L’esistenza oggettiva di uno stato depressivo

Corte di Cassazione, sezione lavoro civile, Sentenza 7 luglio 2020, n. 14086.

La massima estrapolata:

L’esistenza oggettiva di uno stato depressivo, del tutto privo di correlazione causale con lo svolgimento dell’attivita` lavorativa presso la Società, non può spingersi sino al punto da consentire ad un lavoratore di “scegliere il contesto lavorativo” piu` favorevole o gradito, vale a dire di rimanere lontano dall’azienda e prestare altrove la sua attivita` lavorativa. Il canone di grave violazione della buona fede e correttezza e` ravvisabile nello svolgimento dell’attivita` lavorativa in favore di terzi, “oggettivamente idonea a ritardare il rientro in azienda”, laddove costituisca “un’alternativa lavorativa scelta dalla lavoratrice”.

Sentenza 7 luglio 2020, n. 14086

Data udienza 18 febbraio 2020

Tag – parola chiave: Licenziamento – Giusta causa – Assenza per malattia – Svolgimento di altra attività lavorativa – Lesione del vincolo fiduciario – Condotte vessatorie del datore di lavoro – Ritorsione – Stato patologico riconducibile alle condotte datoriali – Prova carente

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere

Dott. BUFFA Francesco – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 26158/2018 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente principale –
contro
(OMISSIS) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), (OMISSIS);
– controricorrente ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 3751/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 19/06/2018 R.G.N. 81/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/02/2020 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’accoglimento del primo e del sesto motivo del ricorso principale, inammissibilita’ del ricorso incidentale;
udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS).

