Il diritto unilaterale di recesso da parte del committente non preclude la sua facoltà di invocare la restituzione degli acconti versati

Corte di Cassazione, civile, Sentenza|| n. 421.

Il diritto unilaterale di recesso da parte del committente non preclude la sua facoltà di invocare la restituzione degli acconti versati

In tema di appalto, il diritto unilaterale di recesso ex art. 1671 c.c. da parte del committente non preclude la sua facoltà di invocare la restituzione degli acconti versati e il risarcimento dei danni subiti per condotte di inadempimento verificatesi in corso d’opera e addebitabili all’appaltatore. In tale evenienza, la contestazione di difformità e vizi, in ordine alla parte di opera eseguita, non ricade nella disciplina della garanzia per i vizi, che esige necessariamente il totale compimento dell’opera”. Una volta accertata la responsabilità professionale del direttore dei lavori per omessa vigilanza sull’attuazione dei lavori appaltati, questi risponde, in solido, con l’appaltatore dei danni subiti dal committente, qualora i rispettivi inadempimenti abbiano concorso in modo efficiente a produrre il danno risentito dall’appaltante.

Sentenza|| n. 421. Il diritto unilaterale di recesso da parte del committente non preclude la sua facoltà di invocare la restituzione degli acconti versati

Data udienza  5 dicembre 2023

Integrale

Tag/parola chiave: Appalto privato – Diritto unilaterale di recesso – Art. 1671 cc – Facoltà di invocare la restituzione degli acconti versati – Risarcimento dei danni subiti per condotte di inadempimento – Contestazione di difformità e vizi – Disciplina della garanzia per i vizi – Esclusione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere

Dott. CAVALLINO Linalisa – Consigliere

Dott. TRAPUZZANO Cesare – Rel. Consigliere

Dott. CAPONI Remo – Consigliere

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

sul ricorso (iscritto al N. R. G. 31249/2018) proposto da:

Pa.Br. (C.F.: omissis), rappresentata e difesa, giusta procura in calce al ricorso, dall’Avv. Riccardo Mariotti, nel cui studio in Roma, via dell’Amba Aradam n. 24, ha eletto domicilio;

– ricorrente –

contro

(…) S.r.l. (C.F.: omissis), in persona del suo legale rappresentante pro – tempore, rappresentata e difesa, giusta procura in calce al controricorso, dall’Avv. Fa.Bl., nel cui studio in Roma, via (…), ha eletto domicilio;

e

Ot.Gi. (C.F.: omissis), rappresentato e difeso, giusta procura speciale per atto pubblico del 27 luglio 2023, rep. n. 3122, dall’Avv. Gi.Po., nel cui studio in Roma, via (…), ha eletto domicilio;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 4642/2018, pubblicata il 5 luglio 2018, notificata a mezzo PEC il 3 settembre 2018 ;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 5 dicembre 2023 dal Consigliere relatore Cesare Trapuzzano;

lette le conclusioni rassegnate dal P.M., in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Fu.Tr., che ha chiesto il rigetto del ricorso verso la (…) e l’accoglimento del decimo motivo verso Ot.Gi., con assorbimento dell’ottavo, nono e dodicesimo motivo, conclusioni ribadite nel corso dell’udienza pubblica;

vista la memoria depositata nell’interesse della ricorrente, ai sensi dell’art. 378 c.p.c.;

sentiti, in sede di discussione orale all’udienza pubblica, l’Avv. Ri.Ma. per la ricorrente e l’Avv. Gi.Po. per il controricorrente Ot.Gi..

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FATTI DI CAUSA

1. – Con atto di citazione notificato il 25 giugno 2008, la (…) S.r.l. conveniva, davanti al Tribunale di Roma, Pa.Br. e chiedeva: 1) che fosse accertato l’intervenuto scioglimento del contratto di appalto concluso tra le parti per effetto dell’esercizio, a cura della convenuta committente, del diritto potestativo di recesso unilaterale mediante missiva del 20 ottobre 2006; 2) che conseguentemente fosse accertato l’inadempimento dell’appaltante all’obbligazione indennitaria in favore dell’appaltatore, avendo la stessa impedito all’assuntore di completare l’esecuzione dell’opera appaltata; 3) che, per l’effetto, la committente fosse condannata al pagamento della somma di Euro 190.635,54, oltre rivalutazione monetaria e interessi.

Al riguardo, l’attrice esponeva: che, nel settembre 2005, aveva ricevuto dalla Pa.Br. l’affidamento di un appalto per l’esecuzione dei lavori di ristrutturazione di un immobile di proprietà dell’appaltante, sito in (omissis); che i lavori consistevano in opere di demolizione e rifacimento di strutture portanti e solai, murature interne ed esterne, del tetto, degli intonaci interni ed esterni, dell’impianto idro – termo – sanitario ed elettrico; che l’andamento dei lavori aveva subito notevoli rallentamenti a causa delle ripetute richieste della committente, fino a quando, con telegramma del 18 aprile 2006, la stessa aveva ordinato, senza alcuna motivazione, la sospensione dei lavori; che, a fronte delle lavorazioni programmate per Euro 90.000,00, erano state eseguite lavorazioni per circa Euro 73.945,00, mentre erano stati corrisposti solo Euro 9.090,00, a titolo di acconti; che successivamente – con la nota indicata – l’appaltante aveva manifestato la volontà di recedere dal contratto, invitando l’impresa a rimuovere il cantiere entro 10 giorni.

Si costituiva in giudizio Pa.Br., la quale contestava la fondatezza, in fatto e in diritto, delle pretese avanzate da controparte e chiedeva che fosse accertato l’inadempimento dell’appaltatrice al contratto di appalto, a causa della parziale e cattiva esecuzione delle opere commissionate, in ordine alle quali sussisteva la concorrente responsabilità del progettista e direttore dei lavori Ot.Gi., di cui era chiesta la chiamata in causa.

In via riconvenzionale, la convenuta domandava la declaratoria di risoluzione del contratto di appalto per colpa dell’assuntore nonché l’accertamento della concorrente responsabilità del progettista e direttore dei lavori, per tutti i vizi e i nocumenti patiti, con conseguente condanna degli stessi, in solido, alla restituzione della somma di Euro 29.400,00 e al risarcimento di tutti i danni subiti.

