Corte di Cassazione

Suprema Corte di Cassazione

sezioni unite

sentenza 25 febbraio 2016, n. 3727

Svolgimento del processo

Il (omissis) il quotidiano (omissis) pubblicò un articolo dal titolo “Ora il dovere della chiarezza”. L’elaborato, a firma di D.G. , traeva spunto dall’avviso di conclusione delle indagini effettuate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano in ordine alla presunta frode fiscale nella compravendita di diritti televisivi, commessa da parte dei vertici di Mediaset, azienda fondata dal Presidente del Consiglio Be.Si. .
La società Mediaset s.p.a. convenne allora in giudizio il Gruppo Editoriale L’Espresso s.p.a., società editrice del giornale, M.E. , direttore responsabile dello stesso, e D.G. , per sentirli condannare al risarcimento di tutti i danni patiti a seguito della diffamatoria e illecita pubblicazione, segnatamente deducendo, al riguardo, che essa violava sia l’art. 684 cod. pen. che le norme a tutela della privacy. Resistettero i convenuti.
Con sentenza n. 1403 del 2008 il Tribunale di Roma dichiarò la carenza di legittimazione ed interesse ad agire della società attrice in riferimento all’asserita violazione dell’art. 684 cod. pen., mentre respinse la domanda risarcitoria per violazione della privacy e per diffamazione a mezzo stampa.
Proposto gravame dalla società soccombente, la Corte d’appello, con la sentenza ora impugnata, depositata in data 7 marzo 2011, lo ha accolto solo in punto di regolamentazione delle spese di lite, confermando nel resto la pronuncia di prime cure.
La Corte territoriale, pur reputando sussistente la legittimazione attiva e ad causam della società appellante in relazione alla dedotta violazione dell’art. 684 cod. pen., ha escluso che tale violazione si fosse, in concreto, consumata, posto che, nell’ambito di una sintesi critica dell’inchiesta svolta dai pubblici ministeri milanesi e delle dichiarazioni agli stessi rilasciate dall’avvocato Mi. , la pubblicazione pretesamente arbitraria si esauriva nella riproduzione “letterale di due frasi, marginali e minime, riprese dall’interrogatorio del predetto legale, riguardanti il Presidente Be. ” e, segnatamente, “fatti storici… non particolarmente significativi per la società appellante, se non addirittura pacifici per il pubblico dei lettori”.
Quanto poi alla dedotta violazione della normativa in materia di privacy (d.lgs. n. 196 del 2003), la Corte di appello ne ha negato la sussistenza osservando, tra l’altro, che, una volta esclusa la fattispecie criminosa di cui all’art. 684 cod. pen., veniva meno la possibilità di configurare un imprescindibile collegamento tra la stessa e la lesione della riservatezza sui dati sensibili di Mediaset s.p.a., dovendosi dare atto, per contro, che questi ultimi erano stati legittimamente acquisiti.
Ha rilevato infine il decidente che neppure poteva ravvisarsi la natura diffamatoria dell’articolo in contestazione, essendo applicabili, nella specie, le “scriminanti della critica e della cronaca giudiziaria”.
Il ricorso di Mediaset s.p.a. è affidato a quattro motivi.
Hanno resistito, con congiunto controricorso, il Gruppo Editoriale L’Espresso s.p.a. ed M.E. , mentre non ha svolto attività difensiva D.G. .
Con ordinanza interlocutoria n. 6428 del 30 marzo 2015 la Corte, rilevata la sussistenza di orientamenti giurisprudenziali non sempre armonici e collimanti in ordine all’interpretazione del combinato disposto degli artt. 684 cod. pen. e 114 cod. proc. pen., nonché la natura di massima di particolare importanza della relativa questione, ha disposto la trasmissione della causa al Primo Presidente ai sensi dell’art. 374 cod. proc. civ., per l’eventuale rimessione alle sezioni unite civili.
Al ricorso n. 20022 del 2011, già chiamato innanzi alle Sezioni unite, è poi stato riunito quello n. 8977 del 2011, siccome involgente la medesima questione.
Tale ricorso trae origine dalla domanda proposta da Mediaset s.p.a. nei confronti di B.G. e di Marco Tropea Editore s.p.a. in liquidazione, da essa convenuti innanzi al Tribunale di Milano, al fine di ottenere il ristoro dei danni subiti a seguito della pubblicazione del libro dal titolo “B. Tutte le carte del Presidente.
In particolare la società attrice, dedotto che l’autore della pubblicazione si era addentrato in una personalissima ricostruzione delle attività che avevano preceduto e consentito il collocamento in Borsa dell’esponente, sostenne che erano stati perpetrati gli illeciti penali di cui agli artt. 684 e 595, comma 3, cod. pen..
A seguito di eccezione di carenza di legittimazione passiva opposta da Marco Tropea, la domanda venne estesa, mediante chiamata in causa del terzo, al Gruppo Editoriale I Saggiatore s.p.a..
I convenuti, costituitisi in giudizio, contestarono le avverse pretese.
Con sentenza del 31 ottobre 2008 il giudice adito, disposta la separazione del procedimento contro Marco Tropea Editore s.r.l., rigettò le altre domande.
Il gravame proposto dal soccombente avverso detta pronuncia è stato respinto dalla Corte d’appello in data 26 agosto 2011.
Il ricorso di Mediaset s.p.a. è articolato su quattro motivi.
Si sono difesi il Gruppo Editoriale Il Saggiatore s.p.a. e B.G.B. , che hanno altresì proposto ricorso incidentale sulla base di un solo motivo.
Tulle le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

Il ricorso n. 20022 del 2011.
1.1 Con il primo motivo l’impugnante lamenta violazione degli artt. 684 cod. pen. e 114 cod. proc. pen., ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ..
Oggetto delle critiche è l’assunto della Corte territoriale secondo cui, avendo la Procura della Repubblica depositato in data 19 febbraio 2005 l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, la successiva pubblicazione dell’articolo in data 3 marzo 2005 era avvenuta a segreto investigativo già caduto; né, peraltro, era ipotizzabile, in concreto, alcuna violazione dell’art. 684 cod. pen., considerato che, come già rilevato dal giudice di prime cure, l’articolo del D. costituiva una mera sintesi critica dell’inchiesta svolta dai Pubblici Ministeri milanesi e che la riproduzione degli atti processuali era limitata a due frasi, marginali e minime, riprese dall’interrogatorio dell’avvocato Mi. , inidonee a incidere sulla sostanziale liceità della condotta del giornalista.