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Napoli, con sentenza n. 3751/2018, riformando la sentenza di primo grado, ha dichiarato la legittimita’ del licenziamento disciplinare intimato in data 24 ottobre 2007 da (OMISSIS) s.p.a. alla dipendente (OMISSIS) e condannato quest’ultima a restituire l’importo versato dalla societa’ a titolo di indennita’ sostitutiva della reintegra, oltre interessi legali. Ha altresi’ rigettato la domanda riconvenzionale proposta dalla lavoratrice, diretta al riconoscimento della natura ritorsiva del licenziamento.
2. La sentenza ha ricostruito la vicenda processuale, in sintesi, nei termini seguenti. A (OMISSIS) era stato addebitato di avere svolto, durante l’assenza per malattia, un’attivita’ lavorativa presso l’esercizio commerciale gestito dal proprio compagno, (OMISSIS), licenziato anch’egli da (OMISSIS) s.p.a. nel luglio 2007.
Il giudice di primo grado, all’esito della prova testimoniale e della c.t.u. medico-legale, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento, pronuncia che la societa’ aveva impugnato per dedurre, con il primo motivo, il carattere fittizio della malattia, atteso che dalle indagini investigative era emerso l’effettivo svolgimento della diversa attivita’ lavorativa, circostanza poi confermata in giudizio; con il secondo motivo, l’erroneo acritico giudizio espresso dal primo giudice che, nel confermare l’eziologia lavorativa della depressione, aveva aderito alle conclusioni della c.t.u., espletata a distanza di dieci anni dai fatti oggetto del giudizio e in presenza, all’epoca della vicenda, di un’assenza per malattia di ben otto mesi, seguita da una visita medica di idoneita’ collegiale che non aveva evidenziato alcuna patologia; con il terzo motivo, l’erroneita’ della detrazione solo parziale dell’aliunde perceptum.
3. Tanto premesso, la Corte di appello ha affermato che, alla stregua degli elementi acquisiti al giudizio, pur in presenza di una patologia psichica reale, ma insorta prima e indipendentemente dai fatti narrati nel ricorso introduttivo, il comportamento contestato alla lavoratrice, valutato ex ante, era oggettivamente idoneo a ledere il vincolo fiduciario, in quanto tendente a ritardare il rientro in azienda della dipendente, nel contesto di una evidente non riconducibilita’ dello stato patologico a fatti ascrivibili al datore di lavoro.
Rigettato il primo motivo di appello, in quanto la documentazione in atti aveva attestato la sussistenza di un disturbo depressivo, la Corte di appello ha accolto il secondo motivo di impugnazione, osservando – in sintesi – quanto segue:
a) la percezione soggettiva di un clima vessatorio, che non aveva trovato alcun oggettivo riscontro probatorio e che appariva smentito anche sotto il criterio logico e cronologico, non puo’ spingersi sino al punto di consentire al dipendente di scegliere il contesto piu’ favorevole dove prestare la propria opera lavorativa, vale a dire di restare assente dal lavoro senza che sussista alcun collegamento tra la patologia e il comportamento aziendale;
b) una volta escluso che il clima lavorativo descritto nel ricorso come causa della patologia possa esserlo stato realmente, ossia venuto meno oggettivamente il presupposto del nesso causale tra insorgenza della patologia e comportamento aziendale, lo svolgimento dell’attivita’ lavorativa in favore di terzi, come quella emersa dal rapporto investigativo e dalle testimonianze, valutato ex ante, riportandosi cioe’ all’epoca lontana dei fatti (2006-2007), e’ da ritenere censurabile sotto il profilo della correttezza e buona fede, quale attivita’ oggettivamente idonea a ritardare il rientro in azienda e che costituisce un’inammissibile alternativa lavorativa scelta dalla ricorrente;
c) e’ infondato l’appello incidentale della (OMISSIS), dovendosi escludere il motivo ritorsivo ed essendo semmai ravvisabile “la creazione artificiosa da parte della lavoratrice di un clima vessatorio e mobbizzante da parte della societa’”.
4. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso (OMISSIS) sulla base di otto motivi, cui ha resistito la societa’ (OMISSIS) con controricorso e ricorso incidentale condizionato, affidato ad un motivo. La ricorrente principale ha altresi’ depositato memoria ex articolo 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia nullita’ della sentenza e violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2909 c.c., articolo 324 c.p.c. e dei principi che regolano il giudicato interno, nonche’ degli articoli 100, 342 e 434 c.p.c. (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4).
Deduce che non era stata impugnata la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva affermato che non ricorrevano, nella condotta tenuta dalla lavoratrice in costanza di malattia, gli estremi di un comportamento contrario ai canoni di diligenza e buona fede, sub specie di attitudine a ritardare la guarigione e dunque a ritardare la ripresa dell’attivita’ lavorativa presso (OMISSIS) s.p.a..
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia lo stesso vizio anche in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
