Dare-avere senza compensazione propria necessaria

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|9 ottobre 2024| n. 26365.

Dare-avere senza compensazione propria necessaria

Massima: Quando tra due soggetti i rispettivi debiti e crediti hanno origine da un unico – ancorché complesso – rapporto, non vi è luogo ad una ipotesi di compensazione “propria”, bensì ad un mero accertamento di dare e avere, con elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza, cui il giudice può procedere senza che siano necessarie l’eccezione di parte o la domanda riconvenzionale. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, con riferimento ad un contratto di leasing, risolto per inadempimento, nel condannare il concedente alla restituzione, in favore dell’utilizzatore, delle rate riscosse e quest’ultimo, a versare al primo l’equo compenso per l’uso della cosa, ex art. 1526 c.c., non aveva considerato che le dette pretese costituivano mere poste contabili, derivanti da un unico rapporto).

 

Ordinanza|9 ottobre 2024| n. 26365. Dare-avere senza compensazione propria necessaria

Data udienza 14 maggio 2024

Integrale

Tag/parola chiave: Obbligazioni in genere – Estinzione dell’obbligazione – Compensazione – Casi in cui la compensazione non si verifica compensazione ‘propria’ e ‘impropria’ – Differenze – Conseguenze – Fattispecie.

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Presidente

Dott. TASSONE Stefania – Consigliere

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere Rel.

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 26905/2022 R.G. proposto da:

UN.LE. Spa, elettivamente domiciliata in ROMA VIA NA.II., presso lo studio dell’avvocato RO.SA. (…), rappresentata e difesa dagli avvocati RO.GO. (…) e MA.MA. (…);

– ricorrente –

contro

BA.GI., titolare dell’omonima impresa individuale, rappresentato e difeso dall’avvocato LO.LO. (…), domiciliato ex lege in Roma presso la Cancelleria della Corte di Cassazione;

– controricorrente –

e nei confronti di

MB.SO. Spa;

– intimata –

e sul ricorso incidentale proposto da:

BA.GI., titolare dell’omonima impresa individuale, rappresentato e difeso dall’avvocato LO.LO. (…), domiciliato ex lege in Roma presso la Cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente incidentale –

contro

UN.LE. Spa, elettivamente domiciliata in ROMA VIA NA.II., presso lo studio dell’avvocato RO.SA. (…) e MA.MA. (…);

– controricorrente al ricorso incidentale –

e nei confronti di

MB.SO. Spa;

– intimata –

e sul ricorso incidentale condizionato proposto da:

BA.GI., titolare dell’omonima impresa individuale, rappresentato e difeso dall’avvocato LO.LO. (…), domiciliato ex lege in Roma presso la Cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente incidentale condizionato –

contro

UN.LE. Spa, elettivamente domiciliata in ROMA VIA NA.II., presso lo studio dell’avvocato RO.SA. (GRORRT59AQ5B157Q) e MA.MA. (…);

– controricorrente al ricorso incidentale –

e nei confronti di

MB.SO. Spa;

– intimata –

avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di ROMA n. 6611/2022, depositata il 21/10/2022.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14/05/2024 dal Consigliere MARILENA GORGONI.

Dare-avere senza compensazione propria necessaria

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

A seguito del mancato versamento, da parte di Ba.Gi., di 22 canoni mensili relativi al contratto di leasing avente ad oggetto un immobile in Livorno, la UN.LE. Spa, in data 3.03.2009, si avvaleva della clausola risolutiva espressa, comunicando all’utilizzatore l’intendimento di ritenere risolto il contratto.

Giovanni Battista, rilasciato forzosamente l’immobile, citava, dinanzi al Tribunale di Roma, la UN.LE. Spa, chiedendo che venisse dichiarata la nullità della clausola penale, diretta a disciplinare il risarcimento del danno spettante alla società concedente in conseguenza della risoluzione del contratto per inadempimento, in quanto ritenuta in contrasto con l’art. 1526 cod. civ., e che la convenuta fosse condannata alla restituzione delle somme percepite a titolo di canoni di locazione finanziaria o, in subordine, che la clausola penale fosse ridotta ad equità.

UN.LE. Spa, da parte sua, otteneva il decreto n. 6825/2010, con il quale veniva ingiunto a Ba.Gi. ed ai fideiussori il pagamento della somma di Euro 146.804,91 per canoni di leasing maturati anteriormente alla risoluzione.