Secondo l’esponente tali affermazioni sarebbero erronee, posto che l’articolo in contestazione conteneva la citazione testuale di atti dell’indagine preliminare e che, per espressa disposizione legislativa il divieto di pubblicazione, anche parziale, vige fino al termine dell’udienza preliminare e, se si procede a dibattimento, fino alla pronuncia in grado di appello. E allora, tenuto conto che, al momento della pubblicazione nel procedimento penale doveva ancora essere celebrata la fase iniziale dell’udienza preliminare e che erano stati riprodotti interi stralci delle risposte date dall’avvocato Mi. ai P.M. che lo interrogavano, la violazione del comb. disp. degli artt. 684 cod. pen. e 114 cod. proc. pen. era documentalmente accertata.
1.2 Con il secondo mezzo la ricorrente denuncia mancanza, insufficienza e contraddittorietà della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360, n. 5, cd. proc. civ..
Le critiche si appuntano contro la qualificazione dell’articolo del D. in termini di riassunto commentato sullo stato e sul contenuto delle indagini della Procura di Milano, pienamente consentito dall’ordinamento.
Tale affermazione – a giudizio dell’impugnante – sarebbe in contrasto con l’ammissione che nello scritto erano testualmente riportate, come già innanzi evidenziato, talune dichiarazioni rese dell’avvocato Mi. nel corso del suo interrogatorio.
Né rilievo alcuno avrebbe la circostanza che, secondo la Corte territoriale, si trattava di passaggi non particolarmente significativi per la società appellante, se non addirittura pacifici per il pubblico dei lettori, non essendo valutazioni di tal fatta consentite all’interprete.
1.3 Con il terzo motivo, deducendo violazione dell’art. 11 del d.lgs. n. 196 del 2003, ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ., la società critica la ritenuta insussistenza della violazione della disciplina sulla privacy. Rileva segnatamente che non può ritenersi effettuato in modo lecito e secondo correttezza, il trattamento avvenuto attraverso la divulgazione di atti di cui sia espressamente vietata la diffusione. Né l’imprescindibile collegamento tra violazione dell’art. 684 cod. pen. e lesione della riservatezza potrebbe dirsi lesiva del diritto di cronaca, ben potendo essere somministrata una notizia di pubblico interesse anche in mancanza di riproduzione testuale degli atti di indagine. Opinare diversamente – aggiunge – importerebbe l’abrogazione del menzionato art. 11, a tenor del quale il giornalista deve pur sempre rispettare le leggi.
1.4 Con il quarto mezzo l’impugnante lamenta vizi motivazionali, ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., con riferimento all’assunto del giudice di merito secondo cui gli addebiti, astrattamente diffamatori, mossi a Mediaset nell’articolo in contestazione potevano considerarsi scriminati in quanto espressione del diritto di cronaca, trovando essi la loro fonte nel contenuto di atti giudiziari ufficiali della Procura.
Segnala in particolare l’esponente che il giudice di merito non aveva minimamente indicato in quale parte degli atti richiamati Mediaset fosse indicata quale soggetto attivo delle pretese condotte illecite, di talché la motivazione della sentenza impugnata era, in parte qua, insufficiente e/o apodittica.
Infine la positiva valutazione del requisito della continenza, segnatamente con riferimento all’espressione “marchingegno truffaldino”, ricondotto dalla Corte territoriale all’imputazione di falso in bilancio avanzata dai Pubblici Ministeri a conclusione delle indagini, era affatto immotivata, mentre l’asserito tono problematico con cui sarebbe stata presentata la prospettazione accusatoria era smentito dall’assoluta assenza di formule dubitative.
Il ricorso n. 8977 del 2011.
2.1 Con il primo motivo l’impugnante denuncia violazione dell’art. 2697 cod. civ., ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ..
In relazione all’assunto secondo cui lo stesso pacchetto di diritti televisivi, apprezzato nella perizia effettuata dal dott. S. 909 miliardi di lire, era stato invece valutato, nel prospetto informativo sottoposto alla Consob dalla società Kagan World Media, 2078 miliardi di lire, sostiene l’esponente che la Corte d’appello avrebbe violato le regole in materia di riparto dell’onere della prova, avendo affermato che spettava a Mediaset dimostrare la falsità dell’informazione, e non al convenuto provare l’asserita identità di oggetto degli elaborati. In tale contesto, a giudizio della ricorrente, non potevano essere riconosciute le esimenti dei diritti di cronaca e di critica che presuppongono la verità delle notizie divulgate.
2.2 Con il secondo mezzo, lamentando vizi motivazionali, ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., l’impugnante denuncia la contraddittorietà dell’affermazione secondo cui la discrasia tra le due perizie avrebbe avuto scarsa incidenza rispetto al nucleo centrale delle informazioni fornite nella contestata pubblicazione, nucleo costituito dall’inchiesta della magistratura in ordine all’asserita sopravvalutazione dei diritti televisivi facenti parte della library nonchè le distorsioni da questa provocate a cascata su tutti i bilanci Mediaset. Segnatamente il giudice di merito avrebbe omesso una compiuta analisi del libro del B. , nella parte in cui la divergenza valutativa tra le due perizie costituiva, a detta dello scrittore, la prova principale dell’avvenuta sopravvalutazione del patrimonio Mediaset e della pretesa, artefatta determinazione del prezzo di quotazione in Borsa delle relative azioni.
Aggiunge anche che la Corte d’appello neppure aveva spiegato le ragioni della non ritenuta sussistenza della diffamazione lamentata da Mediaset, nella parte in cui il nome della stessa era stato illegittimamente associato alla formazione di una cospicua provvista di fondi neri.
2.3 Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 51 cod. pen., ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ..
Sostiene che il B. , in violazione dei criteri enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alle condizioni di operatività delle scriminati del diritto di cronaca e di critica, aveva alterato le risultanze processuali, giungendo a diffondere notizie false, spacciandole per dimostrate documentalmente e processualmente. Né la veridicità dell’informazione poteva essere vagliata alla luce di provvedimenti successivi, ostandovi il principio per cui il rispetto del requisito della verità della informazione deve essere valutato al momento della sua diffusione. Infine neppure sarebbe stata osservata – a giudizio dell’esponente – la condizione della continenza, considerato che il B. nel suo libro aveva attribuito a Mediaset fatti incerti e ancora sub iudice, rispetto ai quali, per giunta, la stessa era parte offesa.
