Suprema Corte di Cassazione
sezioni unite
sentenza n. 20360 del 5 settembre 2013
Svolgimento del processo
Il Consiglio di Stato, confermando la sentenza del TAR Lazio, respingeva la domanda di C.M.G., proposta nei confronti del Ministero della Giustizia, avente ad oggetto il risarcimento dei danni derivante da illegittima esclusione da concorso e successivamente, a seguito di annullamento giurisdizionale dell’esclusione, immessa in servizio. Il Consiglio di Stato poneva a base del decisum il rilevo fondante che, nella specie, quanto alla responsabilità extracontrattuale, di cui all’art. 2043 c.c., occorreva, ai fini della configurabilità di detta responsabilità, la sussistenza di tutti gli elementi che concorrono a formare l’illecito aquiliano sicchè la carenza di un solo elemento, quale la colpa del soggetto agente (rilievo svolto dal TAR e ritenuto assorbente), precludeva l’affermazione della invocata responsabilità. Nè, aggiungeva il Consiglio di Stato, la mera illegittimità dell’atto amministrativo, rappresentava ex sè fonte di responsabilità civile.
Relativamente al risarcimento del danno esistenziale, rilevava il giudice amministrativo, a conferma della propria giurisprudenza, che il pretium doloris, o il danno non patrimoniale poteva trovare spazio solo in presenza di comprovati profondi turbamenti della psiche causati da atti o comportamenti dell’amministrazione.
Avverso questa sentenza C.M.G. ricorre in cassazione sulla base di un’unica censura.
Resiste con controricorso il Ministero intimato.
Motivi della decisione
Con l’unico motivo la ricorrente deduce: a) violazione dei limiti esterni della giurisdizione con riferimento agli artt. 24 e 103 Cost. e art. 11 Cost., commi 1 e 8; b) eccesso di potere giurisdizionale sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera di merito; c) violazione e falsa applicazione dell’art. 2967 c.c. in relazione all’art. 30 del Codice del processo Amministrativo; d) eccesso di potere in danno della ricorrente per sostituzione provvedimentale e rifiuto della giurisdizione per omesso riconoscimento del bene della vita.
In particolare la ricorrente, quanto alla denuncia sub a), sostiene che il Consiglio di Stato, procedendo ad una nuova interpretazione dell’operato dell’allora commissione di concorso pervenendo alla conclusione che la complessa normativa del settore ha determinato un errore scusabile della PA idonea ad escluderne la colpa, ha negato la sussistenza dei presupposti per l’illecito acquliano fonte di obbligo risarcitorio, travalicando in tal modo anche i limiti del giudicato di cui alla precedente sentenza del Consiglio di Stato n. 4698 del 2003 che aveva annullato il provvedimento di esclusione dal concorso.
Relativamente alla deduzione sub b), assume la ricorrente che il Consiglio di Stato ha effettuato un sindacato integrativo individuando un diverso contenuto comportamentale della PA escludendo in tal modo l’invocato risarcimento laddove nella precedente pronuncia n. 4698 del 2003 era stata accertata la piena illegittimità del provvedimento di esclusione dal concorso, con ciò integrandosi un eccesso di potere giurisdizionale sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera del merito.
Quanto al profilo sub c) la ricorrente afferma che ex art. 30, comma 2, del nuovo codice del procedimento amministrativo è stata ridotta, in tema di risarcimento dei danni derivante da attività provvedimentale, la portata concreta dell’elemento soggettivo facendo assumere carattere prevalente alla concreta adozione di atti illegittimi.