Ba.Gi. proponeva opposizione avverso tale decreto ingiuntivo.

Riuniti i due giudizi azionati da Ba.Gi., il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 23036/2015, respingeva l’opposizione proposta da Ba.Gi. ed ogni altra sua domanda, e, per l’effetto, confermava il decreto ingiuntivo opposto.

Avverso detta sentenza, Ba.Gi. proponeva impugnazione innanzi alla Corte d’Appello di Roma, la quale, con la sentenza non definitiva n. 5047/2020, ha dichiarato l’invalidità della clausola 17 del contratto di leasing (contenente la penale per il caso di risoluzione), rimettendo la causa in istruttoria per l’espletamento di una CTU diretta a determinare i rapporti di dare/avere tra le parti alla luce dei criteri di cui all’art. 1, comma 138, della L. 124/2017, e, con la sentenza definitiva n. 6611/2022, pubblicata il 21.10.2022, ha ritenuto non applicabile la L. 124/2017, in ragione della sopravvenuta pronuncia delle Sezioni Unite n. 2061/2021, ha regolato la fattispecie ricorrendo all’art. 1526 1 co., cod. civ., essendo stata dichiarata la nullità dell’art. 17 (clausola penale) del contratto di leasing, ha considerato congruo l’equo compenso per l’uso dell’immobile da parte dell’utilizzatore (nel periodo intercorrente tra la stipulazione del contratto e la restituzione del bene) nella misura determinata dalla CTU (euro 126.783,86) e ha condannato la concedente, UN.LE., a restituire a Ba.Gi. la somma di Euro 386.176,04 (corrispondente ai canoni di leasing versati nel corso del rapporto), ha condannato altresì Ba.Gi. a pagare a favore di MB.SO. Spa, cessionaria del credito vantato da UN.LE. ed intervenuta, ex art. 111 cod. proc. civ. nel giudizio, l’equo compenso per il godimento dell’immobile nella misura di Euro 126.783,86.

Dare-avere senza compensazione propria necessaria

Avverso tale sentenza UN.LE. Spa propone ricorso per cassazione, basato su due motivi.

Ba.Gi. resiste con controricorso e propone ricorso incidentale fondato su due motivi e ricorso incidentale condizionato, basato su un motivo.

Ad entrambi i ricorsi incidentali resiste con controricorso UN.LE. Spa

Nessuna attività difensiva è svolta in questa sede da MB.SO. Spa

La trattazione dei ricorsi è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis 1 cod. proc. civ.

La ricorrente ha depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1) Con il primo motivo la ricorrente in via principale lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. (art. 360, 1 comma, n. 4, cod. proc. civ.) e l’omesso esame di un fatto decisivo del giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, ex art. 360, 1 comma, n. 5, cod. proc. civ.

Alla Corte d’Appello rimprovera di non aver considerato il danno subito in conseguenza della risoluzione del contratto, ritenendo che non fosse stato richiesto, sebbene avesse fatto valere il diritto di conseguire il risarcimento del danno (per la risoluzione del contratto) come eccezione avverso l’altrui pretesa di conseguire ex art.1526 1 co cod. civ. la ripetizione dei corrispettivi versati nel corso del rapporto (pag. 13 della comparsa di risposta nel giudizio contro l’utilizzatore, p. 13 della comparsa di costituzione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, p. 21 della comparsa di costituzione in appello).

Lamenta che, non essendosi la Corte d’Appello pronunciata su detta eccezione, la stessa è incorsa nella violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.

Si duole non essersi considerato che l’eccezione di risarcimento del danno era comunque implicita nell’eccezione formulata, sia in primo grado che in grado di appello, diretta a conseguire una regolazione dei rapporti di dare/avere fra le parti non già ai sensi dell’art. 1526, 1 comma, cod. civ., bensì sulla base della clausola penale inserita all’art. 17 del contratto di leasing, in contrasto quindi con la domanda di nullità di tale clausola formulata dall’utilizzatore; la sua tesi è che detta eccezione ricomprendesse anche la più generale eccezione di risarcimento del danno da quantificarsi secondo i criteri ordinari ex art. 1453 cod. civ. una volta, come nel caso in specie, dichiarata nulla la clausola penale. In altre parole, venuta meno la possibilità di opporre all’utilizzatore la liquidazione convenzionale del danno per effetto della dichiarazione di nullità della clausola penale, non sarebbe venuto meno il suo diritto di conseguire il risarcimento del danno nelle forme ordinarie, essendo la clausola penale una species del più ampio genus del risarcimento danno.