In subordine, chiedeva che, in caso di soccombenza verso l’artefice dell’appalto, fosse manlevata dal direttore dei lavori.

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In proposito, deduceva che le opere realizzate dalla ditta incaricata erano del tutto difformi da quelle commissionate e ricavabili dal progetto e non erano state eseguite a regola d’arte.

Autorizzata la chiamata in causa del terzo, si costituiva in giudizio anche Ot.Gi., il quale eccepiva preliminarmente il proprio difetto di titolarità passiva del rapporto, per non aver ricevuto alcun incarico dalla Pa.Br.. Nel merito chiedeva il rigetto delle domande formulate nei suoi confronti e avanzava domanda riconvenzionale finalizzata ad ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali patiti per lesione della reputazione e dell’immagine, chiedendo altresì che la convenuta chiamante fosse condannata alla riparazione dei pregiudizi conseguenti all’instaurazione di una lite temeraria.

Nel corso del giudizio era espletata consulenza tecnica d’ufficio, ad integrazione delle risultanze già raggiunte con lo svolto accertamento tecnico preventivo ante causam, con la convocazione del consulente tecnico d’ufficio nominato affinché rendesse i chiarimenti resisi necessari.

Quindi, il Tribunale adito, con sentenza n. 11021/2013, depositata il 20 maggio 2013, in parziale accoglimento delle domande proposte dall’attrice, accertava l’intervenuto recesso di Pa.Br. dal contratto di appalto stipulato con la (…) e, per l’effetto, condannava l’appaltante al versamento, in favore della società appaltatrice, della somma di Euro 29.490,00, oltre rivalutazione e interessi, a titolo di lavorazioni eseguite e non saldate, e di Euro 4.000,00, a titolo di spese sostenute, rigettando ogni altra domanda.

In specie, la pronuncia di prime cure sosteneva: che il contratto di appalto si era sciolto per iniziativa unilaterale della committente, il che in sé non implicava alcuna necessaria indagine sull’importanza e gravità dell’inadempimento, la quale sarebbe stata necessaria solo allorché la committente avesse preteso anche il risarcimento del danno dall’appaltatore per l’inadempimento in cui questi fosse già incorso al momento del recesso; che, pertanto, l’esercizio del diritto di recesso riservato al committente in materia di appalto non privava il recedente del diritto di richiedere il risarcimento per l’inadempimento in cui l’appaltatore fosse già incorso al momento del recesso; che dopo il recesso l’eventuale valutazione dell’importanza della gravità dell’inadempimento dell’appaltatore poteva essere effettuata ai soli fini risarcitori, ma non allo scopo di ottenere la pronuncia di risoluzione di un contratto non più in essere; che, dunque, la domanda di risoluzione del contratto doveva essere rigettata e così le conseguenti statuizioni restitutorie formulate dalla convenuta in via riconvenzionale; che, quanto alla domanda risarcitoria, occorreva che la committente avesse conservato l’azione verso l’appaltatore, mentre nella fattispecie essa risultava prescritta, conformemente all’eccezione sollevata sul punto dall’assuntore, secondo la disciplina sulla garanzia per i vizi e le difformità dell’opera, sicché l’appaltatore restava liberato da ogni responsabilità; che il costo delle opere realizzate era pari ad Euro 48.890,00, da cui doveva essere detratto l’importo dimostrato – che risultava corrisposto a titolo di acconti – per Euro 19.400,00; che non era, invece, liquidabile la voce del mancato guadagno, in quanto non provata; che le spese sostenute dovevano essere liquidate, in via equitativa, nella misura di Euro 4.000,00; che, con riferimento alla domanda proposta nei confronti del terzo chiamato, erano stati fatti valere due profili di responsabilità, l’uno afferente all’attività relativa alla presentazione della D.I.A. e l’altra riguardante l’attività di direzione dei lavori; che, in ordine al primo profilo, non emergevano elementi sufficienti per ritenere che all’Ot.Gi. fosse stato conferito l’incarico di svolgere l’attività di progettazione e presentazione della D.I.A., mentre, con riferimento al secondo profilo, risultava espressamente che l’Ot.Gi. avesse accettato l’incarico di direttore dei lavori; che, peraltro, la prescrizione della garanzia per i vizi escludeva che potesse indagarsi circa una responsabilità solidale del terzo chiamato, in qualità di direttore dei lavori; che altrettanto destituita di fondamento era la richiesta di manleva, in quanto genericamente formulata.

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2. – Con atto di citazione notificato il 9/10 luglio 2014, proponeva appello Pa.Br., la quale lamentava: 1) l’erronea applicazione, in relazione alle domande, restitutoria e risarcitoria, proposte in via riconvenzionale, della disposizione speciale di cui all’art. 1667 c.c. e del correlativo regime prescrizionale, con la conseguente violazione di legge per mancata applicazione della normativa generale di cui agli artt. 1453 e 1455 c.c. e dei correlativi termini prescrizionali; 2) l’erronea pronuncia di rigetto delle domande di risarcimento dei danni e di manleva proposte nei confronti del terzo chiamato, per effetto dell’impropria qualificazione del rapporto intercorso con il direttore dei lavori, e la conseguente violazione di legge per l’omessa applicazione della normativa di cui agli artt. 2230 e ss. c.c.; 3) l’erronea e contraddittoria interpretazione delle risultanze istruttorie, sia con riferimento alla documentazione versata in atti, sia con riguardo agli esiti degli accertamenti peritali eseguiti, prima, nell’ambito dell’A.T.P. e, poi, nel corso del giudizio di primo grado, in relazione alla natura, quantità e qualità delle opere poste in essere in esecuzione del contratto di appalto intercorso tra le parti, con la correlata contraddittorietà delle valutazioni espresse in sede di indagini peritali, acriticamente assunte a fondamento della decisione, a fronte delle gravissime e plurime difformità delle opere eseguite rispetto a quelle oggetto della progettazione allegata alla D. I. A. ed al progetto presentato ai competenti uffici del Genio civile; 4) l’omessa e comunque insufficiente istruttoria in relazione alle prospettazioni delle parti e alle istanze istruttorie della convenuta, intese a provare, a mezzo di eventuali ammissioni in sede di interrogatorio formale e delle deposizioni testimoniali, gli accordi intercorsi sulle lavorazioni oggetto dell’appalto e sui relativi prezzi; 5) l’erronea valutazione delle risultanze istruttorie, con riferimento all’ammontare degli acconti versati dalla committente in favore dell’impresa appaltatrice, in esecuzione del contratto di appalto; 6) l’omessa valutazione della gravità dell’inadempimento della (…) alle obbligazioni scaturenti dal contratto di appalto e l’omessa condanna della società appaltatrice al risarcimento dei danni; 7) l’omessa valutazione della gravità dell’inadempimento di Ot.Gi. a fronte delle obbligazioni assunte, in qualità di direttore dei lavori appaltati alla (…).