3. Con il terzo motivo denuncia nullita’ della sentenza conseguente a violazione e/o falsa applicazione degli articoli 112, 115, 342, 434 e 437 c.p.c. e del principio tantum devolutum quantum appellantum per avere la Corte di appello pronunciato su un asserito ritardo della guarigione (o sull’aggravamento della malattia) con conseguente ritardo nel rientro in servizio, mentre la societa’ non aveva mai allegato che il lavoro prestato dalla ricorrente presso il ristopub del compagno avesse ritardato la guarigione o aggravato la malattia e cosi’ ritardato il rientro in servizio, ne’ che l’attivita’ lavorativa presso terzi fosse comunque incompatibile con la malattia medesima.
4. Con il quarto motivo denuncia nullita’ del procedimento e della sentenza conseguente a violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 101 c.p.c., comma 2 e dell’articolo 111 Cost., comma 2 (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4).
Il motivo, che viene proposto “per mero scrupolo difensivo e in subordine rispetto ai motivi precedenti”, denuncia nullita’ della sentenza per avere il giudice di appello rilevato d’ufficio una questione, ossia il ritardo della guarigione o l’aggravamento della malattia della ricorrente, che le parti non avevano mai allegato in giudizio e sulla quale la Corte aveva pronunciato d’ufficio, cosi’ incorrendo nel vizio della c.d. “terza via”, senza previa sollecitazione del contraddittorio.
5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2110 e 2119 c.c. e L. n. 604 del 1966, articoli 1 e 3 e L. n. 300 del 1970, articolo 7 (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3) nella parte in cui la sentenza, pur riconoscendo che l’assenza dal lavoro era ascrivibile a legittimo impedimento, essendo la patologia reale, ha prospettato un’ipotetica simulazione della malattia, che non era stata neppure contestata in sede disciplinare. Assume che, una volta constatata la veridicita’ della malattia, escludere che la stessa derivi eziologicamente da un illecito contegno datoriale e’ del tutto irrilevante ai fini della legittimita’ del licenziamento. Inoltre la c.t.u. medico-legale percipiente, espletata in prime cure, aveva affermato la compatibilita’ dell’attivita’ lavorativa presso il ristopub con la ripresa dell’attivita’ lavorativa.
6. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c. e L. n. 604 del 1966, articolo 5 (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3). In via subordinata rispetto ai motivi precedenti, deduce che la prova della giusta causa e del giustificato motivo di licenziamento incombe sempre sul datore di lavoro e che quindi la prova della incompatibilita’ gravava sulla societa’ convenuta.
7. Con il settimo motivo denuncia nullita’ della sentenza conseguente a violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e articolo 115 c.p.c. (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4). Assume che, ove si ritenga che gravi sulla lavoratrice l’onere di dimostrare la compatibilita’ dell’attivita’ presso terzi con la malattia per la quale era assente dal lavoro, la sentenza sarebbe affetta da motivazione apparente o da motivazione perplessa o obiettivamente incomprensibile per essersi discostata dalle conclusioni medico-legali integrative della c.t.u..
8. L’ottavo motivo denuncia nullita’ della sentenza conseguente a violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 6 CEDU (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4) per avere la Corte di appello ritenuto inattendibile la deposizione testimoniale di (OMISSIS), basandosi su una lettura meramente cartolare, nonostante la giurisprudenza della Corte E.D.U. abbia ripetutamente stabilito la indispensabilita’ di una nuova audizione ogni qualvolta il giudice ritenga di discostarsi dall’apprezzamento della prova. In subordine, solleva questione di legittimita’ costituzionale per violazione dell’articolo 111 Cost., commi 1 e 2 e dell’articolo 117 Cost., comma 1, in relazione alla norma interposta di cui all’articolo 6 Cedu.
9. Il ricorso e’ infondato.
10. I primi quattro motivi vertono sulla medesima questione: si assume l’erroneita’ della sentenza per avere ritenuto che lo svolgimento dell’attivita’ lavorativa in favore di terzi, in costanza di assenza dal lavoro per malattia, potesse pregiudicare o ritardare la guarigione: con il primo e il secondo motivo si ritiene che sulla questione si sia formato il giudicato interno, favorevole alla ricorrente; con il terzo motivo si assume un vizio di ultrapetizione su questione non sollecitata dalle parti in appello; con il quarto si censura la sentenza per avere seguito una soluzione che le parti non avevano prospettato e sulla quale non era stato sollecitato il contraddittorio.
Tali motivi, prima ancora che infondati, sono inammissibili, in quanto non colgono l’effettiva ratio decidendi su cui la sentenza si fonda.
10.1. Tale ratio decidendi prescinde del tutto dalla questione della idoneita’ o meno dell’attivita’ lavorativa svolta dalla (OMISSIS) in costanza di malattia ad ostacolare o ritardare la guarigione. La sentenza si incentra, invece, sul concetto di “ritardo nel rientro” al lavoro, derivante dal comportamento posto in essere dalla dipendente in palese e grave violazione dei canoni di correttezza e buona fede che devono informare il comportamento del prestatore di lavoro, in unione all’osservanza dei suoi doveri lavorativi, concetto ben diverso da quello di avere ostacolato la guarigione dalla malattia.