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Il motivo è infondato.

È pacifico che tra le parti si controverte del risarcimento del danno: l’attore/utilizzatore infatti aveva promosso due giudizi -l’uno, per far dichiarare la nullità o la meritevolezza di riduzione ad equità della clausola con cui le parti convenzionalmente avevano determinato gli effetti derivanti dalla risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore del contratto di leasing, l’altro, per opporsi al decreto con cui, proprio in forza di detta clausola penale, gli era stato ingiunto il pagamento dei canoni di leasing scaduti e non riscossi – proprio perché fosse negato alla società di leasing detto risarcimento o almeno perché la pretesa risarcitoria fosse rideterminata.

Il Tribunale, prima, e la Corte d’Appello, poi, hanno ritenuto invalida la clausola penale; il che avrebbe dovuto portare alla liquidazione del danno come se le parti non avessero pattuito la penale. Stante la ricorrenza di una clausola con cui le parti avevano determinato convenzionalmente la misura del risarcimento del danno, il giudice non era tenuto a verificare la sussistenza dei presupposti dell’inadempimento (gravità dell’inadempimento, interesse del creditore, sussistenza ed ammontare del danno), ma solo quelli della clausola penale (cioè il verificarsi del fatto ivi previsto). La pattuizione della penale esonera, appunto, le parti dall’onere di provare il danno ed il suo ammontare, accettando il rischio che la prestazione dovuta a titolo di penale sia inferiore al danno effettivo (con evidente vantaggio del debitore) o maggiore (in tal caso ad avvantaggiarsene sarà il creditore).

Perciò controvertendosi della validità della clausola penale, la parte convenuta, limitatasi a negare la sussistenza della causa di nullità della stessa e a insistere per la sua applicazione, non può pretendere di avere dedotto e allegato in tal modo il proprio diritto al risarcimento del danno; a tal fine sarebbe stata necessaria l’allegazione e la prova dell’an e del quantum debeatur, in base alla disciplina generale degli artt. 1453 e ss. cod. civ. La parte, rimasta soccombente su di una questione preliminare qual era la qualificazione giuridica della clausola penale rispetto all’accertamento del suo diritto al risarcimento del danno, avendo tale qualificazione condizionato l’impostazione e la definizione dell’indagine di merito in ordine alla sua pretesa risarcitoria aveva l’onere di proporre appello incidentale (Cass. 19/03/2018, n. 6716).

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Né, del resto, aveva chiesto in via riconvenzionale il risarcimento del danno in applicazione degli artt. 1453 e ss. cod. civ.

Va pertanto disattesa la censura secondo cui, eccependo la validità della penale, la ricorrente avesse chiesto il risarcimento del danno, essendo basate le due allegazioni difensive su presupposti diversi: il fatto – inadempimento, nel primo caso, la prova di aver subito un danno e il suo ammontare, nell’altro.

Correttamente la Corte d’Appello, una volta dichiarata nulla la clausola penale, ha applicato l’art. 1526, 1 comma, cod. civ., riconoscendo alla società di leasing il diritto all’equo compenso che comprende la remunerazione del godimento del bene, il deprezzamento conseguente alla sua incommerciabilità come nuovo e il logoramento per l’uso, ma non il risarcimento del danno spettante al concedente, che, secondo la giurisprudenza pacifica di questa Corte, “deve trovare specifica considerazione… e, secondo la sua ordinaria configurazione di danno emergente e di lucro cessante (art. 1223 cod. civ., che impone che il danno patrimoniale sia integralmente ristorato, in applicazione del principio di indifferenza), sì da porre il concedente medesimo nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto (Cass., Sez. Un., 28/01/2021, n. 2061 e la successiva giurisprudenza conforme).

Rilevato che la ricorrente non ha contestato in appello la statuizione di nullità della clausola penale, non ha domandato il risarcimento del danno né con la riconvenzionale, né con appello incidentale, non ha formulato un’eccezione – non potendosi considerare eccezione, la mera allegazione difensiva, con la quale insisteva affinché fosse rigettata la domanda di nullità della clausola penale – che imponesse alla Corte d’Appello di pronunciarsi sulla domanda risarcimento del danno, va escluso che il giudice a quo sia incorso nel vizio di omessa pronuncia su quella che la ricorrente definisce eccezione, ma che, invece, va declassata ad argomentazione difensiva: argomentazione difensiva su cui il giudice a quo non era tenuto a pronunciarsi (Cass. 20/12/2021, n. 40753; Cass. 15/09/2004, n. 18578).