Si costituiva nel giudizio d’impugnazione la (…) S.r.l., la quale resisteva all’appello e ne chiedeva il rigetto, ritenendo che del tutto correttamente fosse stata applicata la prescrizione biennale di cui all’art. 1667 c.c., con l’adeguata interpretazione delle risultanze istruttorie in ordine alla determinazione dell’importo delle lavorazioni eseguite e degli acconti versati.

Si costituiva altresì nel giudizio d’appello Ot.Gi., il quale chiedeva che il gravame fosse disatteso, ribadendo le eccezioni di carenza di legittimazione sostanziale passiva – stante la sua affermata, totale estraneità all’intera vicenda e per non avere egli svolto l’incarico di direttore dei lavori – e, comunque, di intervenuta prescrizione dell’azione nei confronti dell’appaltatore, che si sarebbe estesa anche verso il terzo chiamato.

Decidendo sul gravame interposto, la Corte d’appello di Roma, con la sentenza di cui in epigrafe, accoglieva, per quanto di ragione, l’appello e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, condannava Pa.Br. al pagamento, in favore della (…) S.r.l., della somma di Euro 12.400,00, in luogo della maggiore somma liquidata per sorte capitale dal Tribunale, confermando, nel resto, le altre statuizioni adottate e compensando, per metà, le spese del doppio grado di giudizio tra la Pa.Br. e la (…), con l’addebito della residua metà nei confronti della prima.

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A sostegno dell’adottata pronuncia la Corte territoriale rilevava, per quanto interessa in questa sede: a) che l’appellante aveva espressamente prestato acquiescenza in ordine alla pronuncia di rigetto della domanda di risoluzione del contratto di appalto, sicché – una volta divenuta definitiva tale ultima pronuncia – era inammissibile la domanda di restituzione svolta da parte appellante con riferimento alle somme già versate in favore della (…), posto che l’obbligo di restituzione trovava origine proprio nella risoluzione del contratto stesso; b) che il recesso azionato, in mancanza di adeguate allegazioni a sostegno, risultava di per sé “idoneo” (recte inidoneo) a sostenere la detta azione restitutoria; c) che l’accertamento dell’inadempimento imputabile all’assuntore doveva essere ricondotto all’eccezione ex art. 1460 c.c., così riqualificando la contestazione che l’appaltante aveva svolto avverso la richiesta di adempimento di (…), sicché le domande risarcitorie della committente dovevano essere interpretate come rivolte a paralizzare la pretesa di pagamento dell’indennità avanzata dall’appaltatore ex art. 1667, ultimo comma, c.c.; d) che, d’altro canto, la comune responsabilità dell’appaltatore ai sensi degli artt. 1453 e 1455 c.c. non era esclusa dalle speciali disposizioni contenute negli artt. 1667 e 1668 c.c., poiché l’applicazione dei principi generali in materia di inadempimento contrattuale restava ferma nei casi in cui l’opera non fosse stata eseguita o non fosse stata completata o fosse stata realizzata in ritardo o non fosse stata consegnata, con la conseguenza che, in ordine al diritto risarcitorio fondato sulla generale responsabilità dell’appaltatore per inadempimento, il termine di prescrizione non era quello biennale di cui all’art. 1667 c.c.; e) che la denuncia dei vizi era stata tempestivamente effettuata ai sensi dell’art. 1667, ultimo comma, c.c.; f) che i rilievi circa la non applicabilità dei termini decadenziali ex art. 1667 c.c., nel caso di specie, in ragione della mancata ultimazione dell’opera, erano inconferenti, in quanto riferiti all’esercizio della garanzia ex art. 1668 c.c., estranea al devolutum; g) che le detrazioni spettanti in ragione dell’imperizia di cui si era resa responsabile la ditta appaltatrice ammontavano ad Euro 7.030,00, secondo le risultanze peritali, sicché il conseguente credito vantato dall’artefice dell’opera era pari ad Euro 12.460,00, oltre IVA; h) che la maggior somma pretesa dalla committente di Euro 77.554,96 muoveva dal presupposto che l’unica soluzione praticabile per eliminare le difformità rilevate consistesse nella demolizione di quanto realizzato, il che avrebbe richiesto l’esperimento di nuovi accertamenti tecnici, reputati superflui a fronte delle risultanze dell’A. T. P. e dell’elaborato peritale – con relativa integrazione, disposto nel corso del giudizio di primo grado; i) che, benché il comprovato ruolo di direttore dei lavori dell’Ot.Gi. postulasse che questi fosse tenuto a vigilare sull’esecuzione delle opere, la garanzia invocata a titolo contrattuale verso il direttore dei lavori era inammissibile e comunque infondata, posto che la committente “era tenuta a versare un compenso alla ditta appaltatrice quantificato tenendo già conto dei danni dalla stessa subiti”; l) che, in ordine al rapporto processuale tra la committente e l’appaltatrice, le spese del doppio grado di giudizio dovevano essere compensate, alla stregua della parziale soccombenza reciproca, mentre la residua metà doveva essere posta a carico della Pa.Br..

3. – Avverso la sentenza d’appello ha proposto Ricorso per Cassazione, affidato a dodici motivi, Pa.Br..

Hanno resistito con separati controricorsi la (…) S.r.l. e Ot.Gi..

4. – Il Pubblico Ministero ha formulato le sue conclusioni mediante memoria tempestivamente depositata, come trascritte in epigrafe.

La ricorrente ha presentato memoria illustrativa.

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RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza per mancanza dei requisiti di cui all’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., con motivazione apparente, in quanto caratterizzata, nell’enunciazione delle ragioni dell’asserita inammissibilità ed infondatezza delle domande restitutorie e risarcitorie proposte dalla Pa.Br. nei confronti della (…), da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili.

