Esercizio stragiudiziale del potere di risolvere il contratto

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|8 giugno 2022| n. 18392.

Esercizio stragiudiziale del potere di risolvere il contratto.

Conseguita attraverso la diffida ad adempiere la risoluzione di un contratto cui è acceduta la prestazione di una caparra confirmatoria, l’esercizio del diritto di recesso è definitivamente precluso e la parte non inadempiente che limiti fin dall’inizio la propria pretesa risarcitoria alla ritenzione della caparra (o alla corresponsione del doppio di quest’ultima), in caso di controversia, è tenuta ad abbinare tale pretesa ad una domanda di mero accertamento dell’effetto risolutorio

Ordinanza|8 giugno 2022| n. 18392. Esercizio stragiudiziale del potere di risolvere il contratto.

Data udienza 21 aprile 2022

Integrale

Tag/parola chiave: Compravendita immobiliare – Contratto preliminare – Esecuzione in forma specifica – Art. 2932 cc – Restrizione della caparra – Art. 1385 comma 2 cc – Inadempimento – Esercizio stragiudiziale del potere di risolvere il contratto

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere

Dott. PAPA Patrizia – Consigliere

Dott. CAPONI Remo – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 26825/2017 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’Avv. (OMISSIS), che la rappresenta e difende, insieme all’Avv. (OMISSIS), in virtu’ di procura allegata al ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), rappresentato e difeso dall’Avv. (OMISSIS), in virtu’ di procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 804/2017 della CORTE D’APPELLO DI TORINO, pubblicata il 7/4/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/04/2022 dal Dott. REMO CAPONI.

Esercizio stragiudiziale del potere di risolvere il contratto

RILEVATO

Che:
Nel 2012 (OMISSIS), promissario acquirente di un immobile, conviene in giudizio dinanzi al Tribunale di Ivrea (OMISSIS), promittente venditrice, domandando l’esecuzione in forma specifica ex articolo 2932 c.c., dell’obbligo di concludere il contratto preliminare di compravendita, allegando altresi’ l’inadempimento della convenuta rispetto ai lavori di ristrutturazione dell’immobile, alla conformita’ alle norme edilizie ed urbanistiche, nonche’ alla liberazione del bene da un’ipoteca. In via preliminare, l’attore deduce inoltre la nullita’ della diffida ad adempiere notificatagli dalla (OMISSIS), facendo valere il difetto di sottoscrizione e l’inosservanza del termine di quindici giorni ex articolo 1454 c.c., comma 2. Su questa base, oltre alla pronuncia ex articolo 2932 c.c., (OMISSIS) domanda la riduzione del prezzo pattuito in ragione dell’inadempimento della (OMISSIS), nonche’ l’autorizzazione a richiedere la cancellazione dell’ipoteca mediante la somma ancora dovuta a titolo di prezzo. In via subordinata, l’attore domanda la risoluzione del contratto preliminare e la restituzione della somma di Euro 40.000 (di cui 35.000 a titolo di caparra confirmatoria e 5.000 in conto prezzo), oltre al risarcimento del danno quantificato nella misura minima di Euro 37.000, come differenza tra il valore commerciale dell’immobile risultante dalla perizia e il prezzo pattuito nel preliminare. Si costituisce in giudizio la convenuta, chiedendo il rigetto delle domande dell’attore e la ritenzione della caparra. Nel 2015, il giudice di primo grado rigetta le domande dell’attore e la domanda riconvenzionale della convenuta, condannando altresi’ quest’ultima alla restituzione di Euro 40.000 con compensazione totale delle spese processuali. Nel 2017, il giudice di secondo grado conferma la sentenza di primo grado nei capi di merito e riforma il capo relativo alle spese, disponendo una compensazione in ragione di tre quarti e ponendo a carico dell’attore il restante quarto. Contro la sentenza d’appello ricorre in cassazione la (OMISSIS) con due motivi. Il primo e’ complesso, essendo articolato in tre profili, rubricati sotto l’articolo 360 c.p.c., n. 3, mentre il secondo concerne l’omesso esame circa un fatto decisivo (articolo 360, n. 5). Resiste con controricorso il (OMISSIS). Nella memoria la (OMISSIS) denuncia la mancata notificazione del controricorso ad uno dei due suoi difensori. Orbene, se e’ vero che il controricorrente avrebbe dovuto notificare l’atto ad entrambi, e’ altrettanto vero che cio’ da’ luogo ad una mera irregolarita’ che non impedisce di prendere in considerazione le argomentazioni contenute nel controricorso.