2.4 Con il quarto mezzo si deduce violazione del comb. disp. degli artt. 684 cod. pen. e 114 cod. proc. pen., ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ..
Le critiche si appuntano contro l’affermazione della Corte territoriale secondo cui la tutela accordata dall’art. 684 cod. pen. non attiene alla sfera della riservatezza dell’indagato o dell’imputato ma alla protezione delle esigenze di giustizia inerenti al processo penale nella delicata fase di acquisizione della prova.
Segnala l’esponente che la giurisprudenza di legittimità richiamata nella sentenza impugnata è resistita da pronunce di segno opposto, le quali, con l’autorevole avallo della Corte costituzionale (sent. n. 18 del 1966; sent. n. 16 del 1981), hanno riconosciuto il carattere plurioffensivo della fattispecie di cui all’art. 684 cod. pen. in quanto norma volta a tutelare non solo le regole del dibattimento, ma anche la riservatezza e la reputazione delle persone in esso coinvolte.
Ricorda quindi che il divieto di pubblicazione testuale, anche parziale, dell’atto o del documento contenuto nel fascicolo del Pubblico ministero, vige oltre la conclusione delle indagini preliminari e, segnatamente, fino al termine dell’udienza preliminare e, se si procede a dibattimento, fino alla pronuncia in grado di appello.
A tale regola, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello, non si sarebbe conformato il B. , considerato che lo stesso aveva citato tra virgolette alcuni stralci della documentazione in atti nel procedimento penale n. 22694/01, in un libro pubblicato nel febbraio 2004, prima che venisse celebrata la fase iniziale dell’udienza preliminare.
3 Con l’unico motivo di ricorso incidentale il Gruppo Editoriale Il Saggiatore e B.G.B. si dolgono del rigetto dell’appello incidentale volto a contestare la compensazione delle spese del primo grado, denunciando al riguardo vizi motivazionali posto che il decidente, dopo avere reputato non erronee le affermazioni del B. in ordine alle due perizie, avrebbe contraddittoriamente confermato la decisione del Tribunale in punto di regolazione delle spese, decisione che era invece fondata sulle inesattezze riscontrate nel brano contestato.
4 I primi tre motivi del ricorso proposto da Mediaset avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma in data 7 marzo 2011 (R.G. n. 20022 del 2011) e l’ultimo motivo del ricorso della stessa società avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano del 26 agosto 2011 (R.G. 8977 del 2011) attaccano la ritenuta infondatezza della pretesa dell’impugnante di essere risarcita in ragione della dedotta violazione, da parte degli autori delle contestate pubblicazioni, del comb. disp. degli artt. 684 cod. pen. e 114 cod. proc. pen., a prescindere dal fatto che la stessa concorra o meno con la diffamazione o con la lesione della riservatezza, in ragione di una ontologica plurioffensività del reato e dunque dell’autonomia della tutela da esso offerta al privato.
Tenuto conto delle ragioni addotte dalle due Corti territoriali a sostegno della scelta decisoria operata, prima sinteticamente riportate, si tratta allora di stabilire: a) se la previsione della norma incriminatrice, che blinda, nei sensi innanzi precisati, la divulgabilità degli atti del processo penale, integri o meno un reato plurioffensivo, in quanto preordinato a garanzia non solo dell’interesse dello Stato al retto funzionamento dell’attività giudiziaria, ma anche delle posizioni delle parti e, segnatamente, della reputazione delle stesse; b) se sia scrutinabile l’entità della riproduzione, sì da potersi, se del caso, accedere a un giudizio di insignificanza del dato riportato e quindi di sostanziale inoffensività della condotta ascritta all’autore della pubblicazione.
5.1 Tanto premesso, si osserva.
L’art. 684 cod. pen., intitolato “Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”, punisce con l’arresto o con l’ammenda chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa d’informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione.
L’elemento oggettivo del reato riceve peraltro concreta e attuale specificazione dagli artt. 114 e 329 cod. proc. pen..
In particolare, la natura e l’ambito del divieto sono precisati dalla prima disposizione, la quale integra il precetto della norma penale stabilendo, per quanto qui interessa, che: è vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto (comma 1); è vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare (comma 2); se si procede al dibattimento, non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo del pubblico ministero, se non dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello (comma 3); è sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto (comma 7).
5.2 Mette conto precisare, per una compiuta ricostruzione del quadro normativo di riferimento e per le implicazione che se ne possono trarre sul piano esegetico, che originariamente il terzo comma dell’art. 114 cod. proc. pen. vietava altresì la pubblicazione “degli atti del fascicolo per il dibattimento, se non dopo la pronuncia della sentenza di primo grado”.
Sennonché la Corte costituzionale, con sentenza 24 febbraio 1995, n. 59, ha dichiarato illegittima, per violazione dell’art. 76 della Costituzione, la relativa previsione.
Ha ritenuto il giudice delle leggi che la disposizione, nella parte in cui non consentiva la pubblicazione degli atti del fascicolo del dibattimento anteriormente alla pronuncia della sentenza di primo grado, fosse in contrasto con la direttiva n. 71 dell’art. 2 della legge di delega n. 81 del 1987, posto che la ratio dei divieti di pubblicazione ivi stabiliti – con il preciso intento di contemperare gli interessi della giustizia e gli interessi dell’informazione, entrambi costituzionalmente rilevanti – non permetteva di ritenerli estensibili agli atti del fascicolo del pubblico ministero anche oltre il termine delle indagini, durante il dibattimento e che lo stesso divieto di pubblicazione degli atti del fascicolo del pubblico ministero, previsto esplicitamente nella direttiva con il riferimento agli “atti depositati a norma del numero 58”, inteso com’era, ad evitare che il giudice formasse il suo convincimento sulla base di atti che dovrebbero essergli ignoti, non poteva ragionevolmente riferirsi alla pubblicazione di quanto contenuto nel fascicolo per il dibattimento, concernente, per definizione, gli atti che il giudice deve conoscere.
