 23/11/2016, Sechi, Rv. 268915; Sez. 2, n. 15989 del 16/03/2016, Festa, Rv. 266520).
Infatti, in un caso sostanzialmente simile a quello in esame nel quale il datore di lavoro negli appositi prospetti mensili inviati all’INPS aveva attestato di aver corrisposto al lavoratore somme a titolo di indennità per malattia, maternità o assegni familiari, quale anticipazione effettuata per conto del predetto Ente, così ottenendo dall’ente pubblico il conguaglio degli importi fittiziamente indicati con quelli da lui dovuti al medesimo istituto a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, si è affermato che non può ravvisarsi né un danno economico per l’ente pubblico, né una condotta di artifici e raggiri nella mera falsa esposizione. (Sez. 2, n. 41357 del 14/07/2015, Aschettino, Rv. 264869).
La sentenza da ultimo richiamata ha, in sintesi, rilevato che il datore di lavoro ha l’obbligo di anticipare per conto dell’I.N.P.S. gli assegni familiari e l’indennità di malattia spettanti al lavoratore ma non mette in atto dei raggiri nei confronti dell’ente previdenziale evidenziando nella denuncia contributiva il suo debito nei confronti del lavoratore in relazione a indennità di fatto non erogate. Nei modelli DM 10 (prospetti con i quali mensilmente il datore di lavoro denuncia all’I.N.P.S. le retribuzioni mensili corrisposte ai dipendenti, i contributi dovuti e l’eventuale conguaglio delle prestazioni anticipate per conto dell’ente, delle agevolazioni e degli sgravi) la falsa rappresentazione riguarda pertanto non l’esistenza del debito portato a conguaglio, ma solo l’anticipazione delle relative somme al lavoratore. La Corte ha ritenuto pertanto di condividere l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, allorché il datore di lavoro si limiti ad esporre dati e notizie false in sede di denunce obbligatorie, è configurabile il reato di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 37 (qualora dal fatto derivi un’evasione contributiva per un importo mensile superiore a L. 5.000.000) e non il diverso reato di truffa, per il quale, oltre alle false dichiarazioni, devono sussistere artifici e/o raggiri di altra natura che, in ipotesi, potrebbero ravvisarsi solo nel caso in cui nei confronti dell’I.N.P.S. venisse simulata la situazione all’origine del debito portato a conguaglio. La Corte ha rilevato inoltre che quando la discordanza tra la situazione rappresentata all’I.N.P.S. e quella reale riguardi solo l’effettiva erogazione di somme che l’ente previdenziale è tenuto a corrispondere al lavoratore tramite il datore di lavoro e quest’ultimo sostanzialmente riconosca il suo obbligo di corrisponderle (pur non avendole di fatto, ancora, corrisposte) nei confronti dell’ente previdenziale, il datore di lavoro sicuramente realizza – o, quanto meno, pone in essere atti idonei a realizzare l’ingiusto profitto del conguaglio delle prestazioni che assume di aver anticipato, ma non determina alcun danno. Il lavoratore, infatti, non potrebbe che rivolgersi al datore di lavoro per ottenere quanto gli spetta avendo l’I.N.P.S., attraverso il conguaglio, adempiuto il suo obbligo.
Deve pertanto convenirsi sull’insussistenza del reato di truffa, non essendo configurabili nella condotta dell’imputato gli artifizi o raggiri.
Tale conclusione sembra del resto trovare conferma in una pronuncia della Sezione Lavoro di questa Corte, emessa il 6 maggio 2015, la n. 8873 del 4 maggio 2015, secondo la quale l’attivazione da parte del datore di lavoro del meccanismo, sicuramente agevolativo, di anticipazione degli assegni familiari e del conguaglio di quanto corrisposto al suddetto titolo con quanto dovuto per contributi all’Istituto previdenziale, comporta l’obbligo dello stesso datore – in caso di prestazioni indebitamente erogate al lavoratore e poste a conguaglio – di recuperare le relative somme, trattenendole su quelle da lui dovute al lavoratore medesimo a qualsiasi titolo in dipendenza del rapporto di lavoro, giusta la previsione del D.P.R. n. 797 del 1955, art. 24. Detta pronuncia, affermando (nel caso opposto a quello in esame) che il recupero di eventuali assegni non dovuti e il conseguente versamento all’I.N.P.S. di dette somme si configura in capo al datore di lavoro senza dover attendere l’avvenuto recupero delle somme in capo al lavoratore, avvalora la tesi che il conguaglio opera automaticamente e non è soggetto ad alcuna autorizzazione da parte dell’I.N.P.S., nei cui confronti le dichiarazioni non veritiere del datore di lavoro sull’avvenuto versamento degli assegni familiari e dell’indennità di malattia non potrebbero configurarsi come artifici o raggiri.