 

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CONSIDERATO

Che:
1. – Nel loro complesso, i motivi del ricorso per cassazione investono il tema dei rapporti tra effetto risolutorio di diritto ricollegato all’inutile decorso del termine fissato nella diffida ad adempiere (articolo 1454 c.c., comma 3), la sorte della caparra confirmatoria e le successive condotte della parte non inadempiente (che ha intimato la diffida) nei giudizi originati dal rapporto contrattuale risolto. Nel pronunciarsi, il Collegio intende dare seguito a Cass. SU 14 gennaio 2009, n. 553. Peraltro, a cagione della pluralita’ di principi di diritto, enucleati in ragione di diverse costellazioni casistiche, la predetta sentenza delle Sezioni Unite ha ricevuto una varieta’ di applicazioni giurisprudenziali, che nell’arco del tempo si sono disposte non sempre in modo coordinato, cosicche’ su di essa si sono posati sedimenti che l’hanno resa a tratti opaca. Con tali opacita’ interpretative si sono dovuti confrontare anche gli avvocati e i giudici che si sono occupati della controversia da cui e’ scaturito il presente giudizio di cassazione. L’esame dei motivi del ricorso consente di gettare di nuovo luce sugli ancoraggi di Cass. SU 553/2009 alla disciplina legislativa, dissolvendo talune fra queste opacita’.
2. – Con il primo profilo del primo motivo si fa valere la violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1385 e 1454 c.c., poiche’ interpretati nel senso che il diritto di recesso non sia piu’ esercitabile una volta che il contratto sia stato risolto per inadempimento. Con il secondo profilo si fa valere la violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c., per vizio di extrapetizione poiche’ il giudice d’appello, come gia’ il giudice di primo grado, si e’ pronunciato su petitum diverso da quello oggetto della domanda riconvenzionale. Con il terzo profilo del primo motivo si fa valere la violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 111 Cost., comma 6, per carenza di motivazione. Con il secondo motivo si fa valere invece l’omesso esame circa fatti decisivi.

 