5.3 Ciò vuoi dire che nel nostro ordinamento non vi è completa coincidenza tra regime di segretezza e regime di divulgazione e che esiste un doppio filtro alla pubblicazione degli atti: un divieto assoluto di pubblicazione, “anche parziale o per riassunto… degli atti coperti dal segreto istruttorio o anche solo del loro contenuto”, operante, ex art. 329 cod. proc. pen., fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari; e un divieto relativo, limitato ai soli elementi testuali, vigente, con il rimodellamento operato dalla Consulta, oltre siffatta barriera temporale, fino al termine dell’udienza preliminare (comma due) e, se si procede a dibattimento, fino alla pronuncia in grado di appello (comma tre).
6 Ora, non par dubbio che, mentre prima della conclusione delle indagini preliminari la ratio dell’art. 684 cod. pen. va rinvenuta nell’obiettivo di non compromettere il buon andamento del processo penale nella delicata fase di acquisizione della prova (cfr. Cass. civ. 19 settembre 2014, n. 197469; Cass. pen. 18 luglio 2013, n. 30838), dopo tale momento la finalità della norma diventa quella di salvaguardare un principio cardine del processo accusatorio: la neutralità psicologica del giudicante (c.d. virgin mind), la quale richiede che il giudice arrivi al dibattimento sgombro da pregiudizi, dovendo assistere davanti a sé alla formazione della prova nel contradditorio di accusa e difesa (cfr. Corte cost. n. 59 dei 1995, innanzi menzionata).
In tale prospettiva la giurisprudenza penale di questa Corte ha ritenuto coerente con il trasparente obiettivo di assicurare la corretta, equilibrata e serena formazione del convincimento del giudice del dibattimento, la disposizione secondo cui è sempre consentita la pubblicazione del contenuto degli atti non coperti (o non più coperti da segreto) a guisa d’informazione (art. 114 cod. proc. pen., comma 7). Si è detto, in proposito, che il codice distingue nettamente tra atto del procedimento e suo contenuto, di talché non vi è perfetta equiparazione tra ciò che diviene conoscibile all’interno del procedimento e sua divulgabilità (Cass. pen. 27 gennaio 2003, n. 3896), posto che gli atti di indagine per i quali il segreto investigativo è caduto non divengono per ciò solo liberamente pubblicabili, operando nei loro confronti una serie di divieti che investono peraltro sempre e unicamente la riproduzione testuale ancorché parziale (cfr. Cass. pen. n. 32846 del 2014 cit.).
7.1 Si tratta a questo punto di stabilire se, accanto all’interesse dello Stato al corretto funzionamento dell’attività giudiziaria, l’art. 684 cod. pen. tuteli anche le parti in vario modo coinvolte nel processo, di talché, a prescindere dalla concorrenza o meno di una lesione della riservatezza o di una diffamazione ai loro danni, la commissione del reato le abiliti all’attivazione di un’autonoma pretesa risarcitoria fondata sul fatto in sé che vi sia stata pubblicazione arbitraria di atti di un processo penale che le riguardi: nello specifico, che, chiusa la fase delle indagini preliminari, vi sia stata riproduzione testuale di un atto, in spregio al divieto sancito dal secondo e dal terzo comma dell’art. 114 cod. proc. pen..
7.2 Orbene, come ricordato nell’ordinanza di rimessione, sul carattere plurioffensivo o meno del reato di cui all’art. 684 cod. pen. si registrano nella giurisprudenza di legittimità due differenti orientamenti, di talché proprio in vista della composizione del contrasto, nonché in ragione del carattere di massima di particolare importanza della questione, si è ritenuto opportuno che sulla stessa si pronunciassero queste sezioni unite.
Secondo un indirizzo, che sembra prevalente nella giurisprudenza civilistica, la fattispecie criminosa in esame “costituisce, pacificamente, reato plurioffensivo… in quanto diretto a tutelare, nella fase istruttoria, la dignità e la reputazione di tutti coloro che, sotto differenti vesti, partecipano al processo”, oltreché a garantire l’interesse dello Stato al retto funzionamento dell’attività giudiziaria: in tal senso non solo la recentissima Cass. civ. 31 ottobre 2015, n. 838, ma anche, in motivazione, Cass. civ. 17 luglio 2013, n. 17602.
Nella medesima prospettiva è la giurisprudenza delle sezioni penali (cfr. Cass. pen. 12 aprile 2013, n. 17051; Cass. pen. 8 gennaio 2013, n. 473; Cass. pen. 28 ottobre 2004, n. 42269; Cass. pen. 19 febbraio 1990, n. 2377), nonché quella della Corte costituzionale la quale, sia pure in tempi alquanto risalenti – e con riferimento al contesto normativo antecedente alla riforma del 1988 – ha a più riprese affermato il carattere plurioffensivo della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 684 del codice penale (cfr. Corte cost. n. 457 del 1987; Corte cost. n. 18 del 1966).
7.3 In senso contrario si è invece espressa Cass. pen. 17 marzo 1981, n. 2320, che ha individuato l’oggettività giuridica del reato di cui all’art. 684 cod. pen. unicamente nell’interesse dello Stato al normale funzionamento dell’attività giudiziaria mediante la segretezza della fase istruttoria al fine di impedire l’inquinamento della prova o la fuga di compartecipi, nonché, sul versante civilistico, Cass. civ. 19 settembre 2014, n. 19746, che ha escluso ogni attinenza della tutela penale accordata dall’art. 684 cod. pen. alla sfera di riservatezza dell’indagato o dell’imputato, circoscrivendola alla sola protezione delle esigenze di giustizia inerenti al processo penale nella delicata fase di acquisizione della prova.
In tale ambito appare ascrivibile anche la già citata Cass. pen. n. 32846 del 2014, che, ravvisando le ragioni del divieto di cui al comb. disp. degli artt. 624 cod. pen. e 114 cod. proc. pen. non solo e non tanto nella tutela dell’indagato, ma nella salvaguardia dei principi fondamentali del processo accusatorio, sembra postulare una garanzia indiretta, e quindi di mero fatto, degli interessi delle parti coinvolte nel processo, non essendo la loro riservatezza il bene giuridico avuto direttamente di mira dalla norma.