In proposito, l’istante obietta che la Corte di merito, nell’esaminare le domande restitutorie e risarcitorie proposte, avrebbe desunto l’inammissibilità della domanda restitutoria in ragione dell’intervenuta acquiescenza prestata alla pronuncia di rigetto, in primo grado, della domanda di risoluzione dell’appalto ed avrebbe poi contraddittoriamente qualificato la domanda risarcitoria come eccezione volta a paralizzare la pretesa di pagamento del corrispettivo in favore dell’appaltatore, con riferimento alla disciplina della garanzia per le difformità e i vizi, nonostante avesse rilevato che la domanda volta a far valere l’inadempimento contrattuale, nel caso di mancata ultimazione dell’opera appaltata, non soggiacesse a tale disciplina, neanche con riferimento alla previsione dei termini di prescrizione, in quanto l’opera non era completata all’epoca del recesso esercitato.

Aggiunge la ricorrente che le azioni restitutorie e risarcitorie per inadempimento contrattuale non sarebbero affatto correlate ai soli eventi risolutivi di cui agli artt. 1453 e ss. c.c. e che, per effetto dell’intervenuta cessazione del contratto prima del completamento dell’opera, a seguito del recesso esercitato ex art. 1671 c.c., la normativa applicabile alle azioni restitutorie e risarcitorie avrebbe dovuto essere quella generale in materia di inadempimento contrattuale, con l’applicazione del regime prescrizionale ordinario ex art. 2946 c.c., sicché sarebbe rimasta integra la facoltà dell’appaltante di chiedere la restituzione degli importi versati indebitamente e il risarcimento dei danni patiti in conseguenza di eventuali inadempimenti dell’appaltatore, indipendentemente dalla richiesta di risoluzione del contratto.

2. – Con il secondo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza per omessa pronuncia sul primo e sul sesto motivo d’appello proposti dalla Pa.Br., incentrati sull’eccezione di inapplicabilità, nel caso di specie, alle domande restitutorie e risarcitorie da essa proposte in via riconvenzionale nei confronti della (…), della normativa speciale di cui all’art. 1667 c.c., in considerazione della mancata ultimazione delle opere appaltate, e – in ogni caso -, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l’omesso esame circa il fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, costituito dalla mancata ultimazione delle opere appaltate al momento della cessazione del contratto avvenuta in conseguenza e per effetto del recesso unilaterale esercitato dalla committente ai sensi dell’art. 1671 c.c., con la conseguente inapplicabilità, al caso di specie, della normativa speciale di cui all’art. 1667 c.c., prevista nella sola ipotesi di totale compimento dell’opera.

Sostiene l’istante che non sarebbe stata tenuta in alcuna considerazione la richiesta di cui ai motivi di gravame articolati, in cui inequivocabilmente si sarebbe invocato un corretto inquadramento delle domande nell’ambito della normativa generale in tema di inadempimento contrattuale e del correlativo regime prescrizionale ordinario decennale, sicché sarebbe stato del tutto trascurato il mancato completamento delle opere al momento della cessazione del contratto di appalto, in ragione e per effetto del recesso unilaterale esercitato dalla committente.

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3. – Con il terzo motivo la ricorrente contesta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza per vizio di ultrapetizione, extrapetizione e/o infrapetizione, per avere la Corte territoriale ritenuto inammissibili le domande restitutorie e risarcitorie proposte dalla Pa.Br., in conseguenza e per effetto dell’intervenuta acquiescenza alla pronuncia di rigetto della domanda volta ad ottenere la pronuncia di risoluzione del contratto di appalto, e – in ogni caso -, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l’omesso esame circa il fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, costituito dalla mancata ultimazione delle opere appaltate al momento della cessazione del contratto intervenuta per effetto del recesso unilaterale esercitato dalla committente, ai sensi dell’art. 1671 c.c., con la conseguente violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione alla qualificazione delle domande restitutorie e risarcitorie proposte dalla Pa.Br. nei confronti della (…).

L’istante assume che la pronuncia sarebbe palesemente viziata, avendo il giudice del gravame pronunciato su domande diverse rispetto a quelle inequivocabilmente svolte ed identificate alla luce delle indicazioni desumibili dagli atti e delle espressioni utilizzate in corso di causa, con la conseguenza che la mancata considerazione della non ultimazione delle opere appaltate, al momento della cessazione del contratto, giammai avrebbe potuto essere sussunta nell’ambito di operatività dell’art. 1667, ultimo comma, c.c., norma applicabile nella sola ipotesi di avvenuto completamento dell’opera.

4. – Con il quarto motivo la ricorrente prospetta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la falsa applicazione, in relazione alle domande restitutorie e risarcitorie proposte in via riconvenzionale dalla Pa.Br. nei confronti della (…), delle disposizioni di cui all’art. 1667 c.c. in una fattispecie in cui sarebbe difettato il necessario presupposto del compimento dell’opera appaltata.

Opina l’istante che, nel caso di mancato completamento dell’opera, sarebbe stata preclusa l’applicabilità della disciplina speciale sulla garanzia per le difformità e i vizi.

5. – I primi quattro motivi – che possono essere scrutinati congiuntamente, in quanto avvinti da evidenti ragioni di connessione logica e giuridica – sono fondati nei termini che seguono.

5.1. – Ed invero, non resistono alle censure sollevate dalla ricorrente i seguenti asserti di cui alla pronuncia impugnata: 1) in primis, il fatto che, a fronte del rigetto della domanda di risoluzione per inadempimento – una volta accertato lo scioglimento del contratto per effetto dell’esercizio del diritto potestativo di recesso unilaterale della committente ex art. 1671 c.c. -, le domande di restituzione e di risarcimento danni non avrebbero potuto trovare una loro autonoma legittimazione, mentre, invece, tali domande (e, in specie, la prima) ben avrebbero potuto essere esaminate nel merito, quale corollario dell’accertato scioglimento del contratto conseguente allo ius poenitendi esercitato, sicché il recesso azionato ben avrebbe potuto supportare le azioni di restituzione e di reintegrazione del patrimonio in tesi leso; 2) in secondo luogo, l’affermazione a mente della quale la domanda risarcitoria sarebbe stata sottoposta alla disciplina di cui alla garanzia speciale per le difformità e i vizi dell’opera e ai conseguenti termini decadenziali e prescrizionali previsti dall’art. 1667 c.c., anziché all’ordinario termine prescrizionale ex art. 2946 c.c., posto che, a fronte della mancata ultimazione dell’opera, l’inadempimento contestato è attratto alla regolamentazione ordinaria e non a quella speciale.