Circa, infine, la deduzione sub d) la ricorrente allega che la colpa dell’Amministrazione è evidenziata dalla circostanza secondo cui una rigorosa lettura degli scritti difensivi avrebbe evitato il ricorso ad azioni giudiziarie con la conseguente sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria. Analogamente, sostiene la ricorrente, il danno esistenziale poteva essere dedotto in via presuntiva. Sicchè è evidente, conclude la ricorrente, che la sentenza impugnata è affetta da eccesso di potere per sostituzione provvedimentale e rifiuto della giurisdizione per omesso riconoscimento del bene della vita invocato. Occorre premettere, ai fini delle delibazione del ricorso in esame, che in tema di sindacato di queste Sezioni Unite sulle pronunce del Consiglio di Stato questa Corte, dopo la pronuncia n. 30254 del 23 dicembre 2008, ha chiarito che il ricorso col quale venga denunciato un rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo rientra fra i motivi attinenti alla giurisdizione, ai sensi dell’art. 362 c.p.c., soltanto se il rifiuto sia stato determinato dall’affermata estraneità alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice della domanda, che non possa essere da lui conosciuta e non quando il diniego di tutela sia fondato sull’interpretazione di norme invocate a sostegno della pretesa (per tutte Cass. S.U. 8 febbraio 2013 n.3037 e Cass. S.U. 16 aprile 2012 n. 5942). Parallelamente questo giudice di legittimità ha stabilito che l’eccesso di potere giurisdizionale, denunziabile ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 3, sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera del merito, è configurabile solo quando l’indagine svolta non sia rimasta nei limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, ma sia stata strumentale a una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e convenienza dell’atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell’annullamento, esprima una volontà dell’organo giudicante che si sostituisce a quella dell’amministrazione, nel senso che, procedendo ad un sindacato di merito, si estrinsechi in una pronunzia autoesecutiva, intendendosi per tale quella che abbia il contenuto sostanziale e l’esecutorietà stessa del provvedimento sostituito, senza salvezza degli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa (V. per tutte Cass. S.U. 28 aprile 2011 n. 9443).
Si è inoltre precisato che l’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è configurabile solo qualora il giudice speciale abbia applicato non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un’attività di produzione normativa che non gli compete e non quando il Consiglio di Stato si sia attenuto al compito interpretativo che gli è proprio, ricercando la voluntas legis applicabile nel caso concreto, anche se questa abbia desunto non dal tenore letterale delle singole disposizioni, ma dalla ratio che il loro coordinamento sistematico.
Potendo dare luogo, tale operazione, tutt’al più, ad un error in iudicando, non alla violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale (Cass. S.U. 12 dicembre 2012 n.22784). Ed ancora si è chiarito che la violazione o falsa applicazione di norme processuali può tradursi in eccesso di potere giurisdizionale, denunciabile con ricorso per cassazione, soltanto nei casi in cui l’error in procedendo abbia comportato un radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un evidente diniego di giustizia (Cass. S.U.14 settembre 2012 n.15428).
Nella specie il Consiglio di Stato ha confermato il rigetto della domanda di risarcimento del danno, proposta dalla attuale ricorrente sul rilevo che la mera illegittimità dell’atto non è di per sè sufficiente ai fini del riconoscimento ex art. 2043 c.c. della responsabilità della Amministrazione occorrendo a tale scopo anche la dimostrazione della colpa della P.A. Analogamente, ha rilevato il Consiglio di Stato, ai fini del risarcimento del danno esistenziale ex art. 2059 c.c. il pretium doloris del concorrente illegittimamente escluso e poi assunto in ritardo, può trovare spazio, secondo conforme giurisprudenza del Consiglio stesso, solo in presenza di comprovati profondi turbamenti della psiche del concorrente causati da danni o comportamenti dell’amministrazione.
Alla stregua di tale decisum è evidente che il rigetto della domanda della attuale ricorrente, essendo fondato sull’interpretazione di norme invocate a sostegno della pretesa, non esprime una volontà dell’organo giudicante che si sostituisce a quella dell’amministrazione e non si basa su di un’attività di produzione normativa ovvero su un radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un evidente diniego di giustizia. Le critiche, quindi, sono del tutto estranee all’ambito della previsione di cui alìart. 362 c.p.c. e determinano l’inammissibilità del ricorso. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite,dichiara inammissibile il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 5000,00 per compensi ed oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite, il 11 giugno 2013.
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