Corte di Cassazione, sezione tributaria, Ordinanza 30 gennaio 2019, n. 2634.
La massima estrapolata:
In tema di determinazione del reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 53, comma 2, del d.P.R. n. 917 del 1986, applicabile “ratione temporis”, i beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività d’impresa vanno compresi tra i ricavi se destinati al consumo personale o familiare dell’imprenditore.
Ordinanza 30 gennaio 2019, n. 2634
Data udienza 14 dicembre 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente
Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere
Dott. CATALDI Michele – Consigliere
Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26358/2012 R.G. proposto da:
(OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avv. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS).
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato.
– controricorrente, ricorrente incidentale –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione n. 32, n. 62/32/12, pronunciata il 23/11/2011, depositata il 30/03/2012.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 14 dicembre 2018 dal Consigliere Riccardo Guida.
RILEVATO
che:
1. con ricorso alla CTP di Milano, (OMISSIS), titolare di un ristorante-pizzeria, nel comune di Boffalora Ticino, impugnava l’avviso di accertamento IRPEF, IRAP, IVA, con, il quale l’Agenzia delle entrate rettificava in aumento il suo reddito d’impresa, per l’anno d’imposta 2004, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 39, comma 1, lettera d), della L. n. 427 del 1993, articolo 62 sexies e deduceva l’illegittimita’ del metodo d’accertamento applicato anche a causa di alcuni errori, di fatto e di diritto, dell’atto impositivo;
la CTP, con sentenza n. 318/2010, in parziale accoglimento del ricorso, abbatteva i ricavi, riconoscendo una percentuale di “sfrido” (5%) in relazione alla preparazione dei primi piatti di pasta e di pizze e, pertanto, demandava all’Agenzia il ricalcolo delle imposte e degli accessori;
2. avverso tale decisione hanno proposto appello sia il contribuente che l’Agenzia e la CTR della Lombardia, con la sentenza in epigrafe, da un lato, in parziale accoglimento dell’appello principale della parte privata, ha decurtato il reddito d’impresa di Euro 5.000,00, a titolo di “autoconsumo”; dall’altro, ha accolto l’appello incidentale dell’Agenzia, confermando, per intero, le riprese fiscali con riferimento alle somministrazioni di primi piatti di pasta e di pizze;
quanto all’appello principale del contribuente, la CTR ha riconosciuto che l’accertamento del reddito non dichiarato poggiava su elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti e che non era incentrato sugli aspetti contestati dal contribuente (ubicazione del ristorante-pizzeria nel centro di Boffalora Ticino, vocazione commerciale dell’area, affluenza di clientela ed avviamento), ma sul raffronto tra le fatture di acquisto delle materie prime, le rimanenze iniziali e finali del periodo d’imposta, da un lato, ed il reimpiego di tali materie prime per la preparazione degli alimenti, dall’altro; ha escluso, inoltre, che il contribuente, gravato del relativo onere probatorio, avesse dimostrato gli asseriti errori dell’azione accertatrice, con specifico riferimento allo “sfrido” di alcuni prodotti, e alla pretesa discordanza dell’effettivo prezzo unitario delle bottiglie d’acqua minerale rispetto a quello considerato dai verificatori; ancora, ha affermato che la cospicua divergenza tra i ricavi dichiarati (Euro 26.145,00) e il costo delle merci (Euro 45.075,00), di cui il contribuente non aveva dato giustificazione, era sufficiente, di per se’, a confermare la legittimita’ dell’imposizione fiscale; infine, ha ritenuto che l’Ufficio dovesse ridurre i ricavi stimati in ragione del c.d. “autoconsumo” dei pasti da parte del contribuente, per un ammontare complessivo, nell’anno 2004, pari a Euro 5.000,00;
quanto all’appello incidentale dell’Agenzia, la CTR ha condiviso la critica mossa dall’Ufficio alla sentenza di primo grado di avere annullato parzialmente l’accertamento fiscale, riconoscendo una percentuale di sfrido del 5% sui primi piatti di pasta e sulle pizze, benche’ l’imprenditore non avesse fornito la prova dello sfrido e della relativa percentuale;
3. il contribuente ricorre per la cassazione, sulla base di un (complesso) motivo; l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso e propone ricorso incidentale, affidato ad un motivo.