Peraltro, la pronuncia, dopo aver sostenuto che il diritto risarcitorio fondato sulla generale responsabilità dell’appaltatore per inadempimento, nel caso di mancato completamento dell’opera, non si sarebbe prescritto nel termine biennale stabilito dall’art. 1667 c.c., ha poi contraddittoriamente e incomprensibilmente ritenuto che la pretesa riparatoria si sarebbe giustificata solo alla stregua della previsione speciale sulla garanzia per i vizi, quale eccezione tesa a paralizzare la pretesa dell’assuntore di pagamento del compenso indennitario correlato al recesso. Cosicché ha proceduto, d’ufficio, a convertire la domanda riconvenzionale spiegata in mera eccezione, in spregio alle richieste della committente.

5.2. – Ora, per un verso, quanto al rapporto tra recesso e risoluzione per inadempimento, il committente non può invocare la risoluzione giudiziale del contratto dopo l’esercizio del diritto di recesso, che importa lo scioglimento, con effetti ex nunc, dell’appalto. Segnatamente il diritto potestativo riconosciuto al committente di risolvere unilateralmente l’appalto può essere esercitato ad nutum in qualunque momento posteriore alla conclusione del contratto (purché prima dell’ultimazione dell’opera) e può essere giustificato anche dalla sfiducia verso l’appaltatore per fatti di inadempimento. Ne consegue che, in caso di recesso, il contratto si scioglie per l’iniziativa unilaterale dell’appaltante, senza necessità di indagini sull’importanza e sulla gravità dell’inadempimento (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5368 del 07/03/2018; Sez. 2, Sentenza n. 11028 del 26/07/2002; Sez. 2, Sentenza n. 6814 del 13/07/1998), le quali sono rilevanti soltanto quando il committente abbia preteso anche il risarcimento del danno dall’appaltatore per l’inadempimento in cui questi fosse già incorso al momento del recesso.

Il diritto unilaterale di recesso da parte del committente non preclude la sua facoltà di invocare la restituzione degli acconti versati

Pertanto, al committente che manifesta la sua volontà di recedere è preclusa la proposizione della domanda di risoluzione per inadempimento dell’appaltatore, ivi compreso l’inadempimento riconducibile a difetti della parte di opera già ultimata, poiché il rapporto è ormai venuto meno per altro titolo, ossia a seguito del recesso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5237 del 29/07/1983; contra Sez. 1, Sentenza n. 1795 del 12 luglio 1943).

Simmetricamente, il committente che chiede la risoluzione non può poi invocare il recesso, avendo, con la domanda di risoluzione, innescato un procedimento di valutazione comparativa dei comportamenti delle parti non più arrestabile ad libitum mediante il recesso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7649 del 05/09/1994). Nell’appalto, infatti, la domanda di risoluzione giudiziale del contratto per inadempimento è diretta ad ottenere una pronuncia di carattere costitutivo, idonea a far retroagire la cessazione degli effetti al momento della stipulazione del contratto e fondata sulla commissione di un “illecito” negoziale. È principio consolidato, in proposito, che – fatte salve le ipotesi in cui le prestazioni in esso dedotte attengano a servizi o manutenzioni periodiche – l’appalto non può considerarsi un contratto ad esecuzione continuata o periodica, non sottraendosi pertanto alla regola generale, dettata dall’art. 1458 c.c., della piena retroattività degli effetti della risoluzione (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 22065 del 12/07/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 4225 del 09/02/2022; Sez. 2, Sentenza n. 15705 del 21/06/2013; Sez. 2, Sentenza n. 8247 del 06/04/2009). Si tratta, dunque, non già di un contratto di durata in senso tecnico ma a mera esecuzione prolungata (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 21230 del 19/07/2023; Sez. 2, Ordinanza n. 35403 del 01/12/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 24314 del 05/08/2022). Per converso, il recesso rappresenta l’esercizio di una facoltà consentita dalla legge, che determina lo scioglimento del negozio solo dal momento di esternazione di detta facoltà. Con il corollario che l’accoglimento della risoluzione inibisce l’esame delle altre cause di scioglimento del medesimo rapporto contrattuale.

Ne consegue, ulteriormente, che tra dette domande non vi è rapporto di continenza, sicché possono essere proposte nello stesso giudizio in via subordinata, dovendo il giudice, in caso di rigetto della domanda di risoluzione, esaminare se sia fondata quella con cui si invoca la declaratoria di accertamento del legittimo esercizio del diritto di recesso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7878 del 06/04/2011; Sez. 3, Sentenza n. 13079 del 14/07/2004).

5.3. – Nondimeno, per altro verso, benché l’esercizio del recesso impedisca al committente di invocare, in seconda battuta, la risoluzione per inadempimento dell’appalto, la circostanza che l’appaltante si sia avvalso dello ius poenitendi non impedisce di esercitare, in favore dello stesso appaltante, il diritto alla restituzione degli acconti versati e al risarcimento dei danni che sono derivati dall’inadempimento dell’assuntore.

La formulazione di un’istanza di restituzione dell’acconto versato e la riserva di chiedere spese e danni non sono, infatti, incompatibili con la domanda di recesso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6972 del 27/03/2006; Sez. 2, Sentenza n. 11642 del 29/07/2003; Sez. 2, Sentenza n. 77 del 08/01/2003; Sez. 2, Sentenza n. 2236 del 30/03/1985; Sez. 2, Sentenza n. 2055 del 28/03/1980). Piuttosto, dei danni subiti dall’appaltante per pregresse inadempienze dell’appaltatore si può tenere conto in sede di liquidazione dell’indennizzo spettante all’assuntore, all’esito del recesso esercitato dall’appaltante. In specie, il committente può fare valere tali danni allo scopo di ottenere una proporzionale riduzione dell’indennizzo da questi dovuto, anche se li conosceva al momento del recesso.

Aderendo a tale impostazione, questa Corte ha sostenuto che l’esercizio del diritto di recesso riservato al committente non priva il recedente del diritto di richiedere il risarcimento per l’inadempimento in cui l’appaltatore sia già incorso al momento del recesso, anche ove esso sia imputabile a difformità o vizi dell’opera (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1491 del 18/04/1975; Sez. 1, Sentenza n. 1279 del 07/05/1974; Sez. 3, Sentenza n. 3666 del 16/12/1971; Sez. 1, Sentenza n. 1766 del 10/06/1959).