Nel delitto di truffa, peraltro, mentre il requisito del profitto ingiusto può comprendere in sé qualsiasi utilità, incremento o vantaggio patrimoniale, anche a carattere non strettamente economico, l’elemento del danno deve avere necessariamente contenuto patrimoniale ed economico, consistendo in una lesione concreta e non soltanto potenziale che abbia l’effetto di produrre mediante la ‘cooperazione artificiosa della vittima’ che, indotta in errore dall’inganno ordito dall’autore del reato, compie l’atto di disposizione – la perdita definitiva del bene da parte della stessa (Sez. U. 16 dicembre 1998 n.1, Cellammare).
Nel caso di specie l’I.N.P.S. non risulta aver risentito per effetto della condotta dell’imputato uno specifico ed effettivo danno di indole patrimoniale ovvero un reale depauperamento economico, nella forma del danno emergente o del lucro cessante.
L’odierno Collegio, nel condividere la conclusione della sentenza da ultimo citata secondo cui nella condotta del datore di lavoro non è ravvisabile la truffa in danno dell’I.N.P.S. per difetto dell’elemento del danno patrimoniale, ritiene però che tale condotta vada inquadrata nella fattispecie criminosa di cui all’art. 316-ter cod. pen..
Com’è noto, la fattispecie criminosa di cui all’art. 316-ter cod. pen. (‘Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato’) punisce, con la reclusione da sei mesi a tre anni, ‘Salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’art. 640-bis, chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità Europee’.
Questa Corte ha già affermato che l’art. 316-ter cod. pen., configura un reato di pericolo, e non di danno (Sez. 6, n. 35220 del 09/05/2013 Rv. 256927), e che tale reato si distingue da quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, sia perché la condotta non ha natura fraudolenta, in quanto la presentazione delle dichiarazioni o documenti attestanti cose non vere costituisce ‘fatto’ strutturalmente diverso dagli artifici e raggiri, sia per l’assenza della induzione in errore (Sez. 2, n. 46064 del 19/10/2012, Rv. 254354).
L’ambito applicativo del delitto di cui all’art. 316-ter cod. pen., è stato del resto approfondito sia dalle Sezioni Unite di questa Corte che dalla Corte costituzionale.
Le Sezioni Unite sono intervenute con due sentenze con una prima sentenza del 2007 (Sez. U., n. 16568 del 19/04/2007, Rv. 235962), le Sezioni Unite, tracciando i confini tra la fattispecie criminosa di cui all’art. 316-ter, e quella di cui all’art. 640-bis cod. pen., hanno sottolineato – in linea con l’orientamento della Corte costituzionale – che l’introduzione nel codice penale dell’art. 316-ter, ha risposto all’intento di estendere la punibilità a condotte ‘decettive’ (in danno di enti pubblici o comunitari) non incluse nell’ambito operativo della fattispecie di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche; di modo che, fermi i limiti tradizionali della fattispecie di truffa, vanno inquadrate nella fattispecie di cui all’art. 316-ter, le condotte alle quali non consegua un’induzione in errore o un danno per l’ente erogatore, con la conseguente compressione dell’art. 316-ter a situazioni del tutto marginali, ‘come quello del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale’. Le Sezioni Unite, con la sentenza in esame, hanno perciò affermato il principio secondo cui ‘vanno ricondotte alla fattispecie di cui all’art. 316 ter – e non a quella di truffa – le condotte alle quali non consegua un’induzione in errore per l’ente erogatore, dovendosi tenere conto, al riguardo, sia delle modalità del procedimento di volta in volta in rilievo ai fini della specifica erogazione, sia delle modalità effettive del suo svolgimento nel singolo caso concreto’.