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In realta’, tutti e due i motivi ruotano intorno all’uno e medesimo “bene della vita” che la promittente venditrice vorrebbe veder protetto dal diritto positivo e ritenere per se’, pur dopo l’iniziativa processuale di cui e’ stata destinataria da parte del promissario acquirente: la caparra confirmatoria che le era stata corrisposta da quest’ultimo. Pertanto, l’esame dei motivi puo’ essere svolto congiuntamente, ancorche’ la prospettiva analitica sia indicata da uno di essi in particolare: il secondo profilo del primo motivo. Coglie infatti nel bersaglio la censura relativa alla violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (articolo 112 c.p.c.).
Argomenta la ricorrente: “il giudice d’appello ha pronunciato oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte in giudizio, in violazione dell’articolo 112 c.p.c.. Infatti, come gia’ sottolineato, tra le parti’ era intervenuta una risoluzione di diritto del contratto preliminare di compravendita per effetto della mancata osservanza del termine contenuto nella diffida ad adempiere trasmessa dalla Sig.ra (OMISSIS) al Sig. (OMISSIS). Pertanto, nel proprio atto introduttivo, la Sig.ra (OMISSIS) domandava di accertare e dichiarare l’inadempimento contrattuale del (OMISSIS), e di conseguenza dichiarare legittima la ritenzione della caparra confirmatoria. Per altro, tale ultima intenzione era dalla stessa gia’ stata manifestata nella diffida ad adempiere. Non chiedeva quindi di dichiarare la risoluzione per inadempimento ed al contempo il recesso con possibilita’ di trattenere la caparra confirmatoria. La Corte di Appello di Torino ha attribuito ai fatti ed alle domande proposte una diversa qualificazione giuridica rispetto a quella effettivamente voluta dalla parte (…)”.
3. – Il dato teste’ richiamato dalla ricorrente e’ confermato dall’accesso al fascicolo di causa, in particolare dalla lettura della “comparsa di costituzione e risposta per la Sign.ra (OMISSIS) con domanda riconvenzionale”. Si riproducono di seguito le conclusioni della convenuta in primo grado (confermate anche in appello, congiuntamente alla richiesta di riformare la pronuncia di primo grado): “in via principale: respingere tutte le pretese avanzate dal Sig. (OMISSIS) in quanto infondate in fatto e in diritto. In via riconvenzionale: accertare e dichiarare l’inadempimento contrattuale di parte attrice (OMISSIS), e di conseguenza dichiarare legittima la ritenzione della caparra confirmatoria da parte della convenuta (OMISSIS)”.
In altri termini, la promittente venditrice ha chiesto una pronuncia di mero accertamento della risoluzione del contratto preliminare di compravendita, prodottasi in via stragiudiziale attraverso l’inutile decorso del termine fissato nella diffida ad adempiere (articolo 1454 c.c., comma 3). Su questa base, ha chiesto poi di ritenere la caparra. Per conseguire tale scopo ha correttamente reputato di non aver bisogno di esercitare il diritto di recesso, che sarebbe stato una specie di illogico bis in idem, avendo costei gia’ conseguito l’obiettivo di sciogliersi dal vincolo contrattuale attraverso la diffida ad adempiere congiuntasi all’inutile decorso del termine. Infatti, non ha esercitato il recesso (ancorche’ le predette opacita’ interpretative abbiano costretto la sua difesa tecnica ad ondeggiare nelle argomentazioni, giammai nelle conclusioni). Si tratta di vedere se sia corretto codesto suo opinamento, cioe’ se sia protetto dal diritto positivo l’abbinare la ritenzione della caparra all’effetto risolutorio scaturente non dal recesso, bensi’ dalla diffida ad adempiere cui si congiunge l’inutile decorso del termine. La disposizione da applicare e’ l’articolo 1385 c.c., comma 2, nella sua prima parte: “se la parte che ha dato la caparra e’ inadempiente, l’altra puo’ recedere dal contratto, ritenendo la caparra; se inadempiente e’ invece la parte che l’ha ricevuta, l’altra puo’ recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra”.
4. – In via preliminare, si prende atto del seguente accertamento di fatto contenuto nella sentenza di primo grado (p. 8): “dal tenore complessivo delle dichiarazioni sopra esaminate si desume che il ritardo nella sistemazione delle piastrelle era dipeso dalle scelte in variante operate dal (OMISSIS), e, quindi, tale ritardo non puo’ imputarsi alla convenuta”. Come pure si prende atto degli accertamenti d’insussistenza di altri profili d’inadempimento della (OMISSIS), allegati dal (OMISSIS) (cfr. sentenza di primo grado, p. 9). Poiche’ la stessa difesa di (OMISSIS) ha chiesto in appello di “confermare in ogni sua parte la sentenza impugnata” (cio’ che in effetti e’ avvenuto, a parte la modifica della statuizione sulle spese), la base fattuale di partenza e’ l’inadempimento del (OMISSIS), portato ad effetto giuridico risolutorio da (OMISSIS) attraverso la diffida ad adempiere, cui si e’ congiunto l’inutile decorso del tempo.