8.1 Orbene, tra i riferiti orientamenti, ritengono queste sezioni unite che debba essere preferito quello che esclude il carattere plurioffensivo del reato di cui all’art. 684 cod. pen., conseguentemente negando la legittimazione del privato a far valere una pretesa risarcitoria in dipendenza della sola violazione della predetta norma, in assenza, cioè, di una concreta lesione alla sua reputazione e alla sua riservatezza.
Chiave di volta di siffatto approdo esegetico è l’ultimo comma dell’art. 114 cod. proc. pen., a tenor del quale “è sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto”.
A ben vedere, infatti, consentendo che degli stessi si facciano sintesi o parafrasi che ne divulghino il contenuto, ma contestualmente negando la loro riproduzione testuale, il legislatore ha concesso al diritto di informare e allo speculare diritto a essere informati (Corte cost. n. 112 del 1993; n. 153 del 1987; art. 10, paragrafo 2 CEDU; Cass. civ. 10 ottobre 2014, n. 21404; Cass. civ. 4 settembre 2012, n. 14822) – il massimo che poteva ragionevolmente permettere la necessità di salvaguardare anche i principi del processo accusatorio, evitando che il modello prescelto, volto a garantire la formazione della prova in dibattimento, nel contradditorio di accusa e difesa, diventasse il vuoto simulacro di un rito che aveva recuperato per altre vie formule ritenute idonee a ingenerare pregiudizi nell’animo del giudicante.
8.2 Illuminanti, in tal senso, sono le considerazioni esposte nella Relazione al progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale ove, dopo il rilievo che, se si consentisse la pubblicazione degli atti delle indagini preliminari inseriti nel fascicolo del p.m. prima del dibattimento, “si determinerebbe di fatto una distorsione delle regole processuali ed una anticipata e non corretta formazione del convincimento del giudice”, la scelta del differente regime normativo della pubblicazione dell’atto e della pubblicazione del contenuto dell’atto viene motivata con la ritenuta “inidoneità di notizie di stampa più o meno generali e prive di riscontri documentali a determinare la cristallizzazione di pregiudizi del giudice del dibattimento”, di talché il legislatore, vietando la pubblicazione dell’atto ma contestualmente consentendo la pubblicazione del suo contenuto, ha inteso evitare che le notizie relative ad un atto di indagine possano acquistare “il crisma dell’ufficialità”.
8.3 La scelta operata dal legislatore del 1988 si rivela tuttavia priva di senso ove la si voglia ritenere preordinata a tutelare anche la dignità e la reputazione dei soggetti che, in varia guisa, partecipano al processo. Non si vede, invero, come siffatti beni possano essere conculcati dalla riproduzione testuale degli atti processuali più che dalla esplicitazione del loro contenuto, che mette in ogni caso sulla piazza vicende personali della parte di volta in volta interessata.
Ne deriva – e conclusivamente su questo punto – che nessuna autonoma pretesa risarcitoria può essere avanzata in dipendenza della sola violazione della norma incriminatrice in discorso, salvo che dal fatto non sia derivata la lesione di beni della persona autonomamente tutelabili in base ad altre norme dell’ordinamento.
9.1 I termini del contrasto per la cui soluzione i ricorsi sono stati rimessi alle sezioni unite, insieme alla necessità di verificare la legittimità dell’acquisizione dei dati pubblicati, ex art. 11 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 – posto che la violazione della norma incriminatrice si presta, almeno in astratto, a veicolare quella delle disposizioni dettate a tutela della privacy (cfr. Cass. civ. 18 luglio 2013, n. 17602) – impongono, pur dopo la riconosciuta monoffensività del reato di cui all’art. 684 cod. pen., l’esame della questione relativa alla possibilità di valutare, ai fini dello scrutinio in ordine alla sua esistenza, l’entità della riproduzione.
Sul punto si è espresso il già menzionato arresto n. 838 del 2015, ove la Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: “fatta salva la possibilità di pubblicare il contenuto di atti non coperti dal segreto, non può derogarsi al divieto di pubblicazione di tali atti (mediante riproduzione integrale o parziale o estrapolazione di frasi), nei casi previsti dall’art. 114 cod. proc. pen. in dipendenza del dato quantitativo della limitatezza della riproduzione, trattandosi di deroga non prevista dalla norma e non compatibile con le esigenze sottese alla disciplina relativa alla pubblicazione di atti di un procedimento penale”.
A tale affermazione il collegio è pervenuto sulla base del duplice rilievo, da un lato, della sostanziale contraddittorietà tra l’affermazione che individua il fondamento del divieto nell’esigenza di garantire l’assenza di condizionamenti nei confronti del giudice dell’eventuale futuro dibattimento e quella che, al tempo stesso, consente in ogni caso a tale condizionamento di operare tramite una pubblicazione parziale la quale – per quanto limitata nell’estensione – potrebbe comunque risultare di rilevante significato; dall’altro, della inesistenza nella norma di deroga alcuna alla previsione generale, idonea a consentire le trascrizioni di brani di limitata estensione.
9.2 A diverse conclusioni è invece giunta Cass. pen. 24 ottobre 2013, n. 43479, che ha ritenuto insussistente la contravvenzione di cui all’art. 684 cod. pen. con riferimento a un’imputazione formulata a seguito della pubblicazione di una brevissima frase, riportata tra virgolette, dell’interrogatorio dell’indagato.
Ora, benché non si rinvenga in tale decisione alcun richiamo a elaborazioni dogmatiche idonee a giustificare la scelta decisoria adottata, non par dubbio che essa è stata ispirata al criterio della necessaria offensività (cfr. Cass. pen. 26 gennaio 2015, n. 3562; Cass. pen. 24 novembre 2014, n. 48698; Cass. pen. 20 maggio 2014, n. 5397; Cass. pen. 8 aprile 2014, n. 33835), il quale relega nell’area del penalmente irrilevante le condotte che, avuto riguardo alla ratio della norma incriminatrice di volta in volta interessata, appaiano, in concreto, prive di qualsivoglia idoneità lesiva dei beni giuridici tutelati.
Non a caso il giudice delle leggi, nel considerarlo espressione dei principi costituzionali di cui agli articoli 3 (ragionevolezza) e, 25, comma 2, della Costituzione (tipicità e legalità), lo ha elevato al rango di canone interpretativo delle fattispecie criminose, ormai unanimamente accettato (cfr. Corte cost. n. 172 del 2014; n. 139 del 2014).