CONSIDERATO
che:
1. con l’unico motivo di ricorso principale, rubricato: “Violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c.; violazione e mancata applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, articolo 39, comma 1, lettera d); violazione e mancata applicazione della L. 29 ottobre 1993, n. 427, articolo 62-sexies; denunzia a sensi del Decreto Legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, articolo 62 e articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5”, il ricorrente assume di avere contestato alcuni errori commessi dall’Amministrazione finanziaria nella ricostruzione dei ricavi (da somministrazione di primi piatti (pasta), secondi piatti (pesce), pizze, caffe’, gelati, birre alla spina, bibite alla spina), anche perche’, nel computo dei piatti somministrati, l’Organo di controllo non aveva tenuto conto del c.d. “autoconsumo” e del “menu a prezzo fisso”;
per un verso, imputa alla CTR di avere omesso di valutare “uno specifico punto della controversia”, poiche’ si sarebbe soffermata solo sullo “sfrido” delle materie prime, senza considerare che il contribuente aveva criticato non solo la resa (lo “sfrido”), ma anche le quantita’ delle materie prime, come calcolate dall’Ufficio;
per altro verso, le addebita di avere contra legem posto a carico del contribuente l’onere cti dimostrare la quantita’ di ingredienti (per esempio: pasta) usata per ogni piatto e l’esatta percentuale dello “sfrido”;
lamenta, infine, che il giudice d’appello avrebbe omesso di pronunciare su uno o piu’ punti specifici della controversia (dettagliatamente enunciati in ricorso), ossia non si sarebbe soffermato, per esempio, sul fatto che: “la quantita’ di mozzarella acquistata secondo l’Agenzia e’ erroneamente piu’ alta rispetto a quella reale ricavata dalle fatture di acquisto.” (cfr. pag. 31 del ricorso);
1.1. il complesso motivo e’ in parte inammissibile e in parte infondato;
1.1.1. dal primo punto di vista (inammissibilita’ del motivo), e’ il caso di richiamare il costante e condivisibile indirizzo della Corte, per il quale: “Il giudizio di cassazione e’ un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassativita’ e della specificita’ ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’articolo 360 c.p.c. (…)”; (Cass. 14/05/2018, n. 11603);
cio’ chiarito, sul piano dei principi, osserva la Corte che l’ultimo dei tre profili di doglianza sollevati dal ricorrente – quello dell’omessa pronuncia su punti specifici della controversia – non e’ riconducibile ad alcuno dei due mezzi d’impugnazione proposti, non rientrando ne’ nel paradigma dell’error in judicando, di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ne’ nel paradigma del vizio di motivazione, di cui al medesimo comma, n. 5;
1.1.2. dal secondo punto di vista (infondatezza del motivo), con riferimento alla censura di violazione e falsa applicazione delle norme sulla distribuzione, tra le parti, dell’onere della prova, in caso di ricostruzione indiretta del reddito d’impresa secondo il metodo analitico-induttivo, e’ dato rilevare che, contrariamente a quanto asserisce il ricorrente, la CTR ha fatto corretta applicazione della regula iuris, laddove, innanzitutto, ha affermato che l’accertamento fiscale poggiava su solide basi fattuali dettagliatamente elencate dalla Commissione lombarda – costituenti presunzioni gravi, precise e concordanti, dell’esistenza di redditi non dichiarati, a cominciare dall’antieconomicita’ dell’impresa (circostanza, come si esprime la sentenza – a pag. 5 – “non spiegata, ne’ giustificata dal contribuente”) che dichiarava costi (Euro 45.075,00) quasi doppi rispetto ai ricavi apparenti (Euro 26.145,00);
sempre nel rigoroso rispetto del paradigma normativo della ripartizione (tra i litiganti) dell’onere della prova, la CTR, con un accertamento di fatto ad essa insindacabilmente riservato, in secondo luogo, ha negato che il contribuente avesse dimostrato la ricorrenza di alcuni elementi (come, per esempio, l’esistenza e, a maggior ragione, la percentuale di “sfrido” delle materie prime), capaci di ridimensionare la ricostruzione presuntiva dei ricavi compiuta dall’Organo di controllo;