 

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L’evento descritto nella protasi del periodo ipotetico che apre dell’articolo 1385 c.c., comma 2 (“se la parte che ha dato la caparra e’ inadempiente”) si e’ dunque avverato. Si tratta di vedere se tale disposizione – nella parte in cui fa seguire il gerundio “ritenendo” (la caparra) alla proposizione principale “puo’ recedere dal contratto” escluda che la parte non inadempiente possa ritenere la caparra (o, nell’altra costellazione, esigerne il doppio) quando si e’ gia’ giovata dell’effetto risolutorio attraverso la diffida ad adempiere, cui si sia congiunto l’inutile decorso del termine, e pertanto non possa esercitare piu’ il recesso, in quanto (logicamente ancor prima che giuridicamente) non si puo’ recedere da un rapporto che si e’ gia’ risolto. Per rispondere, occorrono due premesse. In primo luogo, si tratta dell’articolo 12 preleggi: “Nell’applicare la legge non si puo’ ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”. Pur i critici piu’ accesi di questa disposizione, sono costretti a riconoscere che le parole della legge e le loro connessioni grammaticali e logiche non possono essere messe da parte quando ci si accinge all’interpretazione giuridica. In questo caso entrano in gioco le variegate connessioni logiche che possono istituirsi tra la proposizione principale (“l’altra (parte) puo’ recedere dal contratto”) e il gerundio (“ritenendo” (la caparra)), giacche’ il gerundio e’ un modo verbale indefinito.
5. – Tra i diversi tipi di connessione del gerundio con la proposizione principale, in relazione all’articolo 1385 c.c., comma 2, ne entrano in gioco due. Alla stregua di un primo tipo, il gerundio esprime un’azione che semplicemente si accompagna o segue temporalmente l’azione principale senz’altra connessione che non sia appunto quella della contestualita’ o successione nel tempo (post hoc): e’ il gerundio “coordinato”. In questo caso cio’ significa: la parte recede dal contratto e (poi) ritiene la caparra. Alla stregua di un secondo tipo di connessione, il gerundio esprime un’azione che vede nella condotta espressa dalla proposizione principale una propria condicio sine qua non (propter hoc): e’ il gerundio “subordinato”. In questo caso cio’ significa: se (solo se) la parte recede dal contratto, allora puo’ ritenere la caparra.
Se si rimane sul piano grammaticale e linguistico, entrambe le soluzioni sono plausibili. Si constata cosi’ uno dei principali difetti dell’articolo 12 preleggi: l’idea che sia possibile scoprire un senso che di per se’ sia “fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”. In realta’, il significato che nel mondo del diritto si e’ tenuti a discernere e’ quello che si rende (piu’ o meno) palese dalle ragionevoli aspettative di senso che i casi della vita rivolgono ai testi normativi mentre – attraverso le opere dei giuristi – vanno alla ricerca della loro disciplina giuridica.

 