A ciò aggiungasi che al criterio della necessaria offensività è ispirata la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis cod. pen., introdotta nell’ordinamento positivo, con norma di immediata applicazione (cfr. Cass. pen. 15 aprile 2015, n. 15449; Cass. pen. 27 maggio 2015, n. 22381), dal d.lgs. n. 28 del 2015. In base a tale disposizione, invero, nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.
9.3 Alla luce delle esposte considerazioni, ritengono queste sezioni unite che l’adesione all’orientamento esegetico che postula l’apprezzamento, da parte del giudice di merito, dell’entità della riproduzione, ai fini del giudizio sulla esistenza del reato di cui all’art. 684 cod. pen., sia l’approdo obbligato di una lettura costituzionalmente e sistematicamente orientata della normativa di riferimento.
È sufficiente al riguardo osservare che l’assunto secondo cui la pubblicazione testuale di atti non più coperti da segreto sarebbe sempre e comunque proibita, non essendo previste deroghe al divieto di contaminatio diabolica tra atti processuali e divulgazione a mezzo stampa, omette di considerare che la limitatezza della riproduzione si presta a essere apprezzata in chiave di idoneità lesiva della condotta, alla stregua del criterio della necessaria offensività, ormai assurto a diritto vivente, di talché non di pretoria eccezione alla disciplina generale sancita dall’art. 684 cod. pen. si tratta in ogni caso, ma di applicazione di un canone interpretativo unanimemente accettato (cfr. Corte cost. n. 172 del 2014).
9.4 Peraltro, anche laddove l’entità della riproduzione non attinga le soglie dell’insignificanza penalistica nei sensi innanzi precisati, ma sia scrutinabile in chiave di particolare tenuità del fatto, ex art. 131 bis cod. pen., le ricadute sul piano civilistico dell’applicazione di una causa di non punibilità che, incidendo solo sull’applicabilità della sanzione e non sull’esistenza del reato (cfr art. 3 d.lgs. n. 28 del 2015), lascia in tesi aperto il problema della valutazione, in termini di illegittimità, dell’acquisizione dei dati ai fini della dedotta violazione della disciplina sulla privacy, ex art. 11 d.lgs. n. 196 del 2003, si allineano pur sempre su esiti omogenei a quelli testé illustrati.
9.5 Occorre invero ricordare che al principio della necessaria offensività, comunque declinato, fa da pendant, nell’ordinamento privatistico, quello della irrisarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità: della ristorabilità cioè di siffatto tipo di pregiudizio a condizione che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità, e che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita o alla felicità (cfr. Cass. sez. un. 11 novembre 2008, n. 26972; Cass. civ. 25 marzo 2009, n. 7211; Cass. civ. 9 febbraio 2010, n. 2847; Cass. civ. 27 aprile 2011, n. 9422).
Ed è significativo che tale affermazione – che costituisce il punto di chiusura del sistema – è stata espressamente ribadita con specifico riguardo alla diffamazione a mezzo stampa (Cass. civ. 10 ottobre 2014, n. 21424), al danno da vacanza rovinata, anche nei profili particolarmente pregnanti elaborati dalla giurisprudenza comunitaria (Cass. civ. 14 luglio 2015, n. 14663), al danno da lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali (Cass. civ. 15 luglio 2014, n. 16133).
È stato invero segnatamente evidenziato che il danno non patrimoniale qualsiasi danno non patrimoniale – giammai si sottrae alla verifica della gravità della lesione e della serietà del pregiudizio patito dall’istante, essendo consustanziale al principio di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione, di tolleranza della lesione minima: il che vuol dire che non v’è diritto per cui non operi la regola del bilanciamento, in forza della quale, perché si abbia una lesione ingiustificabile e risarcibile dello stesso, non basta la mera violazione delle disposizioni che lo riconoscono, ma è necessaria una violazione che ne offenda in modo sensibile la portata effettiva. E tanto alla stregua di un accertamento di fatto che pertiene al giudice di merito e che è incensurabile in sede di legittimità, ove adeguatamente motivato.
Tutto ciò vuoi dire, ridotta all’osso la questione, che la valutazione della marginalità della riproduzione, quand’anche dovesse ritenersi preclusa in ragioni di ipotetiche rigidità della norma incriminatrice, rientrerebbe in ogni caso dalla finestra delle regole che, nel diritto civile, presidiano la materia del risarcimento del danno.
10 Tirando le fila del discorso, e in risposta ai quesiti posti dall’ordinanza di rimessione, vanno enunciati i seguenti principi di diritto:
a) la fattispecie criminosa di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale di cui all’art. 684 cod. pen. integra un reato monoffensivo, posto che obiettivo della norma, prima della conclusione delle indagini preliminari, è quello di non compromettere il buon andamento delle stesse e, dopo tale momento, quello di salvaguardare i principi propri del processo accusatorio;
b) nessuna autonoma pretesa risarcitoria può essere avanzata dalla parte coinvolta nel processo perciò solo che sia stata violata la norma incriminatrice in discorso;
c) la portata della violazione, sotto il profilo della limitatezza e della marginalità della riproduzione testuale di un atto processuale, va apprezzata dal giudice di merito, in applicazione del principio della necessaria offensività della concreta condotta ascritta all’autore, nonché, sul piano civilistico, della irrisarcibilità del danno patrimoniale di lieve entità; la relativa valutazione è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata.
11 Alla luce degli esposti criteri sono privi di pregio i primi tre motivi del ricorso n. 2002 del 2011 e il quarto motivo del ricorso n. 8977 del 2011 che, per la loro evidente connessione, si prestano a essere esaminati congiuntamente.
E invero essi, nella parte in cui attaccano la ritenuta infondatezza di ogni pretesa risarcitoria di Mediaset perciò solo che gli autori delle contestate pubblicazioni sarebbero incorsi nel reato di cui all’art. 684 cod. pen., e cioè nel divieto di riproduzione testuale di atti non più coperti da segreto, sono contraddetti dal rilievo del carattere monoffensivo della violazione, per essere il reato preordinato esclusivamente ad assicurare la corretta, indipendente e serena formazione del convincimento del giudice del dibattimento.