Sicché il rigetto definitivo della domanda di risoluzione – come accaduto nel caso di specie, in difetto di alcuna contestazione, in sede di gravame, della sentenza del Tribunale che aveva disatteso detta impugnativa -, all’esito dell’accertamento dell’intervenuto scioglimento dell’appalto in conseguenza dell’esercizio del diritto potestativo di recesso ex art. 1671 c.c., non vietava affatto al committente di far valere le correlate domande restitutorie e risarcitorie, in ragione del contestato inadempimento dell’appaltatore.

E, in aggiunta, la proponibilità della domanda di risarcimento danni da parte del committente, in caso di inadempimento dell’appaltatore in corso d’opera, non è ostacolata dal mancato esperimento dello speciale rimedio previsto dall’art. 1662, secondo comma, c.c., in ordine alle obbligazioni dell’appaltatore in corso di attuazione. Tale norma, infatti, prevede non già un onere, ma una facoltà, il cui esercizio è esclusivamente finalizzato a provocare l’automatica risoluzione del rapporto conseguente all’inutile decorso del termine fissato con la diffida a regolarizzare le opere già eseguite (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9064 del 27/08/1993; Sez. 2, Sentenza n. 109 del 09/01/1979; Sez. 2, Sentenza n. 5726 del 05/12/1978). Ne discende che il mancato esercizio di tale facoltà non impedisce, una volta operato il recesso, la proposizione della domanda risarcitoria per l’inadempimento già verificatosi (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11642 del 29/07/2003).

Il diritto unilaterale di recesso da parte del committente non preclude la sua facoltà di invocare la restituzione degli acconti versati

5.4. – Orbene, e in secondo luogo, tali domande restitutorie e risarcitorie – contrariamente all’assunto della pronuncia impugnata – non sottostanno alla disciplina speciale sulla garanzia per i vizi e al conseguente regime decadenziale e prescrizionale ex art. 1667 c.c..

Infatti, la responsabilità speciale per difformità o vizi, come disciplinata dal legislatore, non è invocabile – ed è invocabile piuttosto la generale responsabilità per inadempimento contrattuale ex art. 1453 c.c. – nel caso di mancata ultimazione dei lavori, anche se l’opera, per la parte eseguita, risulti difforme o viziata, o di rifiuto della consegna o di ritardo nella consegna rispetto al termine pattuito.

In base a tale ricostruzione, nel caso in cui l’appaltatore non abbia portato a termine l’esecuzione dell’opera commissionata, restando inadempiente all’obbligazione assunta con il contratto, la disciplina applicabile nei suoi confronti è quella generale in materia di inadempimento contrattuale, mentre la speciale garanzia prevista dagli artt. 1667 e 1668 c.c. trova applicazione nella diversa ipotesi in cui l’opera sia stata portata a termine, ma presenti dei difetti (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 7041 del 09/03/2023; Sez. 2, Sentenza n. 35520 del 02/12/2022; Sez. 1, Ordinanza n. 4511 del 14/02/2019; Sez. 3, Ordinanza n. 9198 del 13/04/2018; Sez. 2, Sentenza n. 1186 del 22/01/2015; Sez. 2, Sentenza n. 13983 del 24/06/2011; Sez. 3, Sentenza n. 8103 del 06/04/2006; Sez. 2, Sentenza n. 3302 del 15/02/2006; Sez. 2, Sentenza n. 9849 del 19/06/2003; Sez. 2, Sentenza n. 9863 del 27/07/2000; Sez. 3, Sentenza n. 14239 del 17/12/1999; Sez. 2, Sentenza n. 446 del 19/01/1999; Sez. 2, Sentenza n. 10255 del 16/10/1998; Sez. 2, Sentenza n. 7364 del 09/08/1996; Sez. 2, Sentenza n. 10772 del 16/10/1995; Sez. 2, Sentenza n. 11950 del 15/12/1990; Sez. 2, Sentenza n. 49 del 11/01/1988; Sez. 2, Sentenza n. 2573 del 12/04/1983).

Da ciò deriva che, anche ove il rapporto si sia sciolto sulla scorta dello ius poenitendi attuato dal committente, la pretesa di quest’ultimo di ottenere la riparazione dei danni conseguenti a fatti di inadempimento addebitati all’assuntore e accaduti in corso d’opera, prima che fosse fatto valere il recesso, ricade nella cornice normativa generale di cui all’art. 1453 c.c., sicché non trova applicazione la disciplina speciale sulla garanzia per le difformità e i vizi, anche con riferimento ai termini di decadenza e prescrizione.

Ed invero, ontologicamente l’integrativa garanzia speciale per le difformità e i vizi della “opera” appaltata postula la definitività della distonia rispetto alle prescrizioni pattuite o alle regole tecniche cui essa avrebbe dovuto conformarsi, ossia la realizzazione e consegna dell’opera commissionata, mentre, a fronte di “difformità” o “vizi” rilevati in corso d’opera, quali mere lacune in procedendo – ossia non ancora definitive e, quindi, astrattamente sanabili nell’ipotetico prosieguo dell’esecuzione -, il committente può avvalersi delle facoltà di cui all’art. 1662, secondo comma, c.c. e, ove si cristallizzi la definitiva interruzione dell’appalto, indipendentemente dall’imputazione al committente o all’assuntore di detta interruzione, può essere invocata la tutela riparatoria secondo il regime ordinario (Sez. 2, Sentenza n. 6931 del 22/03/2007; Sez. 2, Sentenza n. 3239 del 27/03/1998).

Tanto perché, ove l’appaltatore non proceda secondo le prescrizioni contrattuali e le regole dell’arte, a fronte di un’opera ancora in itinere e di lavori ancora in progress, non può essere effettuata, in quel momento storico, alcuna prognosi sul completamento e sulla perfetta realizzazione alla scadenza contrattuale, salvo che, a causa dell’inadempimento dell’appaltatore, il compimento dell’appalto venga ritenuto irrimediabilmente compromesso e, dunque, siano integrati irregolarità o inconvenienti in corso d’opera ai quali l’artefice non

possa più rimediare, attesa la loro irreparabilità e definitività, potendo, in tal caso, invocarsi, non già il regime della garanzia speciale per le difformità e i vizi, ma il regime ordinario della risoluzione per inadempimento (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5828 del 14/06/1990; Sez. 2, Sentenza n. 3465 del 18/05/1988; Sez. 2, Sentenza n. 2236 del 30/03/1985; Sez. 3, Sentenza n. 936 del 02/04/1974; Sez. 1, Sentenza n. 275 del 05/02/1971).