1.1.3. con riferimento al dedotto vizio di motivazione, invece, occorre premettere che, per giurisprudenza radicata della Corte, l’apprezzamento dei fatti e delle prove e’ attribuzione esclusiva del giudice del merito, cui spetta il potere d’individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilita’ e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova;
tale giudizio, poi, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e’ censurabile, come vizio di motivazione, solo se, nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile un’obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, in guisa da non consentire l’individuazione della “ratio decidendi”, ossia l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione adottata (Cass. 15/05/2013, n. 11622);
nel caso di specie, il ricorrente si e’ limitato a dissentire dall’apprezzamento di fatto compiuto dalla CTR, adducendo una minuziosa serie di circostanze ed elementi di fatto che, tuttavia, non sono idonei ad indebolire o inficiare la motivazione della sentenza impugnata, che appare esente da lacune o aporie logiche;
2. con l’unico motivo di ricorso incidentale, l’Ufficio addebita alla CTR, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’articolo 85, secondo comma, del TUIR, per avere accolto parzialmente l’appello del contribuente, ritenendo che l’autoconsumo dei pasti (da parte dell’imprenditore) dovesse essere portato a “deconto dall’ammontare dei ricavi” (per un totale, nell’anno d’imposta verificato, di Euro 5.000,00), senza considerare che l’articolo 85 cit. stabilisce che “si comprende tra i ricavi il valore normale dei beni di cui al comma 1 assegnati ai soci o destinati a finalita’ estranee all’esercizio dell’impresa”, il che significa che i beni oggetto di autoconsumo, rientranti nell’attivita’ dell’impresa, generano dei ricavi conseguiti a valore normale;
2.1. il motivo e’ fondato;
con riferimento al tema dell’idoneita’ presuntiva di maggiore reddito dell’impiego di materie prime per la preparazione di pasti consumati direttamente dall’imprenditore e/o dai suoi famigliari (c.d. “autoconsumo”), e’ fermo l’orientamento della Corte, cui il Collegio intende dare continuita’, per il quale: “ai sensi del secondo comma del Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, articolo 53 (attuale articolo 85 TUIR) “si comprende… tra i ricavi il valore normale dei beni di cui al comma 1” (ovverosia il valore normale dei “beni… alla cui produzione o al cui scambio e’ diretta l’attivita’ dell’impresa”) “destinati al consumo personale o familiare dell’imprenditore”; (da tale disposizione) si ricava che i “beni… alla cui produzione o al cui scambio e’ diretta l’attivita’ dell’impresa” vanno compresi tra i “ricavi” se destinati “al consumo personale o familiare dell’imprenditore” (…) con la precisazione che, nel caso di “consumo personale o familiare dell’imprenditore”, per i beni consumati da queste persone deve essere considerato il loro “valore normale” (diverso da quello costituente “corrispettivo” di quegli stessi “beni” in caso di cessione a terzi);” (Cass. 29/09/2005, n. 19077; in senso conforme: 24/05/2006, n. 12329; 20/10/2016, n. 21290);
nella presente controversia tributaria, la Commissione lombarda, discostandosi da tale principio di diritto, ha erroneamente scomputato dal reddito accertato dall’Ufficio, sulla base di una ricostruzione indiretta del volume d’affari e dei ricavi del ristorante-pizzeria, il valore dei pasti consumati quotidianamente dal suo titolare (nell’esercizio 2004), per un ammontare di Euro 5.000,00;
3. in definitiva, rigettato il ricorso principale ed accolto il ricorso incidentale, la sentenza e’ cassata, con rinvio alla CTR, cui e’ demandato di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimita’.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso principale; accoglie il ricorso incidentale; cassa la sentenza in relazione al ricorso incidentale accolto; rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimita’.
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