12 Un discorso più articolato meritano invece i rilievi volti a far valere l’erronea e falsa applicazione dell’art. 11 d.lgs. n. 196 del 2003, segnatamente formulate nel terzo motivo del ricorso n. 2002 del 2011. Come innanzi esplicitato, l’infrazione della normativa in tema di privacy è qui evocata in ragione del suo collegamento con l’allegata violazione dell’art. 684 cod. pen. e dunque, sotto un’angolatura che prescinde dal carattere monoffensivo della fattispecie criminosa.
Si tratta allora di stabilire se la qualificazione della pubblicazione del D. in termini di mera sintesi critica dell’inchiesta in corso e la ritenuta irrilevanza delle risposte riprese tout court dall’interrogatorio dell’avvocato Mi. , in quanto riproduzioni testuali marginali e minime, resista agli stimoli critici contenuti in ricorso.
Orbene, a confutazione delle censure di Mediaset, è sufficiente osservare che l’impugnante, dopo aver sostenuto che, contrariamente al convincimento espresso dalla Corte territoriale, lo scritto del giornalista riproduceva interi passi testuali di quell’atto, ha richiamato, nel secondo motivo di ricorso, due frasi delle dichiarazioni rese dal Mi. , in relazione alle quali il convincimento espresso dalla Corte territoriale, una volta riconosciuta la possibilità di apprezzare l’entità della citazione, non solo non può essere tacciato di incoerenza e di illogicità, ma appare anzi del tutto plausibile.
In realtà le esposte doglianze sono conformate sul postulato dell’assoluta intangibilità degli atti processuali nella loro struttura letterale, alla stregua di quella non condivisibile lettura dell’art. 684 cod. pen. che nega qualsivoglia possibilità di valutazione dell’entità della riproduzione.
Ne deriva che la scelta decisoria della Corte d’appello di Roma non è scalfita dalle censure di Mediaset.
13.1 Miglior sorte non ha il quarto motivo del ricorso n. 20022 del 2011.
Anzitutto, le proposte censure sono gravemente carenti sotto il profilo dell’autosufficienza posto che l’impugnante non riporta gli addebiti pretesamente diffamatori attribuiti a Mediaset, salvo il riferimento, per vero sostanzialmente neutro, a non meglio precisate irregolarità della società nell’acquisto dei diritti cinematografici, riportate in corsivo a pag. 2 dell’atto di impugnazione.
Peraltro, dallo stesso tenore delle esemplificazioni che, secondo l’esposizione contenuta in ricorso, accompagnarono nell’articolo del D. la qualificazione in termini di marchingegno truffaldino di determinate condotte, si evince che non implausibilmente esse sono state ritenute dal decidente estranee all’attrice, tanto vero che, nell’esposizione dei fatti della impugnata sentenza, si fa riferimento alla presunta frode fiscale (…) commessa da parte dei vertici di Mediaset, piuttosto che dalla stessa Mediaset. È del resto indubbio che comportamenti volti, tra l’altro, a truccare la situazione patrimoniale e a svuotare le casse della società quotata in borsa, ingannando i soci e i risparmiatori, sono necessariamente propri del management della compagine, di talché solo con un’espressione ellittica, per vero assai facile da decifrarsi, sono state apparentemente riferite, nel nervoso periodare di uno scritto a carattere polemico, alla persona giuridica rappresentata.
Ne deriva che le contestazioni volte a far valere il mancato coinvolgimento di Mediaset, quale soggetto attivo, nel procedimento penale oggetto dell’articolo del D. sono, in definitiva, assolutamente speciose.
13.2 A ciò aggiungasi che il giudice di merito ha chiarito le ragioni per le quali le espressioni utilizzate dall’autore costituivano il rimaneggiamento lessicale, anche vivace, dei capi di imputazione predisposti dalla Procura, nelle cui ipotesi accusatorie trovavano la loro fonte i fatti narrati, segnatamente evidenziando che il ricorso a toni aspri e di disapprovazione, certamente più graffianti rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti tra privati, pur essendo al limite della continenza espositiva, restava nell’ambito di una comunque legittima manifestazione del diritto di cronaca.
14 Ritiene il collegio che siffatto apparato motivazione resista alle critiche dell’impugnante: è sufficiente al riguardo considerare che il decidente ha esaminato la pubblicazione contestata sotto tutti i profili in relazione ai quali ne era stato dall’esponente denunciato il carattere lesivo della propria reputazione, giustificando la negativa valutazione maturata al riguardo con argomentazioni congrue ed esaustive.
Si ricorda all’uopo che, in tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, lo scrutinio sul contenuto degli scritti e delle circostanze oggetto di provvedimenti giudiziali, anche non costituenti cosa giudicata, l’apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione, l’esclusione della esimente dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica costituiscono oggetto di accertamenti in fatto, riservati al giudice di merito e insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione (cfr. Cass. civ. 10 gennaio 2012, n. 80; Cass. civ. 18 ottobre 2005, n. 20138).
15.1 Privi di pregio sono altresì i primi tre motivi del ricorso n. 8977 del 2011 di Mediaset che, per la loro connessione, possono essere esaminati insieme.
Mette conto all’uopo precisare che la Corte meneghina ha riportato ampi stralci della sentenza del giudice di prime cure nella parte in cui il decidente, rilevato che spettava a parte convenuta dimostrare la verità dell’informazione diffusa e che non risultava da alcuna parte che la valutazione della Kagan Word Media riguardasse lo stesso pacchetto di diritti già esaminati dal dott. S. , aveva tuttavia evidenziato: a) che le contestazioni di Mediaset in ordine alla identità del pacchetto di diritti oggetto della valutazione S. e della valutazione Kagan Word Media erano fondate su un documento redatto dalla stessa società attrice, non già sul testo dei due elaborati, che la deducente aveva peraltro omesso di produrre; b) che le controparti avevano versato in atti una serie di relazioni peritali redatte su incarico della Procura della Repubblica di Milano dalle quali emergeva la sistematica alterazione dei prezzi di acquisto dei diritti televisivi nei bilanci Mediaset, di talché, in definitiva, l’erroneo rilievo del B. sull’identità dell’oggetto delle due perizie non incideva sulla sostanziale veridicità del contenuto della pubblicazione.