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La censura di violazione dell’art. 360, 1 comma, n. 5 cod. proc. civ. va disattesa, perché detta disposizione del codice di rito riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, 1 comma, n. 6, e 369, 2 comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053). Si evidenzia, altresì, che costituisce un “fatto”, agli effetti dell’art. 360, 1 comma, n. 5, cod. proc. civ., non una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. 6/09/2019, n. 22397; Cass. 8/09/2016, n. 17761; Cass., Sez. Un., 23/03/2015, n. 5745; Cass. 4/04/2014, n. 7983; Cass. 5/03/2014, n. 5133). Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio di cui alla richiamata norma del codice di rito le argomentazioni, supposizioni o deduzioni difensive (Cass. 18/10/2018, n. 26305; Cass. 14/06/2017, n. 14802); gli elementi istruttori (Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053); una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario insieme dei materiali di causa” (Cass. 21/10/2015, n. 21439; Cass. 29/10/2018, n. 27415), sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a questi ultimi profili, come nel caso all’esame.

2) Con il secondo motivo, rubricato “2.1. Violazione dell’art. 1526 1 co. cod. civ. ovvero degli artt.1241-1242-1243 cod. civ. (art. 360 1 co. n. 3) cod. proc. civ.); 2.2. Violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. (art. 360 1 co. n. 4) cod. proc. civ.); 2.3. Violazione dell’art. 132 2 co. n. 4) cod. proc. civ. (art. 360 1 co. n. 4) cod. proc. civ.); 2.4. Violazione dell’art. 111 cod. proc. civ. (art. 360 1 co. n. 4) cod. proc. civ.)”, la ricorrente si duole del fatto che l’equo compenso, ai sensi dell’art. 1526, 1 comma, cod. civ., nella misura di Euro 126.783,86, non sia stato portato in detrazione dall’importo reclamato da Ba.Gi. per ripetizione dei canoni ex art. 1526 1 co. cod. civ. (euro 386.176,04) e di essere, di conseguenza, stata condannata al pagamento dell’intero importo (euro 386.776,04) e che l’utilizzatore sia stato condannato a pagare l’equo compenso di Euro 126.783,86 a favore di MB.SO. Spa Così facendo la Corte d’Appello di Roma (i) non avrebbe fatto buon governo dell’art. 1526 1 co. cod. civ., ovvero degli artt. 1241-1242 e 1243 cod. civ., (ii) si sarebbe pronunciata ultra petita in violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., (iii) avrebbe omesso qualsiasi motivazione in ordine alle ragioni dell’attribuzione del credito a MB.SO., (iv) avrebbe violato l’art. 111 cod. proc. civ. in ordine alla prosecuzione del giudizio fra le parti originarie.

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In particolare, tra il diritto all’equo compenso spettante alla concedente e il diritto dell’utilizzatore a ripetere i canoni pagati nel corso del rapporto intercorre – osserva la ricorrente – un nesso di sinallagmaticità, sicché tra le due poste intercorrerebbe una compensazione impropria che imponeva al giudice a quo d’ufficio di determinare i rapporti di dare/avere tra le parti di tutte le voci a credito ed a debito derivanti dal medesimo rapporto, senza che i limiti della compensabilità; in altri termini l’equo compenso non era una posta di credito autonoma cedibile, trattandosi di un elemento che doveva essere preso in considerazione per valutare se (ed in che misura) sussistesse un credito da ripetizione canoni dell’utilizzatore ex art.1526 1 co. cod. civ.

Se, invece, operasse la compensazione in senso tecnico, l’impugnata sentenza avrebbe violato gli artt. 1241-1242-1243 cod. civ., non avendo portato in compensazione il suddetto credito da equo compenso con l’altrui credito da ripetizione dei canoni.

In aggiunta, la pronuncia sarebbe viziata per ultrapetizione in quanto lo stesso utilizzatore aveva dato per scontato che l’equo compenso da riconoscersi ad UN.LE. ex art. 1526, 1 comma, cod. civ. doveva essere portato in detrazione dall’importo che egli aveva reclamato in causa, tanto da aver richiesto, con il proprio atto di appello, il pagamento solamente della differenza fra i canoni di locazione finanziaria corrisposti e l’equo compenso per l’uso dell’immobile.