Quindi, venuto meno il rapporto fiduciario tra le parti dell’appalto, per effetto dell’esercizio del diritto potestativo di recesso dell’appaltante, nessuna equiparazione può essere disposta tra completamento dell’opera e definitiva interruzione dei lavori, cui non si applica la disciplina speciale sulla garanzia per i vizi in ordine agli inadempimenti contestati dal committente per fatti verificatisi prima dell’attuazione dello ius poenitendi.

Per effetto dei principi esposti, il giudice del rinvio dovrà rivalutare l’ammissibilità e la rilevanza delle domande di ripetizione e di riparazione, indipendentemente dal rigetto della pretesa di risoluzione e fuori dal contesto della garanzia speciale per le difformità e i vizi dell’opera appaltata, alla stregua delle direttrici in precedenza emarginate.

6. – Con il quinto motivo la ricorrente assume, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza per mancanza dei requisiti di cui all’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., con motivazione apparente, in quanto caratterizzata, nell’enunciazione delle ragioni dell’asserita condivisibilità delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado, da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili.

L’istante precisa che la Corte distrettuale non avrebbe tenuto conto delle anomalie e dei vizi degli accertamenti tecnici evidenziati con il terzo motivo di appello, da cui si sarebbe desunto che l’impresa appaltatrice, in assenza di controllo da parte della committente e nella latitanza del direttore dei lavori, aveva operato sull’immobile oggetto di restauro in termini del tutto arbitrari: – con l’aumento di cubatura determinato dall’indebita sopraelevazione del fabbricato in misura eccedente di circa un metro rispetto al progetto presentato con la D. I. A.; – con la mancata realizzazione dei solai di copertura e calpestio in latero – cemento; – con la mancata realizzazione dei cordoli in cemento armato per l’appoggio ed ancoraggio perimetrale dei solai in latero – cemento; – con la difforme realizzazione del cordolo in cemento armato del nuovo corpo di fabbrica nel vano ascensore; tanto da rendere l’immobile non commerciabile.

7. – Con il sesto motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l’omesso esame circa il fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, costituito dal mancato rispetto, nella realizzazione delle opere strutturali, della normativa antisismica, con la conseguente violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in tema di disponibilità e valutazione delle risultanze probatorie.

8. – Con il settimo motivo la ricorrente rileva, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l’omesso esame circa il fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, costituito dal mancato rispetto, nella realizzazione delle opere di ristrutturazione, della normativa urbanistico – edilizia, con la conseguente violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in tema di disponibilità e valutazione delle risultanze probatorie.

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9. – I motivi dal quinto al settimo sono assorbiti dall’accoglimento dei primi quattro motivi, in quanto da essi dipendenti.

Precisamente, la necessità di rivalutazione delle domande restitutorie e risarcitorie, alla luce delle direttrici indicate, richiede un rinnovato esame delle risultanze probatorie di cui, con le richiamate doglianze, si contesta il debito riscontro.

10. – Con l’ottavo motivo la ricorrente si duole, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., della nullità della sentenza per mancanza dei requisiti di cui all’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., con motivazione apparente, in quanto caratterizzata, nell’enunciazione delle ragioni dell’asserita insussistenza dei presupposti per un coinvolgimento dell’ingegner Ot.Gi., in relazione alle domande restitutorie e risarcitorie proposte nei confronti del direttore dei lavori, da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili.

Sul punto la ricorrente evidenzia che i rapporti tra i soggetti coinvolti nella vicenda in esame sarebbero del tutto distinti e autonomamente regolamentati: da una parte, attraverso il contratto di appalto, atto a disciplinare i rapporti tra committente e appaltatore; dall’altra, mediante il contratto di prestazione d’opera intellettuale, atto a regolamentare i rapporti tra il conferente dell’incarico di direzione dei lavori e il direttore dei lavori nominato, deputato a prestare la propria attività professionale vigilando sulla loro esecuzione; sicché, sulla base di tali presupposti, avrebbe dovuto essere separatamente ponderata la corresponsabilità del direttore dei lavori.

Tra l’altro, la motivazione impugnata sarebbe affetta da una incoerenza irriducibile, nella parte in cui, dopo aver riconosciuto l’omessa vigilanza del direttore dei lavori, la Corte territoriale avrebbe escluso l’integrazione dei presupposti per il coinvolgimento del direttore dei lavori nella responsabilità in ordine alle domande restitutorie e risarcitorie spiegate.

11. – Il nono motivo investe, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l’omesso esame circa il fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, costituito dall’accertamento dall’errato inadempimento dell’ingegner Ot.Gi. alle obbligazioni incombenti sul medesimo, in qualità di direttore dei lavori, e della relativa responsabilità a mente degli artt. 2230 e ss. c.c..

Al riguardo, l’istante osserva che la responsabilità del direttore dei lavori, benché ritenuta sussistente per effetto dell’accertata violazione delle norme in materia di responsabilità professionale, sarebbe rimasta priva di considerazione, con accertamento limitato al piano meramente astratto, perché considerata come indissolubilmente collegata alle sorti delle domande proposte nei confronti della ditta appaltatrice.

12. – Il decimo motivo concerne, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la falsa applicazione, in relazione alle domande restitutorie e risarcitorie proposte dalla Pa.Br. nei confronti dell’Ot.Gi., delle disposizioni di cui agli artt. 1176 e ss. c.c., in correlazione alla normativa di cui agli artt. 2230 e ss. c.c., in materia di responsabilità del prestatore d’opera intellettuale.

13. – L’ottava, nona e decima censura – che possono essere affrontate congiuntamente, in quanto connesse logicamente e giuridicamente – sono fondate nei termini che seguono.

La pronuncia impugnata ha rilevato che, benché il comprovato ruolo di direttore dei lavori dell’Ot.Gi. postulasse che questi fosse tenuto a vigilare sull’esecuzione delle opere, la garanzia invocata a titolo contrattuale verso il direttore dei lavori sarebbe stata inammissibile e comunque infondata, posto che la committente “era tenuta a versare un compenso alla ditta appaltatrice quantificato tenendo già conto dei danni dalla stessa subiti”.