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6. – Nel caso de quo, tale aspettativa di senso e’ limpida: la parte non inadempiente, che in presenza dell’inadempimento della controparte (poi accertato in giudizio) si e’ giovata dell’effetto risolutorio del contratto attraverso la diffida ad adempiere, cui si e’ congiunto l’inutile decorso del termine, non deve percio’ perdere il diritto di ritenere la caparra in funzione di liquidazione del danno predeterminata, forfettaria e sganciata dall’onere della prova. Non deve perderlo sol perche’ non puo’ piu’ esercitare una facolta’ (quella di recedere dal contratto), che non ha piu’ bisogno di esercitare. Altrettando limpida e’ l’interpretazione dell’articolo 1385 c.c., comma 2, di cui siffatta aspettativa di senso dispone per incontrare protezione giuridica. E’ quella che, facendo leva sul gerundio nella sua connessione di coordinazione temporale con la proposizione principale, scarta il gerundio subordinato e libera cosi’ la ritenzione della caparra dall’esercizio del diritto di recesso come sua condizione esclusiva.
Detto leggermente in altre parole, la connessione che l’articolo 1385 c.c., comma 2, istituisce tra l’esercizio del diritto di recesso e la ritenzione (o il pagamento del doppio) della caparra, con riferimento al caso de quo, e’ di contestualita’/successione temporale. Non e’ invece di dipendenza esclusiva delle sorti della caparra rispetto al diritto di recesso, che escluda cioe’ ogni altra correlazione della ritenzione (o pagamento del doppio) della caparra con altri fenomeni: post hoc, non propter hoc. Cio’ comporta che, oltre a siffatta contestualita’/successione temporale (recesso-ritenzione della caparra o richiesta del doppio), si puo’ profilare giuridicamente anche l’altra (diffida ad adempiere-inutile decorso del termine-risoluzione del contratto-ritenzione della caparra o richiesta del doppio). Tale alternativa viene incontro alle aspettative di senso generate da situazioni come il caso de quo.
7. – Una specie di prova del nove e’ la seguente: se nel testo dell’articolo 1385 c.c., comma 2, si invertissero i verbi tra proposizione principale e gerundio (“l’altra (parte) puo’ ritenere la caparra, recedendo dal contratto”), sarebbe piu’ difficile raccogliere quella aspettativa di senso, poiche’ la scansione logica tra verbo della proposizione principale e verbo al gerundio sarebbe invertita rispetto alla successione delle azioni sul piano pratico, cosicche’ sarebbe piu’ complicato (per non dire escluso) predicare il modo “coordinato” di quel gerundio. Si conferma cosi’ che il baricentro normativo dell’articolo 1385 c.c., comma 2, e’ rivolto all’azione espressa nella proposizione principale (il recesso), non gia’ a quella espressa dal gerundio, la ritenzione della caparra. Quest’ultima (al pari della richiesta di pagamento del doppio) e’ un mero accidente, nel senso che essa puo’ occorrere in questo caso, ma anche nell’altro, in cui vi e’ gia’ stato un effetto risolutorio stragiudiziale e quindi per la parte non inadempiente non sia piu’ possibile, ma neanche necessario, ricorrere al recesso.

 

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8. – A questo punto, e’ agevole inserirsi nel solco aperto da Cass. SU 553/2009, gia’ richiamata in precedenza. In tale prospettiva – entro i limiti segnati dal caso de quo e legittimanti il richiamo ai principi di diritto ivi enunciati – il primo punto da ricordare e’ l’abbandono esplicito da parte della predetta pronuncia del precedente orientamento giurisprudenziale che ammetteva il contraente adempiente a rinunciare all’effetto risolutorio conseguito a mezzo della diffida ad adempiere, cui si era congiunto l’inutile decorso del termine (da ultimo, per l’orientamento abbandonato, cfr. Cass. 23315/2007). In favore di tale mutamento d’indirizzo, cioe’ che l’effetto risolutorio del contratto promosso dalla diffida ad adempiere non possa essere oggetto di rinuncia, vi e’ innanzitutto un forte argomento dogmatico, ancorche’ di per se’ non risolutivo: una volta che sia stato esperito con successo, il potere sostanziale di modificazione giuridica si estingue senza alcun residuo su cui possa appoggiarsi un successivo effetto recuperatorio (del potere), scaturente dalla rinuncia. Vi sono poi tutti i profili funzionali addotti da Cass. SU 553/2009, anche sulla scorta di studi dottrinali. A tale proposito, non si puo’ che rinviare integralmente al par. 4.6 della predetta sentenza. Fra le plurime ragioni funzionali addotte a fondamento di tale revirement, merita di essere ripresa la considerazione “che la perdurante disponibilita’ dell’effetto risolutorio in capo alla parte non inadempiente (genererebbe) una ingiustificata e sproporzionata lesione all’interesse del debitore, il cui ormai definitivo affidamento nella risoluzione (e nelle relative conseguenze) del contratto inadempiuto potrebbe indurlo, non illegittimamente, ad un conseguente riassetto della propria complessiva situazione patrimoniale”. In prima linea, tra le conseguenze con cui il debitore puo’ legittimamente essere chiamato a fare i conti, vi sono evidentemente quelle patrimoniali, in termini di pretese risarcitorie, ritenzione della caparra ad opera della controparte, ovvero richieste di pagamento del doppio della caparra ricevuta.
In altre parole, polarizzate sul caso de quo, fermo definitivamente quell’effetto risolutorio stragiudiziale, se del caso messo al sicuro da contestazioni (ad esempio, circa l’importanza dell’inadempimento ex articolo 1455 c.c., che e’ comunque presupposto) attraverso una domanda giudiziale (principale o riconvenzionale) di mero accertamento, la conclamata poliedricita’ funzionale della caparra ben puo’ emergere a questo punto come “limitazione forfettaria e predeterminata della pretesa risarcitoria all’importo convenzionalmente stabilito in contratto” (cosi’, sempre Cass. SU 553/2009, par. 3.1, ma v. anche 4.2, 4.4). Siffatta pretesa si congiunge cosi’ all’esercizio stragiudiziale del potere di risolvere il contratto attraverso il meccanismo della diffida, seguita dall’inutile decorso del termine, e si sgancia dal recesso che non e’ piu’ necessario. Infatti, l’effetto sostanziale di quest’ultimo e’ stato anticipato senza residui dal predetto meccanismo. Come infatti e’ stato precisato da Cass. SU 553/2009 (par. 4.2), in adesione a ricostruzioni dottrinali: “il diritto di recesso e’ una evidente forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, che presuppone pur sempre l’inadempimento della controparte avente i medesimi caratteri dell’inadempimento che giustifica la risoluzione giudiziale: esso costituisce null’altro che uno speciale strumento di risoluzione negoziale per giusta causa, alla quale lo accomunano tanto i presupposti (l’inadempimento della controparte) quanto le conseguenze (la caducazione ex tunc degli effetti del contratto)”. Si rivela cosi’ la reciproca fungibilita’, quanto a presupposti e ad effetto, tra diffida ad adempiere e recesso, salva la differenza concernente la progressivita’ nella formazione della fattispecie risolutoria nella prima ipotesi (oltre all’atto di diffida, l’inutile decorso del termine), che le conferisce maggiore flessibilita’ sotto il profilo della estrema possibilita’ di adempiere concessa al debitore.