Ulteriore profilo di censura è relativo all’asserita violazione dell’art. 111 cod. proc. civ. secondo cui, anche nell’ipotesi di trasferimento del diritto controverso nel corso del processo, questo prosegue fra le parti originarie. Pertanto, anche se, in denegata ipotesi, si ritenesse che l’equo compenso possa essere in astratto ricompreso nella cessione a MB.SO. Spa (e lo possa essere anche per la parte ricompresa nell’ammontare dei canoni da ripetere ex art. 1526 1 co. cod. civ.), la Corte d’Appello di Roma avrebbe dovuto comunque pronunciare la sentenza fra le parti originarie, portando in compensazione a suo favore ogni ragione di credito nascente dal contratto di leasing e dalla sua risoluzione, non appartenendo alla causa i rapporti interni tra UN.LE. e MB.SO. Spa

Il motivo è fondato e va accolto per quanto di ragione.

Deve essere innanzitutto chiarito che la Corte d’Appello ha detratto dalla somma determinata a titolo di equo compenso quanto spettante all’utilizzatore a titolo di restituzione dei canoni di leasing riscossi: la ricorrente/concedente è stata condannata a restituire i canoni, l’utilizzatore è stato condannato a corrispondere l’equo compenso.

Il che esclude che la Corte d’Appello sia incorsa nel vizio di extrapetizione, la quale sussiste ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (“petitum” e “causa petendi”), attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo (“causa petendi”) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda (ex multis Cass. 28/03/2024, n. 8547).

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La quaestio iuris è se il giudice a quo sia incorso oppure no in errore per aver condannato l’utilizzatore a corrispondere l’equo indennizzo alla cessionaria del credito derivante dal leasing piuttosto che a favore della società di leasing/cedente, condannando in via esclusiva quest’ultima a restituire i canoni di leasing percepiti durante lo svolgimento del rapporto.

Sotto questo profilo il motivo merita accoglimento.

Nonostante le peculiarità dell’operazione economica, le cartolarizzazioni non perdono l’originaria natura di cessione del credito, al cui istituto sono pur sempre riconducibili né le dimensioni del fenomeno consentono comunque di sottrarle all’applicazione dei principi generali di cui agli artt. 1260 e ss. cod. civ. che regolano la cessione del credito. Anche le cessioni in blocco, infatti, sono pur sempre riconducibili ad una fattispecie negoziale a carattere bilaterale e a contenuto traslativo intercorrente tra cedente e cessionario.

Sicché, la cessione del credito ha determinato una mera modificazione soggettiva a latere creditoris, nel senso che il cedente ha cessato di essere creditore e il ceduto è stato liberato nei confronti del titolare originario, ma essendo “un’alienazione” del diritto di credito, la cessione del credito è sottoposta al principio nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet; in altri termini, essendosi realizzato a favore della cessionaria un acquisto del diritto di credito a titolo derivativo-traslativo, i cui caratteri consistono nel fatto che il diritto si stacca dalla sfera giuridica del dante causa con conseguente penetrazione in quella del secondo, l’acquirente ha derivato il proprio diritto da quello del precedente titolare, con la medesima consistenza qualitativa e quantitativa.

Essendo la cessionaria intervenuta nel giudizio, ben avrebbe potuto la Corte d’Appello condannare l’utilizzatore al pagamento dell’equo indennizzo direttamente a favore di quest’ultima, ma nella misura spettantele a seguito dello scomputo di quanto all’utilizzatore competeva a titolo di restituzione dei canoni di leasing. L’art. 111, 3 comma, cod. proc. civ. consente al cessionario del credito, in qualità di successore a titolo particolare nel diritto controverso, di intervenire nella causa tra il cedente e il debitore, anche in grado di appello; è pacifico che possa pronunciarsi la condanna del convenuto all’adempimento direttamente in favore di detto cessionario che abbia formulato domanda in tal senso, con l’adesione del cedente e senza contestazioni del debitore ceduto, ciò però non attribuisce al cessionario del credito in sé diritti ulteriori rispetto a quelli dei quali è divenuto titolare in forza della cessione a suo favore.

Ha ragione parte ricorrente a rilevare che nel caso di specie operava la compensazione impropria, cioè una sorta di meccanismo di “sommatoria algebrica” delle correlate pretese, inesorabilmente destinato a compiersi a cagione dell’unicità del vincolo, nel cui ambito le stesse pretese costituivano mere poste contabili, ad un tempo attive e passive, unico, perciò, era l’effetto obbligatorio atto a determinarsi a vantaggio dell’uno ovvero dell’altro contraente, salva l’evenienza – pur possibile – in cui le reciproche poste si fossero pareggiate integralmente, sì da azzerarsi vicendevolmente.