La Corte territoriale, ritenendo infondate le contestazioni sollevate sul punto dal Mediaset, ha ribadito che l’appellante continuava a insistere sulla non provata identità delle due perizie, riconosciuta peraltro dallo stesso Tribunale, ignorando il richiamo ad altri atti processuali dimostrativi della rispondenza al vero del cuore dell’informazione, costituito dalla sopravvalutazione del patrimonio sociale di Mediaset.
Ciò vuoi dire che il giudice d’appello ha considerato non decisivi i rilievi in ordine alla scarsa significanza dei documenti allegati da Mediaset a sostegno delle sue contestazioni, correttamente escludendo che la scelta decisoria del Tribunale fosse viziata da un error iuris in punto di riparto dell’onere della prova.
Quanto poi al preteso carattere diffamatorio dello scritto, la Corte ne ha negato la sussistenza, rilevando che il permanere di ombre sul reale valore della library e dunque sulla quotazione di Mediaset, costituiva la legittima esternazione della personale opinione dell’autore, scriminata dal pubblico interesse alla conoscenza delle questioni oggetto del libro del B. ; dal rispetto della continenza formale dell’esposizione; nonché infine dal fatto che la verità delle vicende descritte poteva considerarsi acquisita, avendo esse trovato riscontro negli atti della Procura della Repubblica di Milano.
15.2 A fronte di tale apparato motivazionale, l’impugnante continua incongruamente a insistere su pretese violazioni del principio dell’onere della prova, senza considerare che, come testé esplicitato, le argomentazioni in ordine alla provenienza dalla società attrice del documento dalla stessa addotto a sostegno delle sue tesi difensive nonché in ordine alla mancata produzione del testo delle due perizie hanno avuto un rilievo puramente descrittivo della condotta processuale di Mediaset.
E del pari la ricorrente torna a ribadire la centralità dell’informazione relativa alla discrasia tra le due perizie, laddove, per quanto innanzi detto, il decidente l’ha invece considerata affatto marginale, essendo per altre vie dimostrata la rispondenza al vero della denunciata sopravvalutazione dei diritti televisivi.
15.3 Infine del tutto generiche sono le critiche all’apprezzamento del giudice di merito in punto di verità della notizia e di rispetto del requisito della continenza formale, posto che l’esponente si limita a richiamare astratti principi giurisprudenziali, senza confrontarsi, quanto al requisito della verità, con i puntuali rilievi svolti dalla Corte territoriale in ordine ai riscontri che le informazioni fornite dal B. nel suo libro avevano trovato nei documenti versati in atti, e senza esplicitare, quanto a quello della continenza, in che modo lo stesso fosse da ritenersi violato.
Entrambi i ricorsi di Mediaset devono in definitiva essere rigettati.
16 Pure infondate sono le censure svolte nel ricorso incidentale del Gruppo Editoriale Il Saggiatore e di B.G.B. .
La conferma della compensazione delle spese di causa operata dal giudice di prime cure è stata dalla Curia meneghina motivata con il rilievo che le ragioni addotte dal Tribunale a sostegno della sua decisione – le inesattezze riscontrate nel libro del B. – non potevano ritenersi infondate o illogiche nel complesso della pronuncia impugnata, senza prendere espressamente posizione sulla pretesa inesistenza di quelle inesattezze.
Ritiene il collegio che siffatta statuizione resista alle critiche degli impugnanti, considerato che, con riferimento ai giudizi, come quello in esame, ai quali, ratione temporis, non si applica la legge 28 dicembre 2005, n. 263 – la quale, modificando l’art. 92 cod. proc. civ., ha introdotto l’obbligo del giudice di indicare le ragioni della compensazione delle spese di lite, inaugurando un trend portato a ulteriore compimento dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 – la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente affermato che la decisione di provvedere in tal senso non è censurabile in sede di legittimità, perché la valutazione dell’opportunità della compensazione totale o parziale delle spese processuali, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca sia in quella della ricorrenza di altri giusti motivi, rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito e non richiede specifica motivazione. In tale prospettiva l’uso del potere di compensazione delle spese di causa è stato ritenuto sindacabile dalla Corte Regolatrice unicamente laddove le ragioni della scelta decisoria adottata non solo non siano espressamente indicate, ma neppure siano desumibili dal complesso della motivazione, e cioè dalle argomentazioni svolte a sostegno della statuizione di merito (o di rito) adottata, costituendo la mancanza assoluta di motivazione violazione del disposto dell’art. 92 cod. proc. civ. (confr. Cass. civ. 19 novembre 2007, n. 23993; Cass. civ. sez. un. 30 luglio 2008, n. 20598), ovvero laddove vengano enunciate ragioni palesemente e macroscopicamente illogiche, idonee cioè a inficiare, per la loro inconsistenza o evidente erroneità, lo stesso processo formativo della volontà decisionale (Cass. civ. 8 settembre 2005, n. 17953; Cass. civ. 26 febbraio 2007, n. 4388; Cass. civ. 11 febbraio 2008, n. 3218; Cass. civ. 6 ottobre 2011, n. 20457), ipotesi che, all’evidenza, qui non ricorrono.
Ne consegue che anche il ricorso incidentale deve essere rigettato.
17 Le spese seguono la soccombenza nei rapporti tra Mediaset, da una parte, e Il Gruppo Editoriale L’Espresso ed M.E. dall’altro; in considerazione del complessivo esito del giudizio devono invece essere compensate per la metà nei rapporti tra Mediaset, da una parte e il Saggiatore e B.G. , dall’altro, condannandosi peraltro Mediaset al pagamento della residua parte, nella misura di cui al dispositivo.

P.Q.M.

La Corte a sezioni unite, pronunciando sui ricorsi riuniti, rigetta entrambi i ricorsi di Mediaset; rigetta il ricorso incidentale del Gruppo Editoriale Il Saggiatore e di B.G. ; condanna Mediaset s.p.a. al pagamento delle spese di giudizio nei confronti del Gruppo Gruppo Editoriale L’Espresso e di M.E. , liquidate in complessivi euro 8.200,00 (di cui euro 200,00 per esborsi), oltre spese generali e accessori, come per legge; compensa per la metà le spese di giudizio tra Mediaset s.p.a., da una parte, e il Saggiatore e B.G. , dall’altro; condannando Mediaset s.p.a. al pagamento della residua parte, liquidata in complessivi euro 4.100,00 (di cui euro 100,00 per esborsi), oltre spese generali e accessori, come per legge.

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