In questa prospettiva, del tutto apodittica, è stata omessa ogni verifica sulla portata in concreto dell’inadempimento addebitato al prestatore d’opera intellettuale, con la conseguente mancata applicazione dell’art. 1176 c.c. quanto alla valutazione della sua corresponsabilità professionale ai sensi degli artt. 2230 e ss. c.c..

Precisamente i compiti del direttore dei lavori sono essenzialmente attinenti al controllo sull’attuazione dell’appalto, che l’appaltante ritiene di non poter svolgere di persona, sicché il direttore dei lavori ha il dovere, attesa la connotazione prettamente tecnica della sua obbligazione, di vigilare affinché l’opera sia eseguita in maniera conforme al regolamento contrattuale, al progetto, al capitolato e alle regole della buona tecnica durante tutto il corso delle opere medesime, e non già solo nel periodo successivo all’ultimazione dei lavori (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 14456 del 24/05/2023; Sez. 2, Ordinanza n. 7336 del 14/03/2019; Sez. 2, Sentenza n. 18285 del 19/09/2016; Sez. 2, Sentenza n. 8700 del 03/05/2016; Sez. 3, Sentenza n. 20557 del 30/09/2014).

E, con riferimento alla responsabilità conseguente a difformità o vizi dell’opera appaltata, il direttore dei lavori, per conto del committente, presta un’opera professionale in esecuzione di un’obbligazione di mezzi e non di risultati. Tuttavia, essendo chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l’impiego di peculiari competenze tecniche, deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare, relativamente all’opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente – preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della diligentia quam in concreto.

Rientrano, pertanto, nelle obbligazioni del direttore dei lavori l’accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi. In siffatta dimensione, non si sottrae a responsabilità il professionista che ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e di riferirne al committente; in particolare, l’attività del direttore dei lavori per conto del committente si concreta nell’alta sorveglianza delle opere, che, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere né il compimento di operazioni di natura elementare, comporta il controllo della realizzazione dell’opera nelle sue varie fasi e, dunque, l’obbligo del professionista di verificare, attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell’impresa, da attuarsi in relazione a ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell’arte e la corrispondenza dei materiali impiegati (Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 15718 del 04/06/2021; Sez. 2, Ordinanza n. 2913 del 07/02/2020; Sez. 2, Sentenza n. 10728 del 24/04/2008).

13.1. – All’esito del riconoscimento della responsabilità del direttore dei lavori per mancata vigilanza sull’esecuzione delle opere, avrebbe dovuto essere accertata la sua incidenza in termini eziologici sulla causazione del danno finale.

Infatti, in tema di contratto di appalto, il vincolo di responsabilità solidale fra l’appaltatore e il direttore dei lavori, i cui rispettivi inadempimenti abbiano concorso in modo efficiente a produrre il danno risentito dal committente, trova fondamento nel principio di cui all’art. 2055 c.c., il quale, anche se dettato in tema di responsabilità extracontrattuale, si estende all’ipotesi in cui taluno degli autori del danno debba rispondere a titolo di responsabilità contrattuale (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18289 del 03/09/2020; Sez. 2, Ordinanza n. 29218 del 06/12/2017; Sez. 2, Sentenza n. 3651 del 24/02/2016; Sez. 2, Sentenza n. 14650 del 27/08/2012; Sez. 2, Sentenza n. 20294 del 14/10/2004; Sez. 2, Sentenza n. 972 del 28/01/2000).

E ciò indipendentemente dalla compensazione del credito dell’appaltatore, a titolo di indennità spettante quale conseguenza del recesso, con il credito vantato dall’appaltante a titolo restitutorio e risarcitorio.

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14. – L’undicesimo motivo riguarda, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione delle norme in materia di regolamentazione delle spese di lite di cui agli artt. 91 e ss. c.p.c., in relazione alla condanna della Pa.Br. alla rifusione del 50% delle spese di lite in favore della (…) e all’omessa pronuncia sulle spese di consulenza tecnica d’ufficio.

15. – Il dodicesimo motivo attiene, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., alla violazione e/o falsa applicazione delle norme in materia di regolamentazione delle spese di lite di cui agli artt. (91) e ss. c.p.c., in relazione alla condanna della Pa.Br. alla rifusione delle spese di lite in favore dell’Ot.Gi..

16. – L’undicesimo e il dodicesimo motivo sulla regolamentazione delle spese di lite sono assorbiti dall’accoglimento dei precedenti motivi indicati, a fronte della caducazione dei capi sulla regolamentazione delle spese in forza della cassazione della pronuncia impugnata ex art. 336, primo comma, c.p.c..

17. – In definitiva, devono trovare accoglimento, nei sensi di cui in motivazione, il primo, secondo, terzo, quarto, ottavo, nono e decimo motivo del ricorso, con assorbimento dei restanti motivi.

La sentenza impugnata va, dunque, cassata, limitatamente ai motivi accolti, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che deciderà uniformandosi ai seguenti principi di diritto e tenendo conto dei rilievi svolti, provvedendo anche alla pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione:

“In tema di appalto, qualora il committente eserciti il diritto unilaterale di recesso ex art. 1671 c.c., non è preclusa la sua facoltà di invocare la restituzione degli acconti versati e il risarcimento dei danni subiti per condotte di inadempimento verificatesi in corso d’opera e addebitabili all’appaltatore e, in tale evenienza, la contestazione di difformità e vizi, in ordine alla parte di opera eseguita, non ricade nella disciplina della garanzia per i vizi, che esige necessariamente il totale compimento dell’opera”.

“All’esito dell’accertamento della responsabilità professionale del direttore dei lavori per omessa vigilanza sull’attuazione dei lavori appaltati, questi risponde, in solido, con l’appaltatore dei danni subiti dal committente, ove i rispettivi inadempimenti abbiano concorso in modo efficiente a produrre il danno risentito dall’appaltante”.

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P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione

accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il primo, secondo, terzo, quarto, ottavo, nono e decimo motivo del ricorso, dichiara assorbiti i rimanenti motivi, cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, in data 5 dicembre 2023.

Depositato in Cancelleria l’8 gennaio 2024.

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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