Quando tra due soggetti i rispettivi debiti e crediti hanno origine da un unico rapporto non vi è luogo ad un’ipotesi di compensazione “propria” ex artt. 1241 cod. civ. e segg. (secondo cui i debiti tra due soggetti derivanti da distinti rapporti si estinguono per quantità corrispondenti fin dal momento in cui vengono a coesistere), che presuppone l’autonomia dei rapporti da cui nascono i contrapposti crediti delle parti, bensì ad un mero accertamento di dare e avere, con elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza, cui il giudice può procedere senza che siano necessarie l’eccezione di parte o la domanda riconvenzionale; tale accertamento (c.d. compensazione “impropria”), pur potendo dare luogo ad un risultato analogo a quello della compensazione propria, non per questo è soggetto alla relativa disciplina tipica, sia processuale che sostanziale (cfr. Cass. 25/08/2006, n. 18498; Cass. 6/07/2009, n. 15796).

Dare-avere senza compensazione propria necessaria

Le disposizioni di cui agli artt. 1241 cod. civ. e segg. riguardano, infatti, l’ipotesi della compensazione in senso tecnico – giuridico -che postula l’autonomia dei rapporti cui si riferiscono i contrapposti crediti delle parti e non sono perciò applicabili allorquando i rispettivi crediti e debiti abbiano origine da un unico rapporto fra le stesse intercorso, risolvendosi in tal caso la valutazione delle reciproche pretese in un semplice accertamento contabile di dare e di avere, che il giudice può compiere, come si è detto, indipendentemente dalla proposizione di apposita domanda riconvenzionale o di formale eccezione di compensazione (cfr. Cass. 19/02/2019, n. 4825).

3) Con il primo motivo il ricorrente in via incidentale denunzia la violazione degli artt. 2697, 1988, 1325 n. 2, 2944 e 2730 cod. civ. e 112 cod. proc. civ.. in relazione all’art. 360 co. 1 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.

Attinte da censura sono il capo della sentenza non definitiva n. 5047/2020 della Corte d’Appello di Roma che ha dichiarato infondato il primo motivo di impugnazione e, conseguentemente, il capo della sentenza definitiva n. 6611/2022 che ha limitato alla somma di Euro 386.176,04 la condanna di pagamento a carico di UN.LE. Spa

Secondo quanto prospettato, il giudice a quo avrebbe respinto il primo motivo di appello sul presupposto che la circostanza di aver corrisposto a titolo di canoni di locazione la complessiva somma di Euro 639.394,56 fosse oggetto di contestazione e non fosse stata dimostrata, incorrendo nella violazione dell’art. 2697 cod. civ., non avevo esaminato un fatto decisivo che era stato oggetto di discussione fra le parti costituito dal documento n. 2, cioè dall’estratto conto al 27.11.2006, attestante il versamento e l’incasso della complessiva somma di Euro 639.394,56 a titolo di canoni di locazione, prodotto in giudizio da UN.LE. Spa Detto documento costituirebbe prova documentale del riconoscimento di debito, da parte della società di leasing, che aveva determinato un’astrazione meramente processuale della causa debendi, comportante l’inversione dell’onere probatorio, per la quale il destinatario della ricognizione è dispensato dall’onere di provare l’esistenza del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria (cfr. Cass. 17915/2013). In ogni caso, aggiunge il ricorrente, la Corte d’Appello avrebbe dovuto ritenere integrati gli estremi di una confessione facente piena prova nei confronti di UN.LE. Spa Di qui la denuncia di violazione degli artt. 1988 cod. civ. e 2730 cod. civ., oltre che di violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per non essersi il giudice a quo pronunciato sul punto (ricognizione di debito e confessione).

A supporto della sua tesi, il ricorrente adduce uno stralcio della CTU Gi. che confermava il versamento di complessivi Euro 639.394,56 e aggiunge alle sue denunce quella di travisamento dei fatti e delle risultanze processuali da parte della corte territoriale.

Il motivo è inammissibile.