 

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9. – D’altra parte, che questa conclusione fosse il modo corretto di dare continuita’ a Cass. SU 553/2009 con riferimento a casi come quello sub iudice, era stato colto da Cass. 2999/2012, pur se e’ necessaria una precisazione che si rinvia a dopo la citazione del passo rilevante di quest’ultima: “Dunque, dando seguito ai principi affermati dalla precitata sentenza a Sezioni Unite (Cass. SU 553/2009), se la domanda di accertamento dell’avvenuta risoluzione di diritto del contratto per inadempimento del promittente compratore nel termine assegnato a norma dell’articolo 1454 c.c. (…) non e’ accompagnata dall’istanza di risarcimento del danno integrale ai sensi dell’articolo 1453 c.c., e dell’articolo 1385 c.c., comma 3, non e’ precluso alla parte adempiente di instare per la ritenzione della caparra come azione risarcitoria semplificata rispetto a quella che consegue all’azione di risarcimento integrale giudiziale per la risoluzione costitutiva (Cass. 21838/2010), essendo potere-dovere del giudice di qualificare l’azione esercitata secondo la vicenda sostanziale e cioe’ come accertamento della legittimita’ del recesso gia’ esercitato e contestato e non gia’ risoluzione giudiziale, tanto piu’ che il contraente adempiente non chiede di conseguire un maggiore risarcimento rispetto all’ammontare della caparra, ma dichiara invece di limitare il risarcimento nella corrispondente misura, (cosicche’) affermare l’impossibilita’ dello ius retinendi della caparra in base al rilievo che l’articolo 1385 c.c., comma 2, disciplina l’esercizio stragiudiziale del diritto di recesso e non la risoluzione giudiziale, ancorche’ dichiarativa e di diritto, con conseguente onere, aleatorio, di dimostrare an e quantum del danno a norma dell’articolo 1385 c.c., comma 3, significa attribuire al nomen risoluzione un significato esasperatamente formale”.
La precisazione e’ la seguente: nello statuire che “non e’ precluso alla parte adempiente di instare per la ritenzione della caparra come azione risarcitoria semplificata rispetto a quella che consegue all’azione di risarcimento integrale giudiziale per la risoluzione costitutiva”, Cass. 2999/2012 cita tra parentesi Cass. 21838/2010, ma il rinvio non e’ felice, poiche’ quest’ultimo precedente, consentendo ancora la riduzione in corso di processo della domanda iniziale di risarcimento del danno “regolat(a) dalle norme generali” (cfr. articolo 1385 c.c., comma 3) in domanda di recesso funzionale alla ritenzione della caparra, non da’ seguito al seguente, maggiore principio di diritto enunciato da Cass. SU 553/2009: “i rapporti tra azione di risoluzione e di risarcimento integrale da una parte, e azione di recesso e di ritenzione della caparra dall’altro si pongono in termini di assoluta incompatibilita’ strutturale e funzionale: proposta la domanda di risoluzione volta al riconoscimento del diritto al risarcimento integrale dei danni asseritamente subiti, non puo’ ritenersene consentita la trasformazione in domanda di recesso con ritenzione di caparra perche’ (…) verrebbe cosi’ a vanificarsi la stessa funzione della caparra, quella cioe’ di consentire una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso, consentendosi inammissibilmente alla parte non inadempiente di “scommettere” puramente e semplicemente sul processo, senza rischi di sorta” (par. 4.7, lettera a)).