Con una più recente sentenza del 2010 (Sez. U, n. 7537 del 16/12/2010, dep. 2011, Rv. 249104), le Sezioni Unite sono poi tornate sul tema e, proseguendo sulla strada tracciata dalla propria precedente sentenza, hanno affermato il principio secondo il quale l’art. 316-ter cod. pen., punisce condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa, caratterizzate (oltre che dal silenzio antidoveroso) da false dichiarazioni o dall’uso di atti o documenti falsi, ma nelle quali l’erogazione non discende dai una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’ente pubblico erogatore, che non viene indotto in errore perché in realtà si rappresenta correttamente solo l’esistenza della formale attestazione del richiedente. Valorizzando la collocazione dell’art. 316-ter cod. pen., tra i delitti contro la pubblica amministrazione e considerando che gli elementi descrittivi che compaiono tanto nella rubrica che nel testo della norma evidenziano chiaramente la volontà del legislatore di perseguire la percezione sine titulo delle erogazioni in via privilegiata rispetto alle modalità attraverso le quali l’indebita percezione si è realizzata, le Sezioni Unite hanno precisato il principio sopra enunciato nel senso che, ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 316-ter cod. pen., nel concetto di conseguimento indebito di una erogazione da parte di enti pubblici rientrano tutte le attività di contribuzione ascrivibili a tali enti, non soltanto attraverso l’elargizione precipua di una somma di danaro ma pure attraverso la concessione dell’esenzione dal pagamento di una somma agli stessi dovuta, perché anche in questo secondo caso il richiedente ottiene un vantaggio e beneficio economico che viene posto a carico della comunità.
Orbene, alla stregua di quanto detto, deve ritenersi che il delitto di cui all’art. 316-ter cod. pen., prescinde sia dall’esistenza di artifici o raggiri, sia dalla induzione in errore, sia dall’esistenza di un danno patrimoniale patito dalla persona offesa, elementi tutti che caratterizzano il delitto di truffa.
Ciò che è richiesto dalla fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter cod. pen., è l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere (ovvero l’omissione di informazioni dovute) da cui derivi il conseguimento indebito di erogazioni da parte dello Stato o di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, da cui derivi, cioè, il conseguimento di erogazioni cui non si ha diritto. Tali erogazioni, poi, possono consistere indifferentemente o nell’ottenimento di una somma di danaro oppure nell’esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta. Così configurata la fattispecie criminosa di cui all’art. 316-ter cod. pen., nella latitudine riconosciutale dalla giurisprudenza, deve ritenersi che nella stessa deve essere inquadrata la condotta del datore di lavoro che, mediante la fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore a titolo di indennità per malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni, ottiene dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute all’istituto previdenziale a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, così percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni. Come si è detto, infatti, l’erogazione che costituisce elemento costitutivo del delitto di cui all’art. 316-ter cod. pen., può consistere semplicemente nell’esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta, e non deve necessariamente consistere nell’ottenimento di una somma di danaro.
Il reato si consuma nel momento in cui il datore di lavoro provvede a versare all’I.N.P.S. (sulla base dei dati indicati sui modelli DM10) i contributi ridotti per effetto del conguaglio cui non aveva diritto, venendo così – tramite il mancato pagamento di quanto altrimenti dovuto – a percepire indebitamente l’erogazione dell’ente pubblico il che consente di evidenziare che in relazione allo stesso non sono ad oggi decorsi i termini di prescrizione.
4. Quanto detto porta pertanto a ritenere erronea la qualificazione giuridica del fatto attribuito all’imputato L.R. , fatto che deve essere riqualificato come violazione dell’art. 316-ter cod. pen., il che impone l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Trieste che dovrà decidere tenendo conto dei principi sopra enunciati, previa valutazione in fatto dell’eventuale superamento della soglia di cui al comma 2 del citato articolo di legge.
5. Il restante motivo di impugnazione risulta assorbito dalla presente decisione.
6. Non si provvede nel caso in esame alla liquidazione delle spese e degli onorari richiesti dalla parte civile in relazione alla presente fase processuale che potranno essere liquidate solo in fase di eventuale definitiva condanna dell’imputato all’esito dell’ulteriore giudizio.

P.Q.M.

Qualificato il fatto ex art. 316 ter cod. pen. annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Trieste. Spese al definitivo.

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