Va innanzitutto osservato che la corte territoriale, con la sentenza non definitiva n. 5047/2020, ha rigettato il motivo d’appello con cui l’odierno ricorrente sosteneva di aver corrisposto non 22 canoni dei 144 previsti, bensì 36, ritendo che: 1) contrariamente a quanto sostenuto dall’utilizzatore il pagamento di 63 canoni anziché 22 era circostanza contestata dalla UN.LE.; 2) l’utilizzatore aveva chiesto di provare detta circostanza attraverso l’interrogatorio formale del legale rappresentante della concedente, ma che detta richiesta non era stata accolta “dato che un pagamento in denaro è facilmente provabile in via documentale non essendo del resto pensabile che un imprenditore versi rate di oltre Euro 6000 ciascuna in contanti e che per fornire la prova di detti pagamenti debba ricorrere all’interrogatorio formale del legale rappresentante peraltro di una società per azioni di notevoli dimensioni che nulla può sapere se e come sono state pagate rate dei vari leasing stipulati dalla società di cui è al vertice”.

La sentenza definitiva ha fatto propria la statuizione contenuta nella sentenza non definitiva, senza nulla aggiungere sul punto.

Da tanto si arguisce che il fatto – costituito dall’entità dei pagamenti effettuati in adempimento del contratto di leasing – è stato esaminato dalla Corte d’Appello e non è stato affatto omesso come pretende il ricorrente.

Dare-avere senza compensazione propria necessaria

Il che condanna all’inammissibilità la censura di violazione dell’art. 360, 1 comma, n. 5, cod. proc. civ.

Il vizio di motivazione censurabile per cassazione (cfr. supra par. 2) deve essere relativo all’omesso esame di un fatto la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali. Di contro il non soddisfacente esame di elementi istruttori (come chiaramente sono i documenti prodotti in giudizio) non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice (Cass. 20/10/2023, n. 29194).

Esula, infine, dal vizio di legittimità, ex art. 360, 1 comma, n. 5, cod. proc. civ., qualsiasi contestazione volta a criticare in sé il convincimento che il giudice di merito si è formato in esito all’esame del materiale probatorio e al conseguente giudizio di prevalenza degli elementi di fatto da ciò evincibili, perché spetta unicamente al giudice del merito la valutazione della prova e perché è sempre esclusa in cassazione ogni nuova valutazione dei fatti.

Né può giustificare l’accoglimento della censura quanto indicato nello stralcio della CTU riportato nel ricorso; la ragione assorbente è il difetto di decisività, atteso che il CTU concludeva nel senso che non era possibile né affermare che non era stati pagati 22 canoni alla data di risoluzione del contratto né che erano stati pagati 63 canoni in aggiunta alla maxi rata iniziale; niente adduce il ricorrente allo scopo di dimostrare come ciò abbia inciso sulla determinazione dell’insoluto e quindi sulla decisione impugnata.

La parte non può formulare apodittiche censure di inadeguatezza della motivazione o di omesso approfondimento di determinati temi d’indagine, senza fornire gli elementi per dimostrare la decisività del dato non valutato, non potendosi limitare a fare generici riferimento ad alcuni elementi di giudizio, meri commenti, deduzioni o interpretazioni che non si limitino a formulare una tesi difforme da quella accolta dal giudice di merito.

Mancano altresì i presupposti per denunciare la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.

Affinché possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ., è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda o un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente e inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronuncia si sia resa necessaria e ineludibile, e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività e, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi. Ove, quindi, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, del citato art. 112 cod. proc. civ., riconducibile alla prospettazione di un’ipotesi di “error in procedendo” per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del fatto processuale, detto vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all’adempimento da parte del ricorrente – per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito -dell’onere di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere a una loro autonoma ricerca, ma solo a una verifica degli stessi (Cass. 05/08/2019, n. 20924). E ciò anche senza considerare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la parte non può lamentarsi tanto del vizio di omessa pronuncia quanto di omessa motivazione per il mancato esame di un fatto decisivo per il giudizio per l’intrinseca contraddittorietà delle censure (Cass. 1/09/2022, n. 25855).

Dare-avere senza compensazione propria necessaria

Per finire, non possono accogliersi le censure con cui vengono dedotti gli errores in iudicando indicati nell’epigrafe del motivo qui scrutinato.