 

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Tale principio di diritto, che le Sezioni Unite sono state sollecitate ad enunciare dal caso concreto sottoposto alla loro attenzione, non entra in gioco con riferimento al caso de quo, poiche’ la promittente venditrice, parte non inadempiente e oggi ricorrente in cassazione, non solo non era stata lei a promuovere il processo, essendo stata convenuta in giudizio dal promissario acquirente, ma soprattutto aveva fin dall’inizio limitato le proprie pretese economiche alla ritenzione della caparra.
10. – E’ evidente peraltro come l’odierna decisione sul caso de quo si armonizzi con tale principio di diritto, nel senso che, ove la parte non inadempiente, dopo aver conseguito l’effetto risolutorio in via stragiudiziale, avesse iniziato il processo proponendo una ordinaria domanda risarcitoria, non avrebbe potuto scommettere sul processo riservandosi di “ridurre” la domanda alla ritenzione della caparra (o al pagamento del doppio). L’aspettativa di senso giuridico generata da questa situazione getta sul testo dell’articolo 1385 c.c., comma 2, un fascio di luce polarizzata sul gerundio “subordinato”: nel senso che tale riduzione della domanda presupporrebbe l’esercizio del diritto di recesso; cio’ che e’ ormai precluso dall’effetto risolutorio gia’ conseguito sul piano stragiudiziale.
In modo parimenti evidente, l’odierna decisione sul caso de quo si armonizza con l’articolo 1385 c.c., comma 3, che vincola la parte non inadempiente ad esercitare la domanda di risarcimento regolata dalle norme generali ove costei abbia agito per l’adempimento coattivo o per la risoluzione, non gia’ per il mero accertamento dell’effetto risolutorio gia’ prodottosi ope legis, sul piano stragiudiziale. Cosicche’ essa e’ in linea anche con Cass. 21971/2020, che ha dato seguito a Cass. SU 553/2009 nel diverso caso in cui la promittente venditrice aveva proposto azione di risoluzione.
Infine, si noti che la presente pronuncia raggiunge lo stesso risultato pratico di Cass. 26206/2017 in analoga fattispecie, sebbene se ne distanzi quanto a motivazione, giacche’ nel precedente del 2017 si fa appello ancora al diritto di recesso nonostante il gia’ conseguito effetto risolutorio attraverso la diffida ad adempiere congiuntasi all’inutile decorso del termine.
11. – Le precisazioni svolte al punto precedente consentono di mettere a fuoco l’errore in cui sono incorsi i giudici di primo e di secondo grado nel desumere da Cass. SU 533/2009, cui pur reputavano di conformarsi, conseguenze opposte da quelle da applicare al caso de quo. Il valore normativo di un precedente giurisprudenziale dipende dalla sua ratio decidendi, che rimane agganciata a quel tipo di situazione di fatto e di svolgimento del processo che ha dato origine alla pronuncia giudiziale e che proietta permanentemente la propria ombra sul significato del dictum giudiziale, conformandolo e orientandone le applicazioni future. Ebbene, radicalmente diverso dal caso de quo e’ il caso dinanzi al quale si sono trovate le Sezioni Unite nel 2009, in cui si trattava di un contraente non inadempiente che aveva agito per la risoluzione ed il risarcimento del danno e che nel corso del processo aveva opportunisticamente convertito la propria iniziativa in recesso, allo scopo di mettere al sicuro la caparra rispetto ai rischi discendenti dalla mancata prova dei danni. Cosicche’, anche da questo punto di vista, riluce il vizio di extrapetizione in cui sono incorsi i giudici nelle precedenti istanze (cfr. la sentenza d’appello, p. 7: “si rileva come la qualificazione della pretesa come domanda di risoluzione del contratto proposta dalla (OMISSIS) non sia stata contestata”), dinanzi ad un petitum che e’ sempre rimasto fermo in termini di mero accertamento dell’effetto risolutorio gia’ prodottosi sul piano stragiudiziale e di ritenzione della caparra.