11. La Corte di appello, una volta escluso che non vi era prova in giudizio della condotta vessatoria posta a base delle allegazioni della ricorrente e ritenuto che la patologia depressiva, insorta prima dei fatti denunciati in giudizio, aveva trovato la sua genesi in altri fattori, ha ritenuto che l’esistenza oggettiva di uno stato depressivo, del tutto privo di correlazione causale con lo svolgimento dell’attivita’ lavorativa presso (OMISSIS) s.p.a., non potesse spingersi sino al punto da consentire alla lavoratrice di “scegliere il contesto lavorativo” piu’ favorevole o gradito, vale a dire di rimanere lontano dall’azienda e prestare altrove la sua attivita’ lavorativa.
11.1. Tale giudizio e’ assistito da una articolata disamina delle risultanze di causa e da una valutazione ampiamente motivata. Il canone di grave violazione della buona fede e correttezza e’ stato ravvisato nello svolgimento dell’attivita’ lavorativa (impegnativa, come riferito in sentenza) in favore di terzi, “oggettivamente idonea a ritardare il rientro in azienda”, che costituiva, nel caso di specie, alla luce delle complessive risultanze di causa, “un’alternativa lavorativa scelta dalla lavoratrice”.
12. Travisa il nucleo della decisione anche il quinto motivo, in quanto la sentenza non ha ipotizzato il carattere simulato della patologia depressiva e neppure ha posto in correlazione l’assenza per malattia della lavoratrice e il riscontro della insussistenza di un comportamento colpevole di parte datoriale. La sentenza ha espressamente affermato che non vi e’ stata una simulazione fraudolenta, ma che al contempo andava escluso che la patologia fosse dipesa dal comportamento datoriale descritto nel ricorso introduttivo.
13. Alla luce di tale complesso motivazionale, appare inconferente il richiamo della giurisprudenza di questa Corte riguardante ipotesi diverse.
Parte ricorrente sostiene che la giurisprudenza e’ costante nel ritenere che, in caso di malattia (vera e non simulata), si possa licenziare il lavoratore soltanto quando le assenze esauriscano il periodo di comporto oppure quando il lavoratore, pur legittimamente assente dal lavoro per certificata malattia, la aggravi (dolosamente o colposamente) in un qualche modo, determinando come effetto un ritardo nella guarigione e, come effetto ulteriore, un ritardo nel rientro in servizio.
Nel caso in esame, tuttavia, come gia’ detto, la sentenza impugnata non ha in alcun modo affermato che si versa in un’ipotesi di ritardo nella guarigione, da cui sia dipeso un ritardo nel rientro la lavoro.
14. Non e’ stata violata la regola sul riparto degli oneri probatori (articolo 2697 c.c., in relazione all’articolo 2119 c.c.), in quanto nel giudizio di merito e’ stata dimostrata l’effettivita’ della prestazione lavorativa presso terzi durante l’assenza per malattia (circostanza che neppure e’ contestata in sede di legittimita’), mentre ogni altra indagine verteva sull’apprezzamento della giusta causa, la cui valutazione e’ stata validamente e correttamente operata dalla Corte di appello.
15. Quanto all’assunto (settimo motivo) di nullita’ della sentenza per non avere condiviso le conclusioni rassegnate dal c.t.u., occorre premettere che l’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’articolo 111 Cost., comma 6 e, nel processo civile, dall’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e’ violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perche’ perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullita’ processuale deducibile in sede di legittimita’ ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (cfr., tra le altre, Cass. n. 22598 del 2018 e n. 12096 del 2018).
Nella specie, la sentenza ha ampiamente argomentato le ragioni del suo dissenso: il C.t.u. aveva svolto un apprezzamento a distanza di molti anni senza considerare tale peculiarita’; non aveva considerato il periodo intermedio, quanto a sviluppi della malattia; aveva recepito acriticamente la descrizione del vissuto della lavoratrice, la cui versione era stata peraltro connotata – come poi appurato in giudizio – dalla descrizione anche di episodi che la Corte di appello ha definito “inventati”. Non si vede come, in tale iter argomentativo, possano ravvisarsi gli estremi della motivazione apparente o contraddittoria o perplessa.
16. La questione investita dall’ottavo motivo e’ priva di decisivita’, poiche’ Corte di appello non ha ancorato la sua decisione alla testimonianza del (OMISSIS). La sentenza ha invece valutato un complesso di elementi probatori, cosi’ pervenendo alla conclusione che erano stati comprovati in giudizio tanto la prestazione lavorativa svolta con continuita’ dalla ricorrente in favore di detto (OMISSIS), quanto la vicenda del contrasto tra quest’ultimo, ex amministratore di (OMISSIS) s.p.a., e la nuova gestione e amministrazione della societa’.
17. Il ricorso va dunque rigettato, restando assorbito l’esame del ricorso incidentale condizionato svolto da (OMISSIS) s.p.a..
18. Le spese del giudizio di legittimita’ sono poste a carico della ricorrente principale e liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del Decreto Ministeriale 10 marzo 2014, n. 55, articolo 2.
19. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale condizionato; condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 4.500,00 per compensi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis, se dovuto.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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