Se si imputa alla Corte territoriale di non aver esaminato il documento non le si può rimproverare, senza incorrere in contraddizione, di non aver individuato in esso una ricognizione di debito o una confessione, con tutte le implicazioni sul piano probatorio denunciate, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, considerato che la violazione di norme di diritto suppone accertati gli elementi del fatto in relazione ai quali si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma. Occorre, poi, ricordare che quando nel ricorso per cassazione è denunziata la violazione di norme di legge, è necessario non solo indicare puntualmente le norme asseritamente violate, ma anche dedurre specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 02/04/2024, n. 8644). La giurisprudenza di questa Corte è costante nel rilevare che il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o nell’affermazione erronea della esistenza o della inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra, invece, nell’ambito applicativo dell’art. 360, 1 comma, n. 3, cod. proc. civ., l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (Cass. 21/10/2022), n. 31211).

4) Con il secondo motivo, rubricato “Violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 co. 1 n. 4 cod. proc. civ.”, il ricorrente incidentale con riferimento all’estratto conto cui si riferisce il motivo precedente denuncia il vizio di travisamento del contenuto probatorio.

Dare-avere senza compensazione propria necessaria

Il motivo è inammissibile.

In verità, nonostante il ricorrente denunci il suddetto travisamento, è evidente che si duole della valutazione del documento: esemplificativamente si veda p. 16 ove il ricorrente afferma :” La Corte Territoriale deve infatti aver travisato la natura del documento in questione, che costituisce a tutti gli effetti una ricognizione di debito”; adde p. 19 ove si legge: “La prova documentale attestante il pagamento della somma di Euro 639.394,56 a titolo di canoni di locazione non è stata quindi correttamente valutata”.

In ogni caso è caduto in una ennesima contraddizione, non potendosi in ordine allo stesso elemento lamentare che esso non sia stato esaminato e denunciare il travisamento dell’informazione probatoria tratta dal medesimo (Cass. 17/02/2023, n. 5152). Né può essere sottaciuto che le Sezioni unite (con la sentenza 4/03/2024, n. 5792), dopo aver delineato storicamente la distinzione travisamento del fatto-travisamento della prova e del fatto, hanno ribadito che se il travisamento è “frutto di errore di percezione, soccorre la revocazione”, se il travisamento della prova attiene all’individuazione delle informazioni probatorie desunte per inferenza logica è un “affare del giudice di merito” per questo sottratto al giudizio di legittimità, non essendovi il rischio che si verifichi, “un’inemendabile forma di patente illegittimità della decisione”, giacché, una volta che il giudice di merito abbia fondato la propria decisione su un dato probatorio preso in considerazione nella sua oggettività, pena la rettifica dell’errore a mezzo della revocazione, ed abbia adottato la propria decisione sulla base di informazioni probatorie desunte dal dato probatorio, il tutto sostenuto da una motivazione rispettosa dell’esigenza costituzionale di motivazione, si è dinanzi ad una statuizione fondata su basi razionali idonee a renderla accettabile. Diversamente opinando, se si ammettesse la ricorribilità per cassazione in caso di travisamento della prova, il giudizio di legittimità si trasformerebbe in un terzo grado, nel quale la Corte avrebbe “il potere di rifare daccapo il giudizio di merito”.

5) Il ricorrente in via incidentale condizionata si duole della violazione dell’art. 1526 cod. civ. in relazione all’art. 360 co. 1 nn. 3 e 5 cod. proc. civ., argomentando che, ove dovesse essere accolto il primo motivo del ricorso principale, dovrebbe essere cassato il capo della sentenza n. 6611/2022 della Corte d’Appello nella parte in cui lo ha condannato a pagare in favore della MB.Cr. Spa la somma di Euro 126.783,86, oltre agli interessi legali, a decorrere dal 28.10.2010, perché ciò costituirebbe un’illegittima duplicazione delle somme riconosciute alla UN.LE. Spa

Il ricorso incidentale condizionato rimane assorbito in ragione del mancato accoglimento del primo motivo del ricorso principale.

6) All’accoglimento nei suindicati termini del secondo motivo del ricorso principale – rigettato il primo motivo nonché il ricorso incidentale, e dichiarato assorbito il ricorso incidentale condizionato – consegue la cassazione in relazione dell’impugnata sentenza, con rinvio alla Corte d’Appello di Roma che in diversa composizione procederà a nuovo esame, e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

Dare-avere senza compensazione propria necessaria

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso principale, rigetta il primo motivo nonché il ricorso incidentale, dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato. Cassa l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione.

Così deciso nella Camera di Consiglio del 14 maggio 2024 dalla Terza sezione civile della Corte Suprema di Cassazione.

Depositata in Cancelleria il 9 ottobre 2024.

So

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