 

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Dinanzi a tale fermezza di petitum, che costituisce l’oggetto della pronuncia del giudice, perdono rilevanza le incertezze argomentative della difesa della (OMISSIS), su cui richiama l’attenzione il controricorso. Tali argomentazioni sono state chiamate a barcamenarsi tra gli errori dei giudici, da un lato, e un orizzonte giurisprudenziale non limpido, dall’altro lato, cosicche’ per tuziorismo si sono episodicamente richiamate anche al recesso.
D’altra parte, nello stesso controricorso si riconosce che “parte della giurisprudenza e una certa dottrina” muovono da una “similitudine, quanto agli effetti, tra risoluzione di diritto ed esercizio del recesso”. In realta’, in questa “parte” della giurisprudenza vi rientra – come attestano le precedenti citazioni – proprio Cass. SU 553/2009, che orienta la ricostruzione normativa della materia.
L’accoglimento del primo motivo, sotto il suo secondo profilo, assorbe il secondo motivo. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, e’ possibile accogliere il ricorso, cassare la sentenza impugnata e addivenire ad una decisione nel merito ex articolo 384 c.p.c., comma 2, la quale puo’ essere emanata d’ufficio quand’anche – come in questo caso – la parte ricorrente si sia limitata a chiedere la cassazione con rinvio (cfr. Cass. SU 6994/2010). Si sancisce cosi’ il diritto della parte ricorrente, promittente venditrice, di vedersi restituire e ritenere la caparra confirmatoria a suo tempo versata dalla parte controricorrente, promissario acquirente. Le spese seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., comma 1, e’ enunciato il seguente principio di diritto: conseguita attraverso la diffida ad adempiere la risoluzione di un contratto cui e’ acceduta la prestazione di una caparra confirmatoria, l’esercizio del diritto di recesso e’ definitivamente precluso e la parte non inadempiente che limiti fin dall’inizio la propria pretesa risarcitoria alla ritenzione della caparra (o alla corresponsione del doppio di quest’ultima), in caso di controversia, e’ tenuta ad abbinare tale pretesa ad una domanda di mero accertamento dell’effetto risolutorio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, dichiara il diritto della Signora (OMISSIS) di vedersi restituire e ritenere la caparra.
Condanna il Signor (OMISSIS) alle spese dell’intero processo, che liquida per il primo grado in Euro 4.200,00, per l’appello in Euro 3.400,00, per il giudizio di cassazione in Euro 5.300,00, oltre a Euro 200 per esborsi, nonche’ spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge.

 

Esercizio stragiudiziale del potere di risolvere il